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Document 62019CC0255

Conclusioni dell’avvocato generale G. Hogan, presentate il 30 aprile 2020.


Court reports – general – 'Information on unpublished decisions' section

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2020:342

 CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

GERARD HOGAN

presentate il 30 aprile 2020 ( 1 )

Causa C‑255/19

Secretary of State for the Home Department

contro

OA

con l’intervento di:

Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) (Tribunale superiore [Sezione immigrazione e asilo], Regno Unito)]

«Rinvio pregiudiziale – Direttiva 2004/83/CE – Norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale – Rifugiato – Articolo 2, lettera c) – Soggetti che offrono protezione – Articolo 7 – Cessazione dello status di rifugiato – Articolo 11 – Cambiamento delle circostanze – Articolo 11, paragrafo 1, lettera e) – Possibilità di avvalersi della protezione del paese di cittadinanza – Criteri di valutazione»

I. Introduzione

1.

Le origini del diritto moderno in materia di rifugiati sono riconducibili alla Convenzione di Ginevra del 1951 sullo status dei rifugiati ( 2 ). L’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, di tale Convenzione prevede che il termine «rifugiato» è applicabile a chiunque:

«(...) nel giustificato timore d’essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi (...)»

2.

Nel contesto delle specifiche questioni sollevate dal giudice del rinvio nel presente rinvio pregiudiziale, colpisce forse il fatto che i «criteri relativi allo status di rifugiato, stabiliti dall’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della [Convenzione di Ginevra], siano chiaramente basati su riferimenti allo Stato e alla cittadinanza» ( 3 ). Tuttavia, tale definizione non sorprende affatto, poiché la tutela internazionale ( 4 ) costituisce un aspetto degli obblighi dello Stato secondo il diritto internazionale e, nel 1951, solo gli Stati nazionali erano considerati soggetti statali rilevanti nel diritto internazionale.

3.

Tuttavia, sotto taluni aspetti, vi è stata un’evoluzione del pensiero moderno relativo alla portata della protezione statale nel settore dei rifugiati, non ultimo per quanto riguarda il diritto dell’Unione. Ciò si riflette nell’articolo 7 della direttiva qualifiche ( 5 ).

4.

L’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva qualifiche prevede che la protezione può essere offerta dallo Stato [articolo 7, paragrafo 1, lettera a)], oppure dai «dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio» [articolo 7, paragrafo 1, lettera b)].

5.

La domanda di pronuncia pregiudiziale in esame verte, in particolare, sulla corretta interpretazione dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche e, più in particolare, sulla questione se l’esistenza di soggetti privati, come una rete di clan o di famiglie che offrono protezione, possa essere sufficiente a soddisfare i requisiti di tale disposizione. Tale rinvio offre quindi alla Corte la possibilità di pronunciarsi su un aspetto importante della direttiva qualifiche che essa ha avuto occasione di esaminare solo in una precedente causa – per giunta, in tal caso, incidentalmente ( 6 ).

6.

Il rinvio pregiudiziale qui esaminato trae origine da un procedimento dinanzi all’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) [Tribunale superiore (sezione immigrazione e asilo) (Regno Unito)] (in prosieguo: l’«Upper Tribunal») tra OA e il Secretary of State for the Home Department (Ministro dell’Interno, Regno Unito) in merito alla cessazione del suo status di rifugiato.

7.

Il procedimento dinanzi al giudice del rinvio verte, in sostanza, sulla cessazione dello status di rifugiato, in particolare sulla portata dell’espressione «protezione del paese di cui ha la cittadinanza», ai sensi in particolare dell’articolo 2, lettera c), e dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche, sull’individuazione dei soggetti che offrono protezione ai fini dell’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva e sul livello di protezione da offrire ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 2, della stessa.

8.

Il giudice del rinvio ha fatto inoltre riferimento all’eventuale rilevanza, in tale contesto, della disponibilità di un sostegno finanziario per una persona che possa essere rimpatriata nel proprio paese d’origine. Occorre quindi esaminare tale questione nel contesto della cessazione dello status di rifugiato.

9.

Prima di esaminare tali questioni, occorre tuttavia descrivere, in un primo momento, il procedimento dinanzi alla Corte e poi presentare, in un secondo momento, le norme giuridiche applicabili.

II. Procedimento dinanzi alla Corte

10.

Le questioni sollevate dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) sono state oggetto di osservazioni scritte da parte dei governi francese, del Regno Unito e ungherese, nonché della Commissione europea.

11.

Il Regno Unito si è ritirato dall’Unione europea a mezzanotte (CET) del 31 gennaio 2020. A norma dell’articolo 86, paragrafo 2, dell’accordo sul recesso del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord dall’Unione europea e dalla Comunità europea dell’energia atomica (in prosieguo: l’«accordo sul recesso») ( 7 ), la Corte resta competente a pronunciarsi sulle domande di pronuncia pregiudiziale presentate dai giudici del Regno Unito prima della fine del periodo di transizione definito all’articolo 126 di detto accordo, periodo che scadrà, in linea di principio, il 31 dicembre 2020.

12.

Inoltre, a norma dell’articolo 89 dell’accordo sul recesso, le sentenze della Corte successivamente pronunciate saranno vincolanti nella loro totalità per il Regno Unito e nel Regno Unito.

13.

La domanda di pronuncia pregiudiziale in esame è stata depositata nella cancelleria della Corte il 26 marzo 2019. La Corte resta quindi competente a pronunciarsi sul presente rinvio pregiudiziale e l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) è vincolato alla sentenza che la Corte pronuncerà nel presente procedimento.

14.

Il 27 febbraio 2020 si è tenuta un’udienza dinanzi alla Corte, nella quale sono comparsi i governi del Regno Unito e francese nonché la Commissione.

III. Contesto normativo

A.   Diritto internazionale

15.

L’articolo 1, sezione C, paragrafo 5, della Convenzione di Ginevra prevede quanto segue:

«Una persona, cui sono applicabili le disposizioni della sezione A, non fruisce più della presente Convenzione:

(…)

5. se, cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza.

Tuttavia, queste disposizioni non sono applicabili ai rifugiati indicati nel paragrafo 1 della sezione A del presente articolo, che possono far valere, per rifiutare la protezione dello Stato di cui possiedono la cittadinanza, motivi gravi fondati su persecuzioni anteriori».

B.   Diritto dell’Unione

16.

Ai sensi dell’articolo 18 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»):

«Il diritto di asilo è garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e dal protocollo del 31 gennaio 1967, relativi allo status dei rifugiati, e a norma del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (…)».

17.

L’articolo 78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea così dispone:

«1.   L’Unione sviluppa una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea, volta a offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita di protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento. Detta politica deve essere conforme alla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e al protocollo del 31 gennaio 1967 relativi allo status dei rifugiati, e agli altri trattati pertinenti.

(…)».

1. Direttiva qualifiche

18.

Nel considerando 19 di tale direttiva si afferma che:

«La protezione può essere offerta non soltanto dallo Stato ma anche dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che soddisfano le condizioni di cui alla presente direttiva che controllano una regione o una zona più estesa all’interno del territorio dello Stato».

19.

L’articolo 1 di tale direttiva dispone quanto segue:

«La presente direttiva stabilisce norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta».

20.

L’articolo 2 di tale direttiva, intitolato «Definizioni», dispone quanto segue:

«Ai fini della presente direttiva, si intende per:

(…)

c)

“rifugiato”: cittadino di un paese terzo il quale, per il timore fondato di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza ad un determinato gruppo sociale, si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza e non può o, a causa di tale timore, non vuole avvalersi della protezione di detto paese, oppure apolide che si trova fuori dal paese nel quale aveva precedentemente la dimora abituale per le stesse ragioni succitate e non può o, a causa di siffatto timore, non vuole farvi ritorno, e al quale non si applica l’articolo 12;

d)

“status di rifugiato”: il riconoscimento, da parte di uno Stato membro, di un cittadino di un paese terzo o di un apolide quale rifugiato;

(…)»

21.

L’articolo 4 di tale direttiva, intitolato «Esame dei fatti e delle circostanze», dispone, ai paragrafi 3 e 4, quanto segue:

«3.   L’esame della domanda di protezione internazionale deve essere effettuato su base individuale e prevede la valutazione:

a)

di tutti i fatti pertinenti che riguardano il paese d’origine al momento dell’adozione della decisione in merito alla domanda, comprese le disposizioni legislative e regolamentari del paese d’origine e relative modalità di applicazione;

(…)

c)

della situazione individuale e delle circostanze personali del richiedente, in particolare l’estrazione, il sesso e l’età, al fine di valutare se, in base alle circostanze personali del richiedente, gli atti a cui è stato o potrebbe essere esposto si configurino come persecuzione o danno grave;

(…)

4.   Il fatto che un richiedente abbia già subito persecuzioni o danni gravi o minacce dirette di siffatte persecuzioni o danni costituisce un serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio effettivo di subire danni gravi, a meno che vi siano buoni motivi per ritenere che tali persecuzioni o danni gravi non si ripeteranno».

22.

L’articolo 6 di tale direttiva, relativo ai responsabili della persecuzione o del danno grave, dispone quanto segue:

«I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere:

a)

lo Stato;

b)

i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio;

c)

soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi come definito all’articolo 7».

23.

L’articolo 7 di tale direttiva intitolato «Soggetti che offrono protezione» stabilisce quanto segue:

«1.   La protezione può essere offerta:

a)

dallo Stato; oppure

b)

dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio.

2.   La protezione è in generale fornita se i soggetti di cui al paragrafo 1 adottano adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave e se il richiedente ha accesso a tale protezione.

(…)».

24.

L’articolo 11 di tale direttiva dispone quanto segue:

«1.   Un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di essere un rifugiato qualora:

(…)

e)

non possa più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato;

(…)

2.   Ai fini dell’applicazione dell[a] letter[a] e) (…) del paragrafo 1, gli Stati membri esaminano se il cambiamento delle circostanze ha un significato e una natura non temporanea tali da eliminare il fondato timore di persecuzioni».

C.   Diritto nazionale

25.

La direttiva qualifiche è stata recepita nel diritto del Regno Unito dalle Immigration Rules (norme sull’immigrazione) ( 8 ) e dai Refugee or Person in Need of International Protection (Qualification) Regulations 2006 [regolamenti del 2006 in materia di rifugiati o persone bisognose di protezione internazionale (qualifica)] ( 9 ).

26.

Le Immigration Rules (norme sull’immigrazione) pertinenti prevedono quanto segue:

«Revoca o diniego di rinnovo della concessione dello status di rifugiato

338A. La concessione dello status di rifugiato ai sensi del paragrafo 334 è revocata o non rinnovata ove si applichi uno dei paragrafi da 339A a 339AB. La concessione dello status di rifugiato ai sensi del paragrafo 334 può essere revocata o non rinnovata qualora trovi applicazione il paragrafo 339AC.

Cessazione dell’applicazione della Convenzione sui rifugiati (cessazione)

339A. Il presente paragrafo si applica quando il Ministro ritiene che si applichino una o più delle seguenti disposizioni:

(…)

v) se, cessate le circostanze in base alle quali la persona è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza; o

(…)

Ai fini dell’applicazione dei punti v) e vi), il Ministro esamina se il cambiamento delle circostanze sia di natura significativa e non temporanea tale da eliminare il fondato timore di persecuzioni».

27.

Il Regolamento n. 4 dei Refugee or Person in Need of International Protection Regulations 2006 (regolamenti del 2006 in materia di rifugiati o persone bisognose di protezione internazionale) definisce i «soggetti che offrono protezione» nei seguenti termini:

«1)   Al fine di determinare se una persona è un rifugiato o una persona avente titolo a beneficiare di una protezione umanitaria, la protezione contro la persecuzione o il danno grave può essere offerta:

a)

dallo Stato; oppure

b)

dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio.

2)   La protezione è considerata in generale fornita se i soggetti di cui al paragrafo 1, lettere a) e b), adottano adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori o danni gravi, avvalendosi di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave, e se la persona menzionata al paragrafo 1 ha accesso a tale protezione.

3)   Al fine di determinare se una persona è un rifugiato o una persona avente titolo a beneficiare di una protezione umanitaria, il Ministro può valutare se un’organizzazione internazionale controlli uno Stato o una parte consistente del suo territorio e offra la protezione di cui al paragrafo 2».

IV. Fatti oggetto del procedimento principale e rinvio pregiudiziale

28.

OA è un cittadino somalo, giunto nel Regno Unito nel 2003 con un visto per ingressi multipli in quanto coniuge dell’allora moglie alla quale era stato concesso lo status di rifugiata nell’ottobre 2001. A OA è stato successivamente concesso lo status di rifugiato in quanto a carico della moglie. L’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha constatato che egli era membro di un particolare clan minoritario e che aveva inizialmente risieduto nella capitale Mogadiscio. Inoltre, esso ha rilevato che, all’inizio degli anni ’90, sia lui che l’allora moglie avevano subito persecuzioni per mano di una particolare milizia, ed entrambi erano stati aggrediti fisicamente e feriti in più occasioni nel corso degli anni ’90. L’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha altresì dichiarato che, in caso di ritorno a Mogadiscio, OA avrebbe opportunità occupazionali, sebbene limitate a posti di lavoro con possibilità di adeguamenti a causa della sua mobilità ridotta. Inoltre, l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha rilevato che OA aveva alcuni parenti stretti a Mogadiscio e avrebbe potuto rivolgersi a loro per ottenere sostegno finanziario. È stato affermato che egli avrebbe potuto anche cercare tale sostegno presso la sorella (che risulta essersi stabilita da ultimo a Dubai, Emirati Arabi Uniti) e presso i membri del suo clan nel Regno Unito ( 10 ).

29.

L’8 luglio 2014, la Secretary of State for the Home Department (Ministra dell’Interno; in prosieguo: l’«SSHD») ha informato OA della propria intenzione di revocare il suo status di rifugiato a causa di un cambiamento delle circostanze nel suo paese d’origine.

30.

Il 27 aprile 2016 l’SSHD ha emesso un provvedimento di espulsione nei confronti di OA. Inoltre, il 27 settembre 2016 l’SSHD ha revocato lo status di rifugiato di OA in forza dell’articolo 1, sezione C, paragrafo 5 della Convenzione di Ginevra e lo ha escluso dalla protezione umanitaria in forza del paragrafo 339D delle Immigration Rules (norme sull’immigrazione). Nella lettera inviata a OA il 27 settembre 2016, l’SSHD ha dichiarato quanto segue: «Lei ha tuttora a disposizione il sostegno del clan a Mogadiscio, e la giurisprudenza nazionale di riferimento indica che la Sua sicurezza non dipende dalla disponibilità di un sostegno da parte del clan maggioritario» L’SSHD ha deciso inoltre che il ritorno di OA in Somalia non avrebbe costituito una violazione degli obblighi del Regno Unito ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»).

31.

OA ha proposto ricorso contro tali decisioni. Il 20 luglio 2017 il ricorso di OA è stato respinto dal First‑tier Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) [Tribunale di primo grado (sezione immigrazione e asilo), Regno Unito; in prosieguo: il «First‑tier Tribunal»]. Tale rigetto è stato annullato per un errore materiale di diritto dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore), che ha rinviato la causa ad un altro membro del medesimo First‑tier Tribunal (Tribunale di primo grado). Con sentenza del 30 gennaio 2018, il First‑tier Tribunal (Tribunale di primo grado) ha dichiarato che l’allontanamento di OA verso la Somalia avrebbe violato l’articolo 3 CEDU. Il ricorso di OA per motivi di asilo è stato tuttavia respinto.

32.

A seguito dell’autorizzazione all’impugnazione concessa all’SSHD, il 13 novembre 2018 la sentenza del First‑tier Tribunal (Tribunale di primo grado) è stata annullata dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore).

33.

L’intera questione viene ora riesaminata dinanzi all’Upper Tribunal (Tribunale superiore).

34.

L’SSHD sostiene di essere stata legittimata, in forza delle Immigration Rules (norme sull’immigrazione) e dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche, e applicando l’orientamento giurisprudenziale nazionale espresso nelle sentenze dell’Upper Tribunal (Tribunale superiore) nella causa MOJ and Others (return to Mogadishu) Somalia CG [2014] UKUT 00442 (IAC) (in prosieguo: la «causa MOJ»), a concludere che si era verificato un cambiamento duraturo delle circostanze nel paese di cittadinanza di OA, nel senso che, nella zona di origine di Mogadiscio, non vi erano più persecuzioni di clan minoritari da parte dei clan maggioritari e che sussisteva un’effettiva protezione statale.

35.

OA sostiene che, trattandosi di un caso di cessazione, assume rilevanza il fatto che il punto di vista della SSHD fosse in contrasto con la valutazione fornita dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (in prosieguo: l’«UNHCR») nel giugno 2014, il quale rilevava, per quanto riguarda la questione della disponibilità della protezione statale, che la situazione della sicurezza a Mogadiscio suscitava gravi preoccupazioni e che i clan minoritari si trovavano in una situazione di particolare svantaggio a Mogadiscio e nella Somalia meridionale e centrale. OA afferma, nel contempo, di avere un fondato timore di subire persecuzioni a Mogadiscio e che le autorità statali in tale città non sono in grado di proteggerlo da un danno grave. Egli sostiene altresì che l’analisi effettuata dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) nella causa MOJ era basata su una concezione errata della protezione statale. Secondo gli orientamenti dell’UNHCR sulla cessazione dello status di rifugiato ( 11 ), la protezione statale deve essere garantita mediante strutture dello Stato con atti dello Stato. Tuttavia, la valutazione, nella causa MOJ, secondo cui, a Mogadiscio, era disponibile in generale la protezione dello Stato era in parte basata sulla disponibilità del sostegno e della protezione da parte di familiari e/o di membri del clan di appartenenza. Allo stesso tempo, la famiglia o i membri del clan erano soggetti privati, e non statali. Nel valutare se le circostanze che, a Mogadiscio, avevano reso il richiedente un rifugiato (nel 2003) fossero cambiate in maniera significativa e duratura, di modo che il richiedente non poteva «più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza», era giuridicamente inammissibile tener conto delle funzioni di protezione svolte da soggetti non statali.

36.

L’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha considerato che la soluzione della controversia richiedeva un’interpretazione delle norme nazionali di attuazione della normativa dell’Unione relativa all’attribuzione della qualifica di rifugiato, vale a dire la direttiva qualifiche.

37.

Con decisione del 22 marzo 2019, l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

1)

«Se la “protezione del paese di cui ha la cittadinanza”, ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), e dell’articolo 2, lettera e), della [direttiva qualifiche] debba essere intesa come protezione da parte dello Stato.

2)

Nel decidere la questione della sussistenza di un timore fondato di essere perseguitati, ai sensi dell’articolo 2, lettera e), della [direttiva qualifiche], e la questione dell’esistenza di una protezione contro tale persecuzione, a norma dell’articolo 7 [della direttiva qualifiche], se la “verifica della protezione” o l’“indagine sulla protezione” debba applicarsi a entrambe le questioni e, in caso affermativo, se sia soggetta agli stessi criteri in ciascuna ipotesi.

3)

A prescindere dall’applicabilità della protezione da parte di soggetti non statali ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), [della direttiva qualifiche] e supponendo che la risposta alla questione 1) sia affermativa, se l’effettività o la disponibilità della protezione debba essere valutata con riferimento ai soli atti/alle sole funzioni di protezione offerte da soggetti statali o se si possa far riferimento agli atti/alle funzioni di protezione di soggetti privati (società civile) come le famiglie e/o i clan.

4)

Se [come si presume nelle questioni 2) e 3)] i criteri che disciplinano l’“indagine sulla protezione” che deve essere effettuata in sede di esame della cessazione nel contesto dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), [della direttiva qualifiche] siano gli stessi di quelli applicabili nel contesto dell’articolo 7» ( 12 ).

V. Osservazioni preliminari

38.

Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale sembrerebbe emergere che il procedimento dinanzi al giudice del rinvio verta sulla cessazione dello status di rifugiato di O.A, sulla sua esclusione dalla protezione umanitaria ai sensi del paragrafo 339D delle Immigration Rules (norme sull’immigrazione) e sulla questione se il suo ritorno in Somalia violi l’articolo 3 CEDU ( 13 ) e, conseguentemente, l’articolo 4 e l’articolo 19, paragrafo 2, della Carta ( 14 ).

39.

Tuttavia, le questioni sollevate dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) vertono unicamente sul problema della cessazione dello status di rifugiato e non sulla questione distinta se OA possa essere esposto a grave povertà in caso di ritorno in Somalia, con conseguente potenziale violazione delle garanzie contenute nell’articolo 3 CEDU e, per estensione, nell’articolo 4 e nell’articolo 19, paragrafo 2, della Carta.

40.

Si deve quindi osservare che sembrerebbe esistere una serie di constatazioni di fatto nella domanda di pronuncia pregiudiziale che non sono direttamente rilevanti per quanto riguarda la cessazione dello status di rifugiato e le questioni specifiche sollevate. Queste altre constatazioni di fatto sembrerebbero riferirsi agli altri aspetti su cui il giudice del rinvio è chiamato a pronunciarsi ( 15 ). Propongo quindi di cercare di distinguere i fatti pertinenti, relativamente alle questioni sottoposte alla Corte, da quelli non pertinenti.

41.

Prima di esaminare le questioni specifiche relative alla cessazione dello status di rifugiato, può essere opportuno svolgere talune altre osservazioni preliminari. In primo luogo, come rilevato sia dall’avvocato generale Mazák ( 16 ) sia dalla Corte nella sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105, punto 52), dai considerando 3, 16 e 17 della direttiva 2004/83 risulta che la Convenzione di Ginevra resta «la pietra angolare della disciplina giuridica internazionale relativa alla protezione dei rifugiati». Inoltre, la direttiva qualifiche è stata adottata al fine di «aiutare le autorità competenti degli Stati membri» ad applicare la Convenzione di Ginevra «basandosi su nozioni e criteri comuni» ( 17 ).

42.

In secondo luogo, laddove il testo della direttiva qualifiche si discosti dal linguaggio della Convenzione di Ginevra, tali disposizioni della direttiva dovrebbero tuttavia essere interpretate in modo il più possibile conforme agli obiettivi sottesi alla stessa Convenzione di Ginevra. Del resto, l’articolo 78, paragrafo 1, TFUE prevede che la politica comune dell’Unione in materia di asilo e di protezione sussidiaria debba essere conforme alla Convenzione di Ginevra e l’articolo 18 della Carta prevede che il diritto di asilo «[sia] garantito nel rispetto delle norme stabilite dalla convenzione di Ginevra». Ciò implica a sua volta che, secondo l’intenzione del legislatore dell’Unione, qualsiasi misura normativa come la direttiva qualifiche deve essere conforme, per quanto possibile, sia alla lettera che alla ratio della Convenzione di Ginevra.

43.

In terzo luogo, come risulta dal considerando 10 della direttiva qualifiche, la stessa direttiva deve essere interpretata nel rispetto dei principi fondamentali riconosciuti dalla Carta ( 18 ), compresi i requisiti di cui all’articolo 1 della stessa, che prevedono il rispetto e la protezione della dignità umana ( 19 ).

VI. Analisi delle questioni pregiudiziali

A.   Sulla prima questione: il significato della nozione di «protezione» del «paese di cui ha la cittadinanza» risultante dall’articolo 2, lettera c), e dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche

44.

La prima questione verte sul significato della nozione di «protezione» del «paese di cui ha la cittadinanza» risultante dall’articolo 2, lettera c), e dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche ( 20 ). In sostanza, la questione è se tali riferimenti debbano essere intesi nel senso che riguardano la protezione offerta dallo Stato ( 21 ).

45.

Dal canto mio, ritengo che sia dalla formulazione stessa sia dal contesto di tali disposizioni risulti chiaramente che, fatta salva un’importante eccezione, il riferimento alla «protezione del paese di cui ha la cittadinanza» è un riferimento alla protezione statale ( 22 ) da parte del paese di cittadinanza del richiedente – nel caso di specie, la Somalia.

46.

In ogni caso, dalla sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105) risulta chiaramente che tali disposizioni dovrebbero essere intese in tal senso. Così, ad esempio, la Corte ha osservato, ai punti da 57 a 59 di tale sentenza, che il rifugiato è un cittadino di un paese terzo che, «a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine, [fronteggia] il timore fondato di una persecuzione nei suoi confronti per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella Convenzione di Ginevra. Tali circostanze dimostrano, infatti, che il paese terzo non protegge il proprio cittadino da atti di persecuzione. Esse sono la causa dell’impossibilità per l’interessato, o del suo rifiuto giustificato, di avvalersi della “protezione” del suo paese di origine ai sensi dell’art. 2, lett. c), della direttiva, vale a dire con riferimento alla capacità di tale paese di prevenire o di sanzionare atti di persecuzione ( 23 )».

47.

A fini di completezza, occorre aggiungere, tuttavia, che le disposizioni dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), e dall’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche implicano necessariamente che, in taluni casi, soggetti diversi dallo Stato, quali partiti o organizzazioni, possono offrire una protezione ritenuta equivalente alla protezione statale al posto dello Stato, qualora siano rispettati criteri rigorosi. Mi propongo di approfondire questo punto nell’esame della terza questione.

B.   Sulla seconda questione: verifica della protezione – l’interazione tra l’articolo 2, lettera c) della direttiva qualifiche (definizione di «rifugiato» – timore fondato di essere perseguitato) e l’articolo 7 della direttiva qualifiche (disponibilità della protezione)

48.

La seconda questione dell’Upper Tribunal (Tribunale superiore) verte sull’interpretazione dell’articolo 2, lettera c), e dell’articolo 7 della direttiva qualifiche nel contesto della cessazione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), di tale direttiva. Occorre rispondere a tale questione alla luce del fatto che OA, che si trova di fronte a una possibile cessazione del suo status di rifugiato nel Regno Unito, fa valere il timore di essere perseguitato da soggetti non statali ( 24 ) e la mancanza di protezione effettiva da parte dello Stato nel suo paese di cittadinanza.

49.

In sostanza, il giudice nazionale chiede se la disponibilità della protezione contro la persecuzione, ai sensi dell’articolo 7 della direttiva qualifiche, vada valutata solo quando si esamina la sussistenza di un timore fondato di essere perseguitati ai sensi dell’articolo 2, lettera c), di tale direttiva, o se una siffatta «indagine sulla protezione» debba essere effettuata anche quando si esamina la disponibilità della protezione contro tale persecuzione. Il giudice del rinvio chiede inoltre se i criteri relativi all’esistenza di siffatta protezione siano identici in entrambi i casi.

50.

Dalla domanda di pronuncia pregiudiziale risulta che tale questione sorge a causa di sentenze divergenti da parte dei giudici del Regno Unito per quanto riguarda la nozione di «protezione» di cui all’articolo 1, sezione A, paragrafo 2, della Convenzione di Ginevra e quindi implicitamente all’articolo 2, lettera c), della direttiva qualifiche ( 25 ).

51.

Secondo un approccio fondato sulla sentenza della Court of Appeal of England and Wales, pronunciata nella causa AG e a. c. Secretary of State for the Home Department [2006] EWCA Civ 1342, l’indagine sulla «protezione» interviene solo nella «fase dell’esame dell’esistenza di un rischio effettivo di danno grave».

52.

In base al secondo approccio, delineato da Lord Hope of Craighead nella sentenza Horvath c. Secretary of State for the Home Department [2000] UKHL 37, [2001] 1 Appeal Cases 489, l’indagine sulla protezione si svolge in due momenti diversi. Egli ha infatti dichiarato, nella sentenza Horvath [2000] UKHL 37, [2001] 1 Appeal Cases 489, che, «[q]uando si afferma la persecuzione da parte di agenti non statali, il carattere sufficiente della protezione statale è rilevante per esaminare se sia soddisfatto ciascuno dei due criteri – quello del “timore” e quello della “protezione”. Il punto di partenza appropriato, dopo che il tribunale ha accertato che il richiedente ha un timore reale e fondato di violenze gravi o di maltrattamenti per uno dei motivi indicati nella Convenzione, consiste nell’esaminare se ciò che egli teme sia una “persecuzione” ai sensi della Convenzione. In questa fase, la questione se lo Stato possa e intenda garantire la protezione è messa direttamente in discussione da un approccio olistico della definizione basata sul principio di surrogazione (...)» ( 26 ).

53.

Il giudice del rinvio ha rilevato che la House of Lords, nella causa Horvath c. Secretary of State for the Home Department [2000] UKHL 37, ha dichiarato che, salvo che la protezione sia considerata parte interdipendente dalla nozione di persecuzione, sarebbe possibile che le persone siano qualificate come rifugiati manifestando semplicemente un timore fondato di danni gravi, pur essendo pienamente protette contro tali danni. Ciò violerebbe il principio di surrogazione ( 27 ).

54.

A mio avviso, si rischia piuttosto di complicare l’analisi di ciò che costituisce, in definitiva, una nozione unica che applica di conseguenza criteri identici nell’applicazione sia dell’articolo 2, lettera c), sia dell’articolo 7 della direttiva qualifiche e, naturalmente, a sua volta, dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), di tale direttiva ( 28 ).

55.

In sede di esame di ogni domanda diretta ad ottenere lo status di rifugiato, si deve sempre porre la questione se un richiedente abbia dimostrato di avere un fondato timore di persecuzione ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva qualifiche. L’uso dell’espressione «fondato» timore nella definizione di «rifugiato» di cui all’articolo 2, lettera c), della direttiva qualifiche richiede, in particolare, di esaminare se le condizioni esistenti nel paese di cui il richiedente ha la cittadinanza o è originario siano tali da giustificare oggettivamente il timore del richiedente di essere perseguitato.

56.

Tale criterio richiede necessariamente, a mio avviso, un esame obiettivo della questione se esista o meno una protezione nel paese di cittadinanza del richiedente da parte dei soggetti che offrono protezione come definiti dall’articolo 7 della direttiva qualifiche contro la persecuzione ( 29 )e se il richiedente abbia accesso a tale protezione ( 30 ).

57.

Condivido quindi, in sostanza, l’osservazione della Commissione ( 31 ) secondo la quale lo status di rifugiato deve essere determinato in base a un unico criterio di protezione che soddisfi i requisiti di cui all’articolo 7 della direttiva qualifiche. Occorre sottolineare tuttavia che la protezione nel paese di cittadinanza deve essere garantita nei confronti di tutti i responsabili delle persecuzioni come definiti dall’articolo 6 della direttiva qualifiche ( 32 ).

58.

Sebbene non esista, in senso stretto, una definizione formale di «protezione» nell’articolo 2 della direttiva qualifiche, la protezione è di fatto descritta all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche. Essa ricorre se i soggetti che offrono protezione menzionati all’articolo 7, paragrafo 1, della direttiva qualifiche adottano «adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori (...), avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione (…)» ( 33 ) e se il richiedente «ha accesso a tale protezione» ( 34 ).

59.

Pertanto, la persistente necessità di protezione internazionale (status di rifugiato) in un caso come quello di cui al procedimento principale è determinata, in particolare, dalla capacità o meno di un soggetto che offre protezione di adottare adeguate misure per impedire che il richiedente sia perseguitato per mano di soggetti non statali, avvalendosi tra l’altro di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire di tali atti da parte, in particolare, di soggetti non statali ( 35 ).

60.

Se, per un qualsiasi motivo, i soggetti che offrono protezione non adottano o non possono comunque adottare tali misure adeguate per impedire la persecuzione del richiedente, in linea di principio il richiedente ha diritto allo status di rifugiato ( 36 ).

61.

Ritengo quindi che, per stabilire se una persona abbia un timore fondato di essere perseguitata, conformemente all’articolo 2, lettera c), della direttiva qualifiche, da soggetti non statali, si debba prendere in considerazione la disponibilità della «protezione», quale descritta dall’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche, da parte di soggetti che offrono protezione. La stessa analisi deve essere effettuata per quanto riguarda la cessazione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche.

C.   Sulla terza questione: l’interpretazione della nozione di protezione da parte dello «Stato» di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), della direttiva qualifiche – Inclusione degli atti di protezione da parte di clan/famiglie

62.

La problematica posta dalla terza questione costituisce l’aspetto centrale del presente rinvio. La problematica è la seguente: laddove la «protezione del paese di cui ha la cittadinanza» ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), e dell’articolo 2, lettera c), della direttiva qualifiche si riferisca alla protezione da parte dello Stato ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera a), della direttiva qualifiche, se tale protezione possa comprendere anche atti o funzioni di tutela esercitati da soggetti puramente privati, quali famiglie e/o clan che potrebbero offrire protezione al richiedente.

63.

Le constatazioni di fatto effettuate dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) rivestono una certa rilevanza in tale contesto. L’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha osservato che, per quanto riguarda le «condizioni del paese a Mogadiscio, entrambe le parti si limitavano a fare riferimento alle constatazioni fatte dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) nella sentenza MOJ» ( 37 ). Le constatazioni pertinenti nella sentenza MOJ erano, in particolare, le seguenti:

«ii)

in generale, chi è “un comune civile” (ossia una persona non associata alle forze dell’ordine, né ad organi di governo o dell’amministrazione ufficiale, a ONG o a organizzazioni internazionali), al ritorno a Mogadiscio dopo un periodo di assenza non incorre in rischi effettivi di persecuzione o di danni tali da richiedere protezione ai sensi dell’articolo 3 CEDU o dell’articolo 15, lettera c), della direttiva qualifiche (...).

vii)

Chi ritorna a Mogadiscio dopo un periodo di assenza si rivolge al proprio nucleo familiare, se ne ha uno in città, per ricevere assistenza nella ricollocazione e assicurarsi mezzi di sostentamento. Sebbene un rimpatriato possa anche chiedere l’assistenza di membri del suo clan diversi dai parenti stretti, un simile aiuto probabilmente è disponibile solo per gli appartenenti a clan maggioritari, poiché i clan minoritari hanno ben poco da offrire.

viii)

L’importanza dell’appartenenza a un clan a Mogadiscio è cambiata. I clan offrono ora potenziali meccanismi di sostegno sociale e forniscono aiuto nell’accesso ai mezzi di sostentamento, svolgendo una minore funzione protettiva rispetto al passato. Non esistono milizie dei clan a Mogadiscio, né violenza di clan, né discriminazione basata sui clan, neanche per gli appartenenti a clan minoritari.

(…)

xi)

Pertanto, soltanto chi non ha alcun sostegno da parte del clan o della famiglia e non riceve rimesse dall’estero, senza una reale prospettiva di garantirsi mezzi di sostentamento, all’atto del rimpatrio si trova ad affrontare la prospettiva di vivere in condizioni al di sotto di ciò che è accettabile in termini di protezione umanitaria.

xii)

Gli elementi di prova indicano chiaramente che non sono semplicemente coloro che provengono da Mogadiscio a poter tornare ormai abitualmente a vivere in tale città senza essere esposti al rischio di cui all’articolo 15, lettera c), o senza affrontare un rischio reale di indigenza. Per contro, il trasferimento a Mogadiscio per una persona appartenente a un clan minoritario che non ha legami precedenti con la città, nessun accesso a fondi e nessun’altra forma di clan, di famiglia o di sostegno sociale è poco realistico, poiché, in mancanza di mezzi per accedere a un alloggio e una certa forma di sostegno finanziario continuativo, vi sarà il rischio reale di non avere altre alternative se non quella di vivere in alloggi di fortuna all’interno di un campo per sfollati interni in cui esiste la possibilità concreta di dover vivere in condizioni al di sotto degli standard umanitari accettabili» ( 38 ).

64.

Nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha rilevato che la precedente sentenza MOJ presupponeva che, «sebbene la tutela in questione debba essere di natura statale, la valutazione dell’effettività di tale tutela esige che si tenga conto delle funzioni di protezione in senso ampio al fine di includere quelle esercitate dalle famiglie e dai clan. Un approccio simile sembra essere adottato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la “Corte EDU”) per quanto riguarda la nozione di protezione contro i maltrattamenti di cui all’articolo 3 CEDU nella sentenza RH c. Svezia (ricorso n. 4601/01), 10 settembre 2015, punto 73 [ ( 39 )]. Di conseguenza, esiste una significativa mancanza di chiarezza riguardo al significato del termine “protezione” ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), e dell’articolo 2, lettera [c]), della direttiva qualifiche» ( 40 ).

65.

Tornando ora ai fatti del caso di specie, come ho già rilevato, l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha inoltre constatato che OA aveva alcuni parenti stretti a Mogadiscio e poteva rivolgersi a loro per ricevere un certo sostegno finanziario. Egli poteva anche cercare tale sostegno presso la sorella (che, a quanto pare, abita negli Emirati Arabi Uniti) e membri del suo clan nel Regno Unito.

66.

Sembra implicito nella domanda di pronuncia pregiudiziale – benché non vi siano affermazioni espresse in tal senso – che l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) abbia considerato che la disponibilità della struttura di sostegno da parte della famiglia e del clan offre a OA una struttura di supporto costituente una forma di protezione alternativa, sebbene essa appaia principalmente attuata mediante un sostegno finanziario e altre forme di aiuto pratico, piuttosto che un sostegno destinato a tutelare la sua sicurezza personale.

67.

In tale contesto, la questione si riduce concretamente a stabilire se l’asserita disponibilità di tale sostegno finanziario o altro aiuto pratico da parte di soggetti privati possa soddisfare, almeno in parte, i requisiti di cui all’articolo 7 della direttiva qualifiche per quanto riguarda qualsiasi indagine sulla protezione. A mio avviso, sia dalla formulazione letterale sia dal contesto generale dell’articolo 7 risulta che non è così.

68.

L’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche stabilisce che tale protezione può essere offerta dallo Stato oppure «dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali, che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio».

69.

Risulta quindi chiaramente dal tenore letterale dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche che i partiti o le organizzazioni di cui trattasi devono controllare lo Stato o una parte consistente di tale Stato. L’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche impone inoltre che tali partiti o organizzazioni adottino anche adeguate misure per proteggere da atti persecutori o danni gravi «avvalendosi di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione o danno grave».

70.

Tutto ciò significa che tali partiti o organizzazioni devono cercare di esercitare o di riprodurre la sovranità statale (o qualcosa di assimilabile) con riferimento al paese di origine del richiedente, perché questo è quanto il riferimento al «controllo dello Stato» di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche necessariamente significa e implica. In particolare, tali partiti o organizzazioni devono tentare di offrire un sistema di polizia e di giustizia basato sulla dignità umana e sullo Stato di diritto per rientrare nell’ambito di applicazione di tale disposizione. Come rilevato dall’avvocato generale Mazák nelle sue conclusioni nella causa Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2009:551), tali requisiti legislativi «implicano la presenza di un attore che offre protezione e che abbia l’autorità, la struttura organizzativa e i mezzi, tra l’altro, per mantenere un livello minimo di legalità e di ordine nel paese di cui il rifugiato ha la cittadinanza» ( 41 ).

71.

Nelle sue osservazioni scritte e all’udienza del 27 febbraio, il governo francese ha fatto riferimento a una sentenza fondamentale della Cour nationale du droit d’asile (Corte nazionale del diritto d’asilo, CNDA) del 3 maggio 2016, n. 15033525. Al punto 4 di tale sentenza, la CNDA ha dichiarato che, «quando è accertato che non esiste protezione statale, talune altre autorità, tassativamente definite all’articolo L. 713‑2 [del code de l’entrée et du séjour des étrangers et du droit d’asile (codice sull’ingresso e sul soggiorno degli stranieri nonché sul diritto d’asilo: il Ceseda] ( 42 ) possono offrire la protezione che tale Stato non è in grado di fornire sul proprio territorio; tra tali autorità, le organizzazioni che controllano una parte consistente del territorio di uno Stato sono quelle che dispongono di strutture istituzionali stabili che consentono loro di esercitare un controllo civile e armato esclusivo e continuativo in un territorio delimitato all’interno del quale lo Stato non adempie più gli obblighi o non esercita più la propria sovranità; una volta soddisfatti tali elementi costitutivi, e a condizione che tale organizzazione non sia essa stessa l’autore della persecuzione asserita, occorre stabilire se la protezione sostitutiva offerta da tale organizzazione sia, per l’interessato, accessibile, effettiva e non temporanea» ( 43 ).

72.

Sarebbe, a mio avviso, difficile migliorare tale passaggio della sentenza della CNDA, che coglie succintamente il contenuto essenziale dell’articolo 7, paragrafo 1, lettera b). Dal canto mio, ritengo che essa rappresenti correttamente la posizione del legislatore dell’Unione quale rinvenibile all’articolo 7 della direttiva qualifiche e, in effetti, l’interpretazione di tale disposizione già fornita dalla Corte nella sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105).

73.

Per quanto riguarda il caso di specie, non è necessario, a mio avviso, essere più precisi di così, poiché proprio nulla nella domanda di pronuncia pregiudiziale indica che la struttura di sostegno familiare o il sistema di clan in Somalia, e più in particolare a Mogadiscio, possano anche lontanamente soddisfare tale requisito – sebbene si tratti, in definitiva, di una questione la cui verifica spetta al giudice del rinvio.

74.

Tuttavia, anche tenendo nella massima considerazione le precedenti constatazioni generali dell’Upper Tribunal (Tribunale superiore) nella sentenza MOJ (adottate da quest’ultimo ai fini della presente causa) e le constatazioni specifiche relative a OA nella presente causa, gli elementi di prova dimostrano semplicemente che il sistema di clan a Mogadiscio offre una struttura di sostegno sociale informale, benché senza dubbio importante. Come rilevato dal Tribunale, OA potrebbe anche ragionevolmente rivolgersi ai familiari (e forse anche al suo clan) per ottenere un certo sostegno finanziario nel caso in cui dovesse farvi ritorno. Tali constatazioni invitano a formulare le seguenti risposte.

75.

In primo luogo, la disponibilità di siffatto sostegno finanziario non è direttamente rilevante nell’ambito della cessazione dello status di rifugiato. Come ho già precisato, essa sarebbe tuttavia rilevante ai fini della questione, alquanto distinta, se l’espulsione di un ex rifugiato in Somalia esponga tale soggetto al rischio reale di povertà materiale estrema e grave, violando così le garanzie in materia di trattamenti inumani o degradanti contenute nell’articolo 3 CEDU e, per estensione, nell’articolo 4 della Carta. Questa è, a mio avviso, la vera spiegazione di sentenze come RH c. Svezia ( 44 ) alle quali ha fatto riferimento l’Upper Tribunal (Tribunale superiore), di cui esaminerò ora i dettagli.

76.

In secondo luogo, nulla in tali constatazioni di fatto indica che detto sistema di sostegno familiare e di clan controlli la Somalia o una qualsiasi parte del territorio di tale Stato secondo le modalità contemplate dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b). Né si suggerisce che tali soggetti privati cerchino di gestire un sistema di quasi‑polizia e di giustizia fondato sulla dignità umana e sullo Stato di diritto o, ancora, che essi tentino di offrire un simile sistema di polizia e di giustizia.

77.

Un’altra considerazione, in questa sede, è che l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche si discosta dal testo della Convenzione di Ginevra nella parte in cui prevede che la protezione possa essere fornita da soggetti non statali, comprese le organizzazioni internazionali. Sebbene sia stato sostenuto con molta forza che, a tale riguardo, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche è effettivamente incompatibile con i termini della Convenzione di Ginevra ( 45 ), è forse sufficiente affermare, ai presenti fini, che il legislatore dell’Unione ha probabilmente cercato di tener conto, in tal modo, dell’effettiva esperienza dopo l’entrata in vigore di tale convenzione vari decenni fa, il 22 aprile 1954. Ciò include l’intervento umanitario delle Nazioni Unite, l’intervento in taluni Stati delle forze militari multinazionali e il fenomeno degli Stati «falliti», nei quali l’apparato generale dello Stato tradizionale ha semplicemente cessato di esistere in qualunque accezione significativa. Tali sviluppi non sembrano essere stati previsti dai redattori della Convenzione di Ginevra, in cui l’esistenza della protezione si basava su un apparato statale funzionante.

78.

Per tutte le ragioni che ho appena esposto, ritengo che si debba presumere che, anche discostandosi in tal modo dal testo della Convenzione di Ginevra, il legislatore dell’Unione abbia voluto che gli obiettivi fondamentali sottesi alla Convenzione di Ginevra fossero nondimeno rispettati. Ne consegue, pertanto, che l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche deve essere interpretato tenendo presente tale principio fondamentale. La tutela prevista dalla Convenzione di Ginevra è fondamentalmente, in sostanza, la protezione tradizionale offerta da uno Stato, vale a dire un sistema giuridico e di polizia funzionante basato sullo Stato di diritto.

79.

Tutto ciò rafforza la conclusione secondo cui la protezione non statale prevista dall’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche non è semplicemente la protezione che potrebbe essere offerta da parti puramente private – come, ad esempio, quella di un’impresa di vigilanza privata che sorvegli un complesso recintato ( 46 ) –, bensì quella offerta da soggetti non statali che controllano la totalità o una parte sostanziale dello territorio di uno Stato e che hanno anche cercato di riprodurre le funzioni statali tradizionali istituendo o sostenendo un sistema giuridico e di polizia funzionante basato sullo Stato di diritto. In altri termini, l’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche dovrebbe essere quindi considerato una disposizione sostanzialmente complementare ed eccezionale che tiene conto dell’esperienza contemporanea di cui ho già parlato, in cui, eccezionalmente, il paese di cittadinanza è controllato in tutto o in parte da soggetti non statali che cercano essenzialmente di riprodurre i sistemi di giustizia e di polizia degli apparati statali tradizionali.

1. La sentenza della Corte EDU nella causa R.H. c. Svezia

80.

Per giungere a tale conclusione non ho ignorato la sentenza della Corte EDU nella causa R.H. c. Svezia ( 47 ) richiamata dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore) e alla quale anche le parti hanno fatto riferimento in udienza. Come riconosciuto dalla sentenza stessa, si trattava effettivamente di una decisione basata sui fatti di quel caso particolare. In tale sentenza la Corte EDU ha esaminato le affermazioni di una ricorrente, la quale sosteneva che i suoi diritti ai sensi dell’articolo 3 CEDU sarebbero stati violati se fosse stata rimpatriata a Mogadiscio. La Corte EDU ha dichiarato che l’espulsione della sig.ra R.H., la cui domanda di asilo era stata precedentemente respinta, verso la Somalia (e, in particolare, a Mogadiscio) non avrebbe violato il divieto di tortura o di pene o trattamenti inumani o degradanti di cui all’articolo 3 CEDU ( 48 ).

81.

A tale riguardo, la ricorrente aveva sostenuto che, nell’ipotesi in cui fosse stato eseguito il provvedimento di espulsione nei suoi confronti, essa avrebbe corso un rischio reale di essere uccisa dagli zii, in quanto aveva rifiutato di acconsentire ad un matrimonio forzato prima di fuggire dalla Somalia, o di essere costretta nuovamente a sposare qualcuno contro la propria volontà al suo ritorno. La ricorrente ha altresì dichiarato che la situazione generale in Somalia era molto grave per le donne, in particolare per quelle che non disponevano di una rete di conoscenze maschile. Di conseguenza, avrebbe corso il rischio di dover vivere da sola in un campo per rifugiati, il che l’avrebbe esposta a un grave pericolo ( 49 ). La Corte EDU ha anzitutto constatato che nulla indicava che la situazione a Mogadiscio fosse tale da sottoporre tutte le persone presenti in città a un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3 CEDU. La Corte ha poi esaminato la situazione personale della ricorrente al suo ritorno. La sua domanda è stata respinta per motivi di fatto, con la precisazione, da parte della Corte, che:

«73.   In sintesi, la Corte considera che sussistono significative incoerenze nelle osservazioni della ricorrente. Le affermazioni relative alla sua esperienza personale e ai pericoli che dovrebbe affrontare al momento del suo ritorno non sono state rese plausibili. Pertanto, non vi sono motivi per concludere che ritornerebbe a Mogadiscio come donna sola, con i rischi che tale situazione comporta. A tale proposito, la Corte rileva che la ricorrente è stata informata del decesso del padre nel 2010 e della madre nel 2011, il che indica che ha mantenuto dei contatti a Mogadiscio. Inoltre, la ricorrente ha una famiglia residente in città, compreso un fratello e degli zii. Si deve quindi ritenere che abbia accesso sia al sostegno familiare sia a una rete di tutela maschile. Inoltre, non è stato dimostrato che la ricorrente debba andare a vivere in un campo per rifugiati e per sfollati interni.

74.   Di conseguenza, pur non trascurando la difficile situazione delle donne in Somalia, ivi compresa Mogadiscio, la Corte non può constatare, nel caso di specie, che la ricorrente correrebbe un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3 della [CEDU] in caso di ritorno in tale città. Pertanto, la sua espulsione a Mogadiscio non comporterebbe una violazione di tale disposizione».

82.

Se è vero che l’esistenza di una struttura di sostegno familiare era un elemento che ha influito in una certa misura sulle conclusioni della Corte secondo le quali la ricorrente non si sarebbe trovata di fronte a un rischio di trattamento contrario all’articolo 3 CEDU se fosse tornata a Mogadiscio, non si può affermare che, su questo particolare punto, la sentenza R.H. c. Svezia abbia formulato un principio più ampio. Ciò risulta altresì dal fatto che la Corte ha considerato le sue dichiarazioni inattendibili ( 50 ). Infatti, gli elementi di prova relativi ai vincoli familiari e al sostegno pratico a Mogadiscio e altrove, cui ha fatto riferimento la Corte EDU, sembrano essere stati essenzialmente finalizzati a rimettere in discussione la veridicità delle dichiarazioni della ricorrente.

83.

Anche se così non fosse, occorre ricordare che il criterio di protezione di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche è alquanto diverso da quello che vieta l’espulsione di una persona verso uno Stato in cui esiste un rischio grave di trattamenti inumani o degradanti ai sensi dell’articolo 3 CEDU o, a tal fine, ai sensi dell’articolo 4 e dell’articolo 19, paragrafo 2, della Carta. Di conseguenza, non ritengo che la sentenza sia di grande utilità per quanto riguarda le questioni specifiche sollevate dal giudice del rinvio, relative all’interpretazione della direttiva qualifiche.

84.

Ritengo quindi che, conformemente all’articolo 7, paragrafo 1, e all’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche, la «protezione» possa essere garantita dallo Stato o, in subordine, da soggetti non statali che controllano la totalità o una parte sostanziale di uno Stato e che hanno anche cercato di riprodurre le funzioni statali tradizionali fornendo o sostenendo un sistema giuridico e di polizia funzionante basato sullo Stato di diritto. Il semplice sostegno finanziario e/o materiale fornito da soggetti non statali è inferiore alla soglia di protezione prevista all’articolo 7 della direttiva qualifiche.

D.   Sulla quarta questione: interpretazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche

85.

L’ultima questione verte sull’interpretazione dell’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva qualifiche, relativo alla cessazione dello status di rifugiato e, più in particolare, sul problema se il riferimento, contenuto nell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), alla «protezione del paese di cui ha la cittadinanza» implichi che qualsiasi indagine sulla natura della protezione disponibile in tale paese nell’ambito di una decisione di cessazione è, in sostanza, la stessa prevista dall’articolo 7 per quanto riguarda la concessione di tale status.

86.

L’articolo 11, paragrafo 1, riguarda le circostanze in cui un cittadino di un paese terzo cessa di essere un rifugiato. Esso prevede, nella parte pertinente, quanto segue:

«Un cittadino di un paese terzo o un apolide cessa di essere un rifugiato qualora:

(…)

e)

non possa più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza, perché sono venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato».

87.

A tale riguardo, l’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche riprende quasi testualmente le disposizioni dell’articolo 1, sezione C, paragrafo 5, della Convenzione di Ginevra. Quest’ultima disposizione prevede altresì le condizioni che devono essere soddisfatte per quanto riguarda la conclusione o la cessazione dello status di rifugiato.

«Una persona, cui sono applicabili le disposizioni della sezione A, non fruisce più della presente Convenzione:

(…)

5)   se, cessate le circostanze in base alle quali è stata riconosciuta come rifugiato, essa non può continuare a rifiutare di domandare la protezione dello Stato di cui ha la cittadinanza.

(…)»

88.

Dai termini della Convenzione di Ginevra e, sostanzialmente ai presenti fini, della direttiva qualifiche, risulta che tanto il riconoscimento quanto la cessazione dello status di rifugiato dipendono dalla questione della necessità. Come un richiedente che può far valere un timore fondato di persecuzione ha diritto allo status di rifugiato, può avvenire anche l’inverso. Se le circostanze che giustificano la necessità di protezione internazionale e la concessione dello status di rifugiato sono mutate in misura sufficiente da rendere la protezione internazionale non più necessaria, in linea di principio lo status di rifugiato può cessare ( 51 ).

89.

Come previsto dall’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva qualifiche, il cambiamento delle circostanze deve avere, certamente, «un significato e una natura non temporanea» e, come rilevato dalla Corte al punto 73 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), questo significa, a sua volta, che ciò si verificherà solo «quando si possa considerare che gli elementi alla base dei timori del rifugiato di essere perseguitato siano stati eliminati in modo duraturo». Tutto ciò implica che gli Stati membri dovrebbero esaminare la questione della cessazione dello status di rifugiato con una certa cautela, concedendo, ove necessario, il beneficio del dubbio alla persona titolare dello status di rifugiato. Quando tuttavia, secondo i termini utilizzati dalla Corte, si possa ritenere che il rischio di persecuzione sia stato «eliminat[o] in modo duraturo», lo status di rifugiato può essere revocato.

90.

Rimane tuttavia il punto fondamentale: sia la concessione sia la cessazione della protezione internazionale sono, essenzialmente, simmetriche. È proprio tale punto ad emergere chiaramente dai punti da 65 a 70 della sentenza della Corte del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), che sono così formulati:

«L’art. 11, n. 1, lett. e), della direttiva, così come l’art. 1, sezione C, n. 5, della Convenzione di Ginevra, prevede la perdita della qualità di rifugiato quando siano venute meno le circostanze che hanno determinato il riconoscimento di tale qualità, vale a dire, in altri termini, quando non ricorrano più le condizioni per la concessione dello status di rifugiato.

Utilizzando un tenore letterale secondo cui, quando le circostanze di cui trattasi “sono venute meno”, il cittadino “non [può] più rinunciare alla protezione del paese di cui ha la cittadinanza”, la menzionata disposizione, con il suo dettato stesso, stabilisce un vincolo di causalità fra il cambiamento delle circostanze e l’impossibilità per l’interessato di protrarre il suo rifiuto e, di conseguenza, di conservare il suo status di rifugiato, in quanto il suo timore originario di essere perseguitato non appare più fondato.

Disponendo che il cittadino “non possa più rinunciare” alla protezione del paese di origine, la previsione in parola comporta che la “protezione” in causa è la medesima che fino a tale momento era assente, ossia quella nei confronti degli atti di persecuzione contemplati dalla direttiva.

In tal modo, le circostanze che dimostrano l’incapacità o, al contrario, la capacità del paese di origine di garantire una protezione da atti di persecuzione costituiscono un elemento decisivo della valutazione che conduce alla concessione o, eventualmente, in modo simmetrico, alla cessazione dello status di rifugiato.

Di conseguenza, lo status di rifugiato cessa dal momento in cui il cittadino interessato non appare più esposto, nel paese di origine, a circostanze che dimostrano l’incapacità di detto paese di assicurargli una protezione nei confronti degli atti di persecuzione che subirebbe per uno dei cinque motivi elencati all’art. 2, lett. c), della direttiva. Siffatta cessazione comporta quindi che il cambiamento delle circostanze abbia sanato le cause che avevano condotto al riconoscimento dello status di rifugiato.

Per giungere alla conclusione che il timore del rifugiato di essere perseguitato non è più fondato, le autorità competenti, alla luce dell’art. 7, n. 2, della direttiva, devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono protezione del paese terzo in causa abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione» ( 52 ).

91.

Ne consegue, a sua volta, che la natura dell’indagine sulla protezione è, in entrambi i casi ( 53 ), sostanzialmente la stessa. Lo status di rifugiato sarà concesso in caso di mancanza di tale protezione e, correlativamente, la necessità dello status di rifugiato cesserà quando le circostanze nel paese di cui ha la cittadinanza siano cambiate in modo duraturo ( 54 ) in modo tale che siano ormai disponibili livelli di protezione adeguati nel paese di cui il richiedente ha la cittadinanza e che quest’ultimo vi abbia accesso.

VII. Conclusione

92.

Propongo pertanto di rispondere come segue alle questioni sollevate dall’Upper Tribunal (Immigration and Asylum Chamber) London (United Kingdom) [Tribunale superiore (sezione immigrazione e asilo) di Londra, Regno Unito]:

La nozione di «protezione» del «paese di cui ha la cittadinanza» di cui all’articolo 2, lettera c), e all’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, si riferisce principalmente alla protezione statale da parte del paese di cui un richiedente ha la cittadinanza. Tuttavia, il disposto dell’articolo 7, paragrafi 1, lettera b), e 2, della direttiva 2004/83 sottintende necessariamente che, in taluni casi, soggetti diversi dallo Stato, quali partiti o organizzazioni, possano offrire una protezione ritenuta equivalente alla protezione statale al posto dello Stato in cui tali soggetti non statali controllano la totalità o una parte consistente di uno Stato e hanno anche cercato di riprodurre le funzioni statali tradizionali offrendo o sostenendo un sistema giuridico e di polizia funzionante basato sullo Stato di diritto. Il semplice sostegno finanziario e/o materiale fornito da soggetti non statali è inferiore alla soglia di protezione prevista dall’articolo 7 della direttiva 2004/83.

Per stabilire se una persona abbia un timore fondato di essere perseguitata, conformemente all’articolo 2, lettera c), della direttiva 2004/83, da soggetti non statali, si deve prendere in considerazione la disponibilità della «protezione», quale descritta all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/83, da parte di soggetti che offrono protezione. La stessa analisi deve essere effettuata per quanto riguarda la cessazione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2004/83.

L’espressione «protezione del paese di cui ha la cittadinanza» di cui all’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2004/83 implica che qualsiasi indagine sulla natura della protezione disponibile in tale paese nell’ambito di una decisione sulla cessazione è la stessa prevista dall’articolo 7 di tale direttiva. Per giungere alla conclusione che il timore del rifugiato di essere perseguitato non è più fondato, le autorità competenti, alla luce dell’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva 2004/83, devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti del paese terzo in causa che offrono protezione abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che quindi dispongano, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione.


( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) La Convenzione sullo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 ed entrata in vigore il 22 aprile 1954 (Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545, 1954). Essa è stata completata dal Protocollo relativo allo status dei rifugiati del 31 gennaio 1967, entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la «Convenzione di Ginevra»).

( 3 ) O’Sullivan M., «Acting the Part: Can Non‑State Entities Provide Protection Under International Refugee Law?», International Journal of Refugee Law, vol. 24, Oxford University Press, 2012, pag. 89.

( 4 ) L’articolo 2, lettera a), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta (in prosieguo: la «direttiva qualifiche») prevede che la protezione internazionale si riferisce allo status di rifugiato e di protezione sussidiaria quale definito in tale disposizione. La Convenzione di Ginevra riguarda soltanto i rifugiati e il loro status corrispondente.

( 5 ) Sono necessari alcuni chiarimenti. La direttiva qualifiche è stata abrogata, con effetto a decorrere dal 21 dicembre 2013, dalla direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (GU 2011, L 337, pag. 9). Nel considerando 50 della direttiva 2011/95 si dichiara che «[a] norma degli articoli 1, 2 e 4 bis, paragrafo 1, del protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia allegato al TUE e al TFUE, e fatto salvo l’articolo 4 di tale protocollo, il Regno Unito e l’Irlanda non partecipano all’adozione della presente direttiva, non sono da essa vincolati, né sono soggetti alla sua applicazione». Tuttavia, nel considerando 38 della direttiva qualifiche si afferma che «[a] norma dell’articolo 3 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda allegato al trattato sull’Unione europea e al trattato che istituisce la Comunità europea, il Regno Unito ha notificato, con lettera del 28 gennaio 2002, la propria volontà di partecipare all’adozione ed applicazione della presente direttiva». In altri termini, la direttiva qualifiche ha continuato ad applicarsi al Regno Unito nonostante il fatto che sia stata abrogata e sostituita dalla direttiva 2011/95 per quanto riguarda la maggior parte degli Stati membri.

( 6 ) Sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105). Si trattava di un caso di cessazione dello status di rifugiato precedentemente riconosciuto dalla Germania ai richiedenti in base alla circostanza che essi erano stati perseguitati in Iraq durante il regime di Saddam Hussein. Successivamente alla caduta di tale regime a seguito dell’invasione guidata dagli Stati Uniti, le autorità tedesche hanno tentato di revocare il loro status di rifugiato. Sebbene la causa vertesse quindi principalmente sull’interpretazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche, riguardante la cessazione, la Corte ha nondimeno rilevato incidentalmente (al punto 75), che l’articolo 7, paragrafo 1, di tale direttiva non ostava a che «la protezione possa essere garantita da organizzazioni internazionali, anche per mezzo della presenza di una forza multinazionale sul territorio del paese terzo».

( 7 ) GU 2020, L 29, pag. 1.

( 8 ) Disponibili sul sito Internet https://www.gov.uk/guidance/immigration-rules/immigration-rules-part-11-asylum.

( 9 ) S.I. 2006/2525.

( 10 ) V. punto 29 della domanda di pronuncia pregiudiziale alla CGUE, del 22 marzo 2019, nel quale l’Upper Tribunal (Tribunale superiore) ha esposto la sua valutazione dei fatti controversi.

( 11 ) V. Guidelines on International Protection: Cessation of Refugee Status under Article 1C(5) and (6) of the 1951 Convention relating to the Status of Refugees (the “Ceased Circumstances” Clauses) [Linee guida sulla protezione internazionale: cessazione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 1, sezione C, paragrafi 5 e 6 della convenzione relativa allo status dei rifugiati del 1951 (clausole di «Cessate circostanze»)], HCR/GIP/03/03, 10 febbraio 2003, paragrafo 15, pag. 5.

( 12 ) Il governo francese ritiene che la prima e la seconda questione del giudice del rinvio contengano un errore tipografico, poiché, invece del riferimento all’articolo 2, lettera e), della direttiva qualifiche, che definisce l’espressione «persona ammissibile alla protezione sussidiaria», il riferimento avrebbe dovuto riguardare, invece, l’articolo 2, lettera c) di tale direttiva, che definisce il termine «rifugiato». Concordo con tale posizione. L’articolo 11 della direttiva qualifiche, oggetto della prima questione, e l’esistenza di un «timore fondato di essere perseguitati», di cui alla seconda questione, riguardano soltanto i rifugiati. Inoltre, a OA è stato concesso nel Regno Unito lo status di rifugiato nel 2003 e non una protezione sussidiaria. Pertanto, il procedimento principale riguarda la cessazione dello status di rifugiato ai sensi dell’articolo 11 della direttiva qualifiche piuttosto che la cessazione della protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 16 di tale direttiva. Ritengo quindi che la prima e la seconda questione dell’Upper Tribunal (Tribunale superiore) vertano in realtà sull’articolo 2, lettera c), di tale direttiva. Propongo, pertanto, di limitare le mie conclusioni ad un’interpretazione delle norme dell’Unione applicabili ai rifugiati, in quanto distinte da quelle relative alla protezione sussidiaria.

( 13 ) Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, dal momento che i diritti garantiti dall’articolo 4 della stessa corrispondono a quelli garantiti dall’articolo 3 CEDU, il significato e la portata di tali diritti sono uguali a quelli loro conferiti da detto articolo 3 CEDU.V. sentenza del 24 aprile 2018, MP (Protezione sussidiaria di una persona precedentemente vittima di torture) (C‑353/16, EU:C:2018:276, punto 37).

( 14 ) L’articolo 19, paragrafo 2, della Carta prevede che nessuno può essere allontanato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto a trattamenti inumani o degradanti.

( 15 ) Il giudice del rinvio non ha menzionato la possibilità che OA possa beneficiare della protezione sussidiaria in caso di cessazione dello status di rifugiato. A tale riguardo, la Corte ha osservato, nella sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105, punto 80), che, «[n]el sistema della direttiva l’eventuale cessazione dello status di rifugiato avviene senza incidere sul diritto della persona interessata di chiedere il riconoscimento dello status conferito dalla protezione sussidiaria, quando siano presenti tutti gli elementi necessari, contemplati dall’art. 4 della direttiva, al fine di stabilire che siano soddisfatte le condizioni idonee a giustificare una siffatta protezione, elencate all’art. 15 della direttiva». L’articolo 2, lettera e), della direttiva qualifiche prevede che nei casi in cui il richiedente non possieda i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma quando sussistono, tuttavia, fondati motivi per ritenere che la persona interessata, se ritornasse nel paese di origine, correrebbe «un rischio effettivo di subire un grave danno» e tale persona «non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese», quest’ultima ha diritto a beneficiare di una protezione sussidiaria. Il «rischio effettivo di subire un grave danno» è definito dall’articolo 15 di tale direttiva come a) la condanna a morte o all’esecuzione; b) la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo paese di origine; o c) la minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Come implica la denominazione, la nozione di protezione sussidiaria comprende i casi dei richiedenti che non sono perseguitati in quanto tali, ma che, pur non potendo beneficiare per tale motivo dello status di rifugiato, correrebbero nondimeno un rischio sostanziale di danni gravi se ritornassero nel loro paese di origine e che non possono avvalersi della protezione di tale paese. V., ad esempio, sentenza dell’8 maggio 2014, N. (C‑604/12, EU:C:2014:302, punti 2930). L’articolo 16, paragrafo 1, della direttiva qualifiche prevede che un cittadino di un paese terzo «cessa di essere ammissibile a beneficiare della protezione sussidiaria quando le circostanze che hanno indotto alla concessione dello status di protezione sussidiaria sono venute meno o mutate in una misura tale che la protezione non è più necessaria». Il richiedente può essere escluso dalla protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 17 della direttiva qualifiche ove sussistano «fondati motivi» per ritenere, in particolare, che tale richiedente abbia commesso un reato grave o che «rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova».

( 16 ) Conclusioni dell’avvocato generale Mazák nella causa Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2009:551, paragrafo 43).

( 17 ) V. punto 52 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105).

( 18 ) V. sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105, punto 54).

( 19 ) L’articolo 1 della Carta stabilisce che «La dignità umana è inviolabile».

( 20 ) Sebbene l’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche utilizzi effettivamente la frase «protezione del paese di cui ha la cittadinanza», dalla definizione di rifugiato di cui all’articolo 2, lettera c), di tale direttiva risulta che ciò di cui si trattasi in quest’ultima disposizione è un soggetto che, in determinate circostanze, non può o non intende avvalersi della «protezione del paese di cui ha la cittadinanza».

( 21 ) A tale riguardo, sebbene il «paese di origine» sia definito all’articolo 2, lettera k), della direttiva qualifiche, tale direttiva non definisce i termini «Stato» o «protezione dello Stato» nelle definizioni contenute nel suo articolo 2. Tuttavia, l’articolo 7 della direttiva qualifiche contiene una descrizione chiara del singolo livello di protezione richiesto da parte dello Stato e degli altri soggetti che offrono protezione. Approfondirò tale punto nelle presenti conclusioni.

( 22 ) Ciò risulta chiaramente dall’articolo 7 della direttiva qualifiche. Sebbene, in via eccezionale, altri soggetti che offrono protezione possano essere ammessi al posto dello Stato, essi devono, in effetti, assicurare lo stesso livello di protezione dello Stato. Ciò risulta dallo standard unico di protezione descritto all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche. La sola «concessione» a tale riguardo, relativamente ai soggetti non statali di cui all’articolo 7, paragrafo 1, lettera b), della direttiva qualifiche è la portata geografica della protezione. Questa può essere limitata a «una parte consistente del (...) territorio [dello Stato]».

( 23 ) Il corsivo è mio.

( 24 ) Negli atti sottoposti alla Corte non vi è menzione del fatto che OA fosse perseguitato o che rischi di essere perseguitato dallo Stato somalo.

( 25 ) Il governo del Regno Unito ritiene che alla seconda questione si debba rispondere in senso affermativo. Esso afferma che la necessità di considerare la portata della protezione disponibile si pone allo stesso modo in tre fasi. In primo luogo, quando si valuta l’esistenza di un fondato timore di persecuzione, se la protezione è effettivamente disponibile da parte di soggetti non statali in tale fase, ciò deve considerarsi parte del complesso di circostanze proprie del caso di specie del richiedente. La disponibilità di tale protezione implica che il richiedente non è in grado di dimostrare un fondato timore di persecuzione. In secondo luogo, quando il timore di una persecuzione si manifesta nei confronti di soggetti non statali, occorre esaminare se lo Stato o i soggetti non statali possano offrire una protezione effettiva. In terzo luogo, occorre esaminare se il richiedente non voglia o non possa avvalersi della «protezione del paese di cui ha la cittadinanza». Tale governo ha asserito che la seconda e la terza fase sopra individuate costituiscono due parti della medesima valutazione. Infatti, l’intero processo di valutazione delle tre fasi individuate deve essere condotto in modo olistico. L’aspetto essenziale è che l’approccio relativo alla valutazione della protezione da parte di soggetti non statali è lo stesso in ogni fase. Il governo francese ha affermato che, al punto 70 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), la Corte ha dichiarato che, per giungere alla conclusione che il timore del rifugiato di essere perseguitato non è più fondato, le autorità competenti, alla luce dell’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche, devono verificare, tenuto conto della situazione individuale del rifugiato, che il soggetto o i soggetti che offrono protezione del paese terzo in causa abbiano adottato adeguate misure per impedire che possano essere inflitti atti persecutori, che dispongano quindi, in particolare, di un sistema giuridico effettivo che permetta di individuare, di perseguire penalmente e di punire gli atti che costituiscono persecuzione e che il cittadino interessato, in caso di cessazione dello status di rifugiato, abbia accesso a detta protezione. Siffatto esame si impone a fortiori quando si tratta di verificare se esista un timore fondato di essere perseguitati ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva. Il governo ungherese ritiene che, nell’ambito dell’esame della condizione relativa al timore fondato, non sia pertinente soltanto la protezione dei soggetti statali e di un’organizzazione che controlla una parte consistente del territorio dello Stato. Le autorità amministrative e giudiziarie chiamate a pronunciarsi in materia di asilo devono esaminare, alla luce della condizione relativa al timore fondato, se la protezione disponibile sia sufficientemente efficace, indipendentemente dalla questione se essa sia garantita da soggetti statali o da soggetti non statali.

( 26 ) Lord Hope of Craighead ha dichiarato, nella sentenza Horvath c. Secretary of State for the Home Department [2000] UKHL 37, quanto segue: «a mio avviso, l’obiettivo della Convenzione, che riveste un’importanza fondamentale per una soluzione dei problemi sollevati dalla presente causa, è quello rinvenibile nel principio di surrogazione. Lo scopo generale della Convenzione è quello di consentire alla persona che non beneficia più di una protezione contro la persecuzione nel proprio paese, per un motivo previsto dalla Convenzione, di rivolgersi alla comunità internazionale per ottenere protezione. Come rilevato da Lord Keith of Kinkel nella sentenza Reg. c. Secretary of State for the Home Department, Ex parte Sivakumaran [1988] Appeal Cases 958, 992H‑993A, il suo obiettivo generale è di «garantire una protezione ed un trattamento equo per coloro che non ne dispongono nel proprio paese».

( 27 ) Inoltre, il giudice del rinvio ha dichiarato che, se l’analisi contenuta nella sentenza della Court of Appeal nella causa AG e a. c. Secretary of State for the Home Department [2006] EWCA Civ 1342 fosse corretta, «le due verifiche sulla protezione che devono essere effettuate in base all’elemento del “timore fondato di essere perseguitati” della definizione di rifugiato non costituirebbero due aspetti di una valutazione «olistica», ma applicherebbero due serie diverse di criteri: una sarebbe una verifica puramente fattuale o funzionale e l’altra (trattare la protezione come un termine che riguarda solo l’apparato dello Stato) incentrata unicamente sugli atti dei soggetti statali. Sebbene sia conforme ad un approccio olistico il fatto che il livello di protezione statale possa costituire indirettamente un fattore per valutare se una persona abbia un timore fondato (...), è difficile comprendere perché la natura di tale verifica – che si tratti di una verifica fattuale o funzionale, oppure di una verifica formalistica, o di un misto di entrambe – debba differire tra l’una e l’altra, considerata in particolare la loro interrelazione. In entrambe le applicazioni la protezione deve avere sicuramente le stesse qualità di efficacia e (a quanto pare anche) di accessibilità e di non provvisorietà». (v. punto 48 della domanda di pronuncia pregiudiziale del 22 marzo 2019).

( 28 ) V. punto 67 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), nella quale la Corte ha dichiarato che, «[d]isponendo che il cittadino “non possa più rinunciare” alla protezione del paese di origine, [l’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva] comporta che la “protezione” in causa è la medesima che fino a tale momento era assente, ossia quella nei confronti degli atti di persecuzione contemplati dalla direttiva».

( 29 ) Da parte di «responsabili della persecuzione o del danno grave», come definiti dall’articolo 6 della direttiva qualifiche.

( 30 ) V., per analogia, punti da 56 a 59 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), nella quale la Corte ha dichiarato che, «secondo il dettato dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, il rifugiato è, in particolare, un cittadino di un paese terzo che si trova fuori dal paese di cui ha la cittadinanza “per il timore fondato di essere perseguitato” (...) e non può, o “a causa di tale timore”, non vuole avvalersi della “protezione” di detto paese. Il cittadino interessato deve quindi, a causa delle circostanze esistenti nel suo paese di origine, fronteggiare il timore fondato di una persecuzione nei suoi confronti per almeno uno dei cinque motivi elencati nella direttiva e nella Convenzione di Ginevra. Tali circostanze dimostrano, infatti, che il paese terzo non protegge il proprio cittadino da atti di persecuzione. Esse sono la causa dell’impossibilità per l’interessato, o del suo rifiuto giustificato, di avvalersi della “protezione” del suo paese di origine ai sensi dell’articolo 2, lettera c), della direttiva, vale a dire con riferimento alla capacità di tale paese di prevenire o di sanzionare atti di persecuzione». Il corsivo è mio.

( 31 ) La Commissione ha affermato che «si ritiene che l’effetto di scindere la definizione di “rifugiato” di cui all’articolo 2, lettera c), della direttiva in due elementi, e di applicare un criterio di protezione per il primo elemento distinto – e più restrittivo – rispetto al criterio di protezione previsto dall’articolo 7, non trovi fondamento né nel testo né nell’impianto sistematico della direttiva. Infatti, l’elaborazione del criterio presso i giudici del Regno Unito è anteriore all’adozione della direttiva qualifiche. Inoltre, siffatto approccio elude, in sostanza, l’applicazione dell’articolo 7 della direttiva. Inserendo forzatamente un criterio di protezione più limitato nella determinazione della fondatezza del timore del richiedente, e basandosi poi su tale criterio per rifiutare un’ulteriore indagine sulla protezione che soddisfi i requisiti di cui all’articolo 7 della direttiva, uno Stato membro vanificherebbe, in sostanza, l’effetto utile di tale disposizione».

( 32 ) Conformemente all’articolo 6, lettera c), della direttiva qualifiche, i responsabili delle persecuzioni includono i «soggetti non statuali, se può essere dimostrato che [lo Stato] e [i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio], comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ai sensi dell’articolo 7». Il corsivo è mio.

( 33 ) All’udienza del 27 febbraio 2020 il governo del Regno Unito ha sostenuto che l’uso dell’espressione «in generale» nell’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche serviva a precisare che i criteri enunciati in tale disposizione non sono tassativi, e neppure indicativi, ma costituivano solo un elenco di esempi specifici di ciò che la nozione di «protezione» implicava. Non condivido tale posizione. Ritengo che i criteri enunciati all’articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche costituiscano norme minime e necessarie per la sussistenza del livello di protezione richiesto. Ciò risulta inoltre molto chiaramente dalla formulazione dei punti 70 e 71 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105).

( 34 ) V. articolo 7, paragrafo 2, della direttiva qualifiche.

( 35 ) A mio avviso, non solo devono essere adottate «adeguate misure», ma queste devono essere anche adeguatamente efficaci nel loro obiettivo.

( 36 ) V. articolo 2, lettera d), della direttiva qualifiche. Se, d’altro canto, il richiedente non è perseguitato, ma è comunque esposto al rischio di «danno grave» come definito dall’articolo 15, esso ha, in linea di principio, diritto alla protezione sussidiaria.

( 37 ) V. punto 21 della domanda di pronuncia pregiudiziale del 22 marzo 2019. Non spetta alla Corte rimettere in discussione le valutazioni di fatto su cui si è basato il giudice del rinvio e su cui, in realtà, le parti nell’ambito del procedimento di cui è investito concordavano. Se, tuttavia, le constatazioni di fatto relative alla situazione a Mogadiscio si basano esclusivamente sulla sentenza MOJ, è giocoforza constatare che esistono passaggi di tale sentenza che potrebbero suggerire, di per sé, che un richiedente come OA non ha un timore fondato riguardo a un eventuale ritorno in Somalia, e che il caso di specie, nei limiti in cui solleva questioni in materia di sostegno finanziario, ecc., è realmente un caso che solleva questioni di trattamento inumano o degradante nel contesto di una potenziale esposizione a una povertà materiale grave ed estrema più che alla cessazione dello status di rifugiato in quanto tale. Tuttavia, occorre sottolineare ancora una volta che non spetta alla Corte esaminare né le valutazioni di fatto del giudice del rinvio né, a tal fine, le questioni specifiche dallo stesso sollevate. Si potrebbe altresì sottolineare il fatto che la sentenza MOJ è stata pronunciata nel 2014, e potrebbe essere legittimo chiedersi se le relative constatazioni siano ancora pienamente pertinenti dopo sei anni. Occorre anche osservare che, all’udienza del 27 febbraio 2020, il governo francese ha dichiarato di disporre di una valutazione assai diversa della situazione in Somalia. Tali problematiche costituiscono tuttavia, in definitiva, questioni che devono essere definite dal giudice del rinvio.

( 38 ) V. punto 38 della domanda di pronuncia pregiudiziale del 22 marzo 2019.

( 39 ) Corte EDU, RH c. Svezia, 10 settembre 2015, CE:ECHR:2015:0910JUD000460114, § 73.

( 40 ) V. punto 49 della domanda di pronuncia pregiudiziale del 22 marzo 2019.

( 41 ) Conclusioni dell’avvocato generale Mazák nella causa Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2009:551, paragrafo 54).

( 42 ) I paragrafi 2 e 3 di tale articolo recepiscono le disposizioni dell’articolo 7 della direttiva qualifiche.

( 43 ) Il corsivo è mio.

( 44 ) Corte EDU, 10 settembre 2015, RH c. Svezia, CE:ECHR:2015:0910JUD00460114.

( 45 ) O’Sullivan M., «Acting the Part: Can Non‑State Entities Provide Protection Under International Refugee Law?», International Journal of Refugee Law, vol 24, Oxford University Press, 2012, 98 – 108.

( 46 ) Il riferimento da parte del governo del Regno Unito al punto 249 della sentenza della Corte EDU, del 28 novembre 2011, Sufi e Elmi c. Regno Unito CE:ECHR:2011:0628JUD000831907 non è, a mio avviso, direttamente pertinente. In tale causa la Corte EDU ha considerato che era probabilmente rara la possibilità che talune persone legate in via eccezionale a «soggetti potenti» di Mogadiscio potessero ottenere protezione e vivere in tutta sicurezza nel territorio della città, poiché solo coloro che presentavano connessioni a un livello più elevato sarebbero stati in grado di permettersi siffatta protezione. Essa ha altresì rilevato che un richiedente che non si trovava in Somalia da un certo tempo difficilmente disponeva dei contatti necessari per garantirgli protezione al suo ritorno. Tale Corte ha quindi concluso che la violenza a Mogadiscio è di intensità tale che chiunque in città, salvo eventualmente coloro che sono legati in via eccezionale a «soggetti potenti», correrebbe un rischio reale di trattamento vietato dall’articolo 3 CEDU. Lo stesso governo del Regno Unito ha riconosciuto, all’udienza del 27 febbraio 2020, che OA non si era recato in Somalia per 25 anni, e che non vi sono indicazioni del fatto che egli rientrasse in tale categoria privilegiata di persone. In ogni caso, come ho già rilevato, il criterio dell’articolo 3 CEDU è separato e distinto dalla questione del diritto a beneficiare dello status di rifugiato alla luce del testo dell’articolo 7 della direttiva.

( 47 ) Corte EDU, 10 settembre 2015, RH c. Sweden, CE:ECHR:2015:0910JUD00460114..

( 48 ) Al punto 56 della sentenza del 10 settembre 2015, RH c. Svezia, CE:ECHR:2015:0910JUD00460114), la Corte EDU ha dichiarato che «[l]’espulsione da parte di uno Stato contraente può dar luogo ad una questione ai sensi dell’articolo 3, e quindi far sorgere la responsabilità di tale Stato ai sensi della [CEDU], qualora sussistano fondati motivi per ritenere che la persona interessata, in caso di espulsione, correrebbe un rischio concreto di essere sottoposta, nel paese ospitante, a trattamenti contrari all’articolo 3. In tal caso l’articolo 3 implica l’obbligo di non procedere all’espulsione verso tale paese della persona di cui trattasi (Tarakhel c. Svizzera [GC], n. 29217/12, § 93, CEDU 2014, e ulteriori riferimenti)». Al punto 57 di tale sentenza la Corte EDU ha dichiarato che «dato il carattere assoluto del diritto garantito, l’articolo 3 della [CEDU] può essere anche applicato nei casi in cui il pericolo proviene da persone o gruppi di persone che non sono funzionari pubblici. Tuttavia, si deve dimostrare che il rischio è reale e che le autorità dello Stato ospitante non sono in grado di ovviare al rischio offrendo una protezione adeguata».

( 49 ) La Corte EDU ha esaminato anzitutto la situazione a Mogadiscio e ha constatato che nulla indicava che la situazione fosse tale da sottoporre tutte le persone presenti in città a un rischio reale di trattamenti contrari all’articolo 3. La Corte EDU ha quindi esaminato la situazione personale della ricorrente.

( 50 ) V. punto 72 in cui la Corte EDU ha espresso seri dubbi quanto alla veridicità delle dichiarazioni della ricorrente.

( 51 ) Come esposto sinteticamente dalla Court of Appeal for England and Wales, «dovrebbe esistere semplicemente un requisito di simmetria tra la concessione e la cessazione dello status di rifugiato». V. Secretary of State for the Home Department c. MA (Somalia) [2018] EWCA Civ 994, [2019] 1 Weekly Law Reports 241, paragraph 47, per Arden L.J.

( 52 ) Ai punti da 65 a 70 della sentenza. Il corsivo è mio.

( 53 ) Conformemente all’articolo 7 e all’articolo 11, paragrafo 1, lettera e), della direttiva qualifiche.

( 54 ) Al punto 73 della sentenza del 2 marzo 2010, Salahadin Abdulla e a. (C‑175/08, C‑176/08, C‑178/08 e C‑179/08, EU:C:2010:105), la Corte ha dichiarato che «[i]l cambiamento delle circostanze ha “un significato e una natura non temporanea” ai sensi dell’articolo 11, paragrafo 2, della direttiva, quando si possa considerare che gli elementi alla base dei timori del rifugiato di essere perseguitato siano stati eliminati in modo duraturo».

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