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Judgment of the Court (Second Chamber) of 16 September 2004. # Commission of the European Communities v Republic of Austria. # Failure of a Member State to fulfil obligations - Freedom of movement for workers - Nationals of the Union or the EEA - Nationals of a non-member State associated with the Community by way of an agreement - Eligibility for election to workers' chambers and works councils - Principle of non-discrimination as regards conditions of work. # Case C-465/01.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 16 settembre 2004. Commissione delle Comunità europee contro Repubblica d'Austria. Inadempimento di uno Stato - Libera circolazione dei lavoratori - Cittadini dell'Unione o del SEE - Cittadini di paesi terzi legati alla Comunità da un accordo - Eleggibilità alle camere del lavoro e ai consigli di fabbrica - Divieto di discriminazioni per quanto riguarda le condizioni di lavoro. Causa C-465/01.
Sentenza della Corte (Seconda Sezione) del 16 settembre 2004. Commissione delle Comunità europee contro Repubblica d'Austria. Inadempimento di uno Stato - Libera circolazione dei lavoratori - Cittadini dell'Unione o del SEE - Cittadini di paesi terzi legati alla Comunità da un accordo - Eleggibilità alle camere del lavoro e ai consigli di fabbrica - Divieto di discriminazioni per quanto riguarda le condizioni di lavoro. Causa C-465/01.
«Inadempimento di uno Stato — Libera circolazione dei lavoratori — Cittadini dell’Unione o del SEE — Cittadini dei paesi terzi legati alla Comunità da un accordo — Eleggibilità alle camere del lavoro e ai consigli di fabbrica — Divieto di discriminazioni per quanto riguarda le condizioni di lavoro»
Massime della sentenza
1. Libera circolazione delle persone — Lavoratori — Parità di trattamento — Esercizio dei diritti sindacali — Normativa nazionale
che esclude i lavoratori cittadini di un altro Stato membro dell’Unione o dello Spazio economico europeo dall’eleggibilità
alle camere professionali — Inammissibilità — Giustificazione basata su un’eventuale partecipazione all’esercizio di pubblici
poteri — Insussistenza
[Art. 39 CE; Accordo SEE, art. 28; regolamento (CEE) del Consiglio n. 1612/68, art. 8]
2. Accordi internazionali — Accordi di associazione o di cooperazione della Comunità — Libera circolazione delle persone — Lavoratori
— Parità di trattamento — Esercizio dei diritti sindacali — Normativa nazionale che esclude dall’eleggibilità alle camere
professionali e ai consigli di fabbrica i lavoratori cittadini di un paese terzo che ha stipulato un accordo con la Comunità
— Inammissibilità
1. Viene meno agli obblighi ad esso incombenti in forza degli artt. 39 CE e 8 del regolamento n. 1612/68, relativo alla libera
circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, come modificato dal regolamento n. 2434/92, e in forza dell’art. 28
dell’Accordo sullo Spazio economico europeo uno Stato membro che nega il diritto all’eleggibilità ad organismi di rappresentanza
e di tutela degli interessi dei lavoratori, come le camere professionali, ai lavoratori cittadini degli altri Stati membri
dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo.
Una normativa del genere è infatti contraria al principio fondamentale che vieta qualsiasi discriminazione a causa della cittadinanza,
sul quale si basano dette disposizioni.
Né la natura giuridica di detti organismi come definita dal diritto nazionale né il fatto che taluni dei loro compiti potrebbero
comportare una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri possono giustificare tale normativa.
(v. punti 30, 33, 40, 56 e dispositivo)
2. Viene meno agli obblighi ad esso incombenti in forza delle disposizioni degli accordi stipulati tra la Comunità e taluni paesi
terzi che sanciscono, a favore dei lavoratori regolarmente occupati in uno Stato membro, il divieto di discriminazioni per
quanto riguarda le condizioni di lavoro uno Stato membro che nega a detti lavoratori il diritto all’eleggibilità ad organismi
di rappresentanza e di tutela degli interessi dei lavoratori come le camere professionali e i consigli di fabbrica.
Infatti, il divieto di discriminazioni a causa della cittadinanza sancito dagli accordi in questione implica che tutti i lavoratori,
siano essi cittadini nazionali o cittadini di uno dei paesi terzi interessati, beneficino di identiche condizioni di lavoro
e, in particolare, possano partecipare, allo stesso modo, alle elezioni organizzate in seno ai suddetti organismi. Una disparità
di trattamento in funzione della cittadinanza è contraria a tale divieto fondamentale.
(v. punti 48-49, 56 e dispositivo)
SENTENZA DELLA CORTE (Seconda Sezione) 16 settembre 2004(1)
Nella causa C-465/01,avente ad oggetto un ricorso per inadempimento ai sensi dell'art. 226 CE,proposto il 4 dicembre 2001,
Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. J. Sack, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Repubblica d'Austria, rappresentata dal sig. H. Dossi, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,
convenuta,
LA CORTE (Seconda Sezione),,
composta dal sig. C.W.A. Timmermans, presidente di sezione, dal sig. R. Schintgen (relatore), dalla sig.ra R. Silva de Lapuerta,
dai sigg. P. Kuris e G. Arestis, giudici,
avvocato generale: sig. F.G. Jacobs cancelliere: sig. R. Grass
vista la decisione, adottata dopo aver sentito l'avvocato generale, di giudicare la causa senza udienza e senza conclusioni,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1
Con il ricorso in oggetto la Commissione delle Comunità europee chiede alla Corte di dichiarare che la Repubblica d’Austria
è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi
a)
degli artt. 39 CE e 8 del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla libera circolazione dei
lavoratori all’interno della Comunità (GU L 257, pag. 2), come modificato dal regolamento (CEE) del Consiglio 27 luglio 1992,
n. 2434 (GU L 245, pag. 1; in prosieguo: il «regolamento n. 1612/68»), nonché dell’art. 28 dell’accordo sullo Spazio economico
europeo (GU 1994, L 1, pag. 3 e pag. 572; in prosieguo: l’«accordo SEE»), avendo negato ai lavoratori cittadini degli altri
Stati membri dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo (in prosieguo: il «SEE») il diritto all’eleggibilità in
seno alle camere del lavoro;
b)
delle disposizioni degli accordi conclusi dalla Comunità con alcuni paesi terzi che prevedono il divieto di discriminazioni
per quanto riguarda le condizioni di lavoro dei lavoratori originari di tali paesi che esercitino regolarmente una professione
in uno Stato membro, avendo negato a tali lavoratori il diritto all’eleggibilità in seno ai consigli di fabbrica e all’assemblea
plenaria delle camere del lavoro.
Ambito normativo
Le disposizioni rilevanti del diritto comunitario
2
Ai sensi dell’art. 39 CE:
«1. La libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità è assicurata.
2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri,
per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
(…)
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione».
3
Il primo ‘considerando’ del regolamento n. 1612/68 è così formulato:
«considerando che la libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità dev’essere realizzata al più tardi al termine
del periodo transitorio; che il conseguimento di quest’obiettivo implica l’abolizione, fra i lavoratori degli Stati membri,
di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni
di lavoro, nonché il diritto di questi lavoratori di spostarsi liberamente all’interno della Comunità per esercitare un’attività
subordinata, fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica».
4
Gli artt. 7 e 8 del regolamento n. 1612/68 figurano nella prima parte dello stesso che tratta «[dell]’impiego e [della] famiglia
dei lavoratori», sotto il titolo II, intitolato «Esercizio dell’impiego e parità di trattamento».
5
Il detto art. 7 prevede quanto segue:
«1. Il lavoratore cittadino di uno Stato membro non può ricevere sul territorio degli altri Stati membri, a motivo della propria
cittadinanza, un trattamento diverso da quello dei lavoratori nazionali per quanto concerne le condizioni di impiego e di
lavoro, in particolare in materia di retribuzione, licenziamento, reintegrazione professionale o ricollocamento se disoccupato.
2. Egli gode degli stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali.
(...)
4. Tutte le clausole di contratti collettivi o individuali o di altre regolamentazioni collettive concernenti l’accesso all’impiego,
l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro e di licenziamento, sono nulle di diritto nella misura in cui prevedano
o autorizzino condizioni discriminatorie nei confronti dei lavoratori cittadini degli altri Stati membri».
6
Ai sensi dell’art. 8 del regolamento n. 1612/68:
«Il lavoratore cittadino di uno Stato membro occupato sul territorio di un altro Stato membro gode della parità di trattamento
per quanto riguarda l’iscrizione alle organizzazioni sindacali e l’esercizio dei diritti sindacali, ivi compreso il diritto
di voto e l’accesso ai posti amministrativi o direttivi di un’organizzazione sindacale; egli può essere escluso dalla partecipazione
alla gestione di organismi di diritto pubblico e dall’esercizio di una funzione di diritto pubblico. Gode inoltre del diritto
di eleggibilità negli organi di rappresentanza dei lavoratori nell’impresa.
Queste disposizioni non infirmano le norme legislative o regolamentari che, in taluni Stati membri, accordano diritti più
ampi ai lavoratori provenienti da altri Stati membri».
7
L’art. 28 dell’accordo SEE dispone quanto segue:
«1. È garantita la libera circolazione dei lavoratori fra gli Stati membri della Comunità e gli Stati AELS (EFTA).
2. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri
della Comunità e quelli degli Stati AELS (EFTA) per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
(…)
4. Le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione.
(…)».
8
La Comunità ha concluso un certo numero di accordi con paesi terzi, tra i quali, in particolare, l’accordo che crea un’associazione
tra la Comunità economica europea e la Turchia, gli accordi europei che creano un’associazione con i paesi dell’Europa centrale
e orientale nonché gli accordi di cooperazione e poi di associazione con i paesi del Maghreb, ai sensi dei quali ai lavoratori
cittadini dei paesi terzi in questione che siano regolarmente occupati nel territorio di uno Stato membro si applica il principio
dell’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza per quanto riguarda le condizioni di lavoro e di retribuzione.
La normativa nazionale
9
In Austria, ai sensi dell’art. 1 dell’Arbeiterkammergesetz (legge relativa alle camere del lavoro; BGBl. 1991/626, nel testo
pubblicato in BGBl. I, 1998/166; in prosieguo: l’«AKG»), le camere degli operai e degli impiegati nonché la camera federale
degli operai e degli impiegati (in prosieguo: le «camere del lavoro») provvedono a rappresentare e promuovere gli interessi
sociali, economici e culturali dei lavoratori di entrambi i sessi.
10
Le dette camere, che sono enti di diritto pubblico ai quali, in linea di principio, sono iscritti tutti i lavoratori tramite
il versamento di un contributo, esercitano anche una funzione consultiva in ambito legislativo.
11
Tra gli organi delle camere del lavoro figura, segnatamente, l’assemblea plenaria (art. 46 dell’AKG). Essa viene eletta, per
un periodo di cinque anni (art. 18, n. 1, dell’AKG), dai lavoratori aventi diritto di voto mediante voto uguale, personale
e segreto, in base ai principi del sistema proporzionale (art. 19 dell’AKG). Ai sensi dell’art. 20, n. 1, dell’AKG, il diritto
di voto spetta a tutti i lavoratori iscritti alla rispettiva camera del lavoro alla data delle elezioni.
12
Per quanto attiene ai requisiti per l’eleggibilità, l’art. 21 dell’AKG così dispone:
«Sono eleggibili alla camera del lavoro tutti i lavoratori iscritti alla camera, che nel giorno delle elezioni:
1. abbiano compiuto il 19° anno di età e
2. negli ultimi cinque anni abbiano avuto in Austria per almeno due anni complessivi un rapporto di lavoro o di impiego che dà
titolo all’iscrizione alla camera, e
3. a prescindere dal requisito dell’età elettorale non siano esclusi dall’eleggibilità nel Nationalrat [Camera bassa del Parlamento]».
13
Ai sensi dell’art. 26, n. 4, del Bundesverfassungsgesetz (legge costituzionale federale):
«Possono essere eletti tutti gli uomini e le donne in possesso della cittadinanza austriaca alla data all’uopo prevista e
che abbiano compiuto il 19° anno di età anteriormente al 1° gennaio dell’anno delle elezioni».
14
I consigli di fabbrica, la cui istituzione è obbligatoria nelle imprese austriache di una certa dimensione, hanno il compito
di tutelare gli interessi dei lavoratori dell’impresa in questione e, in particolare, di vigilare sul rispetto delle disposizioni
legali adottate in loro favore.
15
L’art. 53, n. 1, dell’Arbeitsverfassungsgesetz (testo unico sul lavoro; BGBl. 1974/22, nel testo pubblicato in BGBl. 1993/460),
che fissa i requisiti per l’eleggibilità in un consiglio di fabbrica, è così formulato:
«È eleggibile qualsiasi lavoratore subordinato che:
1.
a) possieda la cittadinanza austriaca, o
b) sia cittadino di uno Stato firmatario dell’accordo SEE, e
2.
abbia raggiunto il 19º anno di età alla data di indizione delle elezioni, e
3.
possieda almeno sei mesi di anzianità nello stabilimento o nell’impresa da cui dipende lo stabilimento, e
4.
indipendentemente dal requisito della cittadinanza austriaca, non sia decaduto dal suo diritto di partecipare all’elezione
del Nationalrat [Camera bassa del Parlamento] (…)».
Procedimento precontenzioso
16
Ritenendo che la normativa austriaca sia incompatibile con le prescrizioni del diritto comunitario autorizzando, da un lato,
l’elezione dei soli cittadini austriaci alle camere del lavoro e, dall’altro, escludendo dall’elezione alle camere del lavoro
ed ai consigli di fabbrica i lavoratori regolarmente occupati in uno Stato membro ed il cui paese di origine ha concluso con
la Comunità un accordo in forza del quale essi godono della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro,
la Commissione, con lettera del 9 luglio 1999, ha invitato la Repubblica d’Austria a presentare le sue osservazioni entro
due mesi.
17
Il 6 settembre 1999 il governo austriaco ha riconosciuto l’incompatibilità della sua normativa con gli obblighi ad esso derivanti
dal diritto comunitario relativamente ai lavoratori cittadini di altri Stati membri dell’Unione o del SEE, pur sottolineando
che la normativa interna in questione era priva di effetti a causa della diretta applicabilità del diritto comunitario. Tuttavia,
le modifiche necessarie sarebbero state in corso di adozione, al fine di estendere l’eleggibilità alle camere del lavoro a
tutti questi lavoratori, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Invece, tale governo ha contestato la tesi della Commissione
per quanto riguarda i lavoratori ai quali un accordo concluso con il paese terzo di cui sono originari garantisce il beneficio
della parità di trattamento relativamente alle condizioni di lavoro, qualora essi esercitino regolarmente un’attività retribuita
in uno Stato membro.
18
Il 29 dicembre 2000, non essendo stata apportata alcuna modifica alla normativa austriaca, la Commissione ha inviato un parere
motivato alla Repubblica d’Austria, invitandola ad adottare, nel termine di due mesi a decorrere dalla sua notifica, le misure
necessarie per conformarsi agli obblighi risultanti dagli artt. 39 CE, 8 del regolamento n. 1612/68 e 28 dell’accordo SEE,
nonché dalle disposizioni dei suddetti accordi bilaterali conclusi dalla Comunità.
19
Poiché la risposta del governo austriaco a tale parere motivato, contenuta in due lettere del 27 febbraio e del 12 aprile
2001, non presenta alcun elemento nuovo, la Commissione ha deciso di proporre il presente ricorso.
Sul ricorso
20
A sostegno del suo ricorso, la Commissione solleva due censure. La prima è relativa al mancato riconoscimento, ai lavoratori
cittadini di altri Stati membri dell’Unione o del SEE, del diritto di essere eletti alle camere del lavoro. La seconda censura
concerne la negazione del diritto di eleggibilità all’assemblea plenaria delle camere del lavoro e al consiglio di fabbrica
ai lavoratori originari di un paese terzo, regolarmente occupati in Austria, il cui paese ha concluso con la Comunità un accordo,
che prevede il divieto di discriminazioni per quanto riguarda le condizioni di lavoro.
21
Occorre esaminare consecutivamente la fondatezza di queste due censure.
Sulla prima censura Argomenti delle parti
22
Secondo la Commissione, il requisito previsto dalla normativa austriaca, secondo il quale l’eleggibilità alle camere del lavoro
è subordinata al possesso della cittadinanza austriaca, è manifestamente incompatibile con gli artt. 39 CE e 8, n. 1, del
regolamento n. 1612/68, quali interpretati dalla Corte, nonché con l’art. 28 dell’accordo SEE, che conterrebbe disposizioni
analoghe.
23
Infatti, dalle sentenze 4 luglio 1991, causa C-213/90, ASTI (Racc. pag. I-3507; in prosieguo: la «sentenza ASTI I»), e 18
maggio 1994, causa C-118/92, Commissione/Lussemburgo (Racc. pag. I-1891; in prosieguo: la «sentenza ASTI II»), risulterebbe
che il divieto fondamentale di discriminazioni a causa della cittadinanza, enunciato dagli artt. 39 CE e 8, n. 1, del regolamento
n. 1612/68, è violato da una normativa nazionale che nega ai lavoratori cittadini di altri Stati membri il diritto di eleggibilità
alle elezioni ad organismi, quali le camere professionali, cui gli interessati sono obbligatoriamente iscritti e devono versare
un contributo e che sono incaricate della tutela nonché della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, esercitando inoltre
una funzione consultiva in ambito legislativo. La stessa conclusione dovrebbe valere per l’art. 28 dell’accordo SEE, le cui
disposizioni rilevanti sarebbero formulate in maniera identica a quelle dell’art. 39 CE.
24
Il governo austriaco chiede il rigetto di tale censura facendo valere che le camere del lavoro sono enti di diritto pubblico
che partecipano significativamente all’esercizio del potere pubblico, il che giustificherebbe l’esclusione di tutti i lavoratori
stranieri dal diritto di elettorato passivo in seno a tali organismi.
Giudizio della Corte
25
Al fine di statuire sulla fondatezza di tale censura, occorre ricordare in via preliminare che, nell’ambito della libera circolazione
dei lavoratori all’interno dell’Unione europea, l’art. 39, n. 2, CE, che costituisce d’altronde solamente un’espressione specifica
del divieto fondamentale di discriminazioni a causa della cittadinanza figurante all’art. 12, primo comma, CE, enuncia il
divieto di qualsiasi discriminazione, fondata sulla cittadinanza, fra i lavoratori degli Stati membri per quanto riguarda
l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro.
26
Tale principio è menzionato in numerose disposizioni particolari del regolamento n. 1612/68, tra cui, in special modo, gli
artt. 7 e 8.
27
Specificamente, l’art. 8, primo comma, del detto regolamento dispone che il lavoratore cittadino di uno Stato membro occupato
nel territorio di un altro Stato membro goda della parità di trattamento per quanto riguarda l’iscrizione alle organizzazioni
sindacali e l’esercizio dei diritti sindacali, ivi compreso il diritto di eleggibilità agli organi di rappresentanza dei lavoratori
nell’impresa.
28
A tale proposito la Corte ha già statuito, nelle sentenze ASTI I e ASTI II, che questa disposizione si applica al diritto
di elettorato attivo e passivo nell’ambito delle elezioni organizzate in seno ad organismi quali le camere professionali,
cui gli interessati sono obbligatoriamente iscritti e devono versare un contributo e che sono incaricate della tutela nonché
della rappresentanza degli interessi di questi ultimi.
29
Per quanto riguarda l’accordo SEE, il suo art. 28, n. 2, è formulato in termini quasi identici a quelli dell’art. 39, n. 2,
CE.
30
In tale contesto, dagli artt. 39, n. 2, CE, 8, primo comma, del regolamento n. 1612/68 e 28, n. 2, dell’accordo SEE risulta
che i lavoratori cittadini di uno Stato membro o di uno Stato parte dell’Associazione europea di libero scambio (in prosieguo:
l’«EFTA») che sono occupati in un altro Stato membro devono essere trattati allo stesso modo dei cittadini dello Stato membro
di accoglienza per quanto riguarda, in particolare, le condizioni di lavoro e, specificamente, i diritti sindacali, ivi incluso
il diritto all’eleggibilità a organismi di rappresentanza e di tutela degli interessi dei lavoratori quali le camere del lavoro
in Austria.
31
Orbene, è pacifico che la normativa nazionale di cui al presente ricorso subordina l’eleggibilità alle dette camere del lavoro
al possesso della cittadinanza austriaca, il che non è contestato dal governo di tale Stato membro.
32
Un tale requisito, soddisfatto solo dai lavoratori austriaci, costituisce quindi una discriminazione diretta nei confronti
dei lavoratori stranieri.
33
Ne consegue che la normativa della Repubblica d’Austria, che nega ai lavoratori cittadini di un altro Stato membro dell’Unione
europea o di uno Stato dell’EFTA il diritto di eleggibilità alle camere del lavoro, per il solo motivo che gli interessati
non possiedono la cittadinanza austriaca, è contraria al principio fondamentale che vieta qualsiasi discriminazione a causa
della cittadinanza sul quale si fondano le suddette disposizioni di diritto comunitario.
34
Tale conclusione non è in alcun modo messa in discussione dall’argomento del governo austriaco secondo il quale le camere
del lavoro in Austria sarebbero enti di diritto pubblico che partecipano significativamente all’esercizio del potere pubblico.
35
Infatti, dalle sentenze ASTI I e ASTI II risulta che una normativa nazionale che nega ai lavoratori cittadini di altri Stati
membri il diritto di elettorato attivo e/o passivo nell’ambito delle elezioni organizzate in senso ad organismi quali le camere
professionali, cui gli interessati sono obbligatoriamente iscritti e devono versare un contributo e che sono incaricate della
tutela nonché della rappresentanza degli interessi dei lavoratori, è contraria al divieto fondamentale di discriminazioni
a causa della cittadinanza, nonostante le dette camere rivestano la natura di organismi di diritto pubblico in base al diritto
nazionale ed esercitino una funzione consultiva in ambito legislativo.
36
Orbene, il governo austriaco non ha addotto alcun elemento che permetta di concludere che le camere del lavoro in Austria
presentino caratteristiche diverse da quelle proprie delle camere professionali lussemburghesi oggetto delle cause decise
con le summenzionate sentenze.
37
Del resto, per quanto riguarda specificamente le camere del lavoro in Austria, la Corte ha già statuito che il requisito della
cittadinanza, al quale la normativa austriaca subordina il diritto all’eleggibilità alle dette camere, è incompatibile con
il principio – enunciato dall’art. 10, n. 1, della decisione 19 settembre 1980, n. 1, relativa allo sviluppo dell’associazione
(in prosieguo: la «decisione n. 1/80»), adottata dal Consiglio d’associazione istituito dall’Accordo di associazione tra la
Comunità economica europea e la Turchia, firmato il 12 settembre 1963 ad Ankara dalla Repubblica di Turchia, da un lato, e
dagli Stati membri della CEE e dalla Comunità, dall’altro, e che è stato concluso, approvato e confermato a nome di quest’ultima
con decisione del Consiglio 23 dicembre 1963, 64/732/CEE (GU 1964, n. 217, pag. 3685; in prosieguo: l’«accordo di associazione
CEE‑Turchia») – dell’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza relativamente alle condizioni di lavoro
(sentenza 8 maggio 2003, causa C-171/01, Wählergruppe Gemeinsam, Racc. pag. I-4301).
38
Orbene, l’art. 10 della decisione n. 1/80 è formulato in termini quasi identici a quelli degli artt. 39, n. 2, CE e 28, n. 2,
dell’accordo SEE.
39
Si deve aggiungere che, in ogni caso, secondo costante giurisprudenza, la mancata applicazione delle norme sancite dall’art. 39
CE alle attività che implicano una partecipazione all’esercizio di poteri pubblici costituisce una deroga ad una libertà fondamentale
che, pertanto, deve essere interpretata in modo tale da limitarne la portata a quanto strettamente necessario per salvaguardare
gli interessi che gli Stati membri possono tutelare. Ne consegue che la deroga medesima non può giustificare che uno Stato
membro subordini, in termini generali, qualsiasi partecipazione ad un ente di diritto pubblico, quali le camere del lavoro
austriache, ad un requisito di cittadinanza. Tale deroga consente unicamente di escludere, eventualmente, i lavoratori stranieri
da talune specifiche attività dell’organismo di cui trattasi che implichino effettivamente, di per sé, una partecipazione
diretta a pubblici poteri (v., in particolare, sentenza ASTI I, punto 19, e sentenza Wählergruppe Gemeinsam, cit., punto 92).
40
La Corte ne ha dedotto, al punto 93 della citata sentenza Wählergruppe Gemeinsam, nella quale ha fatto riferimento al punto
20 della sentenza ASTI I, che, riguardo ai lavoratori stranieri che godono della parità di trattamento quanto alla retribuzione
e alle altre condizioni di lavoro, l’esclusione dall’elettorato passivo ad un organismo di rappresentanza e di tutela degli
interessi dei lavoratori, quali le camere del lavoro austriache, non può essere giustificata sulla base della natura giuridica
dell’organismo di cui trattasi come definita dal diritto nazionale, né della circostanza che taluni compiti dell’organismo
medesimo potrebbero comportare una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri.
41
Alla luce delle precedenti considerazioni, la prima censura della Commissione è fondata.
Sulla seconda censura Argomenti delle parti
42
Per quanto riguarda il mancato riconoscimento del diritto all’eleggibilità ai consigli di fabbrica e alle camere del lavoro
ai lavoratori cittadini di paesi terzi con i quali la Comunità ha concluso un accordo che garantisce a questi lavoratori la
parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, la Commissione ritiene che non esista alcuna ragione per
interpretare la nozione di «condizioni di lavoro» più restrittivamente che nell’ambito del Trattato CE. Quindi, anche se i
lavoratori dei paesi terzi interessati non godono della libertà di circolazione quale garantita dal Trattato, quelli tra loro
che esercitano un lavoro regolare in uno Stato membro non dovrebbero trovarsi in una situazione giuridica più sfavorevole
di quella dei loro colleghi cittadini comunitari. Tale sarebbe infatti, precisamente, lo scopo della clausola, iscritta negli
accordi di cui al presente ricorso, che prevede il divieto di discriminazioni a causa della cittadinanza.
43
Il governo austriaco ribatte che la nozione di «condizioni di lavoro» di cui agli accordi indicati dalla Commissione non comprende
il diritto dei lavoratori originari dei paesi terzi interessati di partecipare alle elezioni agli organi di rappresentanza
degli interessi dei lavoratori dipendenti previsti per legge quali le camere del lavoro ed i consigli di fabbrica. A tale
nozione dovrebbe essere infatti riconosciuta una portata meno ampia rispetto alla stessa nozione che figura nell’art. 39 CE
in quanto, da un lato, quest’ultima disposizione sarebbe stata esplicitata dal regolamento n. 1612/68, il cui art. 8, primo
comma, riguarda espressamente i diritti sindacali e analoghi, laddove una siffatta esplicitazione mancherebbe invece nell’ambito
degli accordi internazionali di cui trattasi, e, dall’altro, questi ultimi perseguirebbero obiettivi meno ambiziosi rispetto
a quelli del Trattato, in quanto non prevederebbero la libera circolazione dei lavoratori. Alla luce di queste considerazioni,
la seconda censura della Commissione non sarebbe fondata.
Giudizio della Corte
44
A tale proposito, già dalla giurisprudenza della Corte emerge che l’art. 37, n. 1, primo trattino, dell’accordo europeo che
istituisce un’associazione tra le Comunità europee e i loro Stati membri, da una parte, e la Repubblica di Polonia, dall’altra,
concluso e approvato a nome della Comunità con la decisione del Consiglio e della Commissione 13 dicembre 1993, 93/743/Euratom,
CECA, CE (GU L 348, pag. 1), istituisce a favore dei lavoratori di cittadinanza polacca, dal momento in cui sono legalmente
occupati nel territorio di uno Stato membro, un diritto alla parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro
della stessa portata di quello riconosciuto in termini analoghi ai cittadini comunitari dall’art. 48, n. 2, del Trattato CE
(divenuto, in seguito a modifica, art. 39, n. 2, CE) (sentenza 29 gennaio 2002, causa C-162/00, Pokrzeptowicz-Meyer, Racc.
pag. I-1049, punto 41).
45
Parimenti, nell’ambito dell’accordo di associazione CEE-Turchia, la Corte ha giudicato che l’art. 10, n. 1, della decisione
n. 1/80, la cui formulazione è quasi identica a quella dell’art. 39, n. 2, CE, impone ad ogni Stato membro, per quanto attiene
alle condizioni di lavoro dei lavoratori turchi inseriti nel regolare mercato del lavoro di tale Stato, obblighi analoghi
a quelli applicabili ai cittadini degli altri Stati membri (sentenza Wählergruppe Gemeinsam, cit., punto 77).
46
Come già rilevato al punto 37 della presente sentenza, la citata sentenza Wählergruppe Gemeinsam ha, del resto, fatto un preciso
riferimento al requisito della cittadinanza dal quale la normativa austriaca fa dipendere l’eleggibilità alle camere del lavoro
in Austria.
47
Orbene, come la Commissione ha correttamente fatto valere, non esiste alcun motivo di dare un’interpretazione diversa da quella
sancita nell’ambito del Trattato – e che, del resto, è già stata applicata per analogia per gli accordi conclusi con la Polonia
e la Turchia (v. punti 44-46 della presente sentenza) – al principio, enunciato nelle clausole di altri accordi conclusi tra
la Comunità e paesi terzi, dell’assenza di qualsiasi discriminazione fondata sulla cittadinanza per quanto riguarda le condizioni
di lavoro.
48
Sulla falsariga di quanto appena constatato, nell’ambito della prima censura, relativamente all’Unione europea e al SEE ed
in base agli stessi motivi, occorre quindi dichiarare che il detto principio osta all’applicazione, a cittadini che beneficino
di un accordo contenente una clausola dello stesso tipo e che esercitino regolarmente una professione in uno Stato membro,
di una normativa, quale quella vigente in Austria, che nega il diritto all’eleggibilità a organismi di rappresentanza e di
tutela degli interessi dei lavoratori, quali le camere del lavoro ed i consigli di fabbrica, per il solo motivo che gli interessati
sono cittadini stranieri.
49
Infatti, il divieto di discriminazioni a causa della cittadinanza sancito dagli accordi in questione implica che tutti i lavoratori,
siano essi cittadini nazionali o cittadini di uno dei paesi terzi interessati, beneficino di identiche condizioni di lavoro
e, in particolare, possano partecipare, allo stesso modo, alle elezioni organizzate in seno agli organismi di tutela e di
rappresentanza degli interessi dei lavoratori dipendenti. Una disparità di trattamento in funzione della cittadinanza è contraria
a tale divieto fondamentale.
50
Gli argomenti che il governo austriaco ha addotto a sostegno della tesi contraria non possono essere accolti.
51
Da un lato, per i motivi più ampiamente sviluppati ai punti 81-86 della citata sentenza Wählergruppe Gemeinsam, la circostanza
che la nozione di «altre condizioni di lavoro», usata dall’art. 48, n. 2, del Trattato CE (divenuto, dopo modifica, art. 39,
n. 2, CE) sia stata esplicitata dal regolamento n. 1612/68, in particolare dal suo art. 8, primo comma, che riguarda espressamente
i diritti sindacali ed analoghi, laddove una siffatta esplicitazione manca invece nell’ambito degli accordi bilaterali di
cui trattasi, non implica in alcun modo che la detta nozione abbia una portata meno ampia di quella enunciata dall’art. 39,
n. 2, CE, né che non inglobi, pertanto, il diritto per i lavoratori originari dei paesi terzi interessati di partecipare,
alle stesse condizioni dei lavoratori nazionali, alle elezioni di organismi di rappresentanza e di tutela degli interessi
dei lavoratori dipendenti.
52
Dall’altro, sia dalla formulazione letterale del divieto di discriminazioni per quanto riguarda le condizioni di lavoro, inserito
nei vari accordi conclusi tra la Comunità e taluni paesi terzi e che è enunciato in termini sostanzialmente identici a quelli
di cui all’art. 39, n. 2, CE, sia da un confronto del contesto e degli scopi di tali accordi con quelli del Trattato emerge
che non esiste alcuna ragione di attribuire a tale divieto una portata diversa da quella conferita dalla Corte all’art. 48,
n. 2, del Trattato CE (divenuto, in seguito a modifica, art. 39, n. 2, CE) nelle sentenze ASTI I e ASTI II (v., per analogia,
sentenza Wählergruppe Gemeinsam, cit., punti 88 e 89).
53
Tale interpretazione è, d’altronde, l’unica conforme alle finalità e alla ratio degli accordi considerati, perché il fatto
di riconoscere ai lavoratori cittadini di paesi terzi parti di tali accordi e regolarmente occupati nel territorio di uno
Stato membro il beneficio delle stesse condizioni di lavoro spettanti ai lavoratori cittadini degli Stati membri costituisce
un elemento importante destinato a realizzare un contesto adeguato ai fini della graduale integrazione dei detti lavoratori
migranti nello Stato membro di accoglienza (v., per analogia, le citate sentenze Pokrzeptowicz-Meyer, punto 42, e Wählergruppe
Gemeinsam, punto 79).
54
Alla luce di tali considerazioni, la seconda censura della Commissione deve parimenti essere accolta.
55
Di conseguenza, il ricorso della Commissione deve essere considerato fondato nella sua interezza.
56
Occorre quindi dichiarare che:
–
avendo negato il diritto all’eleggibilità in seno alle camere del lavoro ai lavoratori cittadini degli altri Stati membri
dell’Unione europea o del SEE, la Repubblica d’Austria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza degli artt.
39 CE e 8 del regolamento n. 1612/68, nonché dell’art. 28 dell’accordo SEE;
–
avendo negato il diritto all’eleggibilità in seno ai consigli di fabbrica e all’assemblea plenaria delle camere degli operai
e degli impiegati ai lavoratori cittadini di un paese terzo con il quale la Comunità ha concluso un accordo che prevede il
divieto di discriminazioni riguardo alle condizioni di lavoro nei confronti dei detti lavoratori che esercitino regolarmente
una professione in uno Stato membro, la Repubblica d’Austria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza delle
disposizioni di tali accordi.
Sulle spese
57
Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta
domanda. Poiché la Commissione ne ha fatto domanda, la Repubblica d’Austria, rimasta soccombente, va condannata alle spese.
Per questi motivi, la Corte (Seconda Sezione) dichiara e statuisce:
1)
a)
Avendo negato il diritto all’eleggibilità in seno alle camere degli operai e degli impiegati ai lavoratori cittadini degli
altri Stati membri dell’Unione europea o dello Spazio economico europeo, la Repubblica d’Austria è venuta meno agli obblighi
ad essa incombenti in forza degli artt. 39 CE e 8 del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612, relativo alla
libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità, come modificato dal regolamento (CEE) del Consiglio 27 luglio
1992, n. 2434, nonché dell’art. 28 dell’accordo sullo Spazio economico europeo.
2) La Repubblica d’Austria è condannata alle spese.