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Document 52004AE0964

    Parere del Comitato economico e sociale europeo in merito alla Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni e alle parti sociali a livello comunitario relativa al riesame della direttiva 93/104/CE concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro (COM(2003) 843 def.)

    GU C 302 del 7.12.2004, p. 74–79 (ES, CS, DA, DE, ET, EL, EN, FR, IT, LV, LT, HU, MT, NL, PL, PT, SK, SL, FI, SV)

    7.12.2004   

    IT

    Gazzetta ufficiale dell'Unione europea

    C 302/74


    Parere del Comitato economico e sociale europeo in merito alla Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni e alle parti sociali a livello comunitario relativa al riesame della direttiva 93/104/CE concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro

    (COM(2003) 843 def.)

    (2004/C 302/16)

    La Commissione, in data 5 gennaio 2004, ha deciso, conformemente al disposto dell'articolo 262 del Trattato che istituisce la Comunità europea, di consultare il Comitato economico e sociale europeo in merito alla proposta di cui sopra.

    La sezione specializzata Occupazione, affari sociali, cittadinanza, incaricata di preparare i lavori del Comitato in materia, ha formulato il proprio parere in data 14 giugno 2004, sulla base del progetto predisposto dal relatore HAHR.

    Il Comitato economico e sociale europeo, in data 30 giugno 2004, nel corso della 410a sessione plenaria, ha adottato il seguente parere con 154 voti favorevoli, 71 voti contrari e 13 astensioni.

    1.   Contenuto del documento della Commissione

    1.1

    Oggetto della comunicazione è la direttiva 93/104/CE del 23 novembre 1993, modificata dalla direttiva 2000/34/CE, che prevede prescrizioni minime in materia di organizzazione dell'orario di lavoro volte a garantire un miglior livello di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori.

    1.2

    La comunicazione si prefigge tre obiettivi, illustrati ai punti 1.2.1, 1.2.2 e 1.2.3.

    1.2.1

    In primo luogo intende valutare l'applicazione delle due disposizioni della direttiva che devono essere riesaminate prima del 23 novembre 2003, ovverosia prima della scadenza del periodo settennale che decorre dalla data imposta agli Stati membri per il recepimento. Si tratta della facoltà, contemplata all'articolo 17, paragrafo 4, di derogare ai periodi di riferimento per l'applicazione dell'articolo 6 relativo alla durata massima settimanale del lavoro, nonché della facoltà, concessa agli Stati membri dall'articolo 18, paragrafo 1, lettera b), punto i), di non applicare l'articolo 6, a condizione che vengano adottate misure intese a garantire che i lavoratori abbiano dato il loro consenso a lavorare per più di 48 ore alla settimana (possibilità generalmente nota sotto il nome di opt-out).

    1.2.2

    In secondo luogo la Commissione intende analizzare l'impatto della giurisprudenza della Corte per quanto riguarda sia la definizione dell'orario di lavoro e dei periodi di guardia, sia i recenti sviluppi volti a migliorare la compatibilità tra la vita professionale e quella familiare.

    1.2.3

    La Commissione intende infine sentire il parere del Parlamento europeo e del Consiglio, come pure del Comitato economico e sociale europeo, del Comitato delle regioni e delle parti sociali, in merito a un'eventuale revisione del testo.

    1.2.4

    In questo contesto è opportuno ricordare che l'11 febbraio 2004 il Parlamento europeo ha adottato una relazione che chiede la progressiva e completa eliminazione delle disposizioni relative all'opt-out. Il 19 maggio la Commissione ha elaborato un secondo documento di consultazione, con il quale invita le parti sociali a negoziare, e, in caso di insuccesso, a fornire indicazioni esaurienti quanto all'orientamento dell'eventuale legislazione che potrebbe essere da essa proposta in un secondo momento.

    2.   Osservazioni di carattere generale

    2.1

    Il CESE ritiene inadeguato il metodo di consultazione utilizzato dalla Commissione, dato che si tratta di una materia che a livello nazionale è oggetto di contrattazione collettiva. La Commissione avrebbe dovuto consultare le parti sociali prima di avviare la procedura di consultazione con le istituzioni europee, il CESE e il Comitato delle regioni.

    2.2

    Di fatto, la Commissione non presenta alcuna proposta concreta intesa ad apportare modifiche alla direttiva. Con tale consultazione mira invece ad ottenere delle risposte in merito a cinque argomenti principali, in vista di una futura revisione della direttiva:

    durata dei periodi di riferimento (attualmente di quattro mesi, ma alcune disposizioni autorizzano periodi di sei mesi o di un anno),

    definizione del tempo di lavoro alla luce delle recenti sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee sui periodi di guardia,

    condizioni di applicazione dell'opt-out,

    misure destinate a garantire un miglior equilibrio tra la vita professionale e la vita familiare,

    equilibrio ideale tra queste misure.

    2.2.1

    Per poter dare una risposta esaustiva ai cinque quesiti posti dalla Commissione, è necessario non soltanto conoscere nei dettagli la direttiva generale 93/104/CE sull'orario di lavoro, ma anche analizzare le modalità con le quali questa direttiva è stata recepita nella legislazione degli Stati membri, l'impatto esercitato dalla sua attuazione sulla precedente legislazione nazionale in materia di orario di lavoro e gli effetti prodotti dai contratti collettivi nazionali di categoria. Il Comitato constata che la relazione (1) pubblicata dalla Commissione e il contenuto della comunicazione in esame chiariscono solo parzialmente queste problematiche. È per questo motivo che la posizione del Comitato avrà necessariamente un carattere più globale.

    2.2.2

    Per garantire un più elevato livello di protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, in linea con le disposizioni sociali del Trattato CE (articolo 136 e seguenti) e con la direttiva 89/391 CEE, la direttiva generale sull'orario di lavoro 93/104/CE prescrive specificamente quanto segue:

    una durata media del lavoro settimanale che non superi le 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario,

    un periodo minimo di riposo di 11 ore consecutive per ogni periodo di 24 ore,

    una pausa qualora l'orario di lavoro giornaliero superi le 6 ore,

    un periodo minimo di riposo di 24 ore alla settimana,

    ferie annuali retribuite di 4 settimane,

    una durata quotidiana massima del lavoro notturno che non superi le 8 ore di media.

    2.2.3

    La direttiva stabilisce inoltre le condizioni alle quali gli Stati membri e le parti sociali nazionali, in virtù rispettivamente della legislazione nazionale e dei contratti collettivi, possono derogare alle sue disposizioni: le deroghe sono consentite esclusivamente a condizione che vengano rispettati i principi generali in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

    2.2.4

    Benché purtroppo non si disponga di una valutazione d'insieme che consenta di stabilirlo con certezza, il Comitato parte dall'ipotesi che l'attuazione della direttiva negli Stati membri abbia migliorato le condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori dell'Unione europea nella misura inizialmente auspicata, perlomeno sul lungo termine. È questo il motivo per cui è necessario ponderare e motivare con attenzione le modifiche che si apporteranno al contenuto della direttiva, soprattutto a partire dalle valutazioni degli interlocutori sociali.

    2.2.5

    A parte tutto questo, si deve tener conto del fatto che le norme contenute nella direttiva sono frutto di dibattiti e riflessioni che risalgono a oltre quattordici anni fa. Le decisioni della Corte di giustizia in merito all'interpretazione dei concetti di «orario di lavoro» e di «riposo compensativo» hanno provocato gravi problemi in molti Stati membri. In questo contesto il Comitato accoglie con interesse, pur sottolineandone i limiti già accennati, la procedura di consultazione lanciata dalla Commissione, che consente di raccogliere punti di vista diversi circa il modo in cui la direttiva e la legislazione da essa derivata hanno funzionato negli Stati membri, colmando così le lacune di informazione di cui sopra. In conformità con le disposizioni del Trattato CE, il ruolo essenziale in questa procedura di consultazione spetta ovviamente in primo luogo agli interlocutori sociali.

    2.2.6

    L'orario di lavoro e la sua organizzazione sono un elemento fondamentale del rapporto quotidiano tra il datore di lavoro e il lavoratore, nonché delle relazioni tra le associazioni imprenditoriali e i sindacati. È questo il motivo per cui l'elaborazione di norme che disciplinino l'orario di lavoro nei contratti collettivi è di vitale importanza per le parti sociali, che vantano grande esperienza in materia.

    2.2.7

    La legislazione nazionale in materia di orario di lavoro si fonda generalmente sull'idea che il datore di lavoro e il lavoratore condividono la responsabilità di organizzare in modo soddisfacente il tempo di lavoro. Spetta alle parti sociali dei vari Stati membri risolvere a diversi livelli, sulla base delle norme vigenti in materia e sempre nel quadro dei contratti collettivi, i problemi di orario che emergono sul luogo di lavoro.

    2.2.8

    Da un esame strettamente giuridico delle norme previste dalla direttiva sull'orario di lavoro in materia di riposo giornaliero, tempi di pausa, riposo settimanale e orario di lavoro settimanale, nonché dal raffronto tra queste norme e le disposizioni relative alle deroghe di cui all'articolo 17, risulta che la direttiva deve essere considerata come uno strumento che offre un margine sufficiente di flessibilità contrattata, a parte le conseguenze delle decisioni della Corte di giustizia in materia di tempi di guardia. Si constata tuttavia che la direttiva sull'orario di lavoro risulta essere una sezione particolarmente complessa del diritto comunitario. Il Comitato propone pertanto che la Commissione, nel contesto di una eventuale proposta di revisione della direttiva, analizzi anche le condizioni alle quali sarebbe possibile semplificare la direttiva stessa: tale semplificazione, tuttavia, non deve avvenire a detrimento dei requisiti fondamentali in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori.

    3.   Osservazioni specifiche

    3.1   Periodi di riferimento

    3.1.1

    Sin dalla pubblicazione della direttiva in esame, in Europa è cominciato il dibattito sull'orario di lavoro annuale. Il concetto di orario di lavoro annuale può essere semplicemente definito come un sistema nel quale il periodo di riferimento per calcolare la durata media del lavoro settimanale è pari ad un anno o a 365 giorni.

    3.1.2

    L'articolo 6 della direttiva sull'orario di lavoro contiene una norma che prevede un orario settimanale medio di 48 ore. Questo numero di ore può essere ripartito su quattro mesi, oppure, fatte salve le deroghe di cui all'articolo 17, su sei o dodici mesi (2). Per quanto riguarda lo scaglionamento del tempo di lavoro nell'arco di un determinato periodo di riferimento, la direttiva conferisce quindi un certo margine di libertà. È ovvio tuttavia che nell'organizzare il tempo di lavoro si devono rispettare le disposizioni relative al riposo giornaliero, al riposo settimanale, al lavoro notturno ecc., nonché i principi generali in materia di salute e sicurezza dei lavoratori.

    3.1.3

    Nella comunicazione la Commissione constata che «non è sempre facile analizzare le leggi nazionali per quanto riguarda il recepimento degli articoli 6 e 16» (3) (che riguardano rispettivamente l'orario di lavoro settimanale massimo e i periodi di riferimento), ma che «in generale si può rilevare l'affermarsi di una tendenza ad un periodo di riferimento annuale» (4).

    3.1.4

    La questione che si pone, e che la Commissione non affronta, consiste nel sapere fino a che punto il prolungamento del periodo di riferimento si ripercuote sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori. La concentrazione del lavoro su un periodo relativamente breve può sì risultare poco pratica, ma dal fatto che in numerosi casi il periodo di riferimento annuale trovi applicazione proprio nel quadro dei contratti collettivi si deve dedurre che le parti sociali considerano pienamente compensate le ripercussioni negative che un periodo di riferimento più lungo può avere per la salute e la sicurezza dei lavoratori, qualora sia prevista la concessione di un periodo di riposo equivalente.

    3.1.5

    Uno degli argomenti avanzati a favore del prolungamento del periodo di riferimento è la maggiore flessibilità di cui godrebbero le imprese in materia di gestione degli orari di lavoro. In realtà, grazie ai contratti collettivi, questa flessibilità esiste già in molti paesi e il problema riguarda sostanzialmente quindi soltanto i paesi nei quali tradizionalmente la contrattazione collettiva svolge un ruolo poco rilevante. Sarebbe importante rafforzare il ruolo della contrattazione collettiva anche in materia di orario di lavoro, soprattutto nei paesi e nei settori in cui essa non è particolarmente forte.

    3.1.6

    Il Comitato fa presente che l'articolo 137 del Trattato CE, che costituisce il fondamento giuridico della direttiva sull'orario di lavoro, stabilisce che le direttive fondate su questo articolo «evitano di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese».

    3.1.7

    Dato che, in virtù dei contratti collettivi, il periodo di riferimento di dodici mesi viene già applicato in numerosi Stati membri, il Comitato ritiene che le parti sociali, grazie alla possibilità di estendere tale periodo, dispongano della flessibilità necessaria per adattare gli orari di lavoro alle diverse realtà dei vari Stati membri, dei loro comparti e delle singole imprese. Tale norma dovrebbe pertanto essere mantenuta.

    3.1.8

    Vista la peculiarità dell'orario di lavoro dei quadri, il Comitato è favorevole al coinvolgimento diretto delle organizzazioni che rappresentano questa categoria nelle procedure e nei negoziati che stabiliscono le condizioni relative all'orario di lavoro. Ciò richiederebbe tuttavia disposizioni specifiche.

    3.2   Definizione dell'orario di lavoro

    3.2.1

    L'articolo 2 della direttiva sull'orario di lavoro contiene una definizione del concetto di orario di lavoro e di quello di periodo di riposo. Secondo l'articolo, per «orario di lavoro» si intende «qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell'esercizio della sua attività o delle sue funzioni, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali», mentre per periodo di riposo si intende «qualsiasi periodo che non rientra nell'orario di lavoro».

    3.2.2

    In due casi la Corte di giustizia si è trovata a dover interpretare la definizione di «orario di lavoro» che figura nella direttiva. Nel primo caso (5), che riguardava il servizio di guardia di un medico in una struttura sanitaria, la Corte ha ritenuto che il periodo di servizio di guardia effettuato da un medico debba essere considerato come tempo di lavoro ai sensi dell'articolo 2, paragrafo 1, della direttiva se i medici sono tenuti ad essere fisicamente presenti nel luogo di somministrazione delle cure. Per servizio di guardia si deve intendere l'obbligo di essere fisicamente presenti nel luogo indicato dal datore di lavoro e di restare a disposizione di quest'ultimo nell'attesa di intervenire. Nel secondo caso (caso Jaeger) (6), la Corte ha confermato l'interpretazione già data precedentemente ed è giunta alla conclusione che anche il tempo che un medico trascorre in vigile attenzione deve essere considerato come facente parte dell'orario di lavoro ai sensi della direttiva. La Corte ha anche stabilito che il riposo compensativo deve essere fruito immediatamente.

    3.2.3

    Il CESE constata che le sentenze della Corte possono avere profonde conseguenze sull'organizzazione del lavoro, non solo per il settore sanitario, ma anche per altri settori. Molti Stati membri prevedono infatti nella loro legislazione norme relative ai tempi di guardia, concepite in vari modi. Ciò che tali norme hanno in comune, tuttavia, è che il tempo di guardia non è considerato come tempo di lavoro, o lo è solo in parte. Esso però non è neanche considerato tempo di riposo.

    3.2.4

    Ciò che sorprende è che la portata della definizione di orario di lavoro di cui all'articolo 2, paragrafo 1 della direttiva non sembra essere stata né analizzata né dibattuta in maniera soddisfacente prima dell'adozione della direttiva: è questo l'unico elemento che può spiegare la sorpresa provocata dalle decisioni della Corte sia presso le istituzioni europee che negli Stati membri, tanto più che la maggior parte degli Stati membri ha inserito nella propria legislazione nazionale norme relative al servizio di guardia.

    3.2.5

    Il Comitato condivide la posizione della Commissione, secondo cui esistono varie soluzioni possibili. Nella situazione attuale, tuttavia, il Comitato non si pronuncia per l'una o l'altra delle soluzioni proposte, limitandosi ad osservare che l'alternativa prescelta dovrà in primo luogo:

    garantire una protezione elevata della salute e della sicurezza dei lavoratori per quanto attiene all'orario di lavoro,

    dare alle imprese ed agli Stati membri una maggiore flessibilità nella gestione dell'orario di lavoro,

    rendere più compatibili la vita professionale e la vita familiare,

    evitare di imporre oneri eccessivi alle imprese, soprattutto alle PMI.

    3.3   Applicazione delle deroghe conformemente all'articolo 18, paragrafo 1, lettera b), punto i) (opt-out)

    3.3.1

    L'articolo 18 della direttiva conferisce agli Stati membri il diritto di derogare, per via legislativa, all'articolo 6, che limita ad una media di 48 ore l'orario di lavoro settimanale. L'applicazione della deroga presuppone che siano soddisfatte un certo numero di condizioni:

    a)

    il lavoratore dovrà dare il proprio consenso personale ad un orario di lavoro che prevede un numero di ore superiore;

    b)

    nessun lavoratore dovrà subire un danno per aver rifiutato il proprio consenso;

    c)

    il datore di lavoro dovrà tenere registri aggiornati di tutti i lavoratori che lavorano a tali condizioni;

    d)

    i registri dovranno essere messi a disposizione delle autorità competenti.

    Si fa inoltre osservare che anche i lavoratori che si avvalgono dell'opt-out in base all'articolo 18 hanno il diritto ad un riposo giornaliero di 11 ore e ad una pausa di riposo dopo sei ore.

    3.3.2

    Per quanto riguarda quella che potrebbe essere definita una «cultura sana» dell'orario di lavoro, la direttiva parte da premesse vaghe e non chiaramente formulate. Secondo l'articolo 137 del Trattato CE «la Comunità sostiene e completa l'azione degli Stati membri» per quanto riguarda il miglioramento dell'ambiente di lavoro e per «proteggere la sicurezza e la salute dei lavoratori». La stessa esistenza della direttiva sull'orario di lavoro e soprattutto la sua attuazione pratica nella maggior parte degli Stati membri sono, in ogni caso, la prova di una forte volontà di limitare il rischio per il lavoratore di vedersi imporre una cultura malsana dell'orario di lavoro. In effetti l'articolo 18, paragrafo 1, lettera b), punto i), prevede espressamente che uno Stato membro può applicare l'opt-out solo nel «rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori».

    3.3.3

    Quanto l'applicazione dell'opt-out sia legittima dipende necessariamente dal fatto di poter dimostrare o meno l'esistenza di un rapporto diretto tra un orario di lavoro settimanale superiore alle 48 ore e una minaccia per la sicurezza e la salute dei lavoratori. Nella comunicazione in esame, la Commissione afferma che l'analisi delle ripercussioni dell'opt-out sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori non sembra possibile, vista la mancanza di dati affidabili (7). Essa rimanda tuttavia ad un recente studio, secondo il quale potrebbe esistere un rapporto tra le lunghe giornate di lavoro e la salute fisica, in particolare quando l'orario di lavoro supera le 48/50 ore settimanali. Nel parere sulla proposta di direttiva del 1990, il CESE aveva già dichiarato che numerosi studi dimostrano che un orario di lavoro troppo prolungato senza tempi di riposo può nuocere alla salute dei lavoratori e provocare malattie professionali e incidenti (8).

    3.3.4

    Un'altra questione importante che si pone a proposito dell'opt-out è la libertà per il lavoratore di accettare o meno questa deroga. Secondo le norme stabilite dalla direttiva, il lavoratore deve sempre avere la libertà di scegliere di non lavorare oltre la media di 48 ore settimanali. Queste norme sono state oggetto di critiche: si è obiettato che questa libertà di scelta in realtà non esiste, vista la posizione di debolezza del lavoratore rispetto al datore di lavoro e la sua conseguente difficoltà di rifiutare di firmare un accordo.

    3.3.5

    Secondo la comunicazione della Commissione, un'inchiesta realizzata in Gran Bretagna presso i datori di lavoro dimostra che il 48 % dei lavoratori del settore della costruzione lavorano oltre le 48 ore settimanali (9). Si tratta di una cifra sorprendentemente elevata, soprattutto se si considera che in molti casi si riferisce probabilmente a lavori che richiedono contemporaneamente resistenza fisica e precisione. Per il datore di lavoro, dunque, il beneficio delle ultime ore di lavoro, che, dovendo essere retribuite come ore supplementari risultano particolarmente costose, deve essere relativamente debole. È questo il motivo per cui ci si chiede se in Gran Bretagna la generale tendenza verso un orario di lavoro più lungo non sia funzione di altri problemi strutturali.

    3.3.6

    Un'altra importante questione che si pone è quella delle ripercussioni che un orario di lavoro prolungato può avere sulle famiglie. Come possono i genitori che lavorano entrambi oltre 48 ore settimanali conciliare la vita professionale con quella familiare? È lecito affermare che la generalizzazione di un orario di lavoro prolungato contribuisce a mantenere totalmente o parzialmente fuori dal mercato del lavoro uno dei due genitori, cioè nella maggior parte dei casi la donna? Se questo è il caso, è possibile che l'opt-out sia in realtà contrario alla realizzazione dell'obiettivo stabilito dalla strategia di Lisbona secondo il quale per il 2010 il 60 % delle donne dell'Unione europea dovrà esercitare un'attività professionale. È un po' sorprendente constatare che in Gran Bretagna la differenza di partecipazione al mercato del lavoro tra gli uomini e le donne si situa leggermente al di sotto della media UE, ma che la Gran Bretagna è, dopo i Paesi Bassi, il paese dell'Unione europea che vede, in termini relativi, la massima percentuale di donne (circa la metà) che lavorano a tempo parziale (10). Secondo la comunicazione della Commissione, in Gran Bretagna il 26,2 % degli uomini lavora oltre 48 ore alla settimana, mentre per le donne la percentuale è dell'11,5 % (11). Uno studio pubblicato dal British Medical Journal rivela che la mancata limitazione delle ore di lavoro straordinario comporta rischi per la salute delle lavoratrici, soprattutto di quelle che hanno famiglia e che svolgono lavori manuali (12). L'opt-out sembrerebbe dunque avere un effetto negativo sulla parità di opportunità tra uomini e donne: questo aspetto comporterebbe tuttavia un'analisi più approfondita.

    3.3.7

    In questa fase il CESE non intende pronunciarsi nei confronti dell'opt-out. Per poter prendere posizione in merito si dovrebbe procedere ad un'analisi più approfondita della situazione, che veda la partecipazione delle parti sociali.

    3.4   Misure intese ad assicurare un migliore equilibrio tra la vita professionale e la vita familiare

    3.4.1

    Che cosa significa migliore equilibrio tra la vita professionale e la vita familiare per il lavoratore? Che cosa si intende per «vita familiare»? Se rivolta ai genitori di un bambino di tenera età, questa domanda otterrà un certo tipo di risposta, se rivolta ad una coppia senza figli avrà una risposta molto diversa, mentre un padre celibe darà una risposta ancora differente. Non è quindi possibile rispondere in maniera univoca alla necessità di migliorare l'equilibrio tra la vita professionale e la vita familiare.

    3.4.2

    Da un punto di vista generale, si può comunque dire che per la maggior parte delle persone la possibilità di intervenire sulla propria situazione di lavoro o di prenderne il controllo rappresenta un elemento positivo, che contribuisce a creare un ambiente di lavoro soddisfacente. Ciò vale soprattutto per i genitori di bambini piccoli. Nella risoluzione del Parlamento europeo sull'organizzazione dell'orario di lavoro si sottolinea in particolare quanto segue:

    le donne sono maggiormente esposte a ripercussioni negative sulla salute e il benessere se devono assumere il doppio carico del lavoro professionale e delle responsabilità familiari,

    la preoccupante tendenza, da parte delle donne, a combinare due attività a tempo parziale, con un orario lavorativo settimanale spesso superiore al limite legale, per poter guadagnarsi da vivere,

    la cultura che induce talune professioni e attività manageriali di alto livello ad osservare orari di lavoro più lunghi è un ostacolo alla mobilità verticale delle donne e favorisce la segregazione di genere sul posto di lavoro (13).

    Il CESE appoggia con vigore questa analisi, aggiungendo tuttavia che il problema non riguarda esclusivamente le donne, ma, più in generale, i genitori che incontrano delle difficoltà nel conciliare la vita professionale con le responsabilità familiari, cosa che comporta anch'essa un rischio per la salute.

    3.4.3

    Il CESE fa presente che l'obiettivo di consentire a ciascuno di liberare dagli obblighi della vita professionale e familiare una parte del proprio tempo per sviluppare la propria capacità di partecipare alla vita sociale e democratica dovrebbe figurare tra le finalità di qualsiasi politica di organizzazione dell'orario di lavoro.

    3.4.4

    Attualmente esiste, sia nel diritto comunitario che nelle legislazioni nazionali, una moltitudine di norme che tengono conto delle possibilità di conciliare la vita professionale con la vita familiare e l'educazione dei figli: regimi di congedo parentale, di lavoro a tempo parziale, di telelavoro, di orario flessibile, ecc. Prima di proporre nuovi provvedimenti, il CESE gradirebbe che si procedesse, con la partecipazione delle parti sociali, ad un riepilogo e ad un esame comparativo delle disposizioni già esistenti in materia. Il CESE propone di affidare uno studio di questo tipo alla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, la quale già ha pubblicato una relazione che, in una certa misura, affronta questioni analoghe (14).

    Bruxelles, 30 giugno 2004.

    Il Presidente

    del Comitato economico e sociale europeo

    Roger BRIESCH


    (1)  Relazione della Commissione - «Situazione dell'applicazione della direttiva del Consiglio 93/104/CE del 23 novembre 1993, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro (Direttiva sull'orario di lavoro)», (COM(2000) 787 def.).

    (2)  

    1.

    da quattro a sei mesi mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali (nella prima frase dell'articolo 17, paragrafo 4, si fa riferimento all'articolo 17, paragrafo 3).

    2.

    Inoltre agli Stati membri è consentito, mediante contratti collettivi o accordi conclusi tra le parti sociali, di fissare periodi di riferimento non superiori a dodici mesi «nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori» e «per ragioni obiettive, tecniche o inerenti all'organizzazione del lavoro».

    (3)  COM(2003) 843 def., pag. 5.

    (4)  Ibidem, pag. 6.

    (5)  Sentenza della Corte del 3 ottobre 2000, causa C-303/98, Sindicato de Médicos de Asistencia Pública (SIMAP) contro Conselleria de Sanidad y Consumo de la Generalidad Valenciana.

    (6)  Sentenza della Corte del 9 ottobre 2003, causa C-151/02, Landeshauptstadt Kiel contro Norbert Jaeger, non ancora pubblicata.

    (7)  COM(2003) 843 def.

    (8)  GU C 60 dell'8.3.1991, pag. 26.

    (9)  COM(2003) 843 def.

    (10)  Relazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo, al Comitato economico e sociale europeo ed al Comitato delle regioni - Relazione sulla parità tra uomini e donne, 2004 (COM(2004) 115 def.).

    (11)  Relazione del Parlamento europeo dell'11 febbraio 2004 sull'organizzazione dell'orario di lavoro (revisione della direttiva 93/104/CE), A5-0026/2004.

    (12)  ALA-Mursula et al., «Effect of employee worktime control on, health: a prospective cohort study», Occupational and Environment Medicine Journal, volume 61, pagg. 254-261, n. 3, marzo 2004.

    (13)  Risoluzione del Parlamento europeo dell'11 febbraio 2004 sull'organizzazione dell'orario di lavoro (revisione della direttiva 93/104/CE), P5_TA-PROV(2004) 0089, punti 20-22.

    (14)  A new organisation of time over working life, Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, 2003.


    ALLEGATO

    al parere del Comitato economico e sociale europeo

    Qui di seguito si riportano gli emendamenti respinti durante il dibattito, ma che avevano ottenuto un numero di voti favorevoli pari ad almeno un quarto dei voti espressi:

    Punto 3.1.7

    Sostituire con il seguente testo:

    Nella comunicazione del 19 maggio la Commissione suggerisce di estendere il periodo di riferimento, senza però formulare una proposta concreta. Il CESE non intende quindi prendere posizione in materia già in questa fase, e si riserva di farlo quando sarà consultato in merito ad una proposta di direttiva.

    Motivazione

    Sulla definizione dell'orario di lavoro (punto 3.2.5) e sull'opt-out (punto 3.3.7) il CESE non prende posizione, in attesa di proposte più concrete. È quindi giustificato assumere un atteggiamento analogo per quanto riguarda il periodo di riferimento.

    Esito della votazione

    Voti favorevoli:

    84

    Voti contrari:

    135

    Astensioni:

    7


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