Choose the experimental features you want to try

This document is an excerpt from the EUR-Lex website

Document 61989CC0292

    Conclusioni dell'avvocato generale Darmon del 8 novembre 1990.
    The Queen contro Immigration Appeal Tribunal, ex parte: Gustaff Desiderius Antonissen.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: High Court of Justice, Queen's Bench Division - Regno Unito.
    Libera circolazione dei lavoratori - Diritto di soggiorno - Ricerca di un lavoro - Limitazione di tempo.
    Causa C-292/89.

    Raccolta della Giurisprudenza 1991 I-00745

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1990:387

    61989C0292

    Conclusioni dell'avvocato generale Darmon dell'8 novembre 1990. - THE QUEEN CONTRO IMMIGRATION APPEAL TRIBUNAL, EX PARTE GUSTAFF DESIDERIUS ANTONISSEN. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: HIGH COURT OF JUSTICE, QUEEN'S BENCH DIVISION - REGNO UNITO. - LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI - DIRITTO DI SOGGIORNO - RICERCA DI UN'OCCUPAZIONE - LIMITI DI TEMPO. - CAUSA C-292/89.

    raccolta della giurisprudenza 1991 pagina I-00745
    edizione speciale svedese pagina I-00055
    edizione speciale finlandese pagina I-00067


    Conclusioni dell avvocato generale


    ++++

    Signor Presidente,

    Signori Giudici,

    1. Con pronuncia 14 giugno 1989 la High Court vi ha sottoposto due questioni pregiudiziali vertenti sull' interpretazione di disposizioni del diritto comunitario relative alla libera circolazione dei lavoratori in merito alla situazione in cui un cittadino di uno Stato membro intende accedere ad un lavoro subordinato sul territorio di un altro Stato membro. Il giudice a quo vi interroga in particolare sulle condizioni giuridiche del soggiorno della persona interessata nello Stato in cui è in cerca di occupazione.

    2. Nella causa principale infatti il sig. Antonissen, cittadino belga, ha proposto ricorso dinanzi alla High Court avverso un provvedimento con cui l' Immigration Appeal Tribunal ha respinto il suo ricorso riguardante un decreto di espulsione adottato il 27 novembre 1987 dal Secretary of State. L' interessato, che si era recato nel Regno Unito nell' ottobre 1984, non vi aveva ancora svolto alcun lavoro quando, nel settembre 1986, veniva arrestato per detenzione e vendita di cocaina. Condannato il 30 marzo 1987 dalla Crown Court di Liverpool ad una pena detentiva, scontava ancora la sua pena quando veniva adottato il decreto di espulsione. Il sig. Antonissen veniva liberato sulla parola il 21 dicembre 1987. Lasciava il territorio del Regno Unito a partire dal 14 giugno 1989.

    3. La soluzione della causa principale dipende dal diritto comunitario in quanto per i poteri delle autorità nazionali in materia di espulsione sono stabilite alcune limitazioni particolari quanto ai cittadini di altri Stati membri che fruiscono di un diritto di soggiorno in forza della libera circolazione dei lavoratori. Ricordo, in particolare, che, anche se per il diritto di dimorare in uno Stato membro allo scopo di svolgervi un lavoro, contemplato dall' art. 48, n. 3, lett. c), del Trattato CEE, possono essere stabilite alcune limitazioni "giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica" (1), dall' art. 3 della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1964, 64/221/CEE (2), emerge che i provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, che possono consistere in provvedimenti di allontanamento, "devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell' individuo nei riguardi del quale essi sono applicati", e che "la sola esistenza di condanne penali non può automaticamente giustificare l' adozione di tali provvedimenti". Di conseguenza, prescindendo da taluni aspetti della situazione del sig. Antonissen considerati dal Secretary of State per ordinare la sua espulsione, va accertato in quale misura un cittadino di uno Stato membro che cerchi un' occupazione sul territorio di un altro Stato membro possa avvalersi delle disposizioni protettrici contenute nella disciplina della libera circolazione dei lavoratori.

    4. Con la prima questione il giudice a quo vi chiede, in sostanza, se le disposizioni del diritto comunitario sulla libera circolazione dei lavoratori ostino a che la normativa di uno Stato membro disponga che un cittadino di un altro Stato membro, recatosi sul territorio del primo Stato per cercarvi lavoro, può essere obbligato, fatto salvo il diritto d' impugnazione, a lasciare questo territorio se non vi ha trovato alcun lavoro alla fine di un periodo di sei mesi. E' infatti in base ad una simile normativa che è stato adottato il decreto di espulsione di cui si tratta. La seconda questione mira a stabilire quale valore il giudice nazionale debba attribuire alla dichiarazione del Consiglio figurante nel verbale della riunione durante la quale ha adottato la direttiva 68/360/CEE (3). Come vedremo, la soluzione da fornire su questo secondo punto si inserisce naturalmente nella discussione apertasi con la prima questione.

    5. La mera esegesi dei termini dell' art. 48 del Trattato CEE avrebbe potuto portare a dubitare che il cittadino di uno Stato membro in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro fruisca, in forza della libera circolazione dei lavoratori, di un diritto di dimorarvi. Il diritto di trasferirsi liberamente sul territorio degli Stati membri, cui si riferisce il n. 3, lett. b), di detto articolo, è strutturato in funzione dell' obiettivo di rispondere, ai sensi della lett. a), "ad offerte di lavoro effettive", il che non coincide con la ricerca di lavoro. Tuttavia, il legislatore comunitario, incaricato di realizzare progressivamente la libera circolazione dei lavoratori (4), non sembra che si sia attenuto a siffatta esegesi, che avrebbe sancito - a dire il vero - una concezione ben ristretta, ed anche poco realista, delle condizioni in cui una persona accede ad un lavoro.

    6. L' art. 1, n. 1, del regolamento (CEE) del Consiglio 15 ottobre 1968, n. 1612 (5), ha stabilito che "ogni cittadino di uno Stato membro, qualunque sia il suo luogo di residenza, ha il diritto di accedere ad un' attività subordinata e di esercitarla sul territorio di un altro Stato membro, conformemente alle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative che disciplinano l' occupazione dei lavoratori nazionali di detto Stato". Nell' art. 5 dello stesso regolamento, inserito, al pari dell' art. 1, nel suo titolo I, il cui testo è: "Accesso all' impiego", si dispone che "il cittadino di uno Stato membro, che ricerca un impiego sul territorio di un altro Stato membro, vi riceve la stessa assistenza che gli uffici del lavoro di quest' ultimo Stato prestano ai loro cittadini che ricercano un impiego". Si può già osservare, in questa fase, che i cittadini di uno Stato membro in cerca di occupazione in un altro Stato membro rientrano nell' ambito delle persone che hanno "il diritto di accedere ad un' attività subordinata" sul territorio di un altro Stato membro, di cui all' art. 1 del regolamento n. 1612/68. Questo regolamento, a tenore del secondo punto della motivazione, mira ad adottare "le disposizioni che permettano di raggiungere gli obiettivi fissati dagli artt. 48 e 49 del Trattato in materia di libera circolazione". La ricerca da parte di un cittadino di uno Stato membro di un lavoro sul territorio di un altro Stato membro rientra pertanto nella libera circolazione dei lavoratori. Ciò premesso, sussiste per detto cittadino il diritto di soggiornare sul territorio dello Stato dove cerca lavoro?

    7. Il chiaro enunciato del regolamento n. 1612/68, qui sopra ricordato, porta a considerare che un cittadino di uno Stato membro in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro può invocare il beneficio di cui all' art. 48, n. 3, lett. b), del Trattato, vale a dire quello "di spostarsi (...) liberamente" su detto territorio. Si può però equiparare il diritto di spostarsi a un diritto di soggiornare? Quanto allo stesso Trattato il diritto di spostarsi sul territorio di cui trattasi è sancito dal suddetto art. 48, n. 3, lett. b), mentre il diritto di soggiornare figura nella lett. c) dello stesso articolo, e si riferisce alla situazione dell' esercizio di un lavoro. Il regolamento n. 1612/68 non consente, a priori, di classificare i cittadini comunitari in cerca di occupazione fra i beneficiari di questo diritto di soggiornare. Le disposizioni del regolamento che si riferiscono alla ricerca di un lavoro rientrano, come ho detto, nel titolo I espressamente dedicato all' accesso al lavoro, mentre l' esercizio del lavoro è trattato nel titolo II. Non dimentichiamo, tuttavia, che la questione del trasferimento e del soggiorno dei beneficiari della libera circolazione dei lavoratori ha costituito oggetto di una disciplina specifica ad opera della già citata direttiva 68/360 (6). In questo atto di diritto derivato figurano delle precisazioni sul punto in esame?

    8. La direttiva 68/360 mira, ai sensi del primo punto del preambolo, ad "adottare, per quanto riguarda la soppressione delle restrizioni ancora esistenti in materia di trasferimento e di soggiorno all' interno della Comunità, provvedimenti conformi ai diritti e alle facoltà riconosciuti da (il regolamento n. 1612/68) ai cittadini di ciascuno Stato membro che si trasferiscono allo scopo di svolgere un' attività subordinata (...)". L' art. 1 dispone che "gli Stati membri sopprimono, alle condizioni previste dalla presente direttiva, le restrizioni al trasferimento ed al soggiorno dei cittadini di detti Stati (...) ai quali si applica il regolamento (CEE) n. 1612/68". Poiché i cittadini comunitari alla ricerca di un impiego rientrano, come ho già rilevato, nella sfera d' applicazione del titolo I del regolamento n. 1612/68, essi possono quindi a priori essere interessati dalle "condizioni previste dalla (...) direttiva". Si concretizza questa possibilità?

    9. A tenore dell' art. 3 della direttiva, "gli Stati membri ammettono sul loro territorio le persone di cui all' art. 1 dietro semplice presentazione di una carta d' identità o di un passaporto validi". Non vi è dubbio che i cittadini comunitari in cerca di occupazione da svolgere sul territorio di un altro Stato membro fruiscono del diritto di accesso a questo territorio secondo le condizioni stabilite dall' art. 3. Un aspetto del loro diritto di trasferirsi si concretizza. Ma quid del diritto di soggiornare propriamente detto?

    10. L' art. 4 della direttiva dispone che "gli Stati membri riconoscono il diritto di soggiorno sul loro territorio alle persone di cui all' art. 1, che siano in grado di esibire i documenti indicati al paragrafo 3"; questo diritto di soggiorno viene "comprovato" col rilascio di una "carta di soggiorno". L' art. 4, n. 3, distingue i documenti da presentare, per il rilascio della carta di soggiorno, a seconda che la persona sia "lavoratore" o "membro della famiglia" di un lavoratore. Il "lavoratore" dev' essere in grado di presentare "il documento in forza del quale egli è entrato nel loro territorio", al pari di "una dichiarazione di assunzione del datore di lavoro o un attestato di lavoro". Per definizione la persona in cerca di occupazione non è in grado di presentare una dichiarazione di assunzione o un attestato di lavoro; sembra quindi che essa non possa fruire del disposto di cui all' art. 4, vale a dire del riconoscimento di un diritto di soggiorno la cui validità non può essere inferiore a cinque anni e che è automaticamente rinnovabile, ai sensi dell' art. 6 della direttiva. Ciò significa che la direttiva non sancisce alcun diritto di soggiorno per il cittadino comunitario in cerca di occupazione?

    11. L' art. 6, n. 3, della direttiva contempla un diritto di soggiorno più limitato per il caso in cui un lavoratore occupi un lavoro per un periodo superiore a tre mesi e inferiore ad un anno; lo Stato membro ospitante in tal caso rilascia "un permesso temporaneo di soggiorno, la cui validità può essere limitata alla durata prevista dell' impiego". Peraltro, ai sensi dell' art. 8, "gli Stati membri riconoscono il diritto di soggiorno sul loro territorio, senza che sia necessario il rilascio della carta di soggiorno", a talune categorie di persone che svolgono un lavoro di breve durata, o che risiedono in parte sul territorio di uno Stato membro diverso da quello in cui lavorano, o che svolgono un lavoro stagionale. Per contro, nessuna disposizione della direttiva contempla, per quanto riguarda il diritto di soggiorno, la situazione del cittadino comunitario in cerca di un' occupazione.

    12. Di conseguenza, dall' esame della normativa emerge che il cittadino comunitario in cerca di occupazione da svolgere sul territorio di un altro Stato membro fruisce, tenuto conto delle espresse disposizioni del regolamento n. 1612/68, del diritto di trasferirsi su questo territorio, contemplato dall' art. 48 del Trattato, e la direttiva 68/360 ha espressamente sancito il suo diritto di accesso allo stesso territorio. Per contro, nessuna disposizione di detta direttiva, o di un' altra norma di diritto comunitario, ha espressamente contemplato a favore di siffatto cittadino un diritto di soggiorno. Se ne deve concludere che questo diritto non sussiste?

    13. La Corte non ha aderito a una conclusione del genere. Essa, senza statuire direttamente e specificamente sul diritto di soggiorno dei cittadini comunitari nello Stato membro in cui cercano occupazione, ha fatto riferimento, incidentalmente, ma in modo inequivocabile, all' esistenza di siffatto diritto. Così, nella sentenza 8 aprile 1976, Royer (7), la Corte ha osservato che

    "il diritto dei cittadini di uno Stato membro di entrare nel territorio di un altro Stato membro e di dimorarvi, per gli scopi voluti dal Trattato - in specie per cercarvi o svolgervi un' attività professionale, subordinata o indipendente, (...) - è un diritto attribuito direttamente dal Trattato o, a seconda dei casi, dalle disposizioni adottate per la sua attuazione" (8).

    Più recentemente, nella sentenza 23 marzo 1982, Levin (9), la Corte ha rilevato che

    "(...) i diritti scaturenti dal principio della libera circolazione dei lavoratori e, più particolarmente, il diritto di accedere e di soggiornare sul territorio di uno Stato membro" sono "rispettivamente connessi alla qualifica di lavoratore o di persona che esercita un' attività subordinata o che intende intraprendere detta attività" (10).

    14. Alla luce di queste sentenze non mi sembrerebbe esatto sostenere, come ha fatto il governo tedesco, che non vi è alcun diritto di soggiorno a favore di un cittadino comunitario in cerca di occupazione in un altro Stato membro. Mi sembra che la Corte abbia accolto in via di principio tale diritto, senza però precisare la sua fonte formale. Tenuto conto dell' apparente silenzio della direttiva 68/360, è più allettante cercare detta fonte negli artt. 1 e 5 del regolamento n. 1612/68, in combinato disposto con l' art. 48, n. 3, del Trattato. Rimarrebbe ancora da accertare se il diritto di soggiornare di cui trattasi, cui avete fatto riferimento, sia incluso nel diritto di trasferirsi o se esso ne costituisca una sorta di accessorio necessario. Tuttavia si deve fare del pari un' altra constatazione, vale a dire quella secondo cui il diritto di soggiorno del cittadino comunitario in cerca di occupazione in un altro Stato membro, sancito in via di principio, non ha costituito espressamente oggetto di una regolamentazione dettagliata nel diritto comunitario, e segnatamente nel diritto derivato. In particolare, né il Trattato né la direttiva 68/360 hanno formalmente precisato se il diritto di soggiornare di cui trattasi costituisse oggetto di una limitazione temporale. Orbene, il quesito del giudice a quo riguarda proprio questo punto. Dovrete spingere quindi l' analisi giuridica oltre la mera lettera della summenzionata normativa e la concisa formulazione delle vostre precedenti sentenze.

    15. E' qui che occorre determinare il valore che potrebbe essere attribuito, per l' interpretazione richiestavi, alla dichiarazione contenuta nel verbale del Consiglio, emessa nel corso della riunione durante la quale sono stati adottati il regolamento n. 1612/68 e la direttiva 68/360.

    16. La dichiarazione, riprodotta nella parte "In fatto" della precitata sentenza Levin (11), è così redatta:

    "le persone di cui all' art. 1 (della direttiva 68/360), cittadine di uno Stato membro e che si rechino in un altro Stato membro per cercarvi lavoro, dispongono a tale scopo di un termine minimo di tre mesi; se alla scadenza di questo termine non hanno trovato lavoro, si potrà porre termine al loro soggiorno nel territorio di questo secondo Stato. Tuttavia, le persone di cui sopra, qualora nel periodo sopra indicato dovessero rivolgersi alla pubblica assistenza del secondo Stato, potranno essere invitate a lasciare il territorio di questo secondo Stato".

    17. La dichiarazione proviene dal Consiglio, e non da uno o più Stati membri. Essa è stata adottata all' unanimità dei membri del Consiglio. Questo ha autorizzato, il 17 aprile 1989, la sua produzione in giustizia nel procedimento pendente dinanzi alla High Court, ma essa vi era già stata menzionata in occasione delle cause Levin (12) e Lebon (13).

    18. All' atto dell' adozione di questa dichiarazione, i lavori del Consiglio erano disciplinati da un "regolamento interno provvisorio". Ai sensi del suo art. 18, primo comma, il principio era che "le deliberazioni del Consiglio sono sottoposte al segreto professionale"; il secondo comma dello stesso articolo precisava che il Consiglio poteva "autorizzare la produzione in giustizia di una copia o di un estratto dei suoi processi verbali" (14). Queste disposizioni sono state riprodotte tali e quali nell' art. 18 del regolamento interno adottato dal Consiglio il 24 luglio 1979 (15). Per contro, il disposto di cui all' art. 7, n. 1, di quest' ultimo regolamento, che prevedeva per ciascuna sessione del Consiglio la redazione di un verbale contenente, di regola, per ciascuno punto dell' ordine del giorno le decisioni adottate nonché "le dichiarazioni fatte dal Consiglio e quelle di cui un membro del Consiglio o della Commissione chiedono l' iscrizione", è nuovo, in quanto il precitato regolamento interno provvisorio non aveva fatto alcuna menzione delle dichiarazioni del Consiglio. Si constata quindi che il regolamento interno in vigore all' atto dell' adozione del regolamento e della direttiva 15 ottobre 1968 non attribuiva alcuna natura particolare alle dichiarazioni del Consiglio e trattava solo della portata della riservatezza connessa ai verbali in cui esse erano contenute. Pertanto sembra difficile trarne delle indicazioni essenziali quanto all' efficacia giuridica della dichiarazione di cui trattasi.

    19. Sembra che la vostra giurisprudenza consenta di offrire indicazioni più precise quanto alla portata delle dichiarazioni contenute nei verbali del Consiglio.

    20. Nella sentenza 18 febbraio 1970, Commissione / Repubblica italiana (16), avete rilevato, a proposito di una dichiarazione della Repubblica italiana in occasione dell' elaborazione della decisione del Consiglio 26 luglio 1966, cosiddetta decisione di "acceleramento", che

    "la portata e l' effetto della decisione di acceleramento vanno valutati secondo il tenore della decisione stessa e non possono quindi venire limitati da riserve o da dichiarazioni eventualmente pronunciate nella fase preparatoria" (17).

    21. La sentenza 7 febbraio 1979, Vincent Auer (18), vi ha fornito l' occasione di precisare la vostra posizione a proposito, in quel caso, non di una dichiarazione unilaterale di uno degli Stati membri rappresentati nel Consiglio, ma di una dichiarazione collegiale del Consiglio. Osservando che dalla struttura generale sia dei programmi generali elaborati per l' attuazione degli artt. 54 e 63 del Trattato sia delle direttive adottate in esecuzione di detti programmi risultava che la sfera d' applicazione ratione personae dei provvedimenti di liberalizzazione in materia di stabilimento e di servizi si determina di volta in volta senza distinzione a seconda della cittadinanza degli interessati, avete aggiunto che questo orientamento era stato confermato, per quel che riguarda l' esercizio della professione di veterinario,

    "da una dichiarazione riguardante i beneficiari delle direttive, riprodotta nel verbale della sessione del Consiglio durante la quale sono state adottate le direttive concernenti il reciproco riconoscimento dei diplomi e il coordinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative per le attività di veterinario" (19).

    22. Nella sentenza 15 aprile 1986, Commissione / Belgio (20), avete dovuto pronunciarvi su un' argomentazione dello Stato membro convenuto il quale, basandosi sul fatto che una dichiarazione contenuta nel verbale del Consiglio redatto all' atto dell' adozione della sua direttiva 14 febbraio 1977, 77/187/CEE (21), prevedeva che gli Stati membri avrebbero notificato alla Commissione le categorie di lavoratori escluse dal beneficio del disposto di cui all' art. 4, n. 1, primo comma, della direttiva, in applicazione del secondo comma di detto paragrafo, sosteneva che, avendo notificato alla Commissione l' esclusione di talune categorie senza che questa avesse reagito, esso aveva agito in modo tale che non sarebbe stato più possibile addebitargli in seguito di avere in realtà escluso alcune categorie di lavoratori che non soddisfacevano le condizioni cui il precitato secondo comma subordinava siffatto provvedimento. A questo proposito avete rilevato che, secondo la vostra costante giurisprudenza,

    "la portata oggettiva delle norme del diritto comunitario è determinata solo da queste stesse norme, tenuto conto del loro contesto",

    e che una dichiarazione come quella invocata dal Belgio "non può quindi incidere su detta portata" (22).

    23. Alla luce di queste poche sentenze che abbiamo ricordato, mi sembra difficile aderire alla tesi secondo cui una dichiarazione del Consiglio, contenuta nel verbale di una delle sue sessioni, non svolgerebbe in via di principio alcuna funzione per l' interpretazione del diritto comunitario. Del resto, l' espresso riferimento nella vostra recente sentenza 23 febbraio 1988, Regno Unito / Consiglio (23), agli "atti preparatori" (24) e ai "lavori preparatori" (25) dimostra che è senz' altro possibile, per l' interpretazione di un atto di diritto derivato, prendere in considerazione i lavori che hanno preparato o che hanno accompagnato la sua adozione. Ciò premesso, occorre precisare le condizioni e i limiti del riferimento alle dichiarazioni del Consiglio contenute nel verbale di una delle sue riunioni.

    24. Credo che un primo limite debba essere stabilito allo scopo di rispettare la nozione di lavori preparatori. Infatti penso che una dichiarazione contenuta nel verbale del Consiglio possa costituire un riferimento ai fini dell' interpretazione solo se è stata formulata in occasione dell' adozione di un atto di diritto derivato che il Consiglio ha il potere di adottare e solo nei confronti di detto atto. Il Consiglio non è infatti competente in base ai Trattati a rilasciare interpretazioni dei Trattati stessi. Esso deve, ai fini della propria attività normativa, interpretare i Trattati allo scopo di determinare l' ambito della sua azione. Ma non può trasformare il mezzo in fine per formulare interpretazioni che in seguito sarebbero ritenute vincolanti per la Corte o per il giudice nazionale. Peraltro ritengo che una dichiarazione "a posteriori" del Consiglio, relativa ad un atto di diritto derivato adottato in passato, non possa ricevere credito il quale spetta solo ai lavori preparatori all' adozione di siffatto atto, il che implica la loro precedenza a quest' ultimo o la loro contemporaneità con lo stesso.

    25. Un secondo limite, chiaramente indicato nella vostra giurisprudenza, consiste nel fatto che una dichiarazione contenuta nel verbale del Consiglio non può essere invocata qualora il suo contenuto risulti in contrasto con i termini chiari dell' atto di diritto derivato cui si riferisce, o sia incompatibile con gli stessi. Penso che questo aspetto non richieda ulteriori chiarimenti.

    26. Un terzo limite risulta dal rispetto che è dovuto, in base al diritto istituzionale comunitario, alle forme richieste dai Trattati per l' elaborazione e l' adozione degli atti di diritto derivato. Esso si traduce nell' impossibilità per il Consiglio di completare mediante una dichiarazione contenuta nel suo verbale le disposizioni dell' atto di diritto derivato. Siffatta dichiarazione non può infatti costituire un mezzo di legislazione parallela. Orbene, si arriverebbe proprio a questo risultato se si ammettesse che il contenuto di una simile dichiarazione possa essere aggiunto alle disposizioni di un regolamento o di una direttiva, o possa colmarne una lacuna, se si ammettesse quindi che possa figurare, nel verbale del Consiglio, la regolamentazione che esso ha omesso di introdurre nell' atto normativo stesso. Ciò che deve costituire oggetto di una regolamentazione deve trovarsi nell' atto adottato e deve essere stato elaborato in base alle norme sulla forma stabilite per adottare questo atto nella materia di cui trattasi. Altrimenti si consente al Consiglio di legiferare in una materia in parte secondo le forme stabilite per adottare validamente un regolamento o una direttiva, innegabilmente soggette ad un sindacato di legalità, e in parte senza tener conto di dette forme e limitandosi a inserire una dichiarazione nel proprio processo verbale. Ciò mi sembra tanto più inconcepibile in quanto il verbale è in via di principio segreto e solo il Consiglio può autorizzare la sua produzione dinanzi ad un giudice nazionale.

    27. Arrivo quindi alla conclusione che una dichiarazione del Consiglio contenuta nel suo verbale può costituire un riferimento solo per l' interpretazione di disposizioni contenute nell' atto di diritto derivato la cui elaborazione o adozione hanno dato luogo a detta dichiarazione qualora si tratti di precisare il senso di dette disposizioni, in caso in cui siano ambigue o equivoche. La dichiarazione non può invece servire a colmare una lacuna delle stesse disposizioni. Si deve inoltre aggiungere, per tener conto della vostra precitata sentenza Vincent Auer, che siffatta dichiarazione non può servire come unico riferimento e deve essere utilizzata unitamente ad altre, nel senso che si può verificare se essa conferma l' interpretazione che risulti, peraltro, dal contenuto delle disposizioni di cui trattasi e dal loro contesto.

    28. Analizzata in tal modo la dichiarazione considerata nella seconda questione del giudice a quo non mi sembra poter fornire il minimo riferimento utile per determinare la misura in cui il diritto comunitario sancisce, a favore del cittadino comunitario in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro, un diritto di soggiornarvi. Infatti, per quanto attiene al principio di un diritto di soggiorno, o la dichiarazione significa che, mediante la fissazione di un termine di tre mesi, gli Stati membri hanno inteso implicitamente riconoscere questo diritto, e ciò si limita a confermare ciò che non è più dubbio dopo le summenzionate sentenze Royer e Levin, oppure secondo la stessa dichiarazione gli Stati membri hanno voluto organizzare una mera tolleranza, e ciò sembra incompatibile con la vostra giurisprudenza. Quanto alle modalità del soggiorno come concepito nella dichiarazione, si deve osservare che esse non precisano affatto le disposizioni della direttiva 68/360, poiché quest' ultima non ne stabilisce nessuna quanto a un siffatto soggiorno. In realtà la dichiarazione contiene - o piuttosto mira a contenere - una disciplina giuridica esauriente del soggiorno di cui trattasi, colmando una lacuna della regolamentazione comunitaria, la quale nei Trattati o nel diritto derivato non prevede né un termine né un limite quanto all' assunzione di oneri finanziari a carico dell' assistenza pubblica. Questa forma di "legislazione parallela" mediante una dichiarazione contenuta nel verbale non può, neanche per il tramite di un' interpretazione, essere presa in considerazione. Di conseguenza, ritengo che occorra risolvere la seconda questione pregiudiziale nel senso che la dichiarazione di cui trattasi non può essere presa in considerazione per determinare le condizioni in cui un cittadino comunitario può soggiornare in uno Stato membro dove è in cerca di occupazione.

    29. Non potendo far riferimento a detta dichiarazione, si deve osservare che, anche dopo aver fatto ricorso ai mezzi interpretativi, nessuna disposizione di diritto comunitario può essere considerata nel senso che disciplina le modalità del diritto di soggiorno ammesso, in via di principio, dalla vostra giurisprudenza. Se ne deve quindi concludere che questa situazione lascia agli Stati membri ogni facoltà per disciplinare, ciascuno per quanto lo riguarda, le modalità di cui trattasi sul proprio territorio? Una soluzione negativa sembra risultare senza nessuno equivoco dalla vostra giurisprudenza. Nella materia della libera circolazione dei lavoratori, avete infatti rilevato, già nella sentenza 19 marzo 1964, Unger (26), che i termini "lavoratori" e "attività subordinata" non si possono definire mediante il rinvio alla normativa degli Stati membri, ma hanno una portata comunitaria, e avete ribadito questa tesi nella già citata sentenza Levin, precisando:

    "Altrimenti sarebbero compromesse le norme comunitarie in materia di libera circolazione dei lavoratori, giacché la portata di queste espressioni potrebbe venir fissata e modificata unilateralmente, eludendo il controllo delle istituzioni comunitarie, dalle norme nazionali, che potrebbero quindi escludere ad libitum determinate categorie di persone della sfera di applicazione del Trattato" (27).

    Orbene, ammettere nella presente causa che le normative nazionali abbiano ogni libertà per determinare le modalità del soggiorno equivarrebbe, in definitiva, a lasciare loro il compito di stabilire il contenuto stesso dello status del cittadino comunitario in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro, potendo questo contenuto naturalmente variare notevolmente da un paese all' altro. Poiché la durata oltre la quale non sarebbe più possibile avvalersi della condizione di cittadino comunitario in cerca di occupazione, ai sensi della disciplina della libera circolazione dei lavoratori, dipenderebbe da ciascuno Stato membro, si giungerebbe a che persone in situazioni identiche possono costituire oggetto di discipline diverse quanto al godimento dei diritti attribuiti in base alla libera circolazione, vale a dire ad una variazione, da uno Stato membro all' altro, della sfera di applicazione ratione personae delle norme comunitarie in materia, il che è in contrasto con la vostra giurisprudenza. Il fatto che, secondo quanto vi è stato comunicato all' udienza, alcuni Stati membri applichino lo stesso termine minimo di tre mesi, rispettando quindi l' accordo politico costituito dalla dichiarazione del Consiglio, non modifica al riguardo l' analisi giuridica risultante dalla vostra giurisprudenza. Del resto, l' applicazione del Regno Unito di un termine minimo di sei mesi mi sembra illustrare perfettamente i rischi cui abbiamo accennato quanto ad un contenuto del diritto di soggiorno che non sia uniforme, anche se esso rientra nell' ambito di una libertà fondamentale ai sensi del Trattato, quella della circolazione dei lavoratori. Il rinvio ai diritti nazionali non è quindi del tutto concepibile nella materia di cui si discute.

    30. Si può per questo - in mancanza di normativa comunitaria e nell' impossibilità di rinviarne la determinazione ai diritti nazionali - considerare che il diritto di soggiorno del cittadino comunitario in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro sia del tutto illimitato? Non credo che ciò si possa prendere in considerazione, poiché una soluzione del genere porterebbe ad incoerenze nel sistema giuridico d' insieme della libera circolazione dei lavoratori. Come ha giustamente sottolineato il governo del Regno Unito, le disposizioni comunitarie non possono avere avuto come obiettivo, né possono avere avuto come risultato l' attribuzione di maggiori diritti ad una persona che non ha mai avuto un lavoro rispetto a chi svolga un' attività temporanea o stagionale nello Stato considerato. Orbene, il sopraccitato art. 6, n. 3, della direttiva 68/360, ha stabilito per quanto attiene al diritto di soggiorno di un lavoratore che svolge un lavoro in un altro Stato membro durante una durata superiore a tre mesi e inferiore ad un anno che per il suo diritto di soggiorno poteva essere stabilito un limite corrispondente alla durata prevista del lavoro. Dall' art. 8 della stessa direttiva emergono del pari limitazioni quanto al diritto di soggiorno per talune categorie di lavoratori a causa della natura temporanea o stagionale del lavoro. Risulta pertanto difficile sancire un diritto di soggiorno senza limiti di alcun tipo a favore di una persona che non ha alcuna occupazione.

    31. Giungo quindi alla constatazione che è necessaria una certa limitazione del diritto di soggiorno del cittadino comunitario in cerca di occupazione. Ma come si può stabilire tale limite? Sarebbe concepibile che la Corte stabilisca essa stessa il limite temporale massimo oltre il quale un cittadino comunitario che non ha ancora trovato lavoro sul territorio di un altro Stato membro non possa più avvalersi del diritto di soggiornarvi? Scartando subito l' ipotesi della fissazione di un termine ex nihilo, che rientra nella competenza del legislatore, ci si potrebbe chiedere se non fornisca una soluzione il criterio che avete adottato nella sentenza 11 dicembre 1973, Lorenz (28). Chiamati a pronunciarvi sugli effetti del ritardo della Commissione a pronunciarsi sui progetti di aiuto notificatile o ad avviare il procedimento di accertamento della loro incompatibilità col mercato comune, o dell' omissione di siffatto intervento nell' ambito del controllo preventivo sugli aiuti di Stato, avete ricordato che, ai sensi dell' art. 93 del Trattato, la Commissione doveva essere informata dei progetti di aiuto "in tempo utile perché possa presentare le sue osservazioni" e, se riteneva un progetto incompatibile col mercato comune, essa doveva promuovere "senza indugio" un procedimento contraddittorio; inoltre, lo Stato membro interessato non poteva eseguire i progettati provvedimenti prima che detto procedimento si fosse concluso con la decisione finale. Avete inoltre osservato che, mentre le disposizioni di cui trattasi miravano ad accordare alla Commissione un periodo adeguato per pronunciarsi su un progetto di aiuto, non vi era un regolamento che avesse determinato questo termine. Avete quindi affermato che gli Stati membri non potevano comunque porre unilateralmente fine alla fase preliminare necessaria alla Commissione per svolgere il suo compito; tuttavia non si poteva considerare che la Commissione agisca con la debita diligenza qualora ometta di pronunciarsi entro un termine ragionevole, e avete concluso che era opportuno "richiamarsi agli artt. 173 e 175 del Trattato, che si riferiscono a situazioni comparabili, per le quali è stabilito un termine di due mesi" (29) e, trascorso questo termine, lo Stato membro interessato era libero di attuare il progetto dopo averne informato preventivamente la Commissione.

    32. Nella presente causa, tuttavia, l' applicazione di un ragionamento analogo andrebbe incontro ad un problema maggiore per la mancanza di una situazione chiaramente analoga cui sia possibile ispirarsi, alla guisa del termine di cui agli artt. 173 e 175, per quanto attiene al termine ragionevole prescritto alla Commissione in forza dell' art. 93. Il diritto di soggiorno di un cittadino di uno Stato membro in cerca di occupazione in un altro Stato membro non si presta facilmente a confronti utili nel diritto comunitario. Il riferimento, suggerito dal Regno Unito, al termine di tre mesi contemplato dall' art. 69 del regolamento (CEE) n. 1408/71 (30) ne costituisce una buona dimostrazione. Non vi è infatti una vera somiglianza e nemmeno un' analogia fra la norma stabilita da questa disposizione, che prescrive il mantenimento durante tre mesi delle prestazioni in materia di disoccupazione dovute in forza della normativa di uno Stato membro ad una persona che si è recata in un altro Stato membro per cercarvi lavoro, e il limite che dovrebbe applicarsi al diritto di soggiorno di una persona in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro. Non individuo un nesso necessario, sul piano giuridico, fra il diritto alle prestazioni di disoccupazione nello Stato membro d' origine e il diritto di soggiorno in quello ospitante. Rilevo, del resto, che del diritto di soggiorno di cui trattasi possono senz' altro fruire persone che non hanno alcun diritto a prestazioni di disoccupazione nel loro Stato d' origine, per esempio in quanto sono in cerca di una prima occupazione. Peraltro, il termine di tre mesi di cui all' art. 8, n. 1, lett. a), della direttiva 68/360, cui del pari fa riferimento il Regno Unito, non sembra costituire un riferimento più convincente. Il fatto di sapere che gli Stati membri riconoscono un diritto di soggiorno senza emettere un documento di soggiorno ai lavoratori che svolgono attività subordinata di una durata prevista non superiore a tre mesi non mi sembra fornire una giustificazione logica per una soluzione secondo cui una persona in cerca di un lavoro da oltre tre mesi e un giorno sul territorio di un altro Stato membro non vi fruisce più del diritto di soggiorno.

    33. Aggiungo che mi sembra difficile accettare il riferimento al termine di tre mesi figurante nella dichiarazione contenuta nel verbale del Consiglio. Infatti, a prescindere dall' incoerenza che consisterebbe nel fornire, in sostanza, a detta dichiarazione una portata giuridica di cui, come ho già detto, a mio avviso essa è priva, si deve rilevare che, persino dal punto di vista di un semplice dato di fatto, il termine di cui trattasi potrebbe dar luogo a contestazioni. E' opportuno riferirsi ad un termine preso in considerazione da sei Stati membri nel 1968, mentre, nell' Europa ampliata della fine degli anni '80, il mercato del lavoro presenta differenze notevoli rispetto a quello della fine degli anni '60? La durata media di ricerca di un lavoro è, verosimilmente, aumentata molto tra il 1968 ed ora. Attenersi al termine di tre mesi preso in considerazione dagli Stati membri nel 1968 porterebbe a non tener conto di questa realtà. Dal canto mio non posso decidermi ad accettare questo termine.

    34. Si constata quindi che per la fattispecie mancano dei riferimenti sicuri che consentirebbero di stabilire una nozione del termine ragionevole senza lasciare del tutto agli Stati membri il compito di precisarla. E' vero che nella vostra giurisprudenza avete fatto riferimento anche a termini ragionevoli che non erano accompagnati da precisazioni in base a confronti con i termini regolarmente e espressamente fissati. Ad esempio, nella sentenza 7 luglio 1976, Watson e Belmann, avete osservato che per quanto riguarda il termine per la notifica dell' ingresso del cittadino straniero

    "potrebbe ravvisarsi una violazione del diritto comunitario solo se il termine prescritto non è contenuto entro limiti ragionevoli (31).

    Ma trattandosi, come nella presente causa, della questione se una persona fruisca o no del diritto di soggiorno contemplato in via di principio dal diritto comunitario, e non, come nella precitata sentenza, di sapere in quale misura possano essere attuate in base ad una normativa nazionale modalità di esercizio che non mettono direttamente in discussione il diritto di soggiorno conferito dal Trattato, mi sembra che siano eccessivi gli inconvenienti giuridici di un rinvio a limiti la cui ragionevolezza rientra più in una raccomandazione che in una definizione. Si tratterebbe, in realtà, di lasciare, in modo appena dissimulato, al legislatore nazionale il compito di determinare l' ambito di applicazione del diritto di soggiorno della persona in cerca di occupazione e di abbandonare così l' orientamento che avete adottato quanto alla necessità di una definizione comunitaria della sfera d' applicazione delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori.

    35. Riservandosi il sindacato sul carattere non irragionevole dei termini prescritti dalle normative nazionali, sembra che la Corte non lasci puramente e semplicemente agli Stati membri la determinazione dell' ambito del diritto di soggiorno. Vi sarebbe in tal modo un quadro di riferimento comunitario minimo per la fissazione dei termini nazionali. Tale soluzione rappresenterebbe tuttavia solo una leggera attenuazione, e a posteriori, di un rinvio ai diritti nazionali che è contestabile in via di principio. Per quanto può, la Corte con le sue interpretazioni deve consentire alle autorità e ai giudici nazionali di individuare con certezza le garanzie del diritto comunitario. Devono essere evitate interpretazioni che porterebbero a lunghi brancolamenti - per quanto possibile - perché è evidente che esse si tradurrebbero in durature alterazioni dell' uniformità che deve essere alla base dell' applicazione del diritto comunitario.

    36. E' quindi lecito chiedersi se la sola via d' uscita consentita dallo stato attuale delle norme del diritto comunitario e giustificata dall' attenzione che occorre certamente prestare allo sviluppo del mercato del lavoro durante gli ultimi due decenni non consista nell' adozione di una concezione realista del limite del diritto di soggiorno. Non si dovrebbe infatti concepire che questo diritto sia riconosciuto al cittadino comunitario in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro fintantoché egli vi si dedichi attivamente con costanza e serietà? Se si adotta tale punto di vista la reiterata mancanza di disponibilità nei confronti delle offerte fatte all' interessato e corrispondenti alle sue capacità personali e qualifiche potrebbe, ad esempio, essere presa in considerazione dalle autorità nazionali per invitarlo a lasciare questo territorio, senza che il fatto che lo stesso abbia diritto, in base alla normativa dello Stato membro ospitante, ad un' assistenza pubblica possa giustificare siffatto provvedimento, indipendentemente dalle considerazioni relative alla mancanza di ricerca effettiva di un lavoro.

    37. L' orientamento cui ho accennato sarebbe, in una certa misura, in armonia con quello sancito nella vostra giurisprudenza, illustrato dalla precitata sentenza Levin, e Kempf (32), nonché dalla vostra recente pronuncia 31 maggio 1989 nella causa Bettray (33), secondo la quale per definire la sfera d' applicazione delle norme sulla libera circolazione dei lavoratori avete sottolineato che queste non riguardano che l' esercizo di attività reali ed effettive. In tal modo invitate le autorità e i giudici nazionali ad un esame concreto della realtà delle attività svolte da coloro che invocano il beneficio della situazione di lavoratore. Quanto alla ricerca di un lavoro occorrerebbe, in qualche modo, collegare il diritto di soggiorno alla "ricerca reale ed effettiva di un' attività reale ed effettiva". Vi sarebbero seri ostacoli ad adottare siffatta concezione?

    38. Il primo ostacolo che mi viene in mente è quello del rischio delle persone che si trasferiscono sul territorio di un altro Stato membro allo scopo, sotto l' apparenza di una ricerca di lavoro in realtà poco attiva, di fruirvi di prestazioni sociali contemplate dalla normativa di questo Stato. Diciamolo subito: questo rischio mi sembra di una portata notevolmente ridotta. Infatti, la vostra sentenza Lebon 18 giugno 1987 sembra aver chiaramente circoscritto l' ambito d' applicazione del principio della parità di trattamento fra i lavoratori migranti e quali nazionali quanto ai vantaggi sociali, precisando che detta parità di trattamento, stabilita dall' art. 7, n. 2, del regolamento n. 1612/68, è a vantaggio "dei soli lavoratori e non dei cittadini degli Stati membri che si spostano alla ricerca di lavoro" (34). Ciò sembra voler dire che, benché ammesse, in forza della libera circolazione dei lavoratori, ad accedere al territorio di un altro Stato membro e a soggiornarvi, le persone che vi cercano un lavoro non possono avvalersi della parità di trattamento quanto ai vantaggi sociali sancita nell' ambito di detta libertà. Pertanto, anche se si tiene conto della recente tendenza a dare una portata estensiva alla nozione della sfera d' applicazione del Trattato CEE e, di conseguenza, all' efficacia del principio di non discriminazione stabilito dall' art. 7 dello stesso (35), non sembra che nello stato attuale del diritto comunitario una persona in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro possa invocare, in forza di detto diritto, una parità di trattamento quanto ai vantaggi sociali contemplati dalla normativa di questo Stato. Pertanto, l' eventualità di un abuso, per quanto riguarda i vantaggi sociali, di un soggiorno prolungato sul territorio di uno Stato membro non mi sembra poter essere determinante per la soluzione della presente causa.

    39. Si deve aggiungere che l' attuazione ad opera delle autorità nazionali del controllo sulla ricerca seria, effettiva e costante di un lavoro dovrebbe, in ogni caso, consentire di individuare le persone che non sono effettivamente in cerca di occupazione. Queste ultime non potrebbero in tal caso avvalersi del diritto di soggiorno, anche se arrivate da un po' di tempo sul territorio dello Stato membro ospitante, né abusare, di conseguenza, dei vantaggi sociali stabiliti dal diritto nazionale.

    40. Non nego che vi possano essere degli svantaggi, dal punto di vista della semplicità dei provvedimenti da attuare in pratica, ad accogliere una soluzione che richiede un esame concreto della situazione del cittadino comunitario di cui trattasi, piuttosto che una soluzione formale, "forfettaria", basata sulla semplice scadenza di un termine. Tuttavia, si deve considerare che siffatti controlli non costituirebbero un' innovazione completa per le amministrazioni nazionali. Le normative che contemplano prestazioni in caso di disoccupazione subordinano infatti nella maggior parte dei casi il mantenimento di dette prestazioni alla ricerca effettiva di un lavoro e istituiscono al riguardo provvedimenti di controllo. Di tale controllo si fa inoltre menzione nell' art. 69, n. 1, lett. b), del regolamento n. 1408/71.

    41. Ritengo inoltre che la soluzione di un diritto di soggiorno connesso alla ricerca seria ed effettiva di un lavoro, anche se dovesse richiedere da parte delle autorità nazionali un maggior dispendio di energie di quello che comporta la lettura di un calendario, non vada incontro a grandi obiezioni. Si deve preferire questa soluzione a quella che rinvierebbe alla fissazione ad opera degli Stati membri di un termine ragionevole per cui la Corte si riserverebbe un certo sindacato su rinvio dei giudici nazionali? Credo di sì. Sono infatti convinto che in mancanza di una normativa comunitaria sul soggiorno in caso di ricerca di lavoro sul territorio di un altro Stato membro la via realista è quella che si allontana il meno possibile dallo stato attuale del diritto comunitario, in particolare se si tiene conto della vostra giurisprudenza sulla natura necessariamente comunitaria delle nozioni che stabiliscono la sfera d' applicazione della libera circolazione dei lavoratori. Inoltre, questa soluzione presenta il vantaggio, non trascurabile secondo me, di tener conto della realtà del mercato del lavoro nello Stato membro ospitante. Di conseguenza, vi suggerisco di adottare questo criterio.

    42. Prima di concludere le presenti conclusioni è necessario far riferimento a taluni recenti sviluppi legislativi nella materia del diritto di soggiorno dei cittadini di uno Stato membro in un altro Stato membro. Il 28 giugno 1990 il Consiglio ha adottato tre direttive relative rispettivamente al "diritto di soggiorno" (36), al "diritto di soggiorno dei lavoratori salariati e non salariati che hanno cessato la propria attività professionale" (37) e al "diritto di soggiorno degli studenti" (38). La prima direttiva stabilisce che gli Stati membri attribuiscono il diritto di soggiorno ai cittadini comunitari che non ne fruiscono in virtù di altre disposizioni, purché essi siano muniti di un' assicurazione malattia e dispongano di risorse sufficienti. La validità del documento di soggiorno rilasciato a detti cittadini può essere limitata a cinque anni, rinnovabile, e gli Stati membri possono, se è necessario, chiedere la convalida di detto documento al termine dei primi due anni di soggiorno. Le altre due direttive subordinano del pari il diritto che esse istituiscono al presupposto di sufficienti risorse per non divenire "un onere per l' assistenza sociale dello Stato membro ospitante". La data stabilita per conformarsi alle direttive di cui trattasi è il 30 giugno 1992. Si può quindi osservare che la prima direttiva stabilisce un diritto di soggiorno di una notevole durata senza che sia necessario provare l' esercizio di un' attività economica. Rilevo peraltro che in base alle tre direttive l' esistenza di risorse sufficienti costituisce una conditio sine qua non del diritto di soggiorno.

    43. Quest' ultima posizione del Consiglio a proposito di tre determinate categorie di cittadini comunitari non mi sembra che possa pregiudicare le condizioni stabilite dal diritto comunitario nei confronti di un' altra categoria, quella delle persone in cerca di occupazione. E' vero che per queste persone la dichiarazione adottata dal Consiglio il 15 ottobre 1968 si riferiva almeno implicitamente ad un requisito di risorse sufficienti. Abbiamo visto, tuttavia, che questa dichiarazione non poteva essere presa in considerazione per interpretare il diritto comunitario quanto al diritto di soggiorno controverso nella presente causa. Non vedo un motivo giuridico di introdurre, questa volta alla luce delle direttive 28 giugno 1990, un requisito di risorse sufficienti quanto ai cittadini comunitari per i quali il Consiglio si è astenuto finora dal disciplinare le modalità del diritto di soggiorno. Inoltre, la Corte non potrebbe enunciare la condizione che la persona in cerca di un' occupazione debba disporre di risorse sufficienti per non essere a carico dell' assistenza pubblica dello Stato membro ospitante senza sollevare alcuni problemi di coerenza con l' orientamento fornito nella precedente sentenza Kempf, secondo la quale la portata comunitaria delle nozioni che stabiliscono l' ambito della sfera d' applicazione della libera circolazione dei lavoratori verrebbe compromessa se il godimento dei diritti attribuiti in forza della libera circolazione dei lavoratori "potesse venir meno qualora l' interessato faccia ricorso a prestazioni a carico dello Stato concesse in conformità alla normativa nazionale dello Stato ospite" (39). Le recenti direttive del Consiglio in materia di diritto di soggiorno non mi sembrano quindi giustificare una modifica dell' orientamento delle mie conclusioni.

    44. In definitiva, vi suggerisco di dichiarare:

    "1) Un cittadino di uno Stato membro in cerca di occupazione sul territorio di un altro Stato membro fruisce, in forza della libera circolazione dei lavoratori, del diritto di dimorarvi finché detta ricerca risulti effettiva e seria, e le autorità dello Stato membro ospitante non possono opporgli la mera scadenza di un termine contemplato dal diritto nazionale per invitarlo a lasciare il territorio senza aver constatato che egli non è più effettivamente in cerca d' occupazione.

    2) La dichiarazione adottata dal Consiglio il 15 ottobre 1968 non può fornire elementi che possono essere presi in considerazione dal giudice nazionale per determinare le modalità del diritto di soggiorno di cui al punto 1".

    (*) Lingua originale: il francese.

    (1) Art. 48, n. 3, del Trattato CEE.

    (2) Per il coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi d' ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica (GU L 56, pag. 850).

    (3) Direttiva 15 ottobre 1968, relativa alla soppressione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei lavoratori degli Stati membri e delle loro famiglie all' interno della Comunità (GU L 257, pag. 13).

    (4) Art. 49 del Trattato CEE.

    (5) Regolamento relativo alla libera circolazione dei lavoratori all' interno della Comunità (GU L 257, pag. 2).

    (6) V. nota 3.

    (7) Causa 48/75, Racc. pag. 497.

    (8) Punto 31 della motivazione, il corsivo è mio.

    (9) Causa 53/81, Racc. pag. 1035.

    (10) Punto 9 della motivazione, il corsivo è mio.

    (11) Racc. 1982, pag. 1043.

    (12) Già citata.

    (13) Sentenza 18 giugno 1987 (causa 316/85, Racc. pag. 2811).

    (14) Testo riprodotto in Waelbroeck, M., Louis, J.V., Vignes, D., Dewost, J.L., Amphoux, J. e Verges, J.: Le droit de la Communauté économique européenne, vol. 9, parte "allegati", pag. 20, ULB, 1979.

    (15) GU L 268, pag. 1.

    (16) Causa 38/69, Racc. pag. 47.

    (17) Punto 12 della motivazione.

    (18) Causa 136/78, Racc. pag. 437.

    (19) Causa 136/78, già citata, punto 25 della motivazione.

    (20) Causa 237/84, Racc. pag. 1247.

    (21) Direttiva riguardante il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parte di stabilimenti (GU L 61, pag. 26).

    (22) Causa 237/84, punto 17 della motivazione.

    (23) Causa 131/86, Racc. pag. 905.

    (24) Punto 26 della motivazione.

    (25) Punto 27 della motivazione.

    (26) Causa 75/63, Racc. pag. 367.

    (27) Causa 53/81, già citata, punto 11 della motivazione.

    (28) Causa 120/73, Racc. pag. 1471.

    (29) Punto 4 della motivazione.

    (30) Regolamento del Consiglio 14 giugno 1971, relativo all' applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all' interno della Comunità (GU L 149, pag. 2).

    (31) Punto 19 della motivazione (causa 118/75, Racc. pag. 1185), il corsivo è mio; v. del pari sentenza 12 dicembre 1989, Lothar Messner, punto 12 della motivazione (causa C-265/88, Racc. pag. 4209).

    (32) Sentenza 3 giugno 1986 (causa 139/85, Racc. pag. 1741).

    (33) Causa 344/87, Racc. pag. 1621.

    (34) Punto 27 della motivazione (causa 316/85, Racc. pag. 2811, in particolare pag. 2839).

    (35) V. sentenza 2 febbraio 1989, Cowan (causa 186/87, Racc. pag. 195).

    (36) Direttiva 90/364/CEE (GU L 180, pag. 26).

    (37) Direttiva 90/365/CEE (GU L 180, pag. 28).

    (38) Direttiva 90/366/CEE (GU L 180, pag. 30).

    (39) Causa 139/85, già citata, punto 15 della motivazione.

    Top