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Document 61968CC0007

    Conclusioni dell'avvocato generale Gand del 23 ottobre 1968.
    Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana.
    Causa 7-68.

    edizione speciale inglese 1968 00562

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1968:46

    Conclusioni dell'avvocato generale Joseph Gand

    del 23 ottobre 1968 ( 1 )

    Signor Presidente, signori Giudici,

    La Commissione delle Comunità europee vi ha chiesto di pronunciarvi sulla compatibilità col trattato di Roma (specie con l'articolo 16) di alcune disposizioni della legge italiana 1o giugno 1939, relativa alla tutela degli oggetti d'antichità e d'arte. Per garantire nei limiti del possibile l'integrità di un patrimonio particolarmente prezioso, la legge contempla svariati provvedimenti riguardanti soprattutto l'esportazione.

    Questa e puramente e semplicemente vietata se l'oggetto in predicato ha un interesse tale che la sua esportazione danneggerebbe gravemente il patrimonio nazionale (articolo 35). Negli altri casi l'esportatore deve dichiarare per iscritto il valore commerciale dell'oggetto ed ottenere una licenza, che implica il pagamento di una tassa progressiva a scaglioni (articoli 36 e 37). D'altro canto lo Stato si riserva la facoltà di acquistare l'oggetto, al prezzo indicato nella licenza, entro due mesi dalla data della dichiarazione, se l'oggetto riveste particolare importanza per il patrimonio nazionale (articolo 39).

    La Commissione ha ritenuto che tale tassa all'esportazione applicata nell'interscambio con gli Stati membri, fosse incompatibile con l'articolo 16 del trattato che recita : «Gli Stati membri aboliscono tra loro, al più tardi alla fine della prima tappa, i dazi doganali all'esportazione e le tasse di effetto equivalente».

    Dopo un infruttuoso scambio di opinioni, la Commissione decideva di agire in virtù dell'articolo 169 che recita :

    «La Commissione, quando reputi che uno Stato membro abbia mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù del presente trattato, emette un parere motivato al riguardo, dopo aver posto lo Stato in condizioni di presentare le sue osservazioni.

    Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia».

    Col parere motivato del 24 luglio 1964 si invitava la Repubblica italiana ad adottare i provvedimenti necessari per conformarsi all'orientamento comunitario, entro due mesi; tale termine avrebbe potuto venir prorogato in considerazione dei procedimenti parlamentari prescritti dall'ordinamento nazionale.

    Il governo italiano annunciava che era stata costituita una Commissione parlamentare incaricata di rivedere la legislazione sulla tutela del patrimonio storico-artistico e di studiare un nuovo sistema di protezione. Per questa ragione veniva concessa una proroga fino al 31 dicembre 1965. Il progetto di legge relativo all'esenzione della tassa sull'esportazione di oggetti d'arte e d'interesse archeologico nei paesi della CEE, veniva approvato dal Senato, ma non era discusso dalla Camera dei deputati prima dello scioglimento, avvenuto l'11 marzo 1968.

    Il 6 marzo la Commissione vi ha chiesto di dichiarare la arenza di cui si fa carico alla Repubblica italiana.

    I

    Prima di esaminare gli argomenti delle parti, vorrei soffermarmi sulla ricevibilità del ricorso, non formalmente contestata dal governo italiano, che si è limitato a sottolineare ch'esso è stato presentato quando già era noto e confermato il prossimo scioglimento delle Camere. Il governo italiano riconosce alla Commissione il pieno diritto di adire questa Corte quando meglio crede, a norma dell'articolo 169, 2o comma, ma le fa carico di non aver tenuto conto nella fattispecie della filosofia del trattato, che si desumerebbe dall'articolo 2, dimenticanza che in talune circostanze potrebbe rendere irricevibile il ricorso.

    Basta rileggere l'articolo 2 per rendersi conto che, come rileva il commento citato in udienza, esso esprime chiaramente e completamente gli scopi della Comunità, ma si limita ad enunciati generici che si concretizzano nella disciplina specifica contenuta negli articoli successivi. La controversia, nel merito, verte sugli articoli 16 e 36, che esaminerò in seguito, mentre il compito della Commissione è definito dagli articoli 155 e 169. Secondo l'articolo 155 spetta alla Commissione di vegliare sull'applicazione delle disposizioni del trattato; la Commissione lo ha fatto promuovendo il procedimento di cui all'articolo 169. Le prime conversazioni risalgono al 1960, il parere motivato è del luglio 1964, la proroga concessa alla Repubblica italiana per uniformare al trattato la propria legislazione è scaduta il 31 dicembre 1965. Bisogna pure ammettere che questo indugio non ha dato alcun frutto. La Commissione, promuovendo il ricorso senza attendere ulteriormente, non ha violato alcuna norma comunitaria e nulla dovrebbe ostare alla ricevibilità del ricorso.

    II

    Veniamo all'oggetto della controversia, che non riguarda il divieto di esportare, né l'esercizio del diritto di prelazione, ma solo la conservazione, dopo la scadenza della prima tappa, della disposizione di legge (risalente al 1939) che colpisce con una tassa progressiva a scaglioni l'esportazione degli oggetti d'arte verso gli Stati membri. La Commissione sostiene che tale onere è una tassa d'effetto equivalente ad un dazio doganale all'esportazione, ai sensi dell'articolo 16, e come tale vietata.

    1.

    A tale argomento il governo italiano obietta anzitutto in modo molto generico: i beni colpiti dalla tassa litigiosa esulano del tutto dalle materie naturalmente disciplinate dal trattato.

    Questo mira a costituire una Comunità economica e non una Comunità artistica, storica o etnografica. Questi beni, che non possono essere equiparati a merci, sono disciplinati da una norma speciale, cioè dall'articolo 36, e la tassa andrebbe esaminata solo sotto questo profilo e non sotto il profilo dell'articolo 16.

    Le opere d'arte sono più di una banale merce, è chiaro. Ciononostante nessuno può negare che esse possano costituire, e costituiscano in realtà, oggetto di attività commerciale; i contratti cui le opere d'arte danno origine sono un elemento di questo ampio mercato che il trattato vuole rendere comune a tutti gli Stati membri. Esse non esulano dall'ambito generale del trattato, pur se, sotto alcuni aspetti, questo riserva loro una disciplina particolare.

    È chiaro che il governo italiano invoca l'articolo 36, il quale recita :

    «Le disposizioni degli articoli da 30 a 34 inclusi lasciano impregiudicati i divieti o restrizioni all'importazione, all'esportazione e al transito giustificati da motivi … di protezione del patrimonio artistico, storico o archeologico nazionale … Tuttavia, tali divieti o restrizioni non devono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri».

    Diffidiamone: questo articolo — come gli articoli 30-34 cui consente di derogare — è situato nel capo II del titolo I, che riguarda la soppressione dei contingentamenti tra Stati membri. Non lo si può quindi interpretare nel senso che astragga dal complesso delle altre norme del trattato le materie che disciplina. Come avete affermato nella sentenza Grundig, la sua portata si limita al capo II; esso non esclude che si possano applicare alle opere d'arte altre disposizioni del trattato, come quelle sul ravvicinamento delle legislazioni (articolo 100) o quelle del capo I, sezione I, sull'abolizione dei dazi doganali all'esportazione e delle tasse d'effetto equivalente.

    2.

    Bisogna dunque ricercare la vera natura della tassa litigiosa e porla in relazione, sia con l'articolo 16 che con l'articolo 36. Mi pare certo che la norma abbia un nesso con l'articolo 16. Innanzitutto — è evidente — si tratta di una tassa applicabile solo agli oggetti destinati all'esportazione, materia disciplinata dall'articolo 16. Indubbiamente il governo italiano afferma che, a differenza dei dazi doganali, la disposizione non mira a tutelare la produzione nazionale e, visto il trascurabile apporto al bilancio dello Stato, la tassa non ha scopo fiscale. Queste due obiezioni non sono affatto determinanti: i dazi doganali all' esportazione non proteggono l'industria nazionale, ma hanno la caratteristica di aumentare il prezzo della merce onde frenare l'esportazione; quindi, senza vietare il commercio, lo rendono più difficoltoso. D'altra parte l'articolo 16 esclude che vengano mantenuti in vigore dazi doganali o tasse d'effetto equivalente, anche se non hanno carattere fiscale.

    Non insisterò sull'orientamento dottrinale nei vari paesi esposto dalla Commissione, né sulla vostra sentenza 2 e 3-62 del 14 dicembre 1962 (Commissione CEE contro Granducato del Lussemburgo e Regno del Belgio, Raccolta VIII-1962, pag. 791) che ha già definito la nozione di tassa d'effetto equivalente; basterà dire che, secondo tale sentenza, si deve prendere in considerazione l'effetto del provvedimento . Analogamente al dazio doganale all'esportazione, la tassa litigiosa aumenta il prezzo del prodotto rendendone più diffìcile l'esportazione; ciò basta per far ricadere la tassa sotto l'articolo 16.

    3.

    Il governo italiano tenta tuttavia di giustificare la compatibilità della tassa col trattato sotto il profilo dell'articolo 36, ma il suo argomento è più abile che convincente. Esso sottolinea anzitutto che l'articolo autorizza i provvedimenti giustificati da motivi di tutela del patrimonio nazionale e questo sarebbe lo scopo della tassa incriminata. D'accordo, ma l'articolo 36 non consente di adottare un provvedimento qualsiasi. Nelle difese orali si è affermato che, trattandosi di una restrizione limitata ai beni che non costituiscono oggetto di prelazione da parte dello Stato e che non vieta l'esportazione, ci troveremmo di fronte ad una «restrizione quantitativa» ammessa dal trattato per la salvaguardia dei patrimoni artistici nazionali. Mi pare che si stia giocando sulle parole, poiché il provvedimento incriminato non stabilisce un contingente, effetto normale delle restrizioni quantitative, ma implica semplicemente il rilascio di una licenza a richiesta. Inoltre una restrizione quantitativa non può essere associata alla corresponsione di una tassa senza uscire automaticamente dall'ambito dell'articolo 36. Si è infine assunto che la disposizione criticata, non essendo tale da impedire l'esportazione, ha un effetto limitato. Il trattato, in svariati articoli (ad esempio l'articolo 226 sulle misure di salvaguardia), manifesta la sua propensione per i provvedimenti meno atti a turbare il funzionamento del mercato comune. Anche sotto questo aspetto l'argomento mi pare specioso. Un provvedimento radicale come il divieto di esportazione degli oggetti d'arte è autorizzato dall'articolo 36, poiché può salvaguardare il patrimonio nazionale; una misura più moderata, che subordini l'autorizzazione di esportare al versamento di una tassa, non è compatibile col trattato in quanto, senza salvaguardare il patrimonio, grava di una tassa un negozio, il che è vietato dall'articolo 16. Cade quindi, come i precedenti, anche l'ultimo argomento del governo italiano.

    Concludo perciò come segue :

    Si dichiari che la percezione della tassa sugli oggetti d'arte esportati negli altri Stati membri dopo il 1o gennaio 1962, a norma dell'articolo 37 della legge 1o giugno 1939, costituisce, da parte della Repubblica italiana, inosservanza di uno degli obblighi impostile dall'articolo 16 del trattato.

    Le spese vanno poste a carico della convenuta.


    ( 1 ) Traduzione dal francese.

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