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Documento 61984CC0222

Conclusioni dell'avvocato generale Darmon del 28 gennaio 1986.
Marguerite Johnston contro Chief Constable of the Royal Ulster Constabulary.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Industrial Tribunal, Belfast (Northern Ireland) - Regno Unito.
Parità di trattamento fra uomini e donne - Agenti armati di un corpo di polizia ausiliario.
Causa 222/84.

Raccolta della Giurisprudenza 1986 -01651

Identificatore ECLI: ECLI:EU:C:1986:44

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

MARCO DARMON

del 28 gennaio 1986 ( *1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

Comincerò con l'inquadrare il caso sottopostovi in via pregiudiziale nel suo contesto sociale e politico. Siamo in Irlanda del Nord. Disordini di straordinaria gravità minacciano l'ordine pubblico e la sicurezza del paese. Questa situazione è accertata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, la quale, nella sentenza 18 gennaio 1978, ne colloca il momento iniziale nel 1970 e parla della « più lunga e violenta offensiva terroristica scatenata nelle due parti dell'Irlanda ». Né può dirsi che questo periodo si sia concluso.

In simili circostanze le forze dell'ordine, e in primo luogo la polizia, hanno un ruolo essenziale. Com'è specificato nella relazione d'udienza — alla quale rinvio espressamente per quanto riguarda la narrazione degli antefatti e del procedimento, nonché le questioni pregiudiziali — la Royal Ulster Constabulary (RUC) è posta sotto l'autorità del Chief Constable il quale, inoltre, può nominare. agenti ausiliari a tempo pieno o a mezzo tempo, che costituiscono la Royal Ulster Constabulary Reserve (RUCR). Al pari delle leggi vigenti in Inghilterra e nel Galles, le norme che disciplinano l'organizzazione della RUC e della RUCR non fanno alcuna distinzione tra uomini e donne per quanto riguarda i compiti svolti dagli agenti di polizia.

Pertanto, già nel 1973 veniva assunto personale femminile a mezzo tempo nella RUCR e dal 1974 delle donne prestano la loro opera a tempo pieno nella cosiddetta RUC Full-time Reserve in base a contratti triennali rinnovabili. Il contratto della ricorrente nella causa principale, sig. ra Johnston, assunta a mezzo tempo e successivamente a tempo pieno nel 1974, veniva rinnovato nel 1977.

Mentre, di regola, nel Regno Unito le forze di polizia non sono armate, la situazione esistente nell'Irlanda del Nord ha indotto le autorità competenti a dotare gli agenti di polizia di armi da fuoco nell'esercizio normale delle loro funzioni. Tuttavia, questa deroga alla suddetta regola vale solo per gli agenti di sesso maschile, per le seguenti ragioni: evitare il rischio che le donne restino vittime di attentati e che gli aggressori si impadroniscano delle loro armi, preservare l'efficacia dell'opera svolta dagli agenti di sesso femminile nel campo sociale e continuare a conformarsi, almeno per quanto riguarda detti agenti, all'ideale costituito da una polizia disarmata. Di conseguenza, le donne non vengono addestrate al maneggio delle armi da fuoco.

Nel 1980 il Chief Constable compiva un altro passo in questa direzione. Data la necessità di adibire il personale della RUC Full-time Reserve principalmente a compiti di pubblica sicurezza implicanti l'uso di armi da fuoco, egli decideva di non rinnovare i contratti degli agenti ausiliari di sesso femminile qualora i compiti di questi agenti potessero essere svolti da personale di sesso femminile della RUC. Pertanto, il contratto della Johnston, come quelli di quasi tutte le sue colleghe, non veniva rinnovato nel 1980.

È pacifico che tale provvedimento non dipendeva affatto dalla qualità del lavoro svolto dall'interessata, ma veniva adottato unicamente in ragione del suo sesso. Di conseguenza, la Johnston deduceva dinanzi al giudice nazionale di essere vittima di una discriminazione contrastante con la direttiva 76/207 del Consiglio, del 9 febbraio 1976, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40).

2. 

La suddetta direttiva è stata recepita nel Regno Unito. Nell'Irlanda del Nord il rece-pimento è stato effettuato col Sex Discrimination (Northen Ireland) Order 1976 [Statutory Instruments 1976, n. 1042 (NI 15)]. Non esporrò particolareggiatamente il contenuto di questo atto, già descritto nella relazione d'udienza, ma mi limiterò a ricordare che:

l'art. 10 dello stesso riguarda i casi eccezionali nei quali la discriminazione in base al sesso è giustificata;

per quanto concerne il lavoro nella polizia, l'art. 19, n. 2, vieta — salvo che in materie che qui non interessano — qualsiasi trattamento discriminatorio in ragione del sesso;

l'art. 53 dichiara legittimi gli atti contrastanti col suddetto divieto qualora siano adottati « per salvaguardare la sicurezza dello Stato o per tutelare la pubblica sicurezza o l'ordine pubblico » ed attribuisce valore di prova inoppugnabile al certificato ministeriale attestante che un determinato atto è stato adottato per detti scopi.

Quest'ultima disposizione è al centro della controversia. Nel caso di specie il ministro competente ha emesso il 13 maggio 1981 un certificato a tenore del quale

« l'atto col quale la Royal Ulster Constabulary si è rifiutata di offrire alla sig.ra Marguerite Johnston un nuovo posto di lavoro a tempo pieno nella Royal Ulster Constabulary Reserve è stato adottato allo scopo:

a)

di salvaguardare la sicurezza dello Stato e

b)

di tutelare la pubblica sicurezza e l'ordine pubblico ».

Come l'Industriai Tribunal dell'Irlanda del Nord, avente sede in Belfast, rileva nel provvedimento di rinvio:

il Chief Constable ammette che la decisione impugnata non è giustificata da nessun'altra disposizione del Sex Discrimination Order (punto 40);

la ricorrente ammette che l'art. 53 non le consente di sollevare alcuna eccezione in base al diritto nazionale (punto 34).

Collocate nel contesto appena descritto, le sette questioni del giudice nazionale fanno emergere che nel pronunziarvi sulla discriminazione di cui trattasi dovete soppesare due ordini d'esigenze: quelle dell'ordine pubblico e quelle dell'ordinamento giuridico; il sindacato giurisdizionale si colloca nel punto d'intersezione fra queste due nozioni.

Si dovrà pertanto stabilire se, per i motivi di ordine pubblico, uno Stato membro possa escludere ogni sindacato giurisdizionale sulla legittimità di un provvedimento nazionale con riguardo alla normativa nazionale o alla normativa comunitaria. In caso negativo, occorrerà accertare se, e in base a quali presupposti, il provvedimento considerato possa trovare, sotto il controllo del giudice, una giustificazione basata sull'ordine pubblico nella normativa comunitaria.

Il diritto di adire il giudice

3.

Il principio di legalità, anche se costituisce la pietra angolare dello Stato di diritto, non esclude la presa in considerazione delle esigenze dell'ordine pubblico. Queste esigenze devono anzi essere integrate nel suddetto principio perché possa essere garantita la sopravvivenza dello Stato, evitando nel contempo l'arbitrio. A questo proposito, il sindacato giurisdizionale costituisce una garanzia fondamentale: il diritto di adire il giudice è inerente allo Stato di diritto.

La Comunità europea, composta di Stati di diritto, è necessariamente una Comunità di diritto. La sua creazione e il suo funzionamento — in altre parole il patto comunitario — riposano sull'unanime rispetto dell'ordinamento giuridico comunitario da parte degli Stati membri.

Detto ordinamento giuridico include quindi espressamente, ferma restando la garanzia del sindacato giurisdizionale, la nozione di ordine pubblico allo scopo di conciliare il buon funzionamento del mercato comune con la necessità degli Stati membri di far fronte ai pericoli che minaccino i loro interessi vitali.

I partecipanti al presente procedimento si sono richiamati in particolare agli artt. 36, 48 e 224 del trattato. Ciascuna di dette disposizioni conferma il mio modo di vedere.

Per quanto riguarda le riserve figuranti negli artt. 36 e 48 con riguardo all'ordine pubblico, la Corte di giustizia, facendo opera creatrice, ha saputo, pur confermando il potere discrezionale degli Stati membri quanto alla determinazione del contenuto della nozione di ordine pubblico, stabilire il principio e la portata del controllo esercitato in materia dal giudice nazionale.

Per quanto riguarda la clausola di salvaguardia di cui all'art. 224, la Corte non ha ancora avuto occasione di pronunziarsi sui presupposti della sua applicazione. Tuttavia, l'art. 225, 2° comma, contempla espressamente un ricorso esperibile dinanzi alla Corte in caso di abuso, da parte di uno Stato membro, dei poteri conferitigli dall'art. 224. Detta disposizione non esclude il sindacato del giudice nazionale in materia né, pertanto, il rinvio pregiudiziale alla Corte.

4.

Il trattato e la vostra giurisprudenza stabiliscono quindi il principio fondamentale corollario del principio di legalità — secondo cui le esigenze dell'ordine pubblico, anche se possono influire sulla portata del sindacato giurisdizionale, non possono mettere in discussione il principio del diritto di adire il giudice.

Di conseguenza, la disposizione nazionale che, anche se basata su considerazioni di ordine pubblico, escluda radicalmente il sindacato giurisdizionale, sarebbe secondo me in contrasto con l'ordinamento giuridico comunitario. Essa, infatti, sottraendo degli atti degli Stati membri alla legalità comunitaria originaria, derivata o attuata dai diritti nazionali — consentirebbe la creazione, a discrezione delle autorità nazionali, di una « zona di non diritto », compromettendo le basi stesse del suddetto ordinamento giuridico.

Per quel che riguarda in particolare la parità di trattamento fra uomini e donne sul piano del lavoro, l'art. 6 della direttiva stabilisce quanto segue:

« Gli Stati membri introducono nei rispettivi ordinamenti giuridici interni le misure necessarie per permettere a tutti coloro che si ritengano lesi dalla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, ai sensi degli artt. 3, 4 e 5, di far valere i propri diritti per via giudiziaria, eventualmente dopo aver fatto ricorso ad altre istanze competenti ».

Nella sentenza von Colson e Kamann avete affermato che detto articolo,

« attribuendo un'azione giurisdizionale ai candidati che siano stati discriminati, attribuisce loro dei diritti che possono essere fatti valere dinanzi al giudice » (causa 14/83, Race. 1984, pag. 1891, punto 22).

Ne avete inferito che il giudice nazionale, dinanzi ad una disposizione della sua normativa nazionale che comprometta l'efficacia di un obbligo stabilito da una direttiva — nel nostro caso dalla direttiva 76/207 — è tenuto, come autorità di uno Stato membro al quale incombe, in forza dell'art. 5 del trattato, il dovere di

« adottare i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale obbligo » (sentenza 14/83, punto 26 della motivazione),

a dare a detta normativa

« un'interpretazione e un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario » (sentenza 14/83, punto 28 della motivazione).

Ne consegue che detto giudice non può, senza infrangere esso stesso l'art. 5 del trattato e la direttiva, considerarsi vincolato dalla disposizione nazionale che escluda, per motivi di ordine pubblico, ogni sindacato giurisdizionale sull'attuazione di quanto prescritto dal legislatore comunitario.

L'obbligo suddetto incombe in maniera più tassativa al giudice nazionale quando, come nella fattispecie, egli operi nella veste di giudice competente ad applicare il diritto comunitario poiché l'art. 6, in quanto disposizione assoluta e sufficientemente precisa, ha incontestabilmente efficacia diretta. Pertanto, il diritto al rimedio giuridizionale da detto articolo contemplato può essere fatto valere dai singoli avverso qualsiasi disposizione con esso contrastante e a questo proposito l'autorità del Chief Constable non può essere scissa da quella dello Stato che gliela conferisce.

Ciò precisato, ritengo che, per motivi analoghi a quelli che vi hanno indotto a pronunziarvi in questo senso nella causa Simmenthal (causa 106/77, Race. 1978, pag. 629, punto 22) a proposito di un regolamento, debba essere considerata

« incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario qualsiasi disposizione facente parte dell'ordinamento giuridico d'uno Stato membro o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, la quale porti ad una riduzione della concreta efficacia del diritto comunitario per il fatto che sia negato al giudice, competente ad applicare questo diritto, il potere di fare, all'atto stesso di tale applicazione, tutto quanto è necessario per disapplicare le disposizioni legislative nazionali che eventualmente ostino alla piena efficacia delle norme comunitarie ».

Mi sembra pertanto che non sia lecito agli Stati membri escludere, per motivi di ordine pubblico, ogni controllo giurisdizionale sulla legittimità di un provvedimento nazionale con riguardo alle norme comunitarie. Spetta, di conseguenza, al giudice nazionale che si trovi dinanzi ad una situazione del genere« garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale (...) » (sentenza 106/77, dispositivo, pag. 645).

La portata del sindacato giurisdizionale

5.

Ci si deve ora chiedere se l'ordine pubblico, anche se non può giustificare l'esclusione del sindacato del giudice, possa però, facendo salvo detto sindacato, legittimare provvedimenti come quelli adottati dal Chief Constable — riguardanti il porto d'armi da fuoco, il relativo addestramento e in definitiva l'accesso al lavoro — la cui natura discriminatoria non è contestata.

Tale legittimazione, costituendo una deroga al diritto comunitario vigente, deve essere basata su questo diritto.

Né l'art. 36 né l'art. 48, n. 3, sono pertinenti a questa materia. Per quanto riguarda l'art. 224, invocato dal Regno Unito e oggetto della settima questione, il problema è più complesso. L'art. 224 recita:

« Gli Stati membri si consultano al fine di prendere di comune accordo le disposizioni necessarie ad evitare che il funzionamento del mercato comune abbia a risentire delle misure che uno Stato membro può essere indotto a prendere nell'eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l'ordine pubblico, in caso di guerra o di grave tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra ovvero per far fronte agli impegni da esso assunti ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ».

Rispetto agli altri due articoli, che contemplano deroghe a norme precise, l'articolo appena citato costituisce una « clausola di salvaguardia » avente una sfera d'applicazione generale. Come ogni norma di carattere generale, esso si applica solo in mancanza di norme specifiche. In quanto clausola di salvaguardia, esso è la « ultima ratio » alla quale si può far ricorso soltanto quando manchino altre disposizioni comunitarie che consentano di tener conto delle esigenze d'ordine pubblico di cui trattasi.

Orbene, in quanto le esigenze dell'ordine pubblico lo impongano, gli interessi del Regno Unito possono, secondo me, essere presi in considerazione nell'ambito della direttiva 76/207. Di conseguenza, non è necessario esaminare la questione dell'applicazione dell'art. 224.

6.

Il giudice nazionale vi chiede di precisare, con riferimento alla situazione specifica esistente nell'Irlanda del Nord, se dei provvedimenti, con i quali si riservino agli uomini

l'accesso all'attività lavorativa di agente armato di un corpo di polizia ausiliario,

il porto di armi da fuoco e l'addestramento al maneggio e all'uso delle stesse

possano costituire deroghe lecite in base alla direttiva.

In altre parole, vi si chiede se siffatti provvedimenti possano essere giustificati da motivi di ordine pubblico:

perché il posto di lavoro di cui trattasi, in ragione della natura e delle condizioni di esercizio delle attività che esso comporta, può essere attribuito soltanto a un uomo, cioè perché il sesso costituisce nella fattispecie un requisito determinante ai sensi dell'art. 2, n. 2;

oppure perché lo richiede la protezione della donna e, in questa ipotesi, se possano trovare applicazione gli artt. 2, n. 3, o 3, n. 2, lett. c).

7.

Occorre fare una distinzione tra i provvedimenti discriminatori a seconda che essi siano stati adottati prima o dopo l'eliminazione della direttiva.

L'art. 3, n. 2, leu. e), riguarda i provvedimenti della prima categoria, vale a dire, nel caso presente, la decisione del Chief Constable di armare soltanto gli uomini della RUC Full-time Reserve e di escludere le donne anche dall'addestramento al maneggio delle armi.

Tra le giustificazioni fornite in proposito dall'autorità competente solo l'intento di evitare che le donne divengano obiettivo di attentati potrebbe rientrare nel motivo di protezione della donna in senso lato. Si deve notare che le questioni sul punto sollevate dal giudice nazionale (quarta e quinta) vertono essenzialmente sul se le circostanze descritte siano tali da giustificare, sotto il profilo della protezione della donna, la decisione di vietare agli agenti di sesso femminile il porto di armi da fuoco.

A priori non lo si può escludere. I provvedimenti che, come quello di cui trattasi, erano in vigore al momento della notifica della direttiva devono, a norma dell'art. 9, n. 1, 2° comma della stessa, essere riesaminati dagli Stati membri. Tuttavia, l'adempimento di detto obbligo non costituisce presupposto dell'intervento del giudice nazionale. Poiché detti provvedimenti fanno ancora parte del diritto positivo, spetta al giudice nazionale, in base all'art. 6, stabilire se le circostanze che ne hanno giustificato l'adozione ne rendano ancora necessario il mantenimento in vigore, e in particolare accertare se detti provvedimenti non siano divenuti sproporzionati rispetto allo scopo perseguito.

8.

L'ultimo provvedimento, cioè l'esclusione delle donne dall'accesso al lavoro di cui trattasi, è stato adottato dal Chief Constable dopo l'emanazione della direttiva. Pertanto, esso non rientra nella sfera d'applicazione dell'art. 3, n. 2, lett. c), ma può ricadere soltanto sotto le altre due disposizioni menzionate dal giudice nazionale

Può il suddetto provvedimento essere giustificato dal motivo della « protezione della donna » menzionato nell'art. 2, n. 3? Questa seconda giustificazione — la prima è la tutela dell'ordine pubblico — riguarda non le donne in generale, ma specificamente le donne poliziotto.

È incontestabile che i compiti di mantenimento e di ripristino dell'ordine espongono coloro che li espletano a rischi e pericoli. Questi rischi e pericoli sono maggiori per le donne che per gli uomini per motivi inerenti al sesso?

Invero, se l'art. 2, n. 3, può essere invocato per limitare i diritti della donna, è escluso che si possano prendere in considerazione, in forza di detta disposizione, motivi di protezione — per quanto fondati — di natura socioculturale o addirittura politica. In altre parole, non mi sembra che un'autorità nazionale possa, in conformità al diritto comunitario, opporsi all'accesso delle donne all'attività lavorativa di agente di polizia armato, poiché altrimenti farebbe suo il giudizio di Amleto: «Fragilità, il tuo nome è donna ». In questa conclusione mi conforta peraltro la vostra sentenza Hoffman, in cui avete affermato che la direttiva legittima i provvedimenti intesi a proteggere la « condizione biologica della donna » durante la gravidanza e il parto e le « particolari relazioni» che legano la madre al neonato subito dopo la nascita (causa 184/83, Race. 1984, pag. 3047, punto 25).

9.

Non resta pertanto che accertare se il n. 2 dell'art. 2 possa fornire l'avallo che il n. 3 non mi è parso idoneo a prestare.

La suddetta disposizione — ve lo ricordo — recita:

« La presente direttiva non pregiudica la facoltà degli Stati membri di escluderne dal campo di applicazione le attività professionali ed eventualmente le relative formazioni, per le quali, in considerazione della loro natura o delle condizioni per il loro esercizio, il sesso rappresenti una condizione determinante ».

È vano cercare in questo testo il sia pur minimo riferimento alla protezione della donna, né vi si fa menzione dell'ordine pubblico. Il silenzio, però, non significa esclusione.

L'art. 2, n. 2, infatti, non enumera affatto i motivi che giustificano le deroghe al principio della parità di trattamento. Esso si riferisce in termini generici alle attività lavorative la cui natura o le condizioni del cui esercizio determinano il sesso dei dipendenti che devono svolgerle. È ovvio che in determinate circostanze le esigenze dell'ordine pubblico possano legittimamente indurre le autorità di uno Stato membro a riservare talune mansioni attinenti al mantenimento dell'ordine alle persone di un determinato sesso. Questo vale anche per le esigenze della protezione della donna diverse da quelle contemplate dall'art. 2, n. 3; alludo alle esigenze di indole sociale (culturali, politiche, ecc), che sono soggette a riesame periodico a norma dell'art. 9, n. 2.

Come dimostra il caso di specie, ordine pubblico e protezione della donna possono essere strettamente connessi tra loro. Il giudice nazionale dovrà quindi accertare se rispetto agli uomini le donne siano esposte a pericoli maggiori nell'esercizio delle attività di poliziotto armato, vale a dire se il sesso debba essere preso in considerazione per l'esercizio dell'attività di cui trattasi. In caso affermativo, gli toccherà, per stabilire se « il sesso rappresenti una condizione determinante », valutare il provvedimento criticato con riguardo al principio di proporzionalità, cioè accertare se lo stesso scopo non potesse essere conseguito con un altro provvedimento, senza che le donne venissero escluse dall'accesso all'impiego.

Bisogna dirlo chiaramente: una deroga ad un principio d'importanza così fondamentale per la persona umana come quello della parità di trattamento dev'essere valutata in base a criteri restrittivi, tenendo conto segnatamente della situazione eccezionale esistente, nel periodo considerato, nell'Irlanda del Nord.

10.

Dato il carattere generale della sesta questione, mi sembra opportuna un'ultima precisazione circa l'efficacia diretta delle disposizioni della direttiva diverse dall'art. 6, sul quale mi sono già pronunziato. Questo problema si può porre solo nel caso in cui il giudice nazionale dichiarasse che le circostanze invocate non possono giustificare, in base agli artt. 2, n. 2, o 3, n. 2, lett. c), i provvedimenti criticati. In tale ipotesi il principio sancito dall'art. 2, n. 1, della direttiva avrebbe nuovamente pieno vigore. La sesta questione potrebbe indurre ad esaminare se quest'ultima disposizione abbia efficacia diretta. Non lo ritengo però necessario, giacché non è contestato che il principio di cui all'art. 2, n. 1, è stato correttamente recepito nel diritto nazionale.

Vi propongo, di conseguenza, di pronunziarvi nei seguenti termini:

1)

Non è lecito ad uno Stato membro escludere, per motivi di ordine pubblico, ogni sindacato giurisdizionale sulla legittimità di un provvedimento nazionale con riguardo alle norme comunitarie. Spetta al giudice nazionale adito da un singolo in forza dell'art. 6 della direttiva 76/207, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, garantire la piena efficacia delle norme suddette, disapplicando all'occorrenza qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale.

2)

Il provvedimento con cui si vieta agli agenti di polizia di sesso femminile di portare armi da fuoco e di seguire corsi di addestramento al maneggio delle stesse:

non può essere considerato disposizione relativa alla protezione della donna ai sensi dell'art. 2, n. 3, della direttiva 76/207;

può, se era in vigore al momento della notifica di detta direttiva, rientrare tra i provvedimenti contemplati dall'art. 3, n. 2, lett. c), della stessa.

3)

La decisione di escludere le donne dall'accesso all'attività lavorativa a tempo pieno di agente armato di un corpo di polizia ausiliario può, tenuto conto delle circostanze eccezionali relative all'ordine pubblico e delle esigenze relative alla protezione delle interessate, essere considerata come deroga contemplata dall'art. 2, n. 2, della direttiva.

4)

Per l'applicazione delle pertinenti disposizioni della direttiva ai provvedimenti considerati, spetta al giudice nazionale,

qualora la disparità di trattamento sussistesse già al momento della notifica della direttiva, accertare, a norma dell'art. 3, n. 2, leu. e), se il motivo di protezione cui detto trattamento era originariamente ispirato resti fondato;

qualora la disparità di trattamento sia stata istituita successivamente alla notifica della direttiva, accertare, a norma dell'art. 2, n. 2, se il sesso costituisca requisito determinante per l'esercizio dell'attività considerata;

in caso affermativo, nell'una e nell'altra ipotesi, accertare se i provvedimenti adottati siano proporzionati agli scopi perseguiti.

5)

Poiché la clausola di salvaguardia di cui all'art. 224 del trattato CEE può essere invocata da uno Stato membro solo in mancanza di altra disciplina comunitaria contenente una disposizione derogatoria basata sull'ordine pubblico, non occorre risolvere l'ultima questione pregiudiziale.


( *1 ) Traduzione dal francese.

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