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Document 61995CC0117

Conclusioni dell'avvocato generale Fennelly del 6 giugno 1996.
Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana.
Inadempimento - Direttiva 92/35/CEE - Direttiva 92/40/CEE - Mancata attuazione entro il termine prescritto.
Causa C-117/95.

Raccolta della Giurisprudenza 1996 I-04689

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1996:227

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

NIAL FENNELLY

presentate il 6 giugno 1996 ( *1 )

1. 

La causa in esame potrebbe definirsi come un ricorso per un inadempimento parzialmente non contestato. L'Italia, pur ammettendo di non aver ancora adottato provvedimenti specificamente destinati a dare attuazione alle direttive in argomento, ha sostenuto nel controricorso che una legge del 1954 contiene disposizioni corrispondenti a quelle delle due direttive. Viste le particolari circostanze del caso di specie, si pone la questione della ricevibilità del ricorso della Commissione.

I — Fatti e procedimento

2.

I termini per l'adozione delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva del Consiglio 29 aprile 1992, 92/35/CEE, che fissa le norme di controllo e le misure di lotta contro la peste equina ( 1 ), e della direttiva del Consiglio 19 maggio 1992, 92/40/CEE, che istituisce delle misure comunitarie di lotta contro l'influenza aviaria ( 2 ) (in prosieguo: le «direttive»), sono scaduti, in entrambi i casi, il 31 dicembre 1992, ai sensi del n. 1 degli artt. 20 e, rispettivamente, 22 delle direttive. La Commissione, non essendo stata informata dell'adozione di provvedimenti di attuazione, come previsto dal n. 2 di ciascuno dei detti articoli, ha invitato il governo italiano, con lettera 12 marzo 1993, a trasmetterle una tabella completa e dettagliata di tali provvedimenti; tale lettera non ha avuto alcuna risposta.

3.

Il 2 maggio 1994 la Commissione ha inviato al governo italiano un parere motivato ai sensi dell'art. 169 del Trattato. Tale parere precisava gli obblighi incombenti agli Stati membri in forza del terzo comma dell'art. 189 del Trattato, il quale stabilisce che «la direttiva vincola lo Stato membro (...) per quanto riguarda il risultato da raggiungere», e del primo comma dell'art. 5 del Trattato, che impone agli Stati membri di adottare «tutte le misure (...) atte ad assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal presente Trattato ovvero determinati dagli atti delle istituzioni della Comunità». La Commissione ha sostenuto che, in mancanza di informazioni in senso contrario, essa doveva supporre «che lo Stato membro non [avesse] ancora adottato i provvedimenti [necessari]» per conformarsi alle direttive ed era quindi venuto meno agli obblighi ad esso incombenti.

4.

Il 29 luglio 1994 la rappresentanza permanente d'Italia ha comunicato alla Commissione che il recepimento delle due direttive era stato inserito nella legge comunitaria annuale per il 1993 ed era quindi in fase di predisposizione.

5.

Il 22 febbraio 1995 la Commissione ha avviato il presente procedimento. Nell'atto introduttivo del ricorso ha chiesto alla Corte di «dichiarare che la Repubblica italiana, non adottando entro il termine stabilito le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alle direttive (...), ha mancato agli obblighi ad essa incombenti in virtù del Trattato».

6.

Nel controricorso il governo italiano ha fatto valere, per la prima volta, il decreto del presidente della Repubblica 8 febbraio 1954, n. 320, che stabilisce norme generali di polizia veterinaria (in prosieguo: il «DPR n. 320/54») ( 3 ). Secondo il detto governo, le norme contenute nel DPR n. 320/54 «rispecchiano», oltre alle finalità perseguite dal legislatore comunitario, anche le specifiche disposizioni delle direttive. Poiché il governo italiano intendeva emanare provvedimenti speciali per la peste equina e per l'influenza aviaria, il DPR n. 320/54 non era stato comunicato alla Commissione come strumento di attuazione. Avendo però la Commissione adito la Corte, il governo italiano ha deciso di addurre il DPR n. 320/54 come mezzo di attuazione parziale delle direttive, attuazione che esso confida di perfezionare, prima della decisione della presente causa, con l'approvazione dei provvedimenti in corso. Il governo italiano conclude tuttavia accettando espressamente che la Corte dichiari un inadempimento per inesatta trasposizione delle direttive.

7.

Nella replica la Commissione si è detta «sorpresa» del fatto che le autorità italiane abbiano fatto valere in quella fase la preesistenza di disposizioni nazionali che attuano parzialmente le direttive in argomento. Ciononostante, essa ha tenuto ferme le proprie conclusioni volte a far dichiarare alla Corte che la Repubblica italiana non ha adottato le disposizioni necessarie per conformarsi agli obblighi ad essa incombenti in forza delle direttive (in corsivo nel testo originale). La Commissione ha inoltre rilevato che non è stato contestato, né nella fase precontenziosa né nel controricorso dell'Italia, che tali disposizioni non sono ancora state adottate.

8.

Nella controreplica il governo italiano afferma che la prossima entrata in vigore dei (nuovi) regolamenti attuativi sanerà gli «inadempimenti contestati» ( 4 ) ed esprime l'auspicio che la Commissione rinunci al ricorso proposto.

II — Nel merito

9.

Il primo punto da chiarire nella causa in esame è quale sia l'esatta portata della declaratoria chiesta alla Corte dalla Commissione. Nel parere motivato così come nel ricorso la Commissione si è riferita alla mancata adozione da parte della Repubblica italiana dei necessari provvedimenti. In entrambi i casi essa intendeva dire, chiaramente, che l'Italia non aveva adottato nessuna delle disposizioni necessarie per conformarsi alle direttive. La Commissione non ha fatto alcuna menzione della possibilità di un'attuazione parziale.

10.

La replica della Commissione al controricorso dell'Italia appare di gran lunga meno chiara; in particolare, essa non si pronuncia affatto sulla questione se, e in quale misura, la normativa italiana possa considerarsi già conforme alle direttive, in virtù del DPR n. 320/54. La Commissione, sottolineando i termini «le misure necessarie», sembra aver modificato la propria domanda, nel senso che la Repubblica italiana non avrebbe completamente attuato le direttive, anziché aver completamente omesso di attuarle. La Commissione ammette così implicitamente l'eventualità che il DPR n. 320/54 possa costituire un'attuazione parziale delle direttive ( 5 ); la mancata piena attuazione delle direttive da parte della Repubblica italiana è quindi l'unico punto che si può considerare pacifico.

11.

Secondo me, in mancanza di ogni precisazione al riguardo da parte della Commissione e alla luce del fatto che l'Italia ha fatto valere talune disposizioni preesistenti, la Corte non dovrebbe partire dal presupposto che la Commissione continui a far carico alla Repubblica italiana di avere completamente omesso di attuare le direttive in ogni loro parte. Conseguentemente, a mio parere, si deve considerare che la Commissione ha ristretto la portata della declaratoria perseguita nel senso che la Repubblica italiana non ha dato attuazione a tutte le disposizioni delle direttive.

12.

In tali circostanze occorre valutare la ricevibilità del ricorso proposto dalla Commissione; benché la questione non sia stata sollevata dal governo italiano nel controricorso, la Corte può — e, a mio parere, nel caso di specie deve — esaminarla d'ufficio ( 6 ). Secondo una giurisprudenza costante della Corte, «l'oggetto del ricorso ai sensi dell'art. 169 del Trattato è determinato dal procedimento precontenzioso previsto dallo stesso articolo. Pertanto l'atto introduttivo del ricorso non può essere basato su addebiti diversi da quelli formulati nel parere motivato» ( 7 ). Nel caso di specie il parere motivato e il ricorso della Commissione sono stati redatti senza che fosse nota l'esistenza del DPR n. 320/54, e non è affatto evidente che l'attuale addebito della Commissione rispetti il diritto alla difesa sancito dall'art. 169 del Trattato. Inoltre, l'esatta portata della mancata attuazione delle direttive contestata all'Italia non è stata determinata con sufficiente precisione in nessuna delle fasi del procedimento dinanzi alla Corte.

A — La fase precontenziosa del procedimento

13.

In passato la Corte ha ammesso che la Commissione possa modificare la propria domanda di declaratoria in fase di replica al controricorso dello Stato membro per tener conto di nuovi elementi successivi, pur essendole ovviamente consentito di restringere e non mai di ampliare la domanda iniziale. Nella causa C-132/94, Commissione/Irlanda (in prosieguo: la «sentenza Commissione/Irlanda») ( 8 ), ad esempio, la Commissione ritirò la propria domanda nei limiti in cui riguardava parte della direttiva controversa che era stata oggetto del parere motivato e del ricorso ex art. 169, in quanto aveva riconosciuto che lo Stato membro convenuto aveva nel frattempo adottato alcune delle misure necessarie. La Corte accolse la domanda modificata con cui la Commissione le aveva chiesto di dichiarare che, «omettendo di porre in essere tutte le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative necessarie per conformarsi alla direttiva», l'Irlanda era venuta agli obblighi ad essa incombenti ai sensi della direttiva medesima (il corsivo è mio).

14.

Tuttavia, nei casi in cui la modifica della domanda della Commissione dia luogo ad una richiesta di declaratoria diversa, nella sua natura e non solo nel suo oggetto, dai termini usati nel parere motivato, la Corte considera irricevibile la domanda modificata. È stato questo il caso nella sentenza 25 aprile 1996, causa C-274/93, Commissione/Lussemburgo (in prosieguo: la «sentenza Commissione/Lussemburgo») ( 9 ). In quell'occasione la Commissione non aveva ricevuto alcuna risposta alla lettera di diffida e al parere motivato e il governo lussemburghese non aveva depositato un controricorso; tuttavia, due settimane circa dopo la presentazione del ricorso, il Lussemburgo notificò alla Commissione il testo di una legge nazionale adottata alcuni anni prima che venisse emanata la direttiva e che disciplinava alcuni dei punti da questa trattati. La Commissione chiese alla Corte di pronunciare una sentenza contumaciale ai sensi dell'art. 94, n. 1, del regolamento di procedura della Corte, modificando tuttavia il tenore iniziale della domanda volta a far constatare la mancata adozione dei provvedimenti necessari e chiedendo alla Corte di dichiarare che «il Granducato di Lussemburgo, non emanando nei termini prescritti tutti i provvedimenti necessari per conformarsi alla direttiva (...) [era] venuto meno agli obblighi incombentigli ai sensi dell'art. 25 della direttiva e degli artt. 5 e 189 del Trattato CE» ( 10 ).

15.

La Corte ha considerato che la Commissione le chiedeva, a quel punto, «di accertare dopo aver esaminato la legge lussemburghese la trasposizione lacunosa, e quindi insufficiente, della direttiva, mentre la Commissione nel ricorso aveva fatto valere (...) la mancata attuazione della direttiva e la mancata comunicazione dei provvedimenti attuativi» ( 11 ). La Corte non ha accolto tale domanda. Nella sentenza essa ha formulato una considerazione che riveste un interesse particolare per la causa in esame, dichiarando che «tale accertamento richiederebbe una disamina approfondita della legge lussemburghese [da parte della Corte] al fine di verificare quali disposizioni della direttiva non [erano] state trasposte correttamente. (...) La Corte può però affrontare una tale disamina solo sulla base di un procedimento precontenzioso che consenta allo Stato membro convenuto di pronunciarsi sulle censure della Commissione relative all'insufficiente trasposizione di talune singole disposizioni della direttiva» ( 12 ). Poiché lo svolgimento del procedimento precontenzioso non aveva consentito al Lussemburgo di pronunciarsi su quelle specifiche censure, la Corte ha dichiarato il ricorso irricevibile.

16.

Appare difficile operare una distinzione pertinente tra le circostanze in esame nella sentenza Commissione/Lussemburgo e quelle del caso di specie in ordine alle conseguenze della modificazione apportata dalla Commissione alla sua domanda. In entrambi i casi la Commissione è stata in effetti colta di sorpresa, rispetto alle sue conclusioni volte a far constatare la completa mancata trasposizione, dal richiamo tardivo a disposizioni nazionali preesistenti di cui non era a conoscenza. Nemmeno l'assenza di una qualsiasi risposta da parte di uno Stato membro nel corso della fase precontenziosa o la mancata presentazione di una difesa potevano far venir meno, in circostanze del genere, la tutela garantita a tale Stato dal procedimento precontenzioso. Data la gravità delle implicazioni di una dichiarazione della Corte secondo cui uno Stato membro è venuto meno agli obblighi ad esso imposti da una direttiva, dichiarazione che può costituire il «fondamento della responsabilità eventualmente incombente allo Stato membro a causa dell'inadempimento» ( 13 ), deve essere, a mio parere, tassativamente consentito allo Stato membro, nella fase precontenziosa del procedimento, di contestare la censura della Commissione relativa ad un'attuazione lacunosa anziché alla completa mancata attuazione.

17.

Non si può quindi, secondo me, chiedere alla Corte di dichiarare che uno Stato membro è venuto parzialmente meno ai suoi obblighi in circostanze in cui tale Stato non ha avuto modo di esprimersi sull'analisi compiuta dalla Commissione in ordine alla portata di quell'inadempimento. Ciò deriva dal primo comma dell'art. 169 del Trattato, ai sensi del quale la Commissione può emettere un parere motivato soltanto quando lo Stato membro sia stato posto in condizioni di presentare le sue osservazioni su quetta questione e non su una questione distinta, ancorché ad essa connessa. Come ha osservato la Corte nell'ordinanza 11 luglio 1995, causa C-266/94, Commissione/Spagna (Racc. pag. I-1975), «la regolarità del procedimento precontenzioso costituisce una garanzia essenziale, prevista dal Trattato (...) per garantire che l'eventuale procedimento contenzioso verta su una controversia chiaramente definita. (...) solo muovendo da un procedimento precontenzioso regolare il procedimento contraddittorio dinanzi alla Corte consentirà a quest'ultima di stabilire se lo Stato membro sia effettivamente venuto meno agli obblighi precisi che la Commissione sostiene esso abbia violato» ( 14 ).

18.

A mio avviso, le circostanze del caso di specie differiscono sensibilmente, per le stesse ragioni esposte dalla Corte nella sentenza Commissione/Lussemburgo, da quelle della causa Commissione/Irlanda. In effetti la Commissione, riconoscendo che l'Irlanda aveva adottato alcuni provvedimenti attuativi, ha mantenuto le proprie conclusioni soltanto in relazione a quelle disposizioni della direttiva che riguardavano il pesce e i prodotti della pesca cui l'Irlanda non sosteneva aver dato attuazione. Si può quindi considerare che il procedimento dinanzi alla Corte aveva un oggetto chiaramente definito in merito al quale non vi erano contestazioni; benché tale oggetto fosse diverso da quello della fase precontenziosa e della domanda giudiziale della Commissione, lo Stato membro convenuto aveva avuto la possibilità, nella fase precontenziosa, di presentare le proprie osservazioni su tutti gli inadempimenti contestatigli, tra cui l'inosservanza dell'obbligo ad esso incombente di istituire controlli veterinari sul pesce e sui prodotti della pesca. Nella causa Commissione/Lussemburgo, invece, lo Stato membro convenuto non aveva avuto modo, prima dell'inizio della fase contenziosa, di presentare le proprie considerazioni sulla censura della Commissione secondo cui le disposizioni nazionali non assicuravano la trasposizione della direttiva in argomento.

19.

La distinzione fondamentale risiede a mio parere nella definizione del mancato adempimento da parte dello Stato membro degli obblighi ad esso incombenti, sul quale verte l'atto introduttivo del ricorso. Nei casi in cui la portata e la natura dell'effettivo adempimento e, pertanto, dell'asserito inadempimento sussistente non sono controversi, nulla osta a che la Commissione restringa l'ambito della sua domanda iniziale; in tali circostanze lo Stato membro ha avuto modo di contestare quel particolare inadempimento nei termini circoscritti dal parere motivato. Nei casi in cui la portata e la natura dell'inadempimento contestato sono incerte, deve essere data allo Stato membro la possibilità, anche se esso è proceduralmente in difetto o non contesta l'inadempimento, di presentare le proprie osservazioni in merito ad un parere motivato volto a dimostrare la sussistenza dell'inadempimento, prima che la Corte possa con piena cognizione di causa esaminare se lo Stato membro abbia o meno trasgredito gli obblighi ad esso imposti dal Trattato.

20.

In nessuna delle fasi del presente procedimento la Commissione ha presentato «un'esposizione coerente e particolareggiata dei motivi che [1]'hanno condotta alla convinzione» che l'Italia è venuta meno agli obblighi impostile dalle direttive a prescindere dall'esistenza del DPR n. 320/54, esposizione alla quale è preordinato il parere motivato ( 15 ) e in base alla quale l'Italia avrebbe potuto formulare le proprie osservazioni. In queste circostanze sono del parere che il ricorso della Commissione debba essere dichiarato irricevibile.

B — Impressione della domanda della Commissione

21.

Anche qualora il primo argomento a sostegno dell'irricevibilità della domanda modificata della Commissione potesse essere in qualche modo confutato, la Corte rimarrebbe, a mio parere e per ragioni connesse, nell'impossibilità di pronunciarsi nel merito, a causa della mancata individuazione da parte della Commissione degli obblighi imposti dalle direttive che l'Italia non avrebbe rispettato. L'esigenza che la Commissione formuli addebiti specifici circa la violazione da parte di uno Stato membro degli obblighi ad esso incombenti è inerente alla natura stessa del procedimento ex art. 169 ed è stata sottolineata dalla Corte, ad esempio, nell'ordinanza Commissione/Spagna ( 16 ). Anche se il DPR n. 320/54 è stato portato alla sua attenzione ad uno stadio molto avanzato del procedimento, la Commissione avrebbe potuto fornire qualche indicazione circa la sua incidenza sulle materie disciplinate dalle direttive. Per giurisprudenza costante, «nell'ambito di un procedimento ai sensi dell'art. 169 (...) l'onere di provare l'esistenza dell'inadempimento allegato incombe alla Commissione. È questa che deve fornire alla Corte gli elementi necessari per l'accertamento, da parte di quest'ultima, di tale inadempimento, esclusa [per la Commissione] ogni possibilità di basarsi su presunzioni» ( 17 ); nel caso di specie, incombeva pertanto alla Commissione l'onere di dimostrare la portata della mancata attuazione delle direttive da parte dell'Italia.

22.

Le circostanze del caso di specie sono, se mai, ancor più estreme di quelle della causa Commissione/Lussemburgo, nell'ambito della quale la Commissione aveva cercato di individuare alcune disposizioni della direttiva che non erano state trasposte nel diritto nazionale e l'avvocato generale Jacobs aveva svolto un'analisi comparativa sistematica della legge lussemburghese preesistente, della direttiva e della domanda modificata della Commissione ( 18 ). Nella replica depositata nel presente procedimento la Commissione si è limitata ad esprimere la propria sorpresa dinanzi al comportamento del governo italiano, senza procedere ad alcun esame delle disposizioni richiamate nel controricorso dell'Italia; benché le parti concordino sul fatto che le direttive non sono state correttamente attuate, non è stata fornita alla Corte alcuna indicazione sulla portata di tale omissione.

23.

Ritengo inoltre che nessuna delle possibili pronunce della Corte sulle questioni di merito, così come le sono state sottoposte nel caso di specie, potrebbe consentire la realizzazione delle finalità perseguite dal procedimento ex art. 169. Queste finalità risiedono, come ha esposto la Corte nella sentenza 7 febbraio 1979, cause riunite 15/76 e 16/76, Francia/Commissione, nel «far accertare e far cessare il comportamento di uno Stato membro che sia in contrasto col diritto comunitario» ( 19 ). Qualora la Corte dichiarasse che uno Stato membro ha parzialmente omesso di attuare una direttiva in circostanze in cui non è individuabile la portata di tale inadempimento, lo Stato membro non sarà in grado di individuare i provvedimenti «che l'esecuzione della sentenza (...) comporta», ai sensi dell'art. 171, n. 1, del Trattato. Dal canto suo, la Commissione non potrà adeguatamente attivare il meccanismo previsto dall'art. 171, n. 2, del Trattato, come modificato in seguito al Trattato sull'Unione europea, qualora la prima pronuncia della Corte non definisse la questione della portata dell'inadempimento.

24.

Seppure il fatto che uno Stato membro possa riuscire a ritardare l'esame da parte della Commissione e della Corte della compatibilità della sua normativa ricorrendo a tattiche come quelle seguite nel caso di specie possa apparire contrastante con ciò che l'avvocato generale Jacobs, nella causa Commissione/Lussemburgo, ha definito «i principi di economia processuale e di buona amministrazione della giustizia» ( 20 ), è importante ricordare che «la ricevibilità di un'azione ai sensi dell'art. 169 del Trattato dipende dal semplice accertamento obiettivo della trasgressione» indipendentemente da «qualsivoglia inerzia od opposizione da parte dello Stato membro interessato» ( 21 ). Come ha osservato l'avvocato generale Roemer nella causa 7/71, Commissione/Francia, nel «procedimento di cui all'art. 169 del Trattato CEE (...) non si deve dare un giudizio morale o di condanna, ma semplicemente chiarire una situazione giuridica» ( 22 ). Nel caso di specie, in nessuna delle varie fasi è stata presentata dalla Commissione un'analisi degli obblighi imposti all'Italia dalle direttive alla luce del DPR n. 320/54, e ritengo che, in queste circostanze, la Corte non sia in grado di chiarire la situazione giuridica, per le ragioni menzionate nella causa Commissione/Lussemburgo ( 23 ).

25.

Non intendo negare la forza degli argomenti esposti dall'avvocato generale Jacobs nelle conclusioni per la causa Commissione/Lussemburgo, sopra citate ( 24 ), soprattutto in ordine al possibile incentivo, in circostanze del genere, per gli Stati membri «a produrre testi di legge solo in una fase molto avanzata, sperando che la conseguente modificazione della domanda da parte della Commissione renda irricevibile il ricorso» ( 25 ). Tuttavia, si deve riconoscere che uno Stato membro non può essere costretto, nell'ambito del sistema giurisdizionale del Trattato, a presentare una difesa nel procedimento ex art. 169, né può essergli preclusa la possibilità di presentarla dopo la conclusione del procedimento precontenzioso. Qualora lo Stato membro non potesse far valere argomenti siffatti dopo la proposizione del ricorso dinanzi alla Corte, la Commissione potrebbe in effetti «stabilire in modo definitivo (...) i diritti e gli obblighi dello Stato membro interessato (...) [mentre secondo] il sistema istituito dagli artt. 169-171 del Trattato, la determinazione dei diritti e degli obblighi degli Stati membri e il giudizio sul loro comportamento possono risultare unicamente da una sentenza della Corte» ( 26 ).

26.

Nel caso di specie la Commissione avrebbe avuto ogni possibilità di inserire in via subordinata, nel proprio ricorso per inadempimento, una domanda volta a far dichiarare che l'Italia, in violazione rispettivamente degli artt. 20 e 22 delle direttive e/o dell'art. 5 del Trattato, aveva omesso di comunicarle i provvedimenti nazionali in materia ( 27 ) come ho già osservato in precedenza ( 28 ), la Commissione ha dedotto, dal silenzio della Repubblica italiana, che non esistessero provvedimenti del genere ed ha quindi omesso di inserire una domanda siffatta nell'atto introduttivo del ricorso.

27.

Per completezza, vorrei aggiungere che non mi pare particolarmente significativo il fatto che lo Stato membro convenuto abbia espressamente concluso chiedendo alla Corte di dichiarare che le direttive non erano state correttamente trasposte. In primo luogo, si tratta di una logica conseguenza della sua difesa fondata su un adempimento parziale mediante il DPR n. 320/54, indipendentemente dal fatto che lo Stato membro convenuto concluda espressamente in tal senso. In secondo luogo, il governo italiano non ha fornito alcuna indicazione sulla misura in cui le direttive possono, a suo parere, considerarsi trasposte ex ante, per così dire, dal decreto. Infine, come ho già osservato, il procedimento ex art. 169 è di natura obiettiva e la Corte non è tenuta a prendere in considerazione le ammissioni della parte convenuta; così, nella sentenza 7 marzo 1996, causa C-334/94, Commissione/Francia ( 29 ), la Corte ha esaminato nei dettagli gli addebiti della Commissione, prendendo in considerazione anche quelli che non erano stati contestati dal governo francese.

28.

Ritengo pertanto che il ricorso proposto dalla Commissione vada dichiarato irricevibile. Per quanto riguarda le spese, la mancanza di collaborazione da parte del governo italiano è stata palese e ha determinato il malinteso che ha indotto la Commissione a proporre il ricorso su basi errate. Propongo pertanto che, come nella sentenza Commissione/Lussemburgo, tutte le spese del procedimento siano poste a carico dello Stato membro convenuto.

III — Conclusione

29.

Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo che la Corte:

«1)

dichiari il ricorso della Commissione irricevibile, e

2)

condanni la Repubblica italiana alle spese».


( *1 ) Lingua originale: l'inglese.

( 1 ) GU L 157, pag. 19.

( 2 ) GU L 167, pag. 1.

( 3 ) Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana del 24 giugno 1954, n. 142, Supplemento ordinario.

( 4 ) La presente nota non riguarda la versione italiana.

( 5 ) L'alternativa sarebbe di interpretare la replica della Commissione nel senso che essa mantiene la censura originaria secondo la quale l'Italia non ha in alcun modo adempiuto gli obblighi ad essa spettanti in forza delle direttive, e di ignorare del tutto l'esistenza del DPR n. 320/54.

( 6 ) V., ad esempio, sentenza 31 marzo 1992, causa C-362/90, Commissione/Italia (Racc. pag. I-2353, punto 8).

( 7 ) V. sentenza 12 gennaio 1994, causa C-296/92, Commissione/ Italia (Racc. pag. I-1, punto 11), che richiama a sua volta le sentenze 11 maggio 1989, causa 76/86, Commissione/Germania (Racc. pag. 1021, punto 8), e 17 novembre 1992, causa C-157/91, Commissione/Paesi Bassi (Racc. pag. I-5899, punto 17).

( 8 ) Sentenza 14 dicembre 1995 (Racc. pag. I-4789, punto 9).

( 9 ) Racc. pag. I-2019.

( 10 ) Punto 7 della sentenza.

( 11 ) Punto 10 della sentenza.

( 12 ) Punti 12 c 13 della sentenza.

( 13 ) Sentenza 7 febbraio 1973, causa 69/72, Commissione/Italia (Racc. pag. 101, punto 11); v. anche sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357), c 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93, Brasserie du pêcheur c Factortamc (Racc. pag. I-1029).

( 14 ) Punti 17 c 18 dell'ordinanza.

( 15 ) V. sentenza 28 marzo 1985, causa 274/83, Commissione/ Italia (Race. pag. 1077, punto 21).

( 16 ) Citata supra in nota 14, punto 18 dell'ordinanza.

( 17 ) Sentenza 25 maggio 1982, causa 96/81, Commissione/Paesi Bassi (Race. pag. 1791, punto 6).

( 18 ) Causa C-274/93, citata supra in nota 9, paragrafi 15-46 delle conclusioni dell'avvocato generale.

( 19 ) Racc. pag. 321, punto 27.

( 20 ) Conclusioni presentate il 23 novembre 1995, paragrafo 12.

( 21 ) Sentenza 1o marzo 1983, causa 301/81, Commissione/Belgio (Racc. pag. 467, punto 8).

( 22 ) Racc. 1971, pag. 1003, in particolare pag. 1032.

( 23 ) Punti 12 c 13 della sentenza.

( 24 ) V. paragrafo 24 delle presenti conclusioni.

( 25 ) Citata supra in nota 9, paragrafo 12 delle conclusioni.

( 26 ) Sentenza 27 maggio 1981, cause riunite 142/80 c 143/80, Essevi e Salcngo (Race. pag. 1413, punto 16).

( 27 ) Come fa di frequente nei ricorsi ex art. 169; v., ad esempio, sentenza 2 maggio 1996, causa C-234/95, Commissione/Francia (Racc. pag. II-2415, punto 1).

( 28 ) Paragrafo 5 delle presenti conclusioni.

( 29 ) Race. pag. I-1307, punti II-24.

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