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Document 61974CC0067

Conclusioni dell'avvocato generale Mayras del 19 febbraio 1975.
Carmelo Angelo Bonsignore contro Oberstadtdirektor der Stadt Köln.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Verwaltungsgericht Köln - Germania.
Ordine pubblico e pubblica sicurezza.
Causa 67-74.

Raccolta della Giurisprudenza 1975 -00297

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1975:22

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE HENRI MAYRAS

DEL 19 FEBBRAIO 1975 ( 1 )

Signor Presidente,

Signori Giudici,

Il presente procedimento pregiudiziale consentirà di precisare il significato della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1964, n. 221, relativa al coordinamento, negli Stati membri della Comunità, dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento ed il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d'ordine pubblico, ed in particolare, di sicurezza pubblica.

Con la sentenza 4 dicembre u.s., nella causa 41-74, Van Duyn c. Home Office, avete statuito che l'art. 3, n. 1, di tale direttiva, a termini della quale «i provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell'individuo nei riguardi del quale essi sono applicati», crea «in capo ai singoli diritti soggettivi che i medesimi possono far valere in giudizio negli Stati membri e che i giudici nazionali devono tutelare».

Avete quindi riconosciuta l'efficacia diretta di tale norma, nel senso che la vostra giurisprudenza attribuisce a questa espressione. Avete altresì statuito che la valutazione del comportamento personale costituisce la conditio sine qua non per l'applicazione di qualsiasi provvedimento restrittivo della libertà di circolazione e di lavoro dei lavoratori migranti, adottato dalle autorità nazionali. Il rimpatrio o l'espulsione, misure di polizia di cui uno Stato può servirsi in conformità alla propria legge interna, possono quindi venir giustificati di fronte al diritto comunitario soltanto qualora traggano fondamento dal comportamento individuale della persona di cui trattasi.

Nella presente controversia, il Verwaltungsgericht (tribunale amministrativo) di Colonia vi ha sottoposto due questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione dello stesso art. 3 della direttiva n. 64/221.

Con la prima di tali questioni, il tribunale amministrativo chiede se tali disposizioni non ostino a che le competenti autorità di uno Stato membro — nel caso di specie la Repubblica federale di Germania — adottino un provvedimento di espulsione nei confronti di un lavoratore migrante, cittadino di un altro Stato membro, «al fine di dissuadere altri stranieri dal commettere reati della stessa indole di quelli contestati alla persona espulsa ovvero altre infrazioni dell'ordine pubblico e della sicurezza pubblica» del paese ospitante.

In altri termini, il quesito consiste nell'accertare se la direttiva vieti l'espulsione di un lavoratore comunitario, nell'ipotesi in cui questo provvedimento sia giustificato da motivi di «prevenzione generale».

È una questione di principio, la cui soluzione contribuirà a precisare il contenuto ed a determinare i limiti dell'eccezione di ordine pubblico contenuta nell'art. 48 del trattato della Comunità economica europea, relativo alla libera circolazione dei lavoratori subordinati, e che si ritrova, in termini analoghi, all'art. 56 del trattato, relativo alla libertà di stabilimento.

La seconda questione sottopostavi dal giudice tedesco è direttamente connessa con i fatti che sono all'origine della controversia nella causa principale.

Detto giudice vi chiede se l'art. 3, nn. 1 e 2, della direttiva vada interpretato nel senso «che si può allontanare dal territorio dello Stato il cittadino di un altro Stato membro … soltanto qualora vi siano fondati motivi di ritenere che detto cittadino straniero, condannato per un determinato reato, sarà recidivo o comunque violerà l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica» del paese ospitante.

Prima di affrontare l'esame di tali questioni, è bene accennare all'origine della controversia ed osporre brevemente lo svolgimento del procedimento davanti alle autorità, tanto amministrative quanto giudiziarie della Repubblica federale.

Il sig. Carmelo Bonsignore, cittadino italiano nato in Sicilia nel 1950, giungeva nella Germania federale nell'ottobre 1968, dove veniva assunto dalla Ford di Colonia come operaio nel settore chimico. Nel maggio 1971, pur non essendo in possesso di un porto d'armi, egli acquistava illegalmente da uno sconosciuto una pistola automatica Beretta, calibro 6,35 mm, con munizioni.

Alcuni giorni più tardi, e precisamente in data 30 maggio, in occasione di un pranzo in famiglia presso sua sorella egli esibiva l'arma, appena acquistata, con l'intenzione di spiegarne il funzionamento. Estratto il caricatore e accortosi che la canna conteneva ancora una cartuccia, tentava di estrarla, senza riuscirvi. Poco adusato al maneggio delle armi da fuoco, egli preme inavvertitamente il grilletto. Il colpo parte. Il fratello minore, Angelo, di recente giunto in Germania, viene ferito mortalmente alla testa.

A seguito delle indagini di polizia, lo Schöffengericht presso l'Amtsgericht di Colonia condannava il Bonsignore ad un'ammenda per contravvenzione alla legge sulla detenzione delle armi.

Il giudice però, pur dinnanzi alla comprovata sussistenza dell'omicidio colposo, si è astenuto dall'infliggere una pena, in considerazione della giovane età, dell' inesperienza e del fatto che l'imputato è rimasto profondamente sconvolto dalla morte del fratello, provocata dal suo atto colposo; il giudice considera pure altre circostanze attenuanti (piena confessione e promessa di non toccare mai più un'arma da fuoco).

Tuttavia, l'Oberstadtdirektor della città di Colonia, in data 18 settembre 1973 — 16 mesi dopo il tragico fatto — adotta nei confronti del Bonsignore un provvedimento di espulsione dal territorio della Repubblica federale, da eseguirsi nel termine perentorio di un mese. A seguito della reiezione del suo ricorso amministrativo, l'interessato fa opposizione avverso l'esecuzione del provvedimento davanti al Verwaltungsgericht di Colonia. La IV sezione, nonostante gli argomenti in contrario dedotti dall'amministrazione, concede la sospensione dell'esecuzione. L'amministrazione ha sostenuto che l'acquisto e la detenzione illegale di un' arma da fuoco «costituiscono una prova sufficiente che l'istante non ha intenzione di rispettare l'ordinamento giuridico tedesco». «Non si può tollerare — soggiunge l'“Oberstadtdirektor” di Colonia — che stranieri, accolti quali ospiti, rappresentino una minaccia permanente per la comunità (nazionale), acquistando o detenendo illegalmente armi».

E — questa è l'argomentazione sostanziale delle autorità municipali — «visto che nel corso degli ultimi anni si è assistito ad un notevole incremento della criminalità ad opera di stranieri a mano armata, è necessario adottare i provvedimenti opportuni onde prevenire un rifiorire di questa criminalità virulenta, espellendo immediatamente gli stranieri rei di violazione della legislazione sulle armi». Questa posizione rispecchiava peraltro le direttive impartite dal governo tedesco.

Il giudice non ha fatto propria questa tesi. Egli dichiara che si potrebbe adottare un provvedimento di espulsione nei confronti dell'attore solo nell'ipotesi in cui il suo comportamento personale fosse atto a giustificare un tale provvedimento, visto che una condanna penale non è di per sé determinante. Il provvedimento di espulsione è quindi legittimo solo nel caso in cui il comportamento dello straniero costituisca un pericolo potenziale per la sicurezza e l'ordine pubblici nella Germania federale, cioè qualora sussista un' alea di recidiva. Visto che il giudice ha ritenuto che non sussisteva, nel caso di specie, alcun pericolo di tal natura, l'espulsione va considerata «palesemente viziata da errore».

Ciononpertanto, il 26 aprile 1973 il Regierungspräsident di Colonia confermava il primigenio provvedimento d'espulsione. Affermando che la tutela della sicurezza e dell'ordine pubblici in Germania deve prevalere sull'interesse personale dell'attore a rimanere in detto paese, egli ritenne che sussistesse un «pericolo di recidiva» da parte di quest'ultimo. Benché il Regierungspräsident di Colonia ponga quindi a fondamento della propria decisione il comportamento personale presunto o, a suo avviso, prevedibile del lavoratore italiano, l'interesse di «prevenzione generale» permea la sua argomentazione.'

Il Bonsignore chiedeva l'annullamento di tale provvedimento e concludeva davanti al Verwaltungsgericht nel senso che sia ingiunto alle competenti autorità di autorizzarlo a risiedere ulteriormente nel territorio della Repubblica federale di Germania.

Nell'ambito di questo procedimento sono maturate le questioni pregiudiziali sottoposte a questa Corte dal Verwaltungsgericht ed indicate in epigrafe.

Discussione

Passando all'esame di tali questioni, è doveroso far riferimento alla sentenza cardine che avete pronunziato nella causa Van Duyn c. Home Office.

Con questa sentenza è stato in primo luogo ribadito che l'art. 48 del trattato è direttamente efficace, pur riconoscendo che il n. 3 contempla, rispetto al principio della libera circolazione ed al diritto di soggiorno dei lavoratori migranti, «una riserva relativa alle limitazioni giustificate da motivi d'ordine pubblico ed, in particolare, di sicurezza pubblica». Tuttavia tale riserva, che costituisce un'eccezione ai diritti che l'art. 48 crea in capo ai cittadini comunitari, va interpretata restrittivamente alla luce della direttiva del Consiglio n. 64/221.

Voi avete inoltre affermato che l'art. 3, n. 1, di questa direttiva, a termini del quale «i provvedimenti d'ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell'individuo nei confronti del quale essi sono applicati» è del pari direttamente efficace, giacché, nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, «obbligato gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell'atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto comunitario».

Voi avete altresì precisato che l'obbligo risultante dall'art. 3, n. 1, della direttiva «è assoluto ed incondizionato; esso non richiede inoltre, per la sua stessa natura, alcun provvedimento d'attuazione da parte delle istituzioni comunitarie o degli Stati membri».

L'obbligo così imposto agli Stati limita palesemente l'estensione del potere che questi ultimi si sono riservati di adottare, per la tutela dell'ordine pubblico nazionale, decisioni atte ad incidere sul diritto dei cittadini comunitari, garantito dall'art. 48 del trattato, di entrare nel loro territorio o di soggiornarvi, giacché l'art. 3, n. 1, della direttiva dispone che esclusivamente ragioni attinenti al comportamento personale di questi ultimi possono legittimare tali provvedimenti.

All'uopo occorre richiamare i termini dell'art. 3, n. 2 della direttiva, il quale dispone che: «la sola esistenza di condanne penali non può automaticamente giustificare …» i provvedimenti d'ordine pubblico o di sicurezza pubblica adottati nei confronti dei lavoratori comunitari. Del n. 2 di tale articolo si fa infatti espressa menzione nell'ordinanza di rimessione del Verwaltungsgericht di Colonia.

Non v'è dubbio, a mio avviso, che tale disposizione è, proprio come quella del n. 1, direttamente efficace e crea quindi diritti soggettivi in capo ai singoli.

Un provvedimento di espulsione, adottato nei confronti di un cittadino di uno Stato membro, sarebbe indubbiamente in antitesi col diritto comunitario direttamente efficace, qualora esso risultasse fondato esclusivamente sull'esistenza di una condanna pronunziata da un giudice penale dello Stato ospitante.

Questa soluzione è dettata dalla considerazione che benché, in linea di principio, qualsiasi violazione della legge penale costituisca, di per sé, un attentato all'ordine pubblico nazionale, l'applicazione della legge repressiva da parte dei giudici competenti è sufficiente, tanto per i cittadini nazionali, quanto per i cittadini di altri Stati membri, a garantire la respressione diretta a tutelare lo stesso ordine pubblico.

Il provvedimento di espulsione, che manifestamente può colpire solo gli stranieri e non i cittadini, è senza dubbio un provvedimento di polizia, ma i cui effetti sul piano sociale e sul piano umano incidono molto più gravemente di quelli di una pena pecuniaria, o anche di una pena restrittiva della libertà, almeno di breve durata.

Era quindi nelle intenzioni degli autori della direttiva che, a prescindere da qualsiasi condanna, le autorità nazionali potessero adottare un provvedimento di espulsione esclusivamente nell'ipotesi in cui il comportamento personale del cittadino comunitario, reo di un'infrazione, abbia costituito o rischi di costituire in futuro una minaccia tale, per l'ordine pubblico nazionale, che la presenza del reo nel territorio del paese ospitante diviene intollerabile.

Orbene, senza parlare delle contravvenzioni, i reati colposi, e persino taluni reati passionali perpetrati in un particolare clima psicologico, non sono in genere atti ad arrecare all'ordine pubblico ed in ispecie alla sicurezza pubblica un pregiudizio così grave da far apparire l'espulsione del loro autore come una soluzione necessaria.

Così pure, se guardiamo il fascicolo trasmesso dal giudice tedesco, ne risulta che il Bonsignore è stato condannato solo per detenzione non autorizzata d'arma da fuoco. Non gli è stata invece inflitta alcuna pena per omicidio colposo. A norma dell'art. 3, n. 2, della direttiva, la condanna inflittagli non era di per sé sufficiente a motivare la sua espulsione.

Non è su questo terreno che le autorità locali — tanto l'Oberstadtdirektor quanto il Regierungspräsident — potevano tentare di giustificare il provvedimento adottato.

Esse hanno quindi sostenuto che la detenzione od il porto d'armi non autorizzato — e l'omicidio colposo che ne è conseguito — sono indissociabili dal comportamento personale del reo; che anche se quest'ultimo non può venir considerato come un recidivo potenziale, la natura stessa del reato di detenzione non autorizzata di un'arma, che costituisce un pericolo potenziale per l'ordine pubblico, è sufficiente a giustificare il provvedimento d'espulsione.

Questo punto di vista è peraltro conforme, a quanto sembra, alle direttive impartite dalle autorità federali, secondo cui taluni reati, come ad esempio la detenzione d'arma o, in un altro settore, la vendita di stupefacenti, rientrano nel novero di quei reati che, in linea di principio, devono comportare l'espulsione dei loro autori di nazionalità straniera.

È un fatto che, nei paesi industrializzati che fanno largamente uso di manodopera d'origine straniera, le statistiche giudiziarie e di polizia stabiliscono che talune forme di criminalità sono peculiari della popolazione immigrata. Molteplici fattori sono a fondamento di tale fenomeno: relativa inadattabilità dei lavoratori stranieri ad una compagine sociale nella maggior parte dei casi molto diversa da quella dei loro paesi d'origine; condizioni di vita e di alloggio spesso difficili; mancata assimilazione; sentimento che essi provano di rimanere effettivamente estranei all'organismo sociale del paese ospitante. Usando un'espressione cara ai sociologi, si potrebbe parlare di un sentimento di alienazione.

Si può del pari comprendere che, negli Stati industrializzati evoluti e particolarmente nei grandi agglomerati urbani che costituiscono una delle conseguenze dell' industrializzazione, taluni reati, anche relativamente lievi, quale ad esempio la detenzione non autorizzata di un'arma, potrebbero giustificare l'adozione di misure preventive, proprio come, del resto, la tutela della sanità pubblica richiede che sia organizzata la prevenzione contro talune malattie contagiose.

Tuttavia, benché nel settore della protezione sanitaria sia agevole compilare un elenco di malattie soggette a denunzia ed a prevenzione obbligatorie, occorrerebbe inoltre che i reati considerati come comportanti, mutatis mutandis, un pericolo di «contagio» costituissero l'oggetto di un elenco limitativo adottato dalle autorità comunitarie, di guisa che i principi della libera circolazione e del diritto al posto di lavoro ed al soggiorno dei lavoratori migranti ricevano, in ciascuno degli Stati membri, un'applicazione uniforme.

Tale non è, come si è visto, il sistema che ha ispirato la direttiva del Consiglio. Essa s'ispira ad una nozione diversa che trae origine dalla disamina caso per caso del comportamento personale dei soggetti.

Il primo quesito sottopostovi dal giudice tedesco consiste in sostanza nell'accertare se l'obiettivo di prevenzione generale, di dissuasione, sia compatibile o meno con un'esatta interpretazione di questa direttiva.

Si arguiscono facilmente i motivi che hanno indotto il tribunale amministrativo di Colonia a sollecitare una vostra interpretazione su tale problema di principio.

Il fatto è che la giurisprudenza tedesca è discorde e persino divisa, relativamente ai rispettivi criteri della prevenzione specifica e della prevenzione generale.

La questione si pone quindi in termini diversi a seconda che gli stranieri soggetti ai provvedimenti di espulsione siano cittadini di Stati terzi, e quindi soggetti alla cosiddetta legge «Ausländergesetz», testo di generale applicazione in materia di polizia degli stranieri, ovvero cittadini comunitari, soggetti in quanto tali ad un regime particolare contenuto nell'«Aufenthaltsgesetz», legge adottata per l'applicazione della direttiva n. 64/221.

Nei confronti dei primi, è comprensibile che, fatte salve le convenzioni bilaterali, le autorità tedesche dispongano di un potere ampiamente discrezionale, che esse sono cionondimeno tenute ad esercitare in conformità al diritto ed in particolare osservando il principio di proporzionalità, sotto il controllo dell'autorità giudiziaria.

In primo luogo, peraltro, risulta che il Bundesverwaltungsgericht, giudice supremo federale in materia amministrativa, abbia fatta propria, anche a proposito della legge generale in materia di polizia degli stranieri, una concezione fondata esclusivamente; sulla nozione di prevenzione speciale (sentenza 11 giugno 1968).

Alcuni autori fra cui il Kloessel ed il Christ hanno criticato questa soluzione, sostenendo che, all'epoca in cui era in vigore il § 10, n. 2, di questa legge,' il motivo di prevenzione generale doveva essere ammesso.

Tuttavia, la giurisprudenza del tribunale federale si è evoluta. Una sentenza di data più; recente; 15 gennaio 1970, che richiama peraltro due precedenti sentenze, ammette esplicitamente il motivo di prevenzione generale e respinge il ricorso proposto da un cittadino turco avverso un provvedimento di espulsione adottato nei di lui confronti per guida in stato di ubriachezza, «nell'intento di dissuadere altri stranieri dal comportarsi nella stessa guisa».

I giudici amministrativi di grado inferiore hanno adottato soluzioni identiche.

Tuttavia, il problema si pone in termini del tutto diversi allorquando i provvedimenti d'espulsione colpiscano cittadini di Stati membri.

L'Aufenthaltsgesetz dà attuazione nel diritto interno alla direttiva del Consiglio. Essa fa ciò in senso lato, in quanto aggiunge alla nozione di attentato all'ordine pubblico, alla sicurezza ed alla sanità pubbliche, quella di «attentati agli interessi fondamentali della Germania». Uria circolare d'applicazione che, indubbiamente, ha per i giudici un valore puramente indicativo, è cionondimeno rivelatrice in quanto ammette che, per i cittadini comunitari, i motivi di espulsione sono i medesimi di quelli previsti per gli altri stranieri. Questa istruzione precisa che la presa in considerazione del comportamento personale significa soltanto che, senza attenersi esclusivamente alla pronunzia di una condanna penale, si deve tener conto dell'indole dell'infrazione, delle circostanze in cui è stata consumata e dell'eventuale pericolo di recidiva.

Basandosi su questa legge, taluni giudici hanno motivato le loro sentenze con considerazioni esclusivamente fondate sull'idea del comportamento personale e di prevenzione specifica:

Oberverwaltungsgericht di Berlino, sentenza 15 maggio 1968 (I.A/398 n. OVG 1 B 31.67);

o sulla gravità specifica del reato e sul pericolo di recidiva:

sentenza dello stesso tribunale, di pari data (I.A/399 n. OVG 1 B 41.67).

L'Oberverwaltungsgericht di Berlino si è inoltre espresso in chiari termini nella sentenza 2 ottobre 1968 (I.A/400, n. OVG 1 B 93.67), con cui ha accolto il ricorso di un cittadino italiano condannato per smercio di droga. In considerazione della natura puramente occasionale del reato, che fa escludere ogni considerazione di prevenzione specifica, il tribunale ha precisato che «in quanto le misure di sicurezza pubblica devono fondarsi esclusivamente sul comportamento personale dell'individuo cui si applicano, va disattesa la pretesa dell'amministrazione di fondare il provvedimento su considerazioni di prevenzione collettiva».

Alla stessa guisa il Verwaltungsgericht di Kassel, con ordinanza 29 settembre 1972 (Neue Juristische Wochenschrift, 1973, I parte, pag. 439) ha affermato, nel caso di un'italiana rea di omicidio ai danni di suo cognato che aveva avuto atteggiamenti immorali nei di lei confronti, che l'Aufenthaltsgesetz autorizza l'adozione di un provvedimento di espulsione solo per motivi di prevenzione specifica.

Le stesse considerazioni di principio sono state evidenziate dall'Oberverwaltungsgericht di Münster nella sentenza 20 dicembre 1972 (Die öffentliche Verwaltung, 1972, pag. 415) la quale, disattesa ogni considerazione di prevenzione generale o collettiva, ha riconosciuto la legittimità del provvedimento di espulsione, nei confronti di un cittadino belga condannato per svariati furti, solo per motivi specifici di prevenzione ed onde impedire il ripetersi di tali reati.

Altri giudici, invece, non si sono limitati ad una disamina del comportamento personale del reo, ma hanno esplicitamente preso in considerazione la nozione di prevenzione generale. Ad esempio, già con la sentenza 13 dicembre 1965, in una causa relativa ad un italiano condannato per furto, il Verwaltungsgerichtshof (Corte d'appello amministrativa) del Baden-Württemberg ha tenuto conto del motivo di prevenzione generale. È vero che questa sentenza è anteriore all'entrata in vigore dell'Aufenthaltsgesetz.

Tuttavia, con la più recente sentenza 3 maggio 1973 (Die öffentliche Verwaltung, 1973, pag. 732), il Bundesverwaltungsgericht medesimo ha statuito che le disposizioni della direttiva n. 64/221, relative alla disamina del comportamento personale dei cittadini comunitari oggetto dei provvedimenti di espulsione, sono ambigue e non vanno automaticamente intese in un senso restrittivo dei poteri delle autorità nazionali. Secondo l'alto tribunale amministrativo, la direttiva non obbliga quindi ad eliminare l'obiettivo di prevenzione generale. Benché il giudice amministrativo tedesco abbia ammesso, nel caso di specie — trattasi di un delitto passionale commesso da un cittadino italiano — il ricorso in cassazione, ciò è stato possibile solamente in quanto esso ha ritenuto che la sentenza impugnata era carente di motivazione tanto per quanto attiene ai motivi di prevenzione generale, quanto, ove del caso, i motivi di prevenzione specifica.

Le considerazioni di principio del Bundesverwaltungsgericht restano cionondimeno intatte.

Si può deplorare che, essendosi posto il quesito circa l'interpretazione dell'art. 3, n. 1, della direttiva, al punto di mostrare qualche esitazione sul significato e la portata di questa disposizione comunitaria, il Bundesverwaltungsgericht non abbia affatto deciso di sottoporvi la questione pregiudiziale che il Tribunale amministrativo di Colonia, da parte sua, vi ha rinviato, nel chiaro intento di ottenere per il futuro un criterio orientativo per i giudici nazionali od, almeno, di porli di fronte a canoni comunitari irrefutabili.

Non esito a proporvi di risolvere il quesito nel senso che la nozione stessa di comportamento personale esclude che un provvedimento di espulsione possa venir adottato nei confronti di un lavoratore comunitario per ragioni di prevenzione generale.

Innanzitutto, la libertà di circolazione, riconosciuta ai lavoratoti dall'art. 48 del trattato, comporta il diritto di soggiornare ed occupare un posto di lavoro nello Stato ospitante. Orbene, trattasi di diritti soggettivi basilari per la realizzazione del mercato comune che, lungi dal limitarsi alla libertà degli scambi commerciali, implica automaticamente la mobilità degli uomini e la garanzia di poter liberamente accedere al territorio di ciascuno Stato membro, al fine di occuparvi un posto di lavoro. Queste considerazioni sono altrettanto valide in materia di libertà di stabilimento.

Tali diritti hanno valore fondamentale nel sistema del trattato. Il loro esercizio non può venir arbitrariamente o anche solo discrezionalmente limitato da parte degli Stati membri. Questi hanno certamente conservato la loro competenza in materia di sicurezza pubblica ed ho già avuto occasione di affermare, a proposito della causa Van Duyn, che gli imperativi d'ordine pubblico nazionale variano da uno Stato all'altro, come variano anche nel tempo in funzione delle condizioni sociologiche.

È pacifico quindi che si debba riconoscere alle autorità nazionali un certo margine di discrezionalità in questo settore; tuttavia, come avete affermato, questo margine di discrezionalità deve rientrare nei limiti imposti dal trattato e, aggiungerò, dalla direttiva adottata per l'attuazione dell'art. 48. Orbene, per usare i termini precisi della sentenza 4 dicembre 1974 (causa 41-74 — Van Duyn c. Home Office) «la nozione d'ordine pubblico nel contesto comunitario, specie in quanto autorizza una deroga al principio fondamentale della libera circolazione dei lavoratori, va intesa in senso stretto, col risultato d'escluderne qualsiasi valutazione unilaterale da parte dei singoli Stati membri senza il controllo delle istituzioni comunitarie».

In proposito è fuori di dubbio che, richiedendo l'esame del comportamento individuale di ogni cittadino comunitario colpito da un provvedimento attinente alla tutela dell'ordine pubblico, e particolarmente della sicurezza pubblica, l'art. 3, n. 1, della direttiva ha inteso limitare il potere delle autorità nazionali ed escludere qualsiasi facoltà per esse di adottare, nei confronti di tali cittadini, provvedimenti di polizia di natura collettiva.

Si deve, a mio avviso, andare ancora oltre e conferire piena efficacia alla direttiva, riconoscendo che la nozione di comportamento personale e l'intento di prevenzione generale sono antinomici, inconciliabili.

Adottare un provvedimento d'espulsione nei confronti di un lavoratore cittadino di uno Stato membro significa negargli il diritto di soggiornare e di occupare un posto di lavoro nello Stato ospitante. Trattasi quindi di un provvedimento molto grave, gravido di conseguenze, che può venir giustificato solo da considerazioni relative esclusivamente al comportamento personale, quali emergono dai fatti commessi. A contrario, la direttiva impone quindi l'obbligo agli Stati di non tener conto di fattori estranei a tale comportamento personale.

Mi sembra quindi assurdo fare di un lavoratore comunitario, anche se ha subito una condanna, un «capro espiatorio» al fine di dissuadere altri stranieri dall'agire alla stessa guisa. La direttiva prescrive invero che l'attentato all'ordine pubblico nazionale, in quanto effetto del comportamento personale, sia tale che un provvedimento di espulsione si imponga, vuoi in quanto l'ordine pubblico è stato gravemente perturbato dei fatti commessi, vuoi in quanto vi è da temere che il reo commetta altri atti antisociali.

Mi sia consentito manifestare un certo scetticismo quanto all'effetto realmente dissuasivo di un provvedimento di espulsione adottato nell'intento di «dare un esempio». Dato e non concesso che la notizia di un tale provvedimento si diffonda ampiamente nell'ambiente dei lavoratori stranieri, non è manifesto ch'esso abbia un effetto esemplare tale da indurre la generalità degli immigrati ad astenersi dal commettere atti criminosi.

Al limite, non si può fare a meno di pensare che l'espulsione di un lavoratore straniero, sia pure cittadino del mercato comune rispecchi, in realtà, il sentimento d'ostilità, confinante talvolta con la xenofobia, che la consumazione di un reato da parte di uno straniero generalmente suscita o ravviva nella popolazione nazionale.

Comunque stiano le cose, mi sembra che l'obiettivo della dissuasione possa venir perseguito solo a condizione che il provvedimento di espulsione venga non soltanto adottato, ma anche eseguito in un termine molto breve.

Orbene, nel caso di specie richiamo l'attenzione sul fatto che, benché i fatti criminosi si siano svolti alla fine di maggio 1971 e la condanna per detenzione abusiva d'arma sia intervenuta nel mese di ottobre successivo, l'Oberstadtdirektor della città di Colonia ha atteso fino al 15 settembre 1972 per intimare l'espulsione, ossia oltre 15 mesi dopo i fatti, quasi un anno dopo la sentenza penale.

Durante questo periodo, per quanto ci risulta, l'attore ha continuato a svolgere la propria attività subordinata in Germania.

Il che sta a significare quanto, nel caso di specie, l'efficacia della dissuasione sia scemata.

Aggiungo che, accogliendo la domanda di sospensione dell'esecuzione presentata dall'attore, la IV sezione del Verwaltungsgericht di Colonia ha irrefutabilmente respinto la tesi delle autorità locali ed ha sottolineato che nei confronti della direttiva comunitaria l'espulsione non trovava alcuna concreta giustificazione.

Naturalmente spetterà al giudice di merito, in conformità alla sentenza interpretativa di questa Corte, inquadrare la causa nel terreno giuridico suo proprio, cioè valutare se il comportamento individuale del Bonsignore costituisca o meno un attentato alla sicurezza pubblica della Repubblica federale, con caratteristiche atte a motivare la sua espulsione. Non è di competenza di questa Corte entrare in tale dibattito.

Tuttavia, tali considerazioni mi portano invero a disaminare la seconda questione pregiudiziale.

Potrò essere molto conciso su questo punto, visto che risulta già da quanto ho detto sin qui che la nozione di comportamento personale va esaminata non solo relativamente ai fatti commessi, ma in considerazione della «pericolosità» del reo, volendo usare il linguaggio dei criminologi.

In altri termini, ritengo che l'adozione di un provvedimento di espulsione nei confronti di un cittadino di uno Stato membro della Comunità sia subordinato all' accertamento da parte delle autorità nazionali, tanto amministrative quanto giudiziarie, d'indizi atti a determinare il loro convincimento della sussistenza di un rischio fondato di recidiva o, più in generale, che tale cittadino col suo comportamento, tanto passato quanto futuro, rappresenti un pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblici dello Stato ospitante.

Questa valutazione in definitiva rientra, caso per caso, nella competenza dei giudici nazionali.

Propongo quindi di risolvere la seconda questione in senso affermativo.

In definitiva, l'entrata in vigore dell'art. 48 del trattato, e della direttiva n. 64/221, ha lo scopo e deve avere la conseguenza di ridurre sostanzialmente il potere discrezionale degli Stati di adottare nei confronti di stranieri privilegiati quali i cittadini del mercato comune, misure restrittive del loro diritto di soggiorno, giustificate da ragioni di ordine pubblico, prescrivendo che la loro situazione individuale costituisca l'oggetto di un esame approfondito sotto il controllo dell'autorità giudiziaria.

Il testo della direttiva rappresenta, tuttavia, solo un primo passo verso l'armonizzazione o, piuttosto, verso il coordinamento dell'applicazione di misure attinenti all'ordine pubblico.

Una più valida soluzione, nel senso di una migliore tutela dèi lavoratori contemplati all'art. 48, consisterebbe non già, certamente, nel trasferire in questo campo alle istituzioni comunitarie i poteri di polizia che gli Stati hanno voluto conservare, e di cui nessuno pensa di privarli, ma nel rinforzare e nel precisare le disposizioni della direttiva in guisa che i motivi all'origine di un provvedimento di espulsione trovino il loro fondamento in criteri comunitari uniformi.

Questo è, a mio avviso, l'iter da seguire in futuro, visto che l'applicazione di tali criteri alle singole situazioni deve rimanere di competenza delle autorità nazionali.

Almeno, in quel giorno, una volta per tutte sarà eliminata la superata nozione di espulsione, misura di polizia soggetta al potere discrezionale delle autorità amministrative e che consente loro di rimpatriare gli stranieri «indesiderabili», potere che è stato peraltro, fino ad un'epoca molto recente, praticamente sottratto ad un valido controllo da parte dell'autorità giudiziaria.

Concludo quindi nel senso che questa Corte affermi per diritto:

1.

Che l'art. 3, nn. 1 e 2, della direttiva del Consiglio n. 64/221 — il quale è direttamente efficace ed in quanto tale crea in capo ai cittadini degli Stati membri della Comunità diritti soggettivi che i giudici nazionali devono tutelare — va interpretato nel senso che il provvedimento di espulsione adottato nei confronti di uno di questi cittadini, reo di un'infrazione penale, non può venir motivata esclusivamente da considerazioni di prevenzione generale, nell' intento di dissuadere altri stranieri dal commettere un reato della stessa indole, ovvero altre infrazioni lesive per la sicurezza e per l'ordine pubblico nazionale.

2.

Un siffato provvedimento di espulsione può venir adottato, in forza delle disposizioni oggetto della direttiva, solo previa disamina del comportamento personale del delinquente e qualora, sotto l'eventuale controllo dei giudici nazionali, venga accertata l'esistenza di una minaccia sufficientemente grave e prevedibile per la sicurezza e per l'ordine pubblici, in particolare in considerazione di un pericolo di recidiva.


( 1 ) Traduzione dal francese.

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