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Document 61990CC0159

Conclusioni dell'avvocato generale Van Gerven del 11 giugno 1991.
Society for the Protection of Unborn Children Ireland Ltd contro Stephen Grogan e altri.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: High Court - Irlanda.
Libera circolazione dei servizi - Divieto di diffondere informazioni su cliniche che praticano interruzioni volontarie della gravidanza in altri Stati membri.
Causa C-159/90.

Raccolta della Giurisprudenza 1991 I-04685

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1991:249

61990C0159

Conclusioni dell'avvocato generale Van Gerven dell'11 giugno 1991. - THE SOCIETY FOR THE PROTECTION OF UNBORN CHILDREN IRELAND LTD CONTRO STEPHEN GROGAN E ALTRI. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: HIGH COURT - IRLANDA. - LIBERA CIRCOLAZIONE DEI SERVIZI - DIVIETO DI DIFFONDERE INFORMAZIONI IN ORDINE A CLINICHE CHE EFFETTUANO INTERRUZIONI VOLONTARIE DI GRAVIDANZA IN ALTRI STATI MEMBRI. - CAUSA C-159/90.

raccolta della giurisprudenza 1991 pagina I-04685
edizione speciale svedese pagina 00019
edizione speciale finlandese pagina I-00445


Conclusioni dell avvocato generale


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Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. Le questioni pregiudiziali sottoposte dalla High Court di Dublino (in prosieguo: il "giudice nazionale") si inseriscono nell' ambito di un procedimento che la Society for the Protection of Unborn Children Ireland Ltd (in prosieguo: la "SPUC" o "attrice nella causa principale") ha avviato contro un certo numero di persone nella loro qualità di rappresentanti di una delle tre associazioni studentesche seguenti: the Union of Students in Ireland (in prosieguo: la "USI"), the University College Dublin Students Union (in prosieguo: la "UCDSU") e the Trinity College Dublin Students Union (in prosieguo: la "TCDSU").

Antefatti e contesto giuridico

2. La SPUC è una società di diritto irlandese, costituita per impedire la depenalizzazione dell' aborto e, più in generale, per tutelare i diritti della vita umana fin dal momento del concepimento.

L' UCDSU e la TCDSU pubblicano l' una e l' altra una guida diretta agli studenti. Sulla base dell' edizione precedente, l' edizione 1989/1990 di ciascuna delle guide annuali conteneva un capitolo d' informazioni destinate alle studentesse incinte. L' aborto vi è descritto come uno dei rimedi possibili in caso di gravidanza non voluta. Queste guide indicano a tal riguardo la denominazione, l' indirizzo ed il numero di telefono di alcune cliniche situate in Gran Bretagna dove la gravidanza può essere interrotta sotto controllo medico.

L' USI pubblica mensilmente una rivista studentesca intitolata "USI News". Il numero di febbraio 1989 contiene in particolare informazioni sulla possibilità di abortire in Gran Bretagna e sul modo di entrare in contatto con gli organismi che praticano tale operazione.

3. La controversia che oppone la SPUC ai rappresentanti delle associazioni di studenti dev' essere considerata nel contesto della normativa irlandese relativa all' aborto. Ai sensi dell' art. 58 dell' Offences Against the Person Act del 1861, la donna incinta che cerca di provocare un aborto in maniera illecita è perseguibile. L' art. 59 della legge dichiara anche perseguibile chiunque offra un' assistenza illecita a tal fine. Sulla base di queste disposizioni penali in particolare, i giudici irlandesi hanno riconosciuto il diritto alla vita del nascituro ("the right to life of the unborn") e ciò fin dal concepimento.

A seguito di un referendum organizzato nel 1983, il diritto alla vita del nascituro è stato esplicitamente inserito nella Costituzione irlandese. Il nuovo art. 40.3.3 di tale Costituzione è così formulato:

"The State acknowledges the right to life of the unborn and, with due regard to the equal right to life of the mother, guarantees in its laws to respect, and, as far as practicable, by its laws to defend and vindicate that right" (**).

Il 16 marzo 1988 la Supreme Court irlandese ha pronunciato, nella causa The Attorney General at the relation of Society for the Protection of Unborn Children (Ireland) Ltd / Open Door Counselling Ltd and Dublin Wellwoman Centre Ltd (1) una sentenza nella quale ha in particolare dichiarato:

"The court doth declare that the activities of the defendants, their servants or agents in assisting pregnant women within the jurisdiction to travel abroad to obtain abortions by referral to a clinic; by the making of their travel arrangements, or by informing them of the identity and location of and method of communication with a specified clinic or clinics are unlawful, having regard to the provisions of Article 40.3.3 of the Constitution" (il corsivo è mio) (***).

4. Nel settembre 1989, la SPUC ha richiamato l' attenzione delle associazioni studentesche soprammenzionate sulla sentenza di cui sopra della Supreme Court e ha loro chiesto di impegnarsi a non pubblicare nelle loro riviste nel corso dell' anno accademico 1989/1990 informazioni circa la denominazione e l' indirizzo di cliniche che praticano l' aborto e circa le modalità per entrare con esse in contatto. Le associazioni di studenti non hanno dato alcun seguito a tale domanda.

Il 25 settembre 1989 la SPUC conveniva i rappresentanti delle tre associazioni studentesche (in prosieguo: i "convenuti nella causa principale") dinanzi alla High Court e concludeva che quest' ultima volesse dichiarare qualsiasi pubblicazione delle informazioni di cui sopra incompatibile con l' art. 40.3.3 della Costituzione. Al tempo stesso, la SPUC avviava un procedimento per provvedimenti urgenti dinanzi allo stesso giudice, chiedendo a quest' ultimo di vietare, prima di pronunciarsi sul merito, la pubblicazione di tale tipo di informazioni per il futuro.

Nel corso del procedimento per provvedimenti urgenti, i convenuti nella causa principale hanno sostenuto che il diritto comunitario consente alle donne incinte residenti in Irlanda di recarsi in un altro Stato membro in cui l' aborto è autorizzato al fine di procurare l' interruzione della gravidanza in un istituto medico di tale paese. Essi hanno fatto notare inoltre che tale libertà derivante dal diritto comunitario comporta anche il diritto per le donne interessate di ottenere in Irlanda informazioni sulla denominazione e l' indirizzo delle cliniche che praticano l' aborto negli altri Stati membri e sul modo di entrare in contatto con queste ultime. Essi hanno infine sostenuto che in considerazione del diritto all' informazione di cui le donne incinte che abitano in Irlanda possono avvalersi, essi stessi possono derivare dal diritto comunitario il diritto di diffondere tale tipo di informazioni in Irlanda.

L' 11 ottobre 1989, la High Court ha deciso con ordinanza di sottoporre alla Corte un certo numero di questioni pregiudiziali - non ancora precisate in quel momento. Essa non si è tuttavia pronunciata sul divieto di pubblicare richiesto dalla SPUC. Quest' ultima ha interposto appello contro tale decisione dinanzi alla Supreme Court la quale, il 19 dicembre 1989, ha pronunciato il divieto di pubblicare richiesto finché non fosse intervenuta la decisione nel merito. Per il resto la Supreme Court non ha modificato la decisione della High Court di sottoporre un certo numero di questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia. Essa ha tuttavia riconosciuto alle parti il diritto di chiedere alla High Court di modificare, alla luce della sentenza con cui la Corte di giustizia si pronuncia in via pregiudiziale, il divieto di pubblicare pronunciato su istanza della SPUC.

5. Solo dopo la sentenza della Supreme Court, in data 5 marzo 1990, la High Court ha deciso, nel prolungamento della sua ordinanza dell' 11 ottobre 1989, di sottoporre alla Corte di giustizia le tre questioni pregiudiziali seguenti:

"1) Se un' attività organizzata o una pratica dirette a procurare l' aborto o l' interruzione della gravidanza per intervento medico rientrino nella definizione di 'servizi' contemplata nell' art. 60 del Trattato CEE.

2) Se, in mancanza di qualsiasi misura che stabilisca il ravvicinamento delle normative degli Stati membri relative alle attività organizzate o alle pratiche per procurare l' aborto o l' interruzione della gravidanza per intervento medico, uno Stato membro possa vietare la diffusione di specifiche informazioni sull' identità, l' ubicazione di una o più cliniche determinate di un altro Stato membro in cui vengono praticati aborti o sulle modalità per entrare con esse in contatto.

3) Se nel diritto comunitario un soggetto disponga del diritto di diffondere nello Stato membro A specifiche informazioni sull' identità, l' ubicazione di una o più determinate cliniche di uno Stato membro B in cui vengono praticati aborti e sulle modalità per entrare con esse in contatto, qualora il procurato aborto sia vietato dalla Costituzione e dalla legge penale dello Stato membro A, ma sia lecito, a determinate condizioni, nello Stato membro B".

Competenza della Corte

6. La Commissione rileva nelle sue osservazioni che non si distingue chiaramente se le questioni pregiudiziali siano state poste dalla High Court nell' ambito del procedimento per provvedimenti urgenti o nell' ambito del procedimento nel merito.

Ritengo, unitamente alla Commissione, che, nonostante la sentenza Pardini (2), tale incertezza non è tale da mettere in causa la competenza della Corte nel risolvere le questioni pregiudiziali. Anche se le questioni sono state poste nell' ambito del procedimento nel merito, esse sono certamente pertinenti per la decisione che il giudice nazionale deve emettere. Esse lo sono tuttavia anche se sono state poste nell' ambito del procedimento per provvedimenti urgenti. Certo, il provvedimento provvisorio richiesto è stato nel frattempo concesso dalla Supreme Court ma, dato che quest' ultima ha conferito alle parti la possibilità di ottenere dalla High Court che quest' ultima modifichi il provvedimento provvisorio che essa ha disposto dopo che la Corte avrà risolto le questioni pregiudiziali, queste ultime sono pertinenti anche in tale ipotesi.

7. L' attrice nella causa principale ed il governo irlandese ritengono che dalla causa principale non sorga alcun problema di diritto comunitario. Si tratta infatti di accertare se i convenuti, cioè i rappresentanti delle associazioniu di studenti, abbiano il diritto di diffondere le informazioni di cui trattasi tra le donne incinte. Dato che essi lo fanno gratuitamente e non intervengono in qualità di rappresentanti delle cliniche in cui si pratica l' aborto di cui essi forniscono i dati, non può trattarsi di un' attività economica ai sensi dell' art. 2 del Trattato CEE. Ad ogni modo, aggiungono l' attrice ed il governo irlandese, la diffusione delle informazioni fornite dai convenuti si limita al territorio irlandese e non presenta pertanto alcun carattere transfrontaliero, di modo che le disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi non trovano applicazione.

I convenuti nella causa principale non condividono tale opinione. Come ho indicato precedentemente (al punto 4), essi ritengono poter trarre dal diritto comunitario un diritto alla diffusione di informazioni che è il prolungamento del diritto all' informazione che deriva per le donne incinte residenti in Irlanda dalla libertà che è loro garantita dalle disposizioni del Trattato di ricevere servizi medici in altri Stati membri. Le informazioni fornite dai convenuti non possono pertanto essere dissociate dai servizi economici forniti in un altro Stato membro.

8. La tesi dei convenuti mi sembra corretta. Le questioni poste dal giudice nazionale hanno per oggetto che sia precisato se le attività delle cliniche che praticano l' aborto siano servizi ai sensi dell' art. 60 del Trattato CEE e, in caso affermativo, se le disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi si oppongano ad una normativa nazionale che vieta la diffusione di informazioni relative ad aborti praticati in un altro Stato membro. La seconda parte della questione riguarda quindi il rilascio di informazioni a donne incinte che risiedono in uno Stato membro ma che intendono eventualmente recarsi in un altro Stato membro per ivi ricevere servizi determinati. Così intesa, la questione non si riferisce ad attività "di cui tutti gli elementi rilevanti sono ristretti localmente all' interno di un solo Stato membro" (3). Il divieto fatto in Irlanda di fornire informazioni a tal riguardo può infatti avere come conseguenza di ridurre il numero di donne che conoscono l' esistenza e che quindi fanno uso dei servizi forniti nell' altro Stato membro. Questo divieto può quindi influenzare sfavorevolmente gli scambi intracomunitari di servizi (4). Le questioni sottoposte alla Corte hanno pertanto una dimensione di diritto comunitario.

Nozione di servizi ai sensi dell' art. 60 del Trattato CEE

9. Il giudice nazionale ha posto la sua prima questione al fine di accertare se "un' attività o una pratica dirette a procurare l' aborto o l' interruzione della gravidanza per intervento medico" debbano essere considerate come un servizio ai sensi dell' art. 60 del Trattato CEE.

Non vi è alcun dubbio, a mio parere che l' "interruzione della gravidanza per intervento medico" comporta un insieme di prestazioni che, quando esse sono fornite "normalmente dietro retribuzione" - il che nessuna delle parti contesta nella fattispecie -, costituiscono servizi ai sensi dell' art. 60 del Trattato CEE. La formulazione dell' art. 60, secondo comma, nel quale le "attività delle libere professioni" in particolare sono indicate come servizi indica già che la nozione di "servizi" comprende tali servizi. Nella sentenza Luisi e Carbone (5), la Corte ha del resto dichiarato esplicitamente (nel punto 16 della motivazione) che i "fruitori di cure mediche" devono essere considerati come destinatari di servizi ai sensi dell' art. 60. Inoltre, le professioni mediche e paramediche sono esplicitamente menzionate nel Trattato CEE all' art. 57, n. 3 (relativo alla libertà di stabilimento), al quale rinvia l' art. 66 (che si riferisce alla libera prestazione dei servizi).

10. Secondo la SPUC l' interruzione della gravidanza per intervento medico sfugge tuttavia al campo di applicazione dell' art. 60 poiché ha per effetto di distruggere la vita altrui, cioè il nascituro, il che in Irlanda è vietato dalla Costituzione, che tutela la vita prima della nascita (6) e che vieta l' aborto intenzionale. L' aborto intenzionale è vietato in via di principio anche negli altri Stati membri ma è tuttavia autorizzato, più precisamente nel corso del primo periodo della gravidanza, a talune condizioni e in talune circostanze specifiche, che differiscono da uno Stato membro all' altro. E' del resto consentito dedurre dalla terza questione posta dal giudice nazionale che quest' ultimo si riferisce ad una situazione nella quale il servizio di cui trattasi, a proposito del quale vengono diffuse informazioni in Irlanda, è fornito nell' altro Stato membro, nella fattispecie nel Regno Unito, alle condizioni ivi previste dalla legge.

Per tale motivo la questione che occorre esaminare nella fattispecie non è quella che è già stata trattata ripetutamente dalla giurisprudenza della Corte circa la libera circolazione delle merci (7), cioè se servizi illeciti esulino dal campo di applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla prestazione di servizi. Come risulta dalla questione pregiudiziale, si tratta nella fattispecie di servizi d' interruzione della gravidanza per intervento medico che, nel paese in cui sono forniti, lo sono in maniera legale (v. anche il punto 14 qui di seguito) e che presentano inoltre un carattere transfrontaliero, come è risultato sopra (al punto 8).

Propongo quindi di risolvere la prima questione nel modo seguente:

"L' intervento medico, normalmente praticato contro retribuzione, con il quale si pone fine alla gravidanza di una donna originaria di un altro Stato membro, nel rispetto della normativa dello Stato membro nel quale l' intervento è effettuato, è un servizio (transfrontaliero) ai sensi dell' art. 60 del Trattato CEE".

Portata e convergenza della seconda e della terza questione

11. La seconda questione del giudice nazionale riguarda il se, allo stato attuale della normativa comunitaria, uno Stato membro possa vietare la diffusione di informazioni dettagliate circa la denominazione e l' ubicazione di cliniche stabilite in un altro Stato membro nelle quali sono praticate interruzioni della gravidanza per intervento medico, e sul modo di entrare in contatto con queste cliniche. Se la si accosta alla prima questione, risulta che il giudice allude alle disposizioni relative alla circolazione dei servizi. Si tratta quindi di accertare se le disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi consentano ad uno Stato membro di impedire l' accesso a servizi medici di interruzione della gravidanza legalmente prestati in un altro Stato membro vietando che siano fornite informazioni relative a questi servizi.

12. La terza questione del giudice nazionale riguarda il se il diritto comunitario conferisca ad una persona residente in uno Stato membro A il diritto di diffondere le informazioni di cui sopra circa cliniche che praticano l' aborto in uno Stato membro B, qualora l' aborto sia vietato e dalla Costituzione e dal diritto penale dello Stato membro A ma sia lecito a talune condizioni nello Stato membro B. Dai documenti della causa principale risulta che si tratta di informazioni diffuse nello Stato membro A da persone che non percepiscono alcuna retribuzione per tale attività e che non hanno alcun legame con le cliniche stabilite nello Stato membro B. Il giudice nazionale si chiede se il diritto comunitario, cioè le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei servizi, conferisca a queste persone il diritto di diffondere le informazioni di cui sopra.

Esso inoltre intende accertare, il che spiega l' accento che pone sulla disparità tra la normativa dello Stato membro A (l' Irlanda) e la normativa dello Stato membro B (la Gran Bretagna) (8), se, nell' ipotesi in cui le disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi si oppongano ad un divieto d' informazione quale quello che ho appena descritto, la cosa sia diversa quando tale divieto risulta da disposizioni fondamentali collocate nella Costituzione e nel diritto penale del primo Stato membro. In altri termini esso si chiede se una tale disciplina nazionale possa tuttavia essere giustificata sulla base di considerazioni di natura imperativa o di ordine pubblico inserite nelle disposizioni costituzionali e penali dell' ordinamento giuridico nazionale.

13. Sia da quanto precede sia da quanto segue si comprende che le questioni pregiudiziali non riguardano direttamente la compatibilità con il diritto comunitario del divieto stesso che viene fatto alle donne incinte di abortire, ma la compatibilità con il diritto comunitario del divieto fatto ai terzi di prestare assistenza e, più precisamente, di fornire informazioni a donne incinte che intendono abortire in un altro Stato membro. Il divieto d' aborto è tuttavia indirettamente pertinente nella misura in cui esso è fatto valere per giustificare il divieto di diffondere le informazioni (v. su tale punto i paragrafi 26 e 33).

Le questioni pregiudiziali si riferiscono infatti al divieto di diffondere "specifiche informazioni sull' entità e l' ubicazione" di cliniche britanniche nelle quali sono praticati aborti e "sulle modalità per entrare con esse in contatto". Tale descrizione si avvicina strettamente alla formulazione utilizzata dalla Supreme Court irlandese nella sua sentenza Open Door Counselling, soprammenzionata (n. 3), nella quale essa ha dichiarato che sia il fatto di diffondere tali informazioni sia quello di indirizzare donne incinte verso cliniche stabilite all' estero che praticano l' aborto e il fatto di organizzare viaggi a tal fine sono considerati come un mezzo illecito di prestare assistenza a donne incinte che risiedono in Irlanda al fine di un' interruzione di gravidanza. Nelle sue osservazioni scritte, la Commissione ha sottolineato giustamente che tale divieto di assistenza è un divieto generale che si applica in Irlanda a qualsiasi fornitore di servizi e/o qualsiasi persona che fornisce informazioni, indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo luogo di stabilimento, e che esso impedisce alle donne incinte residenti in Irlanda, indipendentemente dalla loro nazionalità, di ricevere i servizi di cui trattasi sia in Irlanda sia in altri Stati membri.

Le questioni pregiudiziali non hanno altro oggetto che di interrogare la Corte sul carattere lecito del divieto di fornire assistenza diffondendo informazioni. Più in particolare, esse non riguardano l' eventuale sanzione penale alla quale si espongono le donne incinte che hanno abortito all' estero. Né gli elementi portati a conoscenza della Corte né le dichiarazioni delle parti all' udienza hanno del resto consentito di accertare con sufficiente chiarezza se la normativa irlandese preveda una sanzione in una tale situazione. Per contro, i convenuti nella causa principale hanno fatto presente nelle loro osservazioni scritte che l' Irlanda non vieta alle donne incinte, o non cerca di impedire loro, di fare uso del loro diritto di viaggiare e di ricevere servizi di interruzione di gravidanza all' estero.

14. Un altro aspetto tratterrà ancora brevemente la mia attenzione. Come ho già detto, le questioni si riferiscono ad una interruzione della gravidanza per intervento medico praticata in un altro Stato membro in conformità alla normativa in vigore in quest' ultimo. Suppongo che ciò significhi anche - il che del resto non sembra essere contestato nella presente causa - che le informazioni diffuse in Irlanda dai convenuti nella causa principale rispondano alle norme in vigore nel Regno Unito per quanto riguarda i casi in cui la legge autorizza colà l' interruzione della gravidanza. Infatti, negli Stati membri in cui l' aborto è autorizzato a talune condizioni, esigenze in materia di informazione e di accompagnamento sono spesso poste per impedire una banalizzazione ed una commercializzazione dell' aborto (9) o per garantire che l' informazione è fornita solo da persone competenti (10) e che la decisione di abortire viene presa con cognizione di causa, cioè dopo aver beneficiato delle informazioni e dei consigli necessari (11).

Suppongo quindi che la diffusione di informazioni in Irlanda rimane nell' ambito di ciò che è autorizzato nello Stato membro di origine del servizio. Tale precisazione è importante poiché il diritto di fornire informazioni invocato dai convenuti nella causa principale non può in alcun caso essere più esteso del diritto da cui esso deriva a loro parere, cioè il diritto della libera prestazione dei servizi di cui può avvalersi il fornitore stesso dei servizi che è stabilito in un altro Stato membro. Infatti, come regola generale, solo le merci o i servizi regolarmente "prodotti" o "commercializzati" nel paese di origine possono beneficiare della libera circolazione delle merci e dei servizi all' interno della Comunità.

15. Dalle osservazioni che precedono risulta che la seconda e la terza questione sono strettamente collegate e devono essere intese congiuntamente nel modo seguente:

"Se le disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei servizi si oppongano a che uno Stato membro nel quale l' aborto è proibito sia dalla Costituzione sia dal diritto penale, vieti a chiunque, sia esso il fornitore di servizi o sia esso indipendente da qualsiasi fornitore di servizi, indipendentemente dalla sua nazionalità o dal suo luogo di stabilimento, di prestare assistenza a donne residenti in tale Stato membro, indipendentemente dalla loro nazionalità, al fine di un' interruzione della gravidanza, più in particolare mediante la diffusione di informazioni sulla identità e l' ubicazione di cliniche stabilite in un altro Stato membro e che praticano l' aborto, nonché sulle modalità per entrare in contatto con tali cliniche, e ciò benché i servizi d' interruzione della gravidanza mediante intervento medico e le relative informazioni siano forniti in conformità alla normativa in vigore in tale altro Stato membro".

Per risolvere tale questione procederò in tre tappe. Innanzitutto esaminerò, alla luce della giurisprudenza della Corte relativa alla libera prestazione dei servizi, se il divieto d' informazione di cui trattasi rientri in via di principio nel campo di applicazione delle disposizioni del Trattato relative alla libera circolazione dei servizi (nn. 16-21). Quindi mi occuperò della questione se, nell' ipotesi in cui occorre risolvere affermativamente tale questione, il divieto possa tuttavia essere giustificato in diritto comunitario da esigenze imperative legate all' interesse generale, e ciò sia a livello dei principi (nn. 22-24) sia sul piano concreto (nn. 25-29). Infine esaminerò il punto relativo a se la Corte sia competente ad esaminare il divieto di informazione di cui trattasi alla luce dei principi generali del diritto comunitario relativi ai diritti e libertà fondamentali (nn. 30 e 31) e, in caso affermativo, ricercherò quale sia il risultato di tale esame (nn. 32-38).

Se il divieto di informazione rientri nel campo di applicazione degli artt. 59 e 60 del Trattato CEE

16. Dopo la scadenza del periodo transitorio, gli artt. 59 e 60 del Trattato CEE sono direttamente applicabili (12). Nella seconda questione, il giudice nazionale fa presente che non esiste alcuna misura di ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all' interruzione della gravidanza per intervento medico. Tale mancanza di armonizzazione non si oppone all' applicabilità diretta delle disposizioni del Trattato.

17. Secondo una costante giurisprudenza della Corte (13), l' art. 59 del Trattato richiede la soppressione di qualsiasi restrizione avente per scopo o per effetto di assoggettare, in ragione della sua nazionalità o del suo luogo di stabilimento, un prestatore di servizi stabilito in uno Stato membro diverso da quello nel quale il servizio dev' essere prestato, ad un trattamento meno favorevole rispetto al prestatore di servizi stabilito in quest' ultimo Stato membro.

Ma anche quando il prestatore di servizi è stabilito nello stesso Stato membro in cui il servizio è prestato ed il destinatario del servizio viene in tale Stato partendo da un altro Stato membro, l' art. 59 del Trattato CEE richiede la soppressione delle restrizioni che colpirebbero tale destinatario in ragione della sua nazionalità o del suo luogo di stabilimento in uno Stato membro diverso da quello nel quale egli si reca per ricevere il servizio. La Corte ha giustificato ciò al punto 10 della motivazione della sentenza Luisi e Carbone nel modo seguente:

"Per consentire l' esecuzione delle prestazioni di servizi, può aversi uno spostamento sia del prestatore che si reca nello Stato membro in cui il destinatario è stabilito, sia del destinatario che si reca nello Stato di stabilimento del prestatore. Mentre il primo caso è espressamente menzionato nell' art. 60, 3 comma, che ammette l' esercizio, a titolo temporaneo, dell' attività di prestatore di servizi nello Stato membro in cui la prestazione viene erogata, il secondo ne costituisce il necessario complemento che risponde allo scopo di liberalizzare ogni attività retribuita e non regolata dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali".

Al punto 16 della motivazione la Corte trae la seguente conclusione:

"Ne consegue che la libera prestazione dei servizi comprende la libertà, da parte dei destinatari dei servizi, di recarsi in un altro Stato membro per fruire ivi di un servizio, senza essere impediti da restrizioni, anche in materia di pagamenti (...)".

La Corte ha confermato esplicitamente quest' ultima posizione al punto 15 della motivazione della sentenza Cowan (14).

Da questa giurisprudenza deriva che le disposizioni del Trattato relative alla libera prestazione dei servizi conferiscono diritti non solo ai prestatori di servizi che agiscono a titolo professionale ma anche ai cittadini della Comunità che intendono ottenere dei servizi. Esse conferiscono più precisamente a questi ultimi il diritto di recarsi in un altro Stato membro al fine di ricevervi un servizio fornito in quest' ultimo.

18. La questione che si pone attualmente è se il diritto dei cittadini comunitari di ricevere servizi in un altro Stato membro comprenda il diritto di ricevere nel loro proprio Stato membro informazioni sui prestatori di servizi stabiliti in quest' altro Stato membro e sulle modalità per entrare in contatto con essi. Ritengo che occorra risolvere affermativamente tale questione.

Nella sentenza GB-Inno-BM (15), la Corte ha sottolineato, a proposito dell' offerta di merci, l' importanza dell' informazione dei consumatori. Essa ha fatto presente (al punto 8 della motivazione) che la libertà del consumatore di approvvigionarsi in un altro Stato membro sarebbe compromessa se l' accesso alla pubblicità disponibile nel paese d' acquisto venisse loro rifiutato. Non vedo perché sarebbe diversamente per quanto riguarda le informazioni relative ad un servizio: la libertà dei singoli di recarsi in un altro Stato membro al fine di ricevervi un servizio può essere compromessa se l' accesso alle informazioni relative in particolare all' identità e all' ubicazione del prestatore dei servizi e/o ai servizi da lui forniti viene loro vietato nel loro paese.

19. La risposta data vale tanto più, a mio parere, quando l' informazione proviene da una persona che non è il prestatore stesso del servizio e che inoltre non agisce per conto di quest' ultimo. La libertà di recarsi in un altro Stato membro, che la Corte ha riconosciuto in capo ad un destinatario di servizi, nonché il diritto che essa comporta di avere accesso alle informazioni (regolarmente fornite) che si riferiscono a questi servizi e al prestatore di questi ultimi derivano da norme fondamentali del Trattato alle quali occorre conferire l' effetto utile più largo possibile. Con riserva di restrizioni che esaminerò successivamente e che sono basate su esigenze imperative o su altri motivi di giustificazione, la libertà di prestazione di servizi è un principio fondamentale del Trattato. Questa libertà dev' essere rispettata da ciascuno e può essere promossa da chiunque, in particolare fornendo, a titolo oneroso o a titolo gratuito, informazioni sui servizi offerti da sé stesso o da altri.

Una tale interpretazione del diritto comunitario è del resto compatibile con l' art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell' uomo (CEDH) di cui la Corte ammette che i principi che servono ad essa di base fanno parte dell' ordinamento giuridico comunitario, così come essa è compatibile anche con l' art. 5 della dichiarazione dei diritti e libertà fondamentali fatta dal Parlamento europeo (16). In conformità a queste disposizioni, è consentito a ciascuno, con riserva di restrizioni precise enunciate dalla legge, "ricevere o comunicare informazioni o idee senza che possa esservi ingerenza di autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere" (art. 10, n. 1, della Convenzione europea dei diritti dell' uomo). La tutela garantita da queste disposizioni riguarda in particolare le informazioni aventi per scopo di influenzare o di mobilitare l' opinione pubblica ma vale anche per le informazioni di "carattere commerciale" (17). Ritornerò più dettagliatamente su queste disposizioni successivamente (n. 34).

20. Come ho indicato precedentemente (n. 13), il divieto di fornire informazioni circa aborti praticati all' estero è una misura di applicazione generale in Irlanda, che risulta dalla Costituzione di questo paese, che tocca allo stesso modo e senza discriminazione alcuna i prestatori di servizi e d' informazioni o i destinatari di servizi, siano essi nazionali o stranieri. Nelle osservazioni che essa ha presentato dinanzi alla Corte, la Commissione ha sostenuto che tale misura non discriminatoria rimane fuori del campo di applicazione degli artt. 59 e 60 del Trattato CEE. Essa si basa a tal riguardo sulle sentenze Koestler (18) e Debauve (19).

E' vero che la Corte non ha ancora dichiarato esplicitamente che l' art. 59 del Trattato CEE si applica a misure che, senza essere discriminatorie, incidono tuttavia (effettivamente o potenzialmente) sulla circolazione intracomunitaria dei servizi. Per contro, essa non ha ulteriormente limitato il campo di applicazione dell' art. 59 alle misure che comportano una discriminazione (sia essa palese o occulta). Come l' avvocato generale Jacobs ha dichiarato recentemente nelle conclusioni che ha presentato nella causa Saeger (20), ciò si spiega incontestabilmente col fatto che si trattava, nella maggior parte delle cause, di una situazione in cui il prestatore di servizi si era recato in un altro Stato membro ed era stato ivi confrontato a normative nazionali che incidevano maggiormente sui prestatori di servizi originari di altri Stati membri che sui loro omologhi nazionali, il che conferiva a queste discipline un effetto "discriminatorio" (cioè sfavorevole) nei confronti dei primi.

Nelle sue conclusioni l' avvocato generale Jacobs sostiene che gli ostacoli non discriminatori alla prestazione di servizi devono essere trattati come le restrizioni non discriminatorie alla libera circolazione delle merci lo sono nella giurisprudenza "Cassis de Dijon". A suo parere tale analogia sembra particolarmente adeguata quando il prestatore di servizi non si sposta fisicamente (21). In tale situazione, obbligare il prestatore di servizi a conformarsi alla normativa sovente particolareggiata di ciascuno Stato membro a destinazione del quale il servizio "si sposta" per il tramite delle poste o delle telecomunicazioni (o, a fortiori, alla normativa dello Stato membro di cui il destinatario del servizio è originario) pregiudicherebbe fortemente l' attuazione di un mercato comune dei servizi (22). Adottando tale posizione, l' avvocato generale Jacobs sottoscrive l' opinione già sostenuta precedentemente da diversi avvocati generali (23).

Sono perfettamente d' accordo con tale tesi. Escludere a priori dal campo di applicazione dell' art. 59 del Trattato CEE le misure che, pur non essendo discriminatorie, ostacolano la circolazione intracomunitaria dei servizi, pregiudica in maniera non trascurabile l' effetto utile del principio della libera circolazione dei servizi, che acquisterà ancora importanza in un' economia in cui il settore terziario continua a svilupparsi. Una tale conclusione crea inoltre una divergenza spiacevole tra la giurisprudenza della Corte relativa alla circolazione delle merci e quella relativa alla circolazione dei servizi, in situazioni nelle quali solo il servizio o il destinatario del servizio attraversano le frontiere interne della Comunità, situazioni che non si distinguono veramente da quelle nelle quali merci o acquirenti attraversano queste frontiere, nonché in situazioni nelle quali i servizi sono spesso presentati come "prodotti", cosa che si verifica nel settore finanziario, ad esempio.

Del resto, la nozione di discriminazione è già talmente estesa nella giurisprudenza della Corte che essa comprende la situazione nella quale, in ragione di una disparità tra le normative degli Stati membri interessati, taluni fornitori di servizi di uno Stato membro si trovano in una situazione meno vantaggiosa poiché, in seguito a tale disparità, un onere più pesante è loro imposto quando essi intendono esercitare la loro professione in un altro Stato membro (24). Se si ammette l' interpretazione in senso ampio dell' art. 59 che è qui sostenuta, un tale onere più gravoso sarà allora evidentemente considerato come una misura che ostacola senza che sia necessario dare un significato improprio al divieto di discriminazione (25).

21. Concludo quindi che, anche quando non contengono alcuna discriminazione, le discipline nazionali che ostacolano apertamente o in maniera occulta, effettivamente o potenzialmente, la circolazione intracomunitaria dei servizi, rientrano in via di principio nel campo di applicazione degli artt. 59 e 60 del Trattato CEE. Dico meglio: in via di principio, poiché tali discipline nazionali possono essere compatibili con dette disposizioni del Trattato quando sono giustificate da ragioni imperative collegate all' interesse generale (v. punti 22 e seguenti qui di seguito). Pervengo inoltre alla conclusione che gli artt. 59 e 60, quando sono applicabili, conferiscono in via di principio ai cittadini della Comunità il diritto di ricevere informazioni su servizi regolarmente forniti in un altro Stato membro, così come essi derivano da tali articoli il diritto di diffondere tali informazioni, a titolo oneroso o a titolo gratuito.

Ragioni imperative collegate all' interesse generale che possono giustificare restrizioni alla libera prestazione dei servizi

22. In una giurisprudenza costante, in particolare nella sentenza Webb (26) (nel punto 17 della cui motivazione si fa riferimento alla sentenza Van Wesemael (27)), la Corte ha dichiarato che

"tenuto conto delle speciali caratteristiche di talune prestazioni di servizi, non si possono considerare incompatibili col Trattato talune condizioni specifiche, eventualmente imposte al prestatore di servizi, che siano giustificate dall' applicazione di norme relative a questo tipo di attività. Tuttavia, la libera prestazione dei servizi, in quanto principio fondamentale sancito dal Trattato, può venire limitata solamente da norme giustificate dal pubblico interesse e obbligatorie nei confronti di tutte le persone e le imprese che esercitano la propria attività sul territorio di tale Stato, nella misura in cui tale interesse non risulti garantito dalle norme alle quali il prestatore di servizi è soggetto nello Stato membro in cui è stabilito".

Nella sentenza Commissione / Germania (28), la Corte precisa che le condizioni specifiche imposte al prestatore di servizi in ragione della natura particolare dei servizi (di assicurazione) di cui trattasi

"devono essere obiettivamente necessarie al fine di assicurare l' osservanza delle norme professionali e di garantire la tutela degli interessi da queste perseguita" (punto 27 della motivazione),

al che essa aggiunge inoltre la condizione che

"lo stesso risultato non potrebbe essere ottenuto mediante provvedimenti meno drastici" (punto 29 della motivazione).

La Corte ha formulato tale giurisprudenza per l' ultima volta nelle sentenze "guide turistiche" recentemente pronunciate (29). Essa si è espressa nel modo seguente:

"Ne consegue che tali condizioni possono essere considerate compatibili con gli artt. 59 e 60 del Trattato soltanto qualora sia provato che sussistono, nel settore di attività considerato, esigenze imperative connesse all' interesse generale le quali giustificano restrizioni della libera prestazione dei servizi, che tale interesse non è già garantito dalle norme dello Stato in cui il prestatore è stabilito e che lo stesso risultato non potrebbe essere ottenuto mediante provvedimenti meno incisivi".

Dal punto della motivazione soprammenzionato della sentenza Webb risulta che si tratta in tale giurisprudenza delle discipline che si applicano senza distinzione, cioè "obbligatorie nei confronti di tutte le persone e le imprese che esercitino la propria attività sul territorio dello Stato membro destinatario della prestazione" (ivi comprese discipline che, a causa di disparità tra le normative, possono costituire un onere maggiore per i prestatori di servizi stabiliti in altri Stati membri e sono, in tal senso, "discriminatorie": v. sopra, punto 20). Le normative nazionali che sono (in maniera palese o occulta) discriminatorie di per sé per i prestatori di servizi stabiliti in altri Stati membri possono inoltre essere "giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica" (30), in conformità al combinato disposto degli artt. 56, n. 1, e 66, del Trattato CEE.

23. Grande è la tentazione di stabilire un parallelo tra la giurisprudenza soprammenzionata relativa alla circolazione dei servizi e la giurisprudenza relativa ai motivi imperativi (art. 30 del Trattato CEE) o ai motivi di interesse generale (art. 36 del Trattato CEE).

Resisterò a tale tentazione - il che, in considerazione della complessità della materia, non mi sarà difficile - e mi limiterò ad alcune considerazioni che possono collocare la nozione di ragioni imperative legate all' interesse generale nell' ambito globale del diritto comunitario.

Nell' uno come nell' altro campo (cioè la circolazione delle merci o la circolazione dei servizi), i motivi che possono giustificare normative nazionali (discriminatorie o no, a seconda del caso) devono essere conformi al diritto comunitario. Nel campo della libera circolazione delle merci, la Corte si atterrà, per quanto riguarda i motivi di giustificazione a titolo dell' art. 36, all' elenco tassativo che figura nel Trattato mentre, per quanto riguarda le ragioni imperative dell' art. 30, essa ammette nella sua giurisprudenza un gruppo limitato di motivi sempre identici (cioè la tutela dei consumatori, la lealtà nelle pratiche commerciali e la trasparenza del mercato, la tutela dell' ambiente e del luogo di lavoro, l' efficacia dei controlli fiscali). Nel campo della libera circolazione dei servizi, messi da parte i motivi enunciati all' art. 56 unitamente all' art. 66, la Corte sembra aver delimitato in maniera meno precisa il gruppo di motivi imperativi legati all' interesse generale. Tuttavia si tratta anche in tal caso di motivi analoghi a quelli enunciati all' art. 36 (tutela della proprietà intellettuale (31) e tutela dei patrimoni artistici e archeologici (32)) e/o ai motivi che rientrano nell' art. 30 (tutela dei lavoratori (33) e dei consumatori, in particolare di coloro che concludono contratti di assicurazione (34)).

Risulta tuttavia da una giurisprudenza recente che, nell' uno come nell' altro campo, la Corte sembra disposta a includere anche nei motivi imperativi dell' "art. 30" o tra i motivi legati all' interesse generale dell' "art. 59" motivi che "costituiscono (...) l' espressione di talune scelte politiche ed economiche" e che si ricollegano a "particolarità socio-culturali nazionali o regionali la cui valutazione spetta, allo stato attuale del diritto comunitario, agli Stati membri" (35). Per quanto riguarda la circolazione delle merci, questo punto di vista è stato espresso nella sentenza Cinéthèque (36) (che si riferiva ad un obiettivo di natura culturale, cioè l' incentivazione dell' industria cinematografica) e nelle varie sentenze relative alla chiusura domenicale (37) (che si riferivano alla ripartizione delle ore di lavoro e di riposo e quindi ad un obiettivo di natura socio-ricreativa). Per quanto riguarda la circolazione dei servizi, si può già scorgere un indizio di tale punto di vista in sentenze quali la sentenza Koestler (38)(nella quale una normativa nazionale non discriminatoria che escludeva il recupero giudiziario di debiti di gioco per motivi "di ordine sociale" e che, pertanto, aveva contemporaneamente una natura politica ed etica, è stata dichiarata accettabile) e la sentenza Debauve (nella quale la Corte ha ritenuto giustificato un divieto nazionale applicabile "senza distinzione" alla pubblicità diffusa sulle reti televisive via cavo; il divieto era essenzialmente destinato ad assicurare la sopravvivenza di una stampa scritta pluralista (39)).

E' inevitabile che la Corte sia indotta ad adottare un tale punto di vista in una società in cui la cura dell' interesse generale è affidata ai poteri pubblici in ogni tipo di settore di attività, di cui molti non sono considerati dal diritto comunitario o lo sono solo indirettamente. Ciò che importa è di controllare che tali obiettivi di interesse generale e gli effetti concreti delle normative nazionali a carattere generale dettate da questi obiettivi siano compatibili con il diritto comunitario. E' il motivo per cui la Corte pone l' accento sulla necessità che le misure nazionali perseguano obiettivi giustificati nei confronti del diritto comunitario o perché, quando si tratta di obiettivi che si collocano nel campo di applicazione delle disposizioni del Trattato, essi rientrano tra gli obiettivi perseguiti da quest' ultimo o perché, quando si tratta di obiettivi collegati al di fuori del campo di applicazione del Trattato, essi non sono rivolti contro gli obiettivi perseguiti dalle disposizioni del Trattato, in particolare l' instaurazione di un mercato unificato. E' anche il motivo per cui la Corte sottolinea con insistenza che gli ostacoli agli scambi commerciali intracomunitari derivanti dalle misure nazionali di cui trattasi non debbono andare di là dalla misura obiettivamente necessaria per realizzare l' obiettivo perseguito da dette misure nazionali, il che presuppone che tale interesse non sia ancora garantito da una normativa analoga nello Stato membro di origine (del prodotto o del prestatore di servizi) e che lo stesso risultato non possa essere raggiunto allo stesso modo mediante una misura nazionale meno restrittiva per l' interesse comunitario.

24. La normativa nazionale di cui trattasi deve a mio parere essere esaminata alla luce di tale ambito di riferimento (che è analogo per la circolazione delle merci e per la circolazione dei servizi). Le questioni che si pongono a tal riguardo sono se la normativa persegua un obiettivo giustificato nei confronti del diritto comunitario, cioè se essa possa avvalersi di un motivo imperativo collegato all' interesse generale che si colloca tra gli obiettivi inseriti nelle disposizioni del Trattato o che non è incompatibile con essi, e se la normativa non abbia effetti che vadano di là dalla misura necessaria e, in particolare, non siano sproporzionati, cioè se essa soddisfi il criterio di proporzionalità.

Esame di una normativa nazionale che vieta di fornire informazioni relative a servizi medici di aborto

25. Come ho appena indicato, si tratta qui di una normativa nazionale recante un divieto generale, che non comporta la minima discriminazione basata sulla nazionalità o sul luogo di stabilimento, di diffondere nello Stato membro interessato informazioni aventi un carattere di assistenza tra potenziali destinatari, residenti in questo Stato membro, di servizi medici di interruzione della gravidanza praticati lecitamente in un altro Stato membro, servizi di cui ho ammesso che rientrano in via di principio nel campo di applicazione degli artt. 59 e 60 del Trattato CEE.

Intendo ricordare anche che, secondo la Supreme Court irlandese, il divieto di informazione sopra menzionato deriva da una disposizione che è stata inserita nella costituizione irlandese nel 1983 a seguito di un referendum e che mira a tutelare la vita del nascituro, nel rispetto del pari diritto della madre alla vita, una tutela che, secondo tale disposizione, dev' essere garantita "nella misura in cui ciò è realizzabile". In altri termini, due norme che derivano dai diritti fondamentali entrano qui in conflitto: da una parte, la libertà dei convenuti nella causa principale di diffondere informazioni, libertà di cui ho ammesso (n. 19) che è un' emanazione della libertà di prestare servizi che il diritto comunitario garantisce ai prestatori di servizi propriamente detti e, d' altra parte, il divieto di prestare assistenza, mediante la diffusione di informazioni, a donne incinte che intendono abortire, divieto che, secondo la Supreme Court irlandese, è un' emanazione della tutela costituzionale della vita del nascituro.

26. E' innegabile che un divieto quale quello di cui trattasi nella fattispecie, di prestare assistenza e, eventualmente, di fornire informazioni, è ispirato a un obiettivo considerato nello Stato membro in causa come un motivo imperativo legato all' interesse generale. La tutela della vita del nascituro inserita nella Costituzione (e il divieto d' aborto che è ad essa inerente) nonché la necessità che ne deriva d' impedire gli aborti, nei limiti evidentemente della giurisdizione dello Stato membro interessato, vietando la diffusione di informazioni a tal riguardo sul suo territorio, sono considerati nello Stato membro interessato come facenti parte dei fondamenti della società.

Senza pregiudizio della soluzione che darò successivamente alla questione dei diritti e libertà fondamentali (n. 32), un tale obiettivo è giustificato in considerazione del diritto comunitario in quanto riguarda una scelta politica che rientra in considerazioni etiche e filosofiche che spetta agli Stati membri valutare, e per la quale essi possono avvalersi del motivo di ordine pubblico di cui all' art. 56 del Trattato CEE unitamente all' art. 66 (e enunciato anche all' art. 36; un motivo che può anche giustificare misure discriminatorie), cioè, in conformità alla giurisprudenza della Corte, un interesse la cui perturbazione comporta una "minaccia effettiva ed abbastanza grave per uno degli interessi fondamentali della collettività" (40). Benché il contenuto della nozione di ordine pubblico "non può essere determinato (...) unilateralmente da ciascuno degli Stati membri senza il controllo delle istituzioni comunitarie", occorre tuttavia, dato che si tratta di circostanze che "possono variare da un paese all' altro e da un' epoca all' altra", "lasciare alle competenti autorità nazionali un certo potere discrezionale entro i limiti imposti dal Trattato e dalle norme emanate per la sua attuazione" (41). E' incontestabile, a mio parere, che taluni valori che, in ragione della loro collocazione nella Costituzione, fanno parte, in uno Stato membro, dell' "insieme dei valori superiori ai quali una nazione dichiara solennemente di aderire" (42) rientrano nel campo per il quale un potere discrezionale è stato riconosciuto agli Stati membri, potere che ciascuno Stato membro esercita "secondo la sua propria scala di valori e nella forma che esso ha scelto" (43).

27. Non è sufficiente tuttavia che una normativa nazionale sia basata su una ragione imperativa legata all' interesse generale giustificata nei confronti del diritto comunitario, occorre ancora che i suoi effetti non vadano di là dalla misura necessaria. In altri termini, essa deve superare il test di proporzionalità.

Tale principio contiene due aspetti. Innanzitutto, per essere giustificata nei confronti del diritto comunitario, una normativa nazionale deve essere obiettivamente necessaria per realizzare il fine perseguito dalla normativa: ciò significa che essa dev' essere contemporaneamente utile (o pertinente) e indispensabile, in altri termini che essa non deve poter essere sostituita da una normativa alternativa anch' essa utile ma che costituisce un ostacolo minore alla libera circolazione (44). In secondo luogo, anche quando la normativa nazionale è utile ed indispensabile per realizzare il fine perseguito, lo Stato membro deve tuttavia abbandonarla o sostituirla con una normativa meno vincolante quando gli ostacoli agli scambi intracomunitari provocati da tale normativa sono sproporzionati, cioè quando gli ostacoli così determinati sono sproporzionati rispetto all' obiettivo perseguito dalla normativa nazionale o rispetto al risultato che essa consente di raggiungere (45).

28. Benché non spetti alla Corte ma al giudice nazionale pronunciarsi sulla compatibilità di una normativa nazionale con il diritto comunitario, la Corte deve fornire al giudice nazionale tutti gli elementi che possono garantire che la valutazione da parte del giudice nazionale rientri nei limiti del diritto comunitario, che sono uniformi per tutti gli Stati membri. Tra questi elementi di diritto comunitario figura il principio di proporzionalità che, per essere utile al giudice nazionale, dev' essere rapportato dalla Corte il più concretamente possibile alla normativa nazionale di cui trattasi e ai fatti di causa. Così facendo, la Corte deve tuttavia attenersi strettamente alla descrizione della normativa nazionale e ai fatti che sono stati riconosciuti come accertati e pertinenti nel corso del procedimento nazionale, così come essi risultano dalla decisione di rinvio e dai documenti ad essa allegati.

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