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Dokument 62010TJ0324

Sentenza del Tribunale (Seconda Sezione) del 19 marzo 2013.
Firma Léon Van Parys NV contro Commissione europea.
Unione doganale – Importazione di banane provenienti dall’Ecuador – Recupero di dazi all’importazione – Domanda di sgravio di dazi all’importazione – Articolo 220, paragrafo 2, lettera b), e articolo 239 del regolamento (CEE) n. 2913/92 – Errore delle autorità doganali – Negligenza manifesta dell’interessato.
Causa T‑324/10.

Zbiór orzeczeń – ogólne

Identyfikator ECLI: ECLI:EU:T:2013:136

SENTENZA DEL TRIBUNALE (Seconda Sezione)

19 marzo 2013 ( *1 )

«Unione doganale — Importazione di banane provenienti dall’Ecuador — Recupero di dazi all’importazione — Domanda di sgravio di dazi all’importazione — Articolo 220, paragrafo 2, lettera b), e articolo 239 del regolamento (CEE) n. 2913/92 — Errore delle autorità doganali — Negligenza manifesta dell’interessato»

Nella causa T-324/10,

Firma Léon Van Parys NV, con sede ad Anversa (Belgio), inizialmente rappresentata da P. Vlaemminck e A. Hubert, successivamente da P. Vlaemminck, R. Verbeke e J. Auwerx, avvocati,

ricorrente,

sostenuta da

Regno del Belgio, rappresentato da J.-C. Halleux e M. Jacobs, in qualità di agenti, assistiti da P. Vander Schueren, avvocato,

interveniente,

contro

Commissione europea, rappresentata da L. Keppenne e F. Wilman, in qualità di agenti,

convenuta,

avente ad oggetto una domanda di annullamento parziale della decisione C (2010) 2858 definitivo della Commissione del 6 maggio 2010, che dichiara che è legittimo contabilizzare a posteriori i dazi e che lo sgravio dei dazi è giustificato nei confronti di un debitore, ma non nei confronti di un altro debitore in un caso specifico,

IL TRIBUNALE (Seconda Sezione),

composto dai sigg. N.J. Forwood, presidente, F. Dehousse e J. Schwarcz (relatore), giudici,

cancelliere: sig. J. Plingers, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 7 novembre 2012,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

Fatti

1

Tra il 22 giugno 1998 e l’8 novembre 1999 la ricorrente, la Firma Léon Van Parys NV, ha depositato presso l’ufficio doganale di Anversa (Belgio), tramite il suo agente doganale, 116 dichiarazioni di importazione di banane provenienti dall’Ecuador.

2

Le dichiarazioni di importazione erano suffragate da 221 certificati di importazione, apparentemente emessi dal Regno di Spagna, che consentivano di importare banane nella Comunità europea, nell’ambito di un contingente tariffario con pagamento di un dazio doganale ridotto di EUR 75 per tonnellata, in forza del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, del 13 febbraio 1993, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana (GU L 47, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 3290/94 del Consiglio, del 22 dicembre 1994, relativo agli adattamenti e alle misure transitorie necessarie nel settore dell’agricoltura per l’attuazione degli accordi conclusi nel quadro dei negoziati commerciali multilaterali dell’Uruguay Round (GU L 349, pag. 105), per il periodo conclusosi il 31 dicembre 1998, e in forza del regolamento n. 404/93 e del regolamento (CE) n. 2362/98 della Commissione, del 28 ottobre 1998, recante modalità d’applicazione del regolamento n. 404/93, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità (GU L 293, pag. 32), a partire dal 1o gennaio 1999.

3

Con lettera del 1o febbraio 2000, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) ha informato le autorità doganali belghe che, per importare banane nella Comunità, erano stati utilizzati falsi certificati di importazione spagnoli, che recavano timbri falsi dell’autorità spagnola competente per il rilascio di tali documenti. Nel corso di un’inchiesta, le autorità doganali hanno scoperto che i 221 certificati di importazione presentati dalla ricorrente presso l’ufficio doganale di Anversa per il periodo compreso tra il 22 giugno 1998 e l’8 novembre 1999 corrispondevano a certificati spagnoli falsi.

4

Il 5 luglio 2002 l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha redatto un verbale che registrava gli accertamenti effettuati, che essa ha inviato, in particolare, alla ricorrente e all’agente doganale (in prosieguo: il «PV del 5 luglio 2002»). Risulta da quest’ultimo che 233 certificati di importazione utilizzati dalla ricorrente corrispondono a certificati spagnoli falsi, di cui 221 sono stati presentati ad Anversa e 12 ad Amburgo (Germania). Riguardo al periodo compreso tra il 1o gennaio e l’8 novembre 1999, sarebbero interessati 107 certificati, tutti presentati dalla ricorrente presso l’ufficio doganale di Anversa.

5

Con lettera del 26 luglio 2002, l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha ingiunto alla ricorrente e all’agente doganale il pagamento della somma di EUR 7 084 967,71 per le importazioni di banane risalenti al periodo tra il 1o gennaio 1998 e l’8 novembre 1999, che corrisponde all’applicazione di un dazio doganale di EUR 850 per tonnellata importata, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento n. 404/93.

6

Il 28 novembre 2003 l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha redatto un verbale complementare (in prosieguo: il «PV complementare»), che attestava, segnatamente, l’adempimento di rogatorie in Portogallo, in Spagna e in Italia, nell’ambito dell’inchiesta sui certificati falsi di importazione spagnoli.

7

In seguito alla contestazione da parte della ricorrente e dell’agente doganale del recupero a posteriori dei dazi doganali loro imposti, l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha ritenuto che occorresse accogliere la domanda di non recupero a posteriori e di sgravio dei dazi, e, con lettera del 14 dicembre 2007, ha trasmesso gli atti alla Commissione delle Comunità europee ai fini di una decisione, conformemente agli articoli 871 e 905 del regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio che istituisce il codice doganale comunitario (GU L 253, pag. 1).

8

L’amministrazione belga delle dogane e delle accise, nella sua lettera del 14 dicembre 2007, ha considerato che, nella fattispecie, non si potevano applicare le disposizioni dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1) (in prosieguo: il «CDC»), dato che non esistevano sufficienti elementi di prova per imputare un errore alle autorità degli Stati membri o alla Commissione. Per contro, essa ha ritenuto che occorresse sgravare i dazi, in applicazione dell’articolo 239 del CDC, poiché sussisteva una situazione specifica ai sensi delle disposizioni di tale articolo e la ricorrente e l’agente doganale non avevano commesso alcuna negligenza manifesta.

9

Il 5 maggio 2008, il 18 e il 26 novembre 2008, il 15 gennaio 2009 e il 4 marzo 2010 la Commissione ha inviato richieste di informazioni supplementari all’amministrazione belga delle dogane e delle accise, che ha risposto a ciascuna di esse.

10

Con lettera dell’8 gennaio 2010, la Commissione, sul fondamento dell’articolo 906 bis del regolamento n. 2454/93, ha informato l’amministrazione belga delle dogane e delle accise e la ricorrente che intendeva adottare una decisione sfavorevole in ordine alla domanda di sgravio e di rimborso dei dazi. In una lettera dell’8 febbraio 2010, la ricorrente ha presentato le sue osservazioni.

11

In una riunione del 12 aprile 2010 un gruppo di esperti composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri ha esaminato il caso della ricorrente, conformemente agli articoli 873 e 907 del regolamento n. 2454/93.

12

Con decisione C (2010) 2858 definitivo del 6 maggio 2010, la Commissione ha accolto la contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione (articolo 1, paragrafo 1) e lo sgravio dei dazi nei confronti di un debitore, l’agente doganale (articolo 1, paragrafo 2), ma non nei confronti di un altro debitore, la ricorrente, in un caso specifico (articolo 1, paragrafo 3) (in prosieguo: la «decisione impugnata»).

13

I punti 4 e 5 della decisione impugnata indicano che, per le importazioni di banane effettuate nel 1998, la Commissione autorizza le autorità doganali belghe a decidere esse stesse di procedere o meno allo sgravio dei dazi, in quanto essa ha ritenuto, in un fascicolo riguardante in parte un caso analogo in fatto e in diritto, che fosse giustificato procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione e allo sgravio di tali dazi. Dal punto 6 emerge che la decisione impugnata concerne quindi solamente le importazioni avvenute nel periodo compreso tra il 1o gennaio e l’8 novembre 1999 e i relativi dazi all’importazione, di importo pari a EUR 3 628 248,48.

14

Riguardo alle importazioni realizzate nel 1999, la Commissione, al punto 11 della decisione impugnata, ha rilevato che, in occasione dell’immissione in libera pratica dei prodotti importati, l’agente doganale aveva prodotto certificati di importazione, apparentemente rilasciati dalle autorità spagnole, che la ricorrente si era procurata presso due imprese spagnole tramite un commerciante portoghese (in prosieguo: «M»). La Commissione dichiarava che la ricorrente non compariva nei certificati, dato che essa ne aveva solamente comprato l’utilizzo, e non era cessionaria. Sempre secondo il punto 11 della decisione impugnata, si era considerato che i titolari della maggior parte dei certificati di cui trattasi fossero operatori «nuovi arrivati», ai sensi dell’articolo 7 del regolamento n. 2362/98, dato che la parte minoritaria degli stessi certificati apparteneva ad operatori «tradizionali», conformemente all’articolo 3 del medesimo regolamento.

15

Al punto 32 della decisione impugnata, la Commissione ha ritenuto che si dovesse procedere ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi legalmente dovuti, in quanto, nella fattispecie, non poteva essere constatato alcun errore da parte delle autorità doganali. Per giungere a tale conclusione, la Commissione ha rilevato, al punto 26, che la concessione del trattamento tariffario favorevole, previsto dall’articolo 18, paragrafo 1, del regolamento n. 404/93, come modificato dal regolamento n. 3290/94, era soggetta alla presentazione di certificati di importazione, ma che le autorità spagnole avevano comunicato di non aver rilasciato i certificati utilizzati dalla ricorrente. A parere della Commissione, si trattava dunque di certificati falsi. Ciò considerato, quest’ultima ha ritenuto, al punto 27, che non si trattasse di un errore commesso dalle autorità spagnole, dato che esse non avevano partecipato alla redazione di detti certificati. Al punto 28, la Commissione ha addotto sospetti sul coinvolgimento nella frode di un funzionario dell’amministrazione spagnola, dei quali non si è tenuto conto a seguito di uno scambio di lettere tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole. Infine, la Commissione, ai punti 29-31, ha disatteso gli argomenti della ricorrente, concernenti l’impossibilità per gli operatori economici di controllare se le imprese cui erano stati rilasciati i certificati fossero effettivamente registrate e se i certificati e i relativi timbri fossero autentici; il fatto che per le autorità nazionali era stato impossibile effettuare un controllo, e la mancata sorveglianza da parte delle autorità comunitarie, in quanto nessuna di tali circostanze costituiva un errore delle autorità doganali.

16

Dato che le tre condizioni poste dall’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC sono cumulative, la Commissione, al punto 33 della decisione impugnata, ha ritenuto che non occorresse verificare le condizioni diverse dall’esistenza di un errore delle autorità doganali.

17

Nel prosieguo della decisione impugnata, la Commissione ha esaminato se fossero soddisfatte le condizioni poste dall’articolo 239 del CDC per procedere ad uno sgravio dei dazi all’importazione.

18

Ai punti 37-51 della decisione impugnata, la Commissione ha verificato se esistesse una situazione specifica, primo requisito per lo sgravio dei dazi all’importazione. Al punto 38 essa ha ricordato anzitutto la norma secondo cui la presentazione, anche in buona fede, di documenti falsificati non poteva di per sé costituire una situazione particolare che giustificasse lo sgravio dei dazi. Al punto 39, la Commissione ha rilevato che la ricorrente e l’agente doganale basavano la loro domanda di sgravio non solo sull’esistenza di certificati di importazione falsi, ma anche principalmente sugli inadempimenti in sede di controllo del contingente tariffario per l’importazione delle banane, che essi le imputavano. Ai punti 40-44, essa ha ricordato l’ambito giuridico da cui derivavano i vari obblighi – incombenti alla stessa Commissione e agli Stati membri – nella gestione del contingente tariffario. Ai punti 45-49, quest’ultima ha esposto le irregolarità constatate nella gestione del contingente tariffario, segnatamente, da un lato, la mancata rilevazione del superamento di questo contingente da parte delle importazioni di banane coperte da certificati di importazione e, dall’altro, l’insufficienza delle misure di precauzione delle autorità spagnole nel rilascio dei certificati di importazione, in particolare nella comunicazione delle informazioni relative al modello di timbro utilizzato per la consegna di tali certificati. Di conseguenza, la Commissione ha ritenuto che circostanze siffatte andassero oltre il rischio commerciale normale incombente su un operatore e che esse costituissero una situazione particolare ai sensi dell’articolo 239 del CDC.

19

Quanto al secondo requisito per lo sgravio dei dazi all’importazione, la Commissione ha esaminato le tre condizioni in presenza delle quali si potevano dichiarare la mancanza di frode o di negligenza manifesta. Per quanto concerne la prima condizione, relativa alla complessità della normativa, essa ha ritenuto, al punto 53, che non occorresse valutarla, dato che l’obbligazione doganale era sorta a seguito della falsificazione di certificati di importazione e non come conseguenza dell’errata applicazione della normativa. Riguardo alla condizione attinente all’esperienza professionale dell’interessato, la Commissione, ai punti 54-56, l’ha ritenuta soddisfatta.

20

Quest’ultima, per contro, ha considerato che la ricorrente non aveva dato prova di diligenza sufficiente. Essa ha descritto il contesto di fatto in cui erano stati utilizzati i certificati di importazione falsificati. Al punto 58 ha ricordato il sistema operativo che veniva attuato, di norma, affinché gli operatori «tradizionali» potessero importare una quantità di banane superiore a quella risultante dai certificati di importazione in loro possesso, e che consisteva nella vendita delle banane da parte di un siffatto operatore, prima della loro importazione, ad un operatore avente un certificato di importazione, il quale gliele rivendeva successivamente all’importazione e all’immissione in libera pratica delle merci. Al punto 59, la Commissione ha constatato che, nel 1999, da un lato, le banane importate dalla ricorrente erano immesse in libera pratica dall’agente doganale in base alle sue istruzioni e che, dall’altro, le banane non erano vendute al titolare del certificato di importazione indicato sulla dichiarazione di immissione in libera pratica come destinatario delle merci. Inoltre, l’agente doganale fatturava sempre alla ricorrente i dazi doganali.

21

Successivamente, la Commissione ha presentato i vari elementi in base ai quali riteneva che la ricorrente non fosse stata diligente. In primo luogo, essa ha rilevato, al punto 60, la mancanza di contatti tra la ricorrente e le imprese che apparivano titolari dei certificati di importazione, mentre, a suo parere, simili contatti sembravano indispensabili per l’immissione in libera pratica delle merci, dato che il nome di tali imprese figurava sulle dichiarazioni di immissione in libera pratica, il che poteva farne sorgere la responsabilità. Ai punti 60 e 61, essa ha concluso che, sebbene la ricorrente avesse contattato dette imprese, sarebbe emerso che esse non erano al corrente della vendita dell’utilizzo di certificati redatti a loro nome e che il sistema utilizzato e la mancanza di contatti dimostravano che la ricorrente fosse pronta ad assumersi rischi per importare banane nell’ambito del contingente tariffario. In secondo luogo, la Commissione ha sottolineato l’esistenza di rapporti commerciali tra la ricorrente e M, vale a dire il fatto che i negoziati per le vendite di certificati di importazione avvenivano direttamente tra essi (punto 62), che i pagamenti della ricorrente erano effettuati su un conto personale di M e non su un conto del datore di lavoro di M (punto 63) e che la ricorrente non forniva la prova che i certificati di importazione, che essa rinviava a M, fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, mentre i titolari di detti certificati dovevano recuperarli per ottenere lo svincolo della garanzia che essi avevano dovuto costituire (punto 64). In terzo luogo, la Commissione ha osservato che l’acquisizione dell’uso dei certificati avveniva mediante fatture pro forma, inviate da due imprese spagnole, e che le fatture erano trasmesse per fax a partire da indirizzi o da persone sconosciute e l’insieme di tale sistema operativo, su cui non sembrava che la ricorrente si fosse posta alcuna questione, non rientrava nelle prassi commerciali normali.

22

La Commissione ha concluso, al punto 67 della decisione impugnata, che la ricorrente non aveva dato prova della diligenza richiesta ad un operatore esperto e che, pertanto, non le poteva essere riconosciuta l’assenza di negligenza manifesta. Per contro, essa ha ritenuto che l’agente doganale della ricorrente non avesse commesso né frode né negligenza manifesta e che esso potesse, di conseguenza, beneficiare dello sgravio dei dazi all’importazione.

Procedimento e conclusioni delle parti

23

Con atto introduttivo, depositato presso la cancelleria del Tribunale l’11 agosto 2010, la ricorrente ha proposto il presente ricorso.

24

A seguito della modifica della composizione delle sezioni del Tribunale, la causa, inizialmente attribuita alla Settima Sezione, è stata assegnata alla Seconda Sezione il 23 settembre 2010.

25

La ricorrente chiede che il Tribunale voglia:

annullare l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della decisione impugnata;

condannare la Commissione alle spese.

26

La Commissione conclude che il Tribunale voglia:

respingere il ricorso in quanto infondato;

condannare la ricorrente alle spese.

27

Con lettera depositata presso la cancelleria del Tribunale il 19 novembre 2010, il Regno del Belgio, conformemente all’articolo 115 del regolamento di procedura del Tribunale, ha chiesto di intervenire a sostegno della ricorrente nella presente causa.

28

Con ordinanza del 18 gennaio 2011, il Presidente della Seconda Sezione del Tribunale ha ammesso il Regno del Belgio ad intervenire a sostegno delle conclusioni della ricorrente.

29

A sostegno delle conclusioni della ricorrente, il Regno del Belgio chiede, in sostanza, che il Tribunale voglia:

annullare l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della decisione impugnata;

condannare la Commissione alle spese.

30

Con atto depositato presso la cancelleria del Tribunale il 15 aprile 2011, la Commissione ha presentato le sue osservazioni sulla memoria di intervento del Regno del Belgio e la ricorrente, da parte sua, non ha presentato alcuna osservazione.

31

A titolo di misura di organizzazione del procedimento, il Tribunale ha posto vari quesiti alle parti e ha chiesto loro di produrre documenti. Le parti hanno risposto con lettere depositate il 18 ottobre 2012, per la ricorrente, e il 19 ottobre 2012, per la Commissione.

In diritto

32

A sostegno del suo ricorso, la ricorrente deduce sei motivi: violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC, delle disposizioni del regolamento (CEE) n. 1442/93 della Commissione, del 10 giugno 1993, recante modalità d’applicazione del regime d’importazione delle banane nella Comunità (GU L 142, pag. 6) e del regolamento n. 2362/98, delle pratiche commerciali riconosciute dall’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), erronea qualificazione dei fatti e violazione del valore probatorio dei documenti; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, in particolare dell’articolo 239 del CDC e del principio di proporzionalità; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC, dell’ex articolo 211 CE, del principio del legittimo affidamento e del principio giuridico generale patere legem quam ipse fecisti; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, in particolare dell’articolo 239 del CDC e del principio di uguaglianza; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC; violazione delle forme sostanziali e in particolare dei diritti della difesa.

33

Occorre esaminare anzitutto il quinto e il sesto motivo del ricorso, dedotti avverso il recupero a posteriori dei dazi in forza dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

Sull’attuazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC

34

Occorre ricordare in limine che ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC non si procede al recupero a posteriori da parte delle autorità nazionali in presenza di tre condizioni cumulative. Qualora queste tre condizioni vengano soddisfatte, il debitore ha diritto a che non si proceda al recupero (v., per analogia, sentenza della Corte del 14 novembre 2002, Ilumitrónica, C-251/00, Racc. pag. I-10433, punto 37 e giurisprudenza citata).

35

Anzitutto, occorre che i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle stesse autorità competenti. Inoltre, l’errore commesso da queste ultime deve essere di natura tale da non poter ragionevolmente essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e la diligenza di cui era tenuto a dar prova. Infine, quest’ultimo deve aver osservato tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (v., per analogia, sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 38 e giurisprudenza citata).

36

L’esistenza di tali condizioni deve essere valutata alla luce della finalità dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, ossia di tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza dell’insieme degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi doganali (v., per analogia, sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 39 e giurisprudenza citata).

37

È alla luce di tali considerazioni che occorre esaminare il quinto e il sesto motivo del ricorso.

Sul quinto motivo, attinente alla violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC

38

Il quinto motivo del ricorso si divide in tre parti. In primo luogo, la ricorrente sostiene che il mancato coinvolgimento delle autorità spagnole nella redazione dei certificati di importazione falsi non può essere dimostrato con certezza. In secondo luogo, essa ritiene che esista un nesso tra l’entità dei dazi reclamati e gli errori in cui è incorsa la Commissione nella gestione del contingente tariffario. In terzo luogo, la Commissione non avrebbe esaminato le altre condizioni di applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, che, nella fattispecie, sono soddisfatte.

39

La Commissione contesta l’argomento della ricorrente, mentre il Regno del Belgio non è intervenuto a sostegno di tale motivo.

– Constatazioni effettuate dalla Commissione

40

Nella decisione impugnata, la Commissione ha esaminato se fosse possibile non procedere ad un recupero a posteriori dei dazi all’importazione limitandosi a verificare se una delle condizioni di applicazione di detta misura fosse soddisfatta, vale a dire l’esistenza di un errore delle autorità spagnole.

41

Ai punti 26 e 27 della decisione impugnata, la Commissione ha osservato, in primo luogo, che la concessione di un trattamento tariffario favorevole era soggetta alla presentazione di certificati di importazione; in secondo luogo, che le autorità spagnole avevano comunicato che non erano state loro a rilasciare i certificati controversi, trattandosi quindi di certificati falsi, e che, in terzo luogo, ciò considerato, era impensabile «parlare» di errore da parte di dette autorità, le quali non avevano partecipato alla redazione di tali certificati.

42

Al punto 28 della decisione impugnata, la Commissione ha evidenziato che l’ipotesi del coinvolgimento nella frode di un funzionario spagnolo, richiamata all’inizio dell’inchiesta, era stata esclusa a seguito di uno scambio di corrispondenza tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole.

43

Ai punti 29-31 della decisione impugnata, la Commissione ha risposto agli argomenti della ricorrente. Secondo la Commissione, non potevano costituire un errore delle autorità doganali le circostanze che, anzitutto, non sarebbe stato possibile per gli operatori economici controllare se i titolari dei certificati di importazione fossero effettivamente operatori registrati e che i certificati e i relativi timbri fossero autentici, in secondo luogo, che sarebbe stato impossibile per le autorità nazionali effettuare un controllo e, in terzo luogo, che si sarebbe verificata un’omissione di controllo da parte delle autorità dell’Unione europea.

– Sulla prima parte del quinto motivo

44

La ricorrente sostiene che l’assenza di errori da parte delle autorità spagnole non è dimostrata con certezza. Essa si basa principalmente sui verbali dell’amministrazione belga delle dogane e delle accise, su un documento di lavoro dell’OLAF e su elementi di un processo penale, concluso con una sentenza del Tribunale civile e penale di Ravenna del 6 ottobre 2004, da cui discenderebbe che vi è stata una complicità di funzionari spagnoli nella redazione dei certificati falsi.

45

Con tale argomento la ricorrente addebita alla Commissione di non aver dimostrato l’assenza di errore da parte delle autorità doganali, ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC. Orbene, come rileva la Commissione, il meccanismo di non recupero a posteriori dei dazi presuppone che si dimostri l’esistenza di un errore. La prima parte del quinto motivo si fonda quindi su una premessa contraria alle disposizioni dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC e che non consente comunque di dimostrare l’esistenza di un errore.

46

Inoltre, l’analisi degli argomenti della ricorrente e dei documenti su cui essa si fonda non permette di riconsiderare tale conclusione.

47

In primo luogo, la ricorrente si basa sul PV complementare che si riferisce all’inchiesta dell’OLAF, durante la quale si sarebbe menzionata l’esistenza di un furto di certificati di importazione in seno al segretariato generale del commercio estero spagnolo. Orbene, dal documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000 emerge che tale evento è avvenuto alla fine del 1999 e che i certificati sottratti sarebbero stati utilizzati nei primi due trimestri del 2000. Pertanto, non si può trattare dei certificati controversi, presentati per importazioni di cui le ultime hanno avuto luogo l’8 novembre 1999, dato che gli ultimi certificati utilizzati in tale occasione riguardavano, secondo il loro testo, il 23 settembre 1999 come asserita data di emissione.

48

In secondo luogo, la ricorrente fa riferimento alla sentenza del Tribunale civile e penale. Tuttavia, quest’ultimo si è limitato a menzionare l’ipotesi, considerata dall’OLAF, di un’eventuale corruzione di un funzionario del Ministero spagnolo del Commercio con l’estero e la circostanza che l’OLAF aveva adito le autorità giudiziarie spagnole. Di per sé, esso non ha accertato gli atti di corruzione di un funzionario spagnolo, avendo dichiarato che, alla data della sentenza, l’inchiesta penale era ancora in corso in Spagna.

49

In terzo luogo, la ricorrente sostiene che l’assenza di errore da parte delle autorità spagnole non sarebbe dimostrata, in quanto l’esistenza di una corrispondenza tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole relativa al mancato coinvolgimento di un funzionario spagnolo non è stata, a suo avviso, dimostrata. Orbene, una lettera del 20 ottobre 2005, inviata dalle autorità giudiziarie spagnole all’OLAF, attesta il mancato coinvolgimento di funzionari spagnoli nel caso relativo ai certificati di importazione falsi. Inoltre, il 28 gennaio 2010 la Commissione ha trasmesso copia di tale lettera alla ricorrente nell’ambito del procedimento amministrativo.

50

Sebbene la ricorrente si riferisca a numerose prove del coinvolgimento di funzionari spagnoli nella redazione di certificati falsi, è giocoforza constatare che dagli atti non risulta che siffatte prove esistano, dato che sia il documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000 sia il PV complementare e la sentenza del Tribunale civile e penale del 6 ottobre 2004 adducono, tutt’al più, solo ipotesi in tal senso.

51

In quarto luogo, la ricorrente rileva, nella replica, l’esistenza di vari comportamenti, che essa qualifica come errori, imputabili alle autorità spagnole: sarebbero stati emessi certificati di importazione in bianco; non sarebbero state date alla Commissione determinate informazioni, come il furto di formulari di certificati di importazione o del timbro utilizzato da dette autorità, o come l’assenza di informazioni circa la modifica al timbro utilizzato da queste ultime.

52

In primo luogo occorre ricordare che il furto di certificati di importazione non ha alcuna incidenza sulla presente controversia (v. punto 47 supra) e che l’asserito furto del timbro in seno all’amministrazione spagnola non è dimostrato, poiché nessun elemento del fascicolo suffraga un fatto simile e la ricorrente non cita alcun documento in tal senso.

53

In secondo luogo, l’omessa comunicazione alla Commissione della modifica del timbro utilizzato costituisce un inadempimento da parte delle autorità spagnole che non può, tuttavia, essere qualificato come errore all’origine dell’assenza di contabilizzazione dei dazi legalmente dovuti, poiché solo un comportamento attivo delle autorità dà diritto al non recupero a posteriori (v. sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punti 38 e 42 e giurisprudenza citata).

54

In terzo luogo, la ricorrente non rinvia ad alcuna precisazione o documento sulla messa a disposizione da parte delle autorità spagnole di certificati di importazione in bianco, limitandosi a rilevare che una circostanza siffatta risulta dal documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000. Si deve osservare che l’OLAF ha constatato che le autorità spagnole mettevano in vendita formulari in bianco di certificati di importazione e che era stato posto fine a questo sistema nel 1999, tenuto conto dei rischi di abuso ad esso inerenti. Sebbene le autorità spagnole abbiano considerato che una circostanza simile presenta un rischio di abuso, essa non può costituire di per sé un errore delle autorità doganali.

55

Di conseguenza, il primo capo del quinto motivo dev’essere respinto.

– Sulla seconda parte del quinto motivo

56

La ricorrente addebita alla Commissione di essere incorsa, nella gestione del contingente tariffario, in errori di cui si sarebbe dovuto tener conto nell’attuazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

57

La Commissione fa valere che essa non fa parte delle autorità doganali, i cui errori sono presi in considerazione nell’applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

58

L’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC prevede che il non recupero a posteriori dei dazi all’importazione è possibile solo se l’importo dei dazi legalmente dovuti non è stato contabilizzato per un errore delle autorità doganali stesse.

59

Nell’ambito della normativa in vigore prima del CDC, la Corte ha dichiarato che, in mancanza di una definizione precisa e tassativa delle «autorità competenti», non soltanto le autorità competenti a procedere al recupero ma qualsiasi autorità, la quale, nell’ambito delle sue competenze, fornisca elementi rilevanti per la riscossione dei dazi doganali e sia quindi idonea a suscitare il legittimo affidamento del debitore devono essere considerate come un’«autorità competente» (sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 40).

60

Inoltre, dall’articolo 4, punto 3, del CDC discende che, per «autorità doganali» occorre intendere le autorità competenti, tra l’altro, ad applicare la normativa doganale. Ne risulta che sono quindi contemplate le autorità amministrative degli Stati membri come degli Stati terzi che sono incaricate di garantire la vigilanza e il controllo sulla normativa doganale, conformemente alle definizioni di tali compiti date dall’articolo 4, punti 13 e 14, del CDC. Sebbene la Commissione rivesta un ruolo nella gestione del contingente tariffario che consente di importare banane dietro pagamento di un dazio doganale ridotto, non per questo essa può essere considerata un’autorità doganale ai sensi del CDC. Pertanto, gli errori in cui essa sia eventualmente incorsa in tale ambito non possono dare diritto al meccanismo di non recupero a posteriori dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

61

Infine, si deve disattendere l’argomento della ricorrente secondo cui la circostanza che la Commissione non sia un’autorità doganale non può essere sufficiente per non considerarla responsabile dei propri errori, dato che l’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC costituirebbe una clausola di equità che impedisce di sanzionare gli operatori per gli errori commessi dalle autorità. Infatti, se tale argomento fosse accolto, esso indurrebbe il Tribunale a non tener conto dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, per applicare una clausola di equità, la cui normativa doganale prevede che essa non intervenga nella fase del procedimento di recupero a posteriori, ma successivamente, nell’attuazione dell’articolo 239 del CDC.

62

Occorre pertanto respingere il secondo capo del quinto motivo.

– Sulla terza parte del quinto motivo

63

È vero che la Commissione, come sostiene la ricorrente, dopo aver esaminato se un errore potesse essere addebitato alle autorità spagnole, ha affermato espressamente, al punto 33 della decisione impugnata, che non occorreva verificare se le altre due condizioni di applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC fossero soddisfatte. Orbene, poiché le condizioni poste da tale articolo sono cumulative, la Commissione non doveva esaminare i suoi altri presupposti di applicazione, dal momento che il primo non era comunque soddisfatto (v., per analogia, sentenza del Tribunale del 9 giugno 1998, Unifrigo e CPL Imperial 2/Commissione, T-10/97 e T-11/97, Racc. pag. II-2231, punto 65).

64

Di conseguenza, si deve respingere la terza parte del quinto motivo e, con essa, l’intero motivo.

Sul sesto motivo, attinente alla violazione delle forme sostanziali e in particolare dei diritti della difesa

65

La ricorrente sostiene di aver chiesto all’OLAF l’accesso a qualunque documento o informazione su un’eventuale complicità all’atto del rilascio di certificati falsi. Tuttavia, la maggior parte dei documenti richiesti non sarebbe mai stata messa a sua disposizione, anche dopo l’intervento del Mediatore europeo, che avrebbe proposto una composizione amichevole che l’OLAF non avrebbe ancora eseguito. Tutti i tentativi della ricorrente al fine di ottenere maggiori informazioni e di difendersi contro il recupero a posteriori sarebbero stati respinti per quanto riguarda i documenti essenziali relativi alle asserite falsificazioni e alla complicità delle autorità spagnole. Ciò precisato, la ricorrente sostiene che i suoi diritti della difesa hanno subito una violazione sostanziale.

66

La Commissione contesta l’argomento della ricorrente, mentre il Regno del Belgio non è intervenuto a sostegno di tale motivo.

67

In primo luogo, la ricorrente censura l’OLAF per non averle consentito l’accesso completo ai documenti richiesti. Essa considera che le informazioni che le sono state negate sarebbero state essenziali per determinare l’esistenza di un errore delle autorità spagnole, ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

68

Quanto alla parte dell’argomento della ricorrente diretta contro le decisioni con le quali l’OLAF ha negato l’accesso completo ai documenti richiesti, adottate sul fondamento del regolamento (CE) n. 1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2001, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GU L 145, pag. 43), si deve constatare che dal fascicolo risulta che l’OLAF, con le decisioni del 26 ottobre e del 3 dicembre 2004, ha risposto alle due domande confermative di accesso ai documenti presentate dalla ricorrente. Inoltre, quest’ultima non contesta il fatto di non aver proposto un ricorso giurisdizionale avverso tali decisioni, come rilevato dalla Commissione. Di conseguenza, la circostanza che l’OLAF avrebbe negato il completo accesso ai documenti richiesti non ha alcuna incidenza sulla presente controversia.

69

In secondo luogo, la ricorrente sostiene che i suoi diritti della difesa sarebbero stati oggetto di una violazione sostanziale, in quanto essa non avrebbe potuto ottenere le informazioni che cercava sull’asserita falsificazione dei certificati di importazione controversi e sulle eventuali complicità in seno alle autorità spagnole.

70

Va ricordato che, in forza del principio del rispetto dei diritti della difesa, non può spettare alla Commissione da sola decidere quali siano i documenti utili per la parte interessata ai fini del procedimento di non recupero a posteriori. Il fascicolo amministrativo può includere documenti contenenti elementi favorevoli al non recupero, utilizzabili dall’interessato a sostegno della sua domanda, anche se la Commissione non se ne è servita. Il richiedente deve quindi potere accedere a tutti i documenti non riservati figuranti nel fascicolo, ivi inclusi quelli non utilizzati per fondare le obiezioni della Commissione (sentenza del Tribunale del 13 settembre 2005, Ricosmos/Commissione, T-53/02, Racc. pag. II-3173, punto 72).

71

Con la sua argomentazione, la ricorrente si limita a sostenere che essa non ha avuto accesso ai documenti relativi alla falsificazione dei certificati di importazione controversi e alle possibili complicità in seno alle autorità spagnole. Riguardo a tale aspetto, come sottolinea la Commissione, si rendono necessarie due constatazioni.

72

Da un lato, la Commissione, prima di adottare la decisione impugnata, ha inviato alla ricorrente copia della lettera delle autorità giudiziarie spagnole del 20 ottobre 2005, che attestava il mancato coinvolgimento di funzionari spagnoli nel caso dei certificati di importazione falsi. Inoltre, la Commissione fa valere che forse non è possibile ottenere informazioni relative all’asserita complicità in seno all’amministrazione spagnola per il semplice motivo che simili fatti non sono stati dimostrati. Si deve quindi considerare che la Commissione ha sostenuto di non aver conoscenza dell’esistenza di siffatte informazioni e di non possedere alcun documento corrispondente. Orbene, dalla giurisprudenza emerge che l’inesistenza di un documento cui è stato richiesto l’accesso è presunta allorché un’affermazione in tal senso è fatta dall’istituzione interessata. Trattasi nondimeno di una presunzione semplice che il ricorrente può rovesciare con qualsiasi mezzo, sulla base di indizi pertinenti e concordanti (sentenze del Tribunale del 25 ottobre 2002, Tetra Laval/Commissione, T-5/02, Racc. pag. II-4381, punto 95, e del 22 dicembre 2005, Gorostiaga Atxalandabaso/Parlamento, T-146/04, Racc. pag. II-5989, punto 121). Nel caso di specie, la ricorrente non ha fornito siffatti indizi sull’esistenza di documenti che dimostrerebbero l’asserita falsificazione dei certificati di importazione controversi e le eventuali complicità in seno alle autorità spagnole.

73

D’altro lato, occorre rilevare che la ricorrente ha presentato vari documenti dinanzi al Tribunale per suffragare l’esistenza dell’asserita complicità e della modalità – o delle modalità – di falsificazione dei certificati di importazione controversi. Ciò vale, in particolare, per il documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000, per la sentenza del Tribunale civile e penale, menzionati all’atto dell’esame del quinto motivo, o per il verbale del 23 giugno 2004, che riproduce la deposizione degli agenti dell’OLAF incaricati dell’inchiesta concernente le importazioni fraudolente dinanzi al giudice per le indagini preliminari di Ravenna. Risulta altresì dal fascicolo che la ricorrente era già in possesso di questi tre documenti quando ha presentato all’amministrazione belga delle dogane e delle accise un documento intitolato «Position paper» (rapporto) del 25 giugno 2007, cui essi erano allegati. Come affermato sopra ai punti 48 e 50, sia il documento di lavoro dell’OLAF sia la sentenza del Tribunale civile e penale menzionano unicamente sospetti di complicità in seno all’amministrazione spagnola nella redazione di certificati di importazione falsi. Lo stesso vale per il verbale delle deposizioni degli agenti dell’OLAF.

74

Da quanto precede emerge che, ancor prima che la Commissione venisse adita per il procedimento di non recupero a posteriori, la ricorrente era in possesso di documenti che menzionavano sospetti di complicità in seno all’amministrazione spagnola nell’elaborazione di certificati di importazione falsi e che descrivevano con precisione le modalità operative probabili della falsificazione dei certificati, i quali le consentivano di presentare la propria difesa sulla questione dell’eventuale complicità di un funzionario spagnolo nella redazione di certificati falsi.

75

Ciò considerato, occorre rilevare che la ricorrente non può legittimamente sostenere che i suoi diritti della difesa sono stati oggetto di una violazione sostanziale, in quanto essa non avrebbe avuto accesso a talune informazioni o a determinati documenti.

76

Poiché la ricorrente non ha fornito maggiori precisazioni sull’asserita violazione dei diritti della difesa che avrebbe subito e non ha suffragato più dettagliatamente la semplice menzione di una violazione delle forme sostanziali, si deve respingere l’argomento sollevato e, con esso, il sesto motivo del ricorso.

Sull’attuazione dell’articolo 239, paragrafo 1, secondo trattino, del CDC

Considerazioni preliminari

77

Va ricordato che l’articolo 905 del regolamento n. 2454/93, disposizione che precisa e amplia la norma contenuta all’articolo 239 del CDC, costituisce una clausola generale di equità intesa, in particolare, ad abbracciare situazioni eccezionali che, per loro stessa natura, non sono riconducibili ad alcuna delle ipotesi previste agli articoli 900-904 di detto regolamento (sentenza della Corte del 25 febbraio 1999, Trans-Ex-Import, C-86/97, Racc. pag. I-1041, punto 18). Da detto articolo 905 risulta che il rimborso dei dazi all’importazione è subordinato a due condizioni cumulative, vale a dire anzitutto all’esistenza di una situazione particolare e poi all’assenza di negligenza manifesta e di manovre fraudolente da parte dell’interessato (sentenza del Tribunale del 12 febbraio 2004, Aslantrans/Commissione, T-282/01, Racc. pag. II-693, punto 53). Di conseguenza, basta che manchi una delle due condizioni perché tale rimborso debba essere rifiutato (sentenze del Tribunale del 5 giugno 1996, Günzler Aluminium/Commissione, T-75/95, Racc. pag. II-497, punto 54, e Aslantrans/Commissione, cit., punto 53).

78

Dalla decisione impugnata risulta che la condizione dell’esistenza di una situazione specifica è soddisfatta nella fattispecie (v. supra punto 18). Pertanto, l’esame del Tribunale deve vertere esclusivamente sulla questione se la Commissione abbia ritenuto correttamente che vi è stata negligenza manifesta.

79

Secondo la giurisprudenza, per valutare se vi sia manifesta negligenza ai sensi dell’articolo 239 del CDC, occorre tener conto, in particolare, della complessità delle norme il cui inadempimento ha fatto sorgere l’obbligazione doganale, nonché dell’esperienza professionale e della diligenza dell’operatore (sentenze della Corte dell’11 novembre 1999, Söhl & Söhlke, C-48/98, Racc. pag. I-7877, punto 56, e del 13 marzo 2003, Paesi Bassi/Commissione, C-156/00, Racc. pag. I-2527, punto 92).

80

Inoltre, va ricordato che la Commissione dispone di un margine di discrezionalità nell’adottare una decisione in applicazione dell’articolo 239 del CDC (v., per analogia, sentenza del Tribunale del 18 gennaio 2000, Mehibas Dordtselaan/Commissione, T-290/97, Racc. pag. II-15, punti 46 e 78). Occorre rilevare altresì che il rimborso o lo sgravio dei dazi all’importazione, che possono essere concessi soltanto a determinate condizioni e in casi specificamente previsti, costituiscono un’eccezione rispetto al normale regime delle importazioni e delle esportazioni e che, di conseguenza, le disposizioni che prevedono siffatto rimborso devono essere interpretate restrittivamente. In particolare, essendo la mancanza di manifesta negligenza un presupposto essenziale per poter chiedere un rimborso o uno sgravio dei dazi all’importazione, ne consegue che tale nozione deve essere interpretata in modo che il numero dei casi di rimborso o di sgravio resti limitato (sentenza Söhl & Söhlke, punto 79 supra, punto 52).

81

Tuttavia, sebbene la Commissione disponga di un margine di discrezionalità per quanto concerne l’applicazione dell’articolo 239 del CDC, essa deve esercitare tale potere ponendo realmente a confronto, da un lato, l’interesse dell’Unione a verificare il rispetto delle disposizioni doganali e, dall’altro, l’interesse dell’importatore in buona fede a non subire danni che eccedano l’ordinario rischio commerciale (v. sentenza del Tribunale del 30 novembre 2006, Heuschen & Schrouff Oriëntal Foods/Commissione, T-382/04, non pubblicata nella Raccolta, punto 46 e giurisprudenza citata).

82

È alla luce di tali considerazioni che si deve esaminare, in particolare, il secondo motivo del ricorso, a sostegno del quale è intervenuto il Regno del Belgio.

Sul secondo motivo, attinente ad una violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC e del principio di proporzionalità

83

La ricorrente contesta la dichiarazione di negligenza manifesta oppostale dalla Commissione nella decisione impugnata. Sostenuta dal Regno del Belgio, essa sviluppa vari argomenti a sostegno di tale motivo.

84

La ricorrente fa valere in primo luogo che la Commissione non poteva addebitarle la benché minima negligenza manifesta, dato che gli asseriti inadempimenti si baserebbero sull’ipotesi errata che essa avrebbe concluso un accordo di riacquisto di merci. In secondo luogo, la ricorrente sostiene che, alla luce delle circostanze del caso di specie, essa non poteva sapere dell’esistenza di asseriti certificati di importazione falsi, acquisiti alle condizioni di mercato tramite M, che intratteneva da anni un rapporto di fiducia con la sua controllata. In terzo luogo, contrariamente alla giurisprudenza del Tribunale, la Commissione non avrebbe fornito la prova di una negligenza manifesta della ricorrente, mentre essa stessa aveva sempre agito nell’ambito di prassi commerciali normali e dimostrato un comportamento professionale e diligente. In quarto luogo, la ricorrente sostiene essenzialmente che gli addebiti della Commissione riguardo ai rapporti commerciali con M e i titolari dei certificati di importazione controversi sono infondati, in quanto tali rapporti rientrano nelle prassi commerciali normali. In quinto luogo, la diligenza imposta contrasterebbe con la giurisprudenza, sarebbe particolarmente eccessiva e sproporzionata, nell’ambito di una situazione specifica che supera ampiamente il rischio commerciale normale. Orbene, all’epoca dei fatti, non si sarebbe dovuto sospettare dell’autenticità dei certificati di importazione. In sesto luogo, la Commissione avrebbe ritenuto a torto che la condizione relativa alla complessità della normativa non sia rilevante.

85

Con il terzo, il quarto e il quinto argomento, che occorre esaminare congiuntamente e preliminarmente, la ricorrente ritiene sostanzialmente che la Commissione non abbia dimostrato la sua assenza di diligenza.

86

In primo luogo va ricordato che, qualora le autorità doganali abbiano affermato che non poteva dimostrarsi che all’operatore economico fosse attribuibile alcuna frode o negligenza manifesta, la Commissione, quando intende non conformarsi alla presa di posizione delle autorità nazionali, è tenuta a dimostrare, sulla base di elementi fattuali rilevanti, l’esistenza di un comportamento manifestamente negligente di detto operatore (sentenza del Tribunale del 27 settembre 2005, Geologistics/Commissione, T-26/03, Racc. pag. II-3885, punti 78 e 82).

87

Orbene, si deve sottolineare che l’amministrazione belga delle dogane e delle accise, nella sua lettera del 14 dicembre 2007, riteneva che esistesse una situazione specifica ai sensi dell’articolo 239 del CDC e che la ricorrente non avesse commesso alcuna negligenza manifesta.

88

In secondo luogo si deve ricordare che, per concludere che la ricorrente non era stata diligente, la Commissione, al punto 60 della decisione impugnata, ha evidenziato l’assenza di tracce di contatti con i titolari dei certificati di importazione, mentre contatti siffatti sarebbero stati indispensabili per l’immissione in libera pratica delle merci, dato che il nome di tali imprese figurava nelle dichiarazioni di immissione in libera pratica, il che poteva fare sorgere la loro responsabilità. Ai punti 60 e 61 essa ha rilevato che, se la ricorrente avesse contattato dette imprese, sarebbe emerso che esse non erano al corrente della vendita dell’utilizzo di certificati redatti a loro nome, affermando che il sistema utilizzato e l’assenza di contatti dimostravano che la ricorrente era pronta ad assumersi rischi per importare banane nell’ambito del contingente tariffario. La Commissione, al punto 62, ha sottolineato che le trattative per l’acquisto di certificati di importazione avvenivano direttamente tra la ricorrente e M, al punto 63, che i pagamenti della ricorrente erano effettuati su un conto personale di M e non su un conto del datore di lavoro di quest’ultimo, al punto 64, che la ricorrente non forniva la prova che i certificati di importazione, che essa rinviava a M, fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, mentre i loro titolari dovevano recuperarli per ottenere lo svincolo della garanzia che avevano dovuto costituire, in forza della normativa, e, al punto 65, che l’acquisto dell’utilizzo dei certificati avveniva tramite fatture pro forma inviate da due imprese spagnole e che determinate fatture erano trasmesse per fax a partire da indirizzi o da persone sconosciute. Secondo la Commissione, tale sistema non rientrava nelle prassi commerciali normali.

89

In sintesi, le circostanze addotte dalla Commissione per concludere per l’assenza di diligenza sono cinque: la mancanza di contatti tra la ricorrente e le imprese titolari di certificati di importazione; l’acquisto dell’utilizzo dei certificati mediante trattative dirette tra la ricorrente e M; i pagamenti effettuati sul conto personale di M; l’assenza di prova del ricevimento da parte di M dei certificati rinviati dalla ricorrente; la fatturazione dell’acquisto dell’uso dei certificati mediante fatture pro forma trasmesse per fax, talune provenienti da indirizzi o da persone sconosciuti.

90

In terzo luogo va rilevato che la Commissione, nel controricorso, ritiene che il sistema utilizzato dalla ricorrente per ottenere l’uso di certificati di importazione sia «illecito», poiché contrario all’articolo 21, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 2362/98, che vieta qualunque trasferimento di diritti derivanti da un certificato di importazione di un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale. Riguardo a tale aspetto, è giocoforza constatare che la decisione impugnata, dato che rifiuta lo sgravio dei dazi all’importazione, non è basata sull’illegittimità del sistema di acquisto dell’utilizzo dei certificati di importazione, bensì sulla negligenza manifesta della ricorrente.

91

Pertanto, l’argomento della Commissione non può avere alcuna incidenza, nel caso di specie, sulla fondatezza del rifiuto di concedere lo sgravio dei dazi all’importazione.

92

In quarto luogo si deve rilevare che la ricorrente, in ciò sostenuta dal Regno del Belgio, ritiene che solo in caso di dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione il grado di diligenza avrebbe comportato in capo ad essa il sorgere di un obbligo attivo. La Commissione fa valere che, alla luce delle circostanze del caso di specie, note solamente alla ricorrente, quest’ultima avrebbe dovuto nutrire dubbi e richiedere maggiori informazioni sui titolari dei certificati di importazione e l’eventuale assenza di dubbio da parte delle autorità doganali è irrilevante in tal senso.

93

Ad una prima lettura non emerge dalla decisione impugnata che la Commissione abbia rifiutato di concedere lo sgravio dei dazi all’importazione in quanto la ricorrente avrebbe dovuto nutrire dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione controversi. In tale decisione l’assenza di diligenza risulta fondata sul sistema attuato per procurarsi l’uso di tali certificati, di cui taluni aspetti non sarebbero rientrati nelle prassi commerciali normali (punto 65 della decisione impugnata). In relazione ad un contenuto siffatto, l’argomento della ricorrente non è pertinente ai fini della valutazione della fondatezza della decisione impugnata.

94

Tuttavia, non si può escludere che la Commissione abbia considerato che, con riguardo al sistema utilizzato per acquisire l’uso dei certificati di importazione controversi, la ricorrente avrebbe dovuto nutrire dubbi sull’autenticità di questi ultimi, essendosi rilevato, ai punti 60 e 65 della decisione impugnata, che sarebbero stati indispensabili contatti con i titolari di tali certificati e che la ricorrente non si era posta alcuna questione sul fatto che fossero state pagate notevoli somme di denaro sulla base di fatture pro forma ricevute via fax. Cionondimeno, per i motivi di cui ai successivi punti 98-102 e 111-115, questi elementi, nelle circostanze della fattispecie, non potevano far sorgere dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione controversi.

95

In quinto luogo, occorre esaminare i cinque addebiti in base ai quali la Commissione ha ritenuto che la ricorrente non avesse dato prova di diligenza.

96

In primo luogo la ricorrente sostiene che essa non poteva contattare ogni titolare dei certificati, se non sostenendo un onere amministrativo sproporzionato in considerazione del numero significativo di certificati controversi. Essa avrebbe operato nell’ambito di rapporti commerciali normali, lasciando che M gestisse i contatti con la sua rete. Se avesse agito diversamente, avrebbe pregiudicato i propri rapporti professionali con M, di cui aveva bisogno affinché questi trovasse operatori nuovi arrivati che intendessero vendere l’utilizzo dei loro certificati di importazione. Essa ritiene di non aver avuto alcun motivo, all’epoca dei fatti, per dar prova di particolare vigilanza in relazione agli accordi conclusi tramite M, in quanto il metodo utilizzato era lo stesso di quello adottato con altri intermediari.

97

Secondo la Commissione, la ricorrente non può trincerarsi dietro l’argomento relativo al rapporto di fiducia con M, se non sopportando tutte le conseguenze di tale scelta, in quanto essa fa prevalere tale rapporto sull’osservazione della diligenza richiesta. Inoltre, essa ritiene che la ricorrente avrebbe potuto richiedere a M di fornirle informazioni sui titolari dei certificati, perché i loro rapporti commerciali erano abbastanza recenti all’epoca dei fatti. Infine, essa rileva che le misure specificamente adottate dalla ricorrente per la gestione dei certificati di importazione sono prive di rilievo, dato che non si è precisato in cosa esse contribuissero a verificare l’uso diligente e legittimo dei certificati.

98

Dal fascicolo emerge che la ricorrente aveva ottenuto tutti i certificati di importazione controversi tramite M, e che tali certificati erano messi a sua disposizione, di norma, alla fine dei trimestri per i quali erano utilizzati. Va osservato che la ricorrente, sia nei suoi atti sia in udienza, ha insistito sul fatto che le operazioni per le quali i certificati di importazione controversi sono stati utilizzati riguardavano sempre piccoli quantitativi di banane. Una circostanza simile, a suo avviso, avrebbe giustificato il ricorso ad un intermediario che fosse maggiormente in grado di ottenere in tempi rapidi i certificati che consentivano di importare carichi entro i limiti del contingente tariffario. Questi diversi elementi di fatto non sono stati contestati dalla Commissione. Inoltre, la ricorrente sostiene, senza essere contraddetta, che essa verificava la forma e il contenuto dei certificati di importazione che utilizzava, in particolare riguardo alla questione se i quantitativi che figuravano sui certificati corrispondessero ai quantitativi attribuiti all’operatore nuovo arrivato il cui nome era indicato nel certificato.

99

Nonostante i controlli così effettuati, il primo addebito della Commissione comporta che la ricorrente sarebbe stata obbligata a contattare in tempi rapidi i titolari dei certificati controversi al fine di evitare le contestazioni formulate ai punti 60 e 61 della decisione impugnata.

100

La Commissione, interrogata in udienza sulla natura e sulla portata di tale obbligo, che emerge dal punto 60 della decisione impugnata, non è stata in grado di individuare le disposizioni che avrebbero fondato la sua esistenza e di precisare la sua portata sulla procedura di sdoganamento delle merci importate, segnatamente la loro immissione in libera pratica, limitandosi ad affermare che l’acquisto del diritto di utilizzo di certificati di importazione da parte di operatori nuovi arrivati non sarebbe conforme alla normativa doganale. Orbene, come già rilevato ai precedenti punti 90 e 91, la decisione impugnata non è basata sull’illegittimità del sistema di acquisto del diritto di utilizzo di certificati di importazione.

101

Di conseguenza, la Commissione non dimostra che la ricorrente era tenuta a contattare i titolari dei certificati di importazione controversi per procedere alle operazioni di sdoganamento. In particolare, la Commissione non fornisce alcun elemento che dimostri che simili contatti sarebbero stati obbligatori affinché la ricorrente immettesse in libera pratica le merci importate, mentre non è contestato che quest’ultima abbia potuto compiere senza ostacoli tutte le formalità amministrative connesse all’importazione delle merci contemplate dai certificati di importazione controversi.

102

Del resto, non si può accettare, di norma, che un operatore economico, il quale importi merci nell’Unione e, a tal fine, ricorra al servizio di un intermediario per ottenere l’uso di certificati di importazione, sia considerato imprudente o non diligente qualora non effettui verifiche presso i titolari dei certificati. Infatti, il ricorso al servizio di un simile intermediario rientra nelle modalità pratiche di esercizio dell’attività di importazione a discrezione dell’importatore e il suo oggetto consiste nel facilitare l’esercizio di tale attività, poiché l’importatore ritiene che, in un determinato contesto economico, l’intermediario sia la persona più adatta per procurargli operatori nuovi arrivati che abbiano ottenuto i certificati e che intendano cederne l’utilizzo, soprattutto qualora, come nella fattispecie, l’importatore necessiti in tempi rapidi di un numero significativo di certificati (v. punto 98 supra). In mancanza di qualunque altro elemento dettagliato che possa far sorgere dubbi in capo all’operatore circa l’autenticità dei certificati di importazione utilizzati, non si può ritenere che i contatti con i titolari di certificati di importazione fossero indispensabili per consentire l’immissione in libera pratica delle merci importate.

103

Pertanto, la Commissione non dimostra che le circostanze rilevate ai punti 60 e 61 della decisione impugnata costituiscono una mancanza di diligenza da parte della ricorrente.

104

In secondo luogo, la ricorrente sostiene che era normale effettuare i pagamenti sul conto personale di M, dato che quest’ultimo operava in modo indipendente, e che essa agiva così con altri intermediari; che non le si può addebitare di non aver verificato se i certificati che essa rinviava a M fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, il che costituirebbe un onere di lavoro sproporzionato e non corrisponderebbe ad una prassi commerciale normale; e che essa sarebbe stata informata se M non avesse ricevuto i certificati, in considerazione, segnatamente, della regolarità dei loro rapporti professionali.

105

Nel controricorso, la Commissione ribadisce le contestazioni formulate nella decisione impugnata, vale a dire che, sulla base del grado di diligenza applicabile nel caso di specie, ci si poteva aspettare che la ricorrente provvedesse a che i pagamenti fossero effettuati sui conti appropriati e verificasse il regolare ricevimento dei certificati che essa rinviava. La Commissione rileva che la ricorrente, in quanto operatore diligente, avrebbe dovuto nutrire dubbi sul fatto che M chiedeva il versamento di importi significativi a suo nome e su conti privati, all’insaputa del suo datore di lavoro.

106

Il secondo, il terzo e il quarto addebito di cui ai punti 62-64 della decisione impugnata riguardano l’acquisto del diritto di utilizzo dei certificati mediante trattative dirette tra la ricorrente e M, i pagamenti effettuati sul conto personale di quest’ultimo e l’assenza di prova del ricevimento da parte di M dei certificati rinviati dalla ricorrente (v. punto 89 supra).

107

Sul piano fattuale si deve constatare che la ricorrente intratteneva dal 1997 rapporti commerciali con M, dato che una delle sue controllate italiane aveva avuto precedentemente relazioni professionali per vari anni con un’impresa portoghese operante nel commercio internazionale per la quale M lavorava. Risulta altresì dall’intero fascicolo che, come sostiene la ricorrente, il rapporto commerciale instauratosi ai fini dell’acquisto del diritto di utilizzo dei certificati controversi si svolgeva unicamente tra la ricorrente stessa e M, circostanza che, in udienza, la Commissione ha ammesso di non contestare. Inoltre, nella decisione impugnata o negli atti della Commissione nulla consente di rimettere in discussione l’affermazione della ricorrente secondo cui M svolgeva la propria attività di intermediario in modo indipendente o indica che quest’ultimo avrebbe esercitato tale attività in modo fraudolento. Pertanto, gli argomenti della Commissione di cui al precedente punto 105 possono essere solo disattesi, in quanto fondati sull’idea, anch’essa risultante dalla decisione impugnata, che, al fine di acquisire i diritti di utilizzo dei certificati controversi, il ricorso ad un intermediario – il quale sarebbe stato inoltre un dipendente di un’impresa operante nel commercio internazionale – avrebbe comportato un rischio maggiore di manovre fraudolente.

108

Nelle circostanze della fattispecie, tenendo conto altresì di quanto affermato al punto 102 supra, né la trattativa da parte della ricorrente, direttamente con M, dell’acquisto dell’utilizzo dei certificati controversi, né i pagamenti della totalità di tali acquisti sul conto personale di quest’ultimo, né l’assenza di una richiesta a M della prova del ricevimento dei certificati utilizzati che essa gli rinviava dimostrano che la ricorrente abbia dato prova di una mancanza di diligenza.

109

In terzo luogo, la ricorrente sostiene che l’uso di fatture pro forma sarebbe una prassi commerciale normale, utilizzata con altri intermediari e da importatori diversi, poiché tali fatture costituiscono buoni d’ordine sulla cui base essa pagava M, il quale redigeva in seguito le fatture definitive. La circostanza che le fatture fossero state inviate da società spagnole ignote alla ricorrente non rappresenterebbe una particolarità che avrebbe dovuto indurla ad una vigilanza maggiore, dato che gli operatori di cui trattasi erano imprese sconosciute nel settore della banana e l’insieme dei contatti con tali operatori era gestito da M, mentre la Commissione non fornisce la prova di una negligenza manifesta.

110

Quest’ultima considera che il problema è rappresentato dalle circostanze in cui ha avuto luogo l’utilizzo delle fatture pro forma, vale a dire l’invio per fax da parte di persone ignote a partire da indirizzi sconosciuti. Di conseguenza, la ricorrente avrebbe dovuto effettuare verifiche.

111

Riguardo a tale aspetto, occorre ricordare che la Commissione, al punto 65 della decisione impugnata, ha evidenziato quanto segue:

«[L]a fatturazione dell’acquisto dell’uso di certificati era effettuata mediante fatture pro forma inviate per [fax] dalle due imprese spagnole summenzionate, e risulta dal fascicolo che alcune di tali fatture pro forma sono state trasmesse per [fax] a partire da indirizzi o da persone sconosciuti. La Commissione dubita che le prassi commerciali normali prevedano il pagamento di somme assai importanti di denaro sulla base di semplici fatture pro forma ricevute via [fax] in circostanze siffatte; orbene, dal fascicolo non emerge che la [ricorrente] si sia posta la minima questione al riguardo».

112

Va anzitutto constatato che le misure di organizzazione del procedimento e l’udienza rivelano una diversa valutazione su un elemento di fatto. Infatti, la Commissione, in risposta ai quesiti posti dal Tribunale, ha prodotto le fatture di quattro imprese dalle quali la ricorrente avrebbe acquisito il diritto di utilizzo dei certificati controversi. Orbene, da un lato, la ricorrente ha contestato in udienza la realtà di tali dati, affermando che solo una delle imprese di cui trattasi le aveva venduto il diritto di utilizzo dei certificati controversi. Dall’altro, questi dati contrastano con gli elementi rilevati dall’OLAF, nel documento di lavoro del 22 settembre 2000, che menzionavano due imprese spagnole coinvolte – una, nel 1998 e l’altra, nel 1999 – nonché con la decisione impugnata (punti 11 e 65).

113

Si deve altresì rilevare che la Commissione, per dimostrare la mancata diligenza della ricorrente, si basa segnatamente sulla circostanza che le fatture pro forma di acquisto dei diritti di utilizzo dei certificati controversi sarebbero state inviate a partire da fax sconosciuti e da persone ignote. In particolare, la Commissione ha osservato, in udienza, che le fatture pro forma in esame provenivano dalla Spagna, che i numeri di fax erano spagnoli o che la menzione di «copy shops» (servizi di reprografia) spagnoli figurava sulle fatture ricevute per fax.

114

Orbene, dall’intero fascicolo emerge che i diritti di utilizzo dei certificati controversi, riguardanti unicamente il 1999, sono stati acquisiti presso un’impresa spagnola (v. il precedente punto 112). Le fatture pro forma di tale impresa, prodotte dalla Commissione in risposta alle misure di organizzazione del procedimento, contengono tutte un indirizzo postale e un numero di fax, menzionati nelle relative intestazioni. Una delle fatture contiene l’indicazione «casa de fotocopia» (servizio di reprografia) sul margine superiore e un’altra reca un numero di fax, apparentemente spagnolo e l’indicazione «cemon» sul margine superiore.

115

Sebbene gli elementi indicati al punto 114 supra non risultino espressamente dalla decisione impugnata, si può ritenere che la Commissione vi facesse riferimento osservando, al punto 65, che le fatture pro forma erano inviate per fax a partire da indirizzi sconosciuti. Tuttavia, una circostanza siffatta non può essere sufficiente a dimostrare la mancanza di diligenza della ricorrente nella fattispecie. Da un lato, il fatto che una fattura pro forma proveniente da un’impresa avente sede in Spagna sia inviata da un fax situato in tale paese non costituisce una circostanza tale da indurre l’operatore che la riceve ad innalzare il suo grado di diligenza. Dall’altro, il fatto che una delle cinque fatture sia stata trasmessa alla ricorrente da detta impresa spagnola tramite un servizio che sembra un servizio di reprografia non può, di per sé, far sorgere dubbi in capo alla ricorrente sul suo rapporto commerciale con tale impresa o sull’autenticità dei certificati controversi. In mancanza di altri elementi dettagliati a sostegno dell’addebito relativo all’uso di fatture pro forma, non è possibile ritenere comprovati i dubbi della Commissione sul fatto che il pagamento di somme assai importanti di denaro versate sulla base di simili fatture ricevute nelle circostanze summenzionate rientri nelle prassi commerciali normali.

116

Di conseguenza, la Commissione non dimostra, con gli elementi rilevati al punto 65 della decisione impugnata, che la ricorrente abbia dato prova, nella fattispecie, di una mancanza di diligenza.

117

Senza che sia necessario statuire sul primo, sul secondo e sul sesto argomento del secondo motivo del ricorso, dai precedenti punti 103, 108 e 116 discende che il secondo motivo è fondato, poiché la Commissione non ha dimostrato, come richiede la giurisprudenza richiamata al citato punto 86, l’assenza di diligenza della ricorrente e, pertanto, la sua negligenza manifesta.

118

Di conseguenza, senza che sia necessario statuire sul primo, sul terzo e sul quarto motivo del ricorso, occorre pronunciare l’annullamento dell’articolo 1, paragrafo 3, della decisione impugnata e respingere il ricorso quanto al resto.

Sulle spese

119

Ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Tuttavia, secondo il paragrafo 3 del medesimo articolo, il Tribunale può ripartire le spese o decidere che ciascuna delle parti sopporti le proprie spese se le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi.

120

Nel caso di specie, la Commissione, essendo rimasta sostanzialmente soccombente, dev’essere condannata a sopportare le proprie spese e quelle sostenute dalla ricorrente.

121

A tenore dell’articolo 87, paragrafo 4, primo comma, del regolamento di procedura, gli Stati membri intervenuti nella causa sopportano le proprie spese. Nel caso di specie, si deve condannare il Regno del Belgio a sopportare le proprie spese.

 

Per questi motivi,

IL TRIBUNALE (Seconda Sezione)

dichiara e statuisce:

 

1)

L’articolo 1, paragrafo 3, della decisione C (2010) 2858 def. della Commissione, del 6 maggio 2010, che dichiara che è legittimo contabilizzare a posteriori i dazi all’importazione e che lo sgravio dei dazi è giustificato nei confronti di un debitore, ma non nei confronti di un altro debitore in un caso specifico, è annullato.

 

2)

Per il resto, il ricorso è respinto.

 

3)

La Commissione europea sopporterà le proprie spese nonché quelle sostenute dalla Firma Léon Van Parys NV.

 

4)

Il Regno del Belgio sopporterà le proprie spese.

 

Forwood

Dehousse

Schwarcz

Così deciso e pronunciato a Lussemburgo il 19 marzo 2013.

Firme


( *1 ) Lingua processuale: il neerlandese.

Góra

Parti
Motivazione della sentenza
Dispositivo

Parti

Nella causa T-324/10,

Firma Léon Van Parys NV, con sede ad Anversa (Belgio), inizialmente rappresentata da P. Vlaemminck e A. Hubert, successivamente da P. Vlaemminck, R. Verbeke e J. Auwerx, avvocati,

ricorrente,

sostenuta da

Regno del Belgio, rappresentato da J.-C. Halleux e M. Jacobs, in qualità di agenti, assistiti da P. Vander Schueren, avvocato,

interveniente,

contro

Commissione europea, rappresentata da L. Keppenne e F. Wilman, in qualità di agenti,

convenuta,

avente ad oggetto una domanda di annullamento parziale della decisione C (2010) 2858 definitivo della Commissione del 6 maggio 2010, che dichiara che è legittimo contabilizzare a posteriori i dazi e che lo sgravio dei dazi è giustificato nei confronti di un debitore, ma non nei confronti di un altro debitore in un caso specifico,

IL TRIBUNALE (Seconda Sezione),

composto dai sigg. N.J. Forwood, presidente, F. Dehousse e J. Schwarcz (relatore), giudici,

cancelliere: sig. J. Plingers, amministratore

vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 7 novembre 2012,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

Motivazione della sentenza

Fatti

1. Tra il 22 giugno 1998 e l’8 novembre 1999 la ricorrente, la Firma Léon Van Parys NV, ha depositato presso l’ufficio doganale di Anversa (Belgio), tramite il suo agente doganale, 116 dichiarazioni di importazione di banane provenienti dall’Ecuador.

2. Le dichiarazioni di importazione erano suffragate da 221 certificati di importazione, apparentemente emessi dal Regno di Spagna, che consentivano di importare banane nella Comunità europea, nell’ambito di un contingente tariffario con pagamento di un dazio doganale ridotto di EUR 75 per tonnellata, in forza del regolamento (CEE) n. 404/93 del Consiglio, del 13 febbraio 1993, relativo all’organizzazione comune dei mercati nel settore della banana (GU L 47, pag. 1), come modificato dal regolamento (CE) n. 3290/94 del Consiglio, del 22 dicembre 1994, relativo agli adattamenti e alle misure transitorie necessarie nel settore dell’agricoltura per l’attuazione degli accordi conclusi nel quadro dei negoziati commerciali multilaterali dell’Uruguay Round (GU L 349, pag. 105), per il periodo conclusosi il 31 dicembre 1998, e in forza del regolamento n. 404/93 e del regolamento (CE) n. 2362/98 della Commissione, del 28 ottobre 1998, recante modalità d’applicazione del regolamento n. 404/93, con riguardo al regime d’importazione delle banane nella Comunità (GU L 293, pag. 32), a partire dal 1° gennaio 1999.

3. Con lettera del 1° febbraio 2000, l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) ha informato le autorità doganali belghe che, per importare banane nella Comunità, erano stati utilizzati falsi certificati di importazione spagnoli, che recavano timbri falsi dell’autorità spagnola competente per il rilascio di tali documenti. Nel corso di un’inchiesta, le autorità doganali hanno scoperto che i 221 certificati di importazione presentati dalla ricorrente presso l’ufficio doganale di Anversa per il periodo compreso tra il 22 giugno 1998 e l’8 novembre 1999 corrispondevano a certificati spagnoli falsi.

4. Il 5 luglio 2002 l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha redatto un verbale che registrava gli accertamenti effettuati, che essa ha inviato, in particolare, alla ricorrente e all’agente doganale (in prosieguo: il «PV del 5 luglio 2002»). Risulta da quest’ultimo che 233 certificati di importazione utilizzati dalla ricorrente corrispondono a certificati spagnoli falsi, di cui 221 sono stati presentati ad Anversa e 12 ad Amburgo (Germania). Riguardo al periodo compreso tra il 1° gennaio e l’8 novembre 1999, sarebbero interessati 107 certificati, tutti presentati dalla ricorrente presso l’ufficio doganale di Anversa.

5. Con lettera del 26 luglio 2002, l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha ingiunto alla ricorrente e all’agente doganale il pagamento della somma di EUR 7 084 967,71 per le importazioni di banane risalenti al periodo tra il 1° gennaio 1998 e l’8 novembre 1999, che corrisponde all’applicazione di un dazio doganale di EUR 850 per tonnellata importata, ai sensi dell’articolo 18, paragrafo 2, del regolamento n. 404/93.

6. Il 28 novembre 2003 l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha redatto un verbale complementare (in prosieguo: il «PV complementare»), che attestava, segnatamente, l’adempimento di rogatorie in Portogallo, in Spagna e in Italia, nell’ambito dell’inchiesta sui certificati falsi di importazione spagnoli.

7. In seguito alla contestazione da parte della ricorrente e dell’agente doganale del recupero a posteriori dei dazi doganali loro imposti, l’amministrazione belga delle dogane e delle accise ha ritenuto che occorresse accogliere la domanda di non recupero a posteriori e di sgravio dei dazi, e, con lettera del 14 dicembre 2007, ha trasmesso gli atti alla Commissione delle Comunità europee ai fini di una decisione, conformemente agli articoli 871 e 905 del regolamento (CEE) n. 2454/93 della Commissione, del 2 luglio 1993, che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio che istituisce il codice doganale comunitario (GU L 253, pag. 1).

8. L’amministrazione belga delle dogane e delle accise, nella sua lettera del 14 dicembre 2007, ha considerato che, nella fattispecie, non si potevano applicare le disposizioni dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del regolamento (CEE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1) (in prosieguo: il «CDC»), dato che non esistevano sufficienti elementi di prova per imputare un errore alle autorità degli Stati membri o alla Commissione. Per contro, essa ha ritenuto che occorresse sgravare i dazi, in applicazione dell’articolo 239 del CDC, poiché sussisteva una situazione specifica ai sensi delle disposizioni di tale articolo e la ricorrente e l’agente doganale non avevano commesso alcuna negligenza manifesta.

9. Il 5 maggio 2008, il 18 e il 26 novembre 2008, il 15 gennaio 2009 e il 4 marzo 2010 la Commissione ha inviato richieste di informazioni supplementari all’amministrazione belga delle dogane e delle accise, che ha risposto a ciascuna di esse.

10. Con lettera dell’8 gennaio 2010, la Commissione, sul fondamento dell’articolo 906 bis del regolamento n. 2454/93, ha informato l’amministrazione belga delle dogane e delle accise e la ricorrente che intendeva adottare una decisione sfavorevole in ordine alla domanda di sgravio e di rimborso dei dazi. In una lettera dell’8 febbraio 2010, la ricorrente ha presentato le sue osservazioni.

11. In una riunione del 12 aprile 2010 un gruppo di esperti composto da rappresentanti di tutti gli Stati membri ha esaminato il caso della ricorrente, conformemente agli articoli 873 e 907 del regolamento n. 2454/93.

12. Con decisione C (2010) 2858 definitivo del 6 maggio 2010, la Commissione ha accolto la contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione (articolo 1, paragrafo 1) e lo sgravio dei dazi nei confronti di un debitore, l’agente doganale (articolo 1, paragrafo 2), ma non nei confronti di un altro debitore, la ricorrente, in un caso specifico (articolo 1, paragrafo 3) (in prosieguo: la «decisione impugnata»).

13. I punti 4 e 5 della decisione impugnata indicano che, per le importazioni di banane effettuate nel 1998, la Commissione autorizza le autorità doganali belghe a decidere esse stesse di procedere o meno allo sgravio dei dazi, in quanto essa ha ritenuto, in un fascicolo riguardante in parte un caso analogo in fatto e in diritto, che fosse giustificato procedere alla contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione e allo sgravio di tali dazi. Dal punto 6 emerge che la decisione impugnata concerne quindi solamente le importazioni avvenute nel periodo compreso tra il 1° gennaio e l’8 novembre 1999 e i relativi dazi all’importazione, di importo pari a EUR 3 628 248,48.

14. Riguardo alle importazioni realizzate nel 1999, la Commissione, al punto 11 della decisione impugnata, ha rilevato che, in occasione dell’immissione in libera pratica dei prodotti importati, l’agente doganale aveva prodotto certificati di importazione, apparentemente rilasciati dalle autorità spagnole, che la ricorrente si era procurata presso due imprese spagnole tramite un commerciante portoghese (in prosieguo: «M»). La Commissione dichiarava che la ricorrente non compariva nei certificati, dato che essa ne aveva solamente comprato l’utilizzo, e non era cessionaria. Sempre secondo il punto 11 della decisione impugnata, si era considerato che i titolari della maggior parte dei certificati di cui trattasi fossero operatori «nuovi arrivati», ai sensi dell’articolo 7 del regolamento n. 2362/98, dato che la parte minoritaria degli stessi certificati apparteneva ad operatori «tradizionali», conformemente all’articolo 3 del medesimo regolamento.

15. Al punto 32 della decisione impugnata, la Commissione ha ritenuto che si dovesse procedere ad una contabilizzazione a posteriori dei dazi legalmente dovuti, in quanto, nella fattispecie, non poteva essere constatato alcun errore da parte delle autorità doganali. Per giungere a tale conclusione, la Commissione ha rilevato, al punto 26, che la concessione del trattamento tariffario favorevole, previsto dall’articolo 18, paragrafo 1, del regolamento n. 404/93, come modificato dal regolamento n. 3290/94, era soggetta alla presentazione di certificati di importazione, ma che le autorità spagnole avevano comunicato di non aver rilasciato i certificati utilizzati dalla ricorrente. A parere della Commissione, si trattava dunque di certificati falsi. Ciò considerato, quest’ultima ha ritenuto, al punto 27, che non si trattasse di un errore commesso dalle autorità spagnole, dato che esse non avevano partecipato alla redazione di detti certificati. Al punto 28, la Commissione ha addotto sospetti sul coinvolgimento nella frode di un funzionario dell’amministrazione spagnola, dei quali non si è tenuto conto a seguito di uno scambio di lettere tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole. Infine, la Commissione, ai punti 29-31, ha disatteso gli argomenti della ricorrente, concernenti l’impossibilità per gli operatori economici di controllare se le imprese cui erano stati rilasciati i certificati fossero effettivamente registrate e se i certificati e i relativi timbri fossero autentici; il fatto che per le autorità nazionali era stato impossibile effettuare un controllo, e la mancata sorveglianza da parte delle autorità comunitarie, in quanto nessuna di tali circostanze costituiva un errore delle autorità doganali.

16. Dato che le tre condizioni poste dall’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC sono cumulative, la Commissione, al punto 33 della decisione impugnata, ha ritenuto che non occorresse verificare le condizioni diverse dall’esistenza di un errore delle autorità doganali.

17. Nel prosieguo della decisione impugnata, la Commissione ha esaminato se fossero soddisfatte le condizioni poste dall’articolo 239 del CDC per procedere ad uno sgravio dei dazi all’importazione.

18. Ai punti 37-51 della decisione impugnata, la Commissione ha verificato se esistesse una situazione specifica, primo requisito per lo sgravio dei dazi all’importazione. Al punto 38 essa ha ricordato anzitutto la norma secondo cui la presentazione, anche in buona fede, di documenti falsificati non poteva di per sé costituire una situazione particolare che giustificasse lo sgravio dei dazi. Al punto 39, la Commissione ha rilevato che la ricorrente e l’agente doganale basavano la loro domanda di sgravio non solo sull’esistenza di certificati di importazione falsi, ma anche principalmente sugli inadempimenti in sede di controllo del contingente tariffario per l’importazione delle banane, che essi le imputavano. Ai punti 40-44, essa ha ricordato l’ambito giuridico da cui derivavano i vari obblighi – incombenti alla stessa Commissione e agli Stati membri – nella gestione del contingente tariffario. Ai punti 45-49, quest’ultima ha esposto le irregolarità constatate nella gestione del contingente tariffario, segnatamente, da un lato, la mancata rilevazione del superamento di questo contingente da parte delle importazioni di banane coperte da certificati di importazione e, dall’altro, l’insufficienza delle misure di precauzione delle autorità spagnole nel rilascio dei certificati di importazione, in particolare nella comunicazione delle informazioni relative al modello di timbro utilizzato per la consegna di tali certificati. Di conseguenza, la Commissione ha ritenuto che circostanze siffatte andassero oltre il rischio commerciale normale incombente su un operatore e che esse costituissero una situazione particolare ai sensi dell’articolo 239 del CDC.

19. Quanto al secondo requisito per lo sgravio dei dazi all’importazione, la Commissione ha esaminato le tre condizioni in presenza delle quali si potevano dichiarare la mancanza di frode o di negligenza manifesta. Per quanto concerne la prima condizione, relativa alla complessità della normativa, essa ha ritenuto, al punto 53, che non occorresse valutarla, dato che l’obbligazione doganale era sorta a seguito della falsificazione di certificati di importazione e non come conseguenza dell’errata applicazione della normativa. Riguardo alla condizione attinente all’esperienza professionale dell’interessato, la Commissione, ai punti 54-56, l’ha ritenuta soddisfatta.

20. Quest’ultima, per contro, ha considerato che la ricorrente non aveva dato prova di diligenza sufficiente. Essa ha descritto il contesto di fatto in cui erano stati utilizzati i certificati di importazione falsificati. Al punto 58 ha ricordato il sistema operativo che veniva attuato, di norma, affinché gli operatori «tradizionali» potessero importare una quantità di banane superiore a quella risultante dai certificati di importazione in loro possesso, e che consisteva nella vendita delle banane da parte di un siffatto operatore, prima della loro importazione, ad un operatore avente un certificato di importazione, il quale gliele rivendeva successivamente all’importazione e all’immissione in libera pratica delle merci. Al punto 59, la Commissione ha constatato che, nel 1999, da un lato, le banane importate dalla ricorrente erano immesse in libera pratica dall’agente doganale in base alle sue istruzioni e che, dall’altro, le banane non erano vendute al titolare del certificato di importazione indicato sulla dichiarazione di immissione in libera pratica come destinatario delle merci. Inoltre, l’agente doganale fatturava sempre alla ricorrente i dazi doganali.

21. Successivamente, la Commissione ha presentato i vari elementi in base ai quali riteneva che la ricorrente non fosse stata diligente. In primo luogo, essa ha rilevato, al punto 60, la mancanza di contatti tra la ricorrente e le imprese che apparivano titolari dei certificati di importazione, mentre, a suo parere, simili contatti sembravano indispensabili per l’immissione in libera pratica delle merci, dato che il nome di tali imprese figurava sulle dichiarazioni di immissione in libera pratica, il che poteva farne sorgere la responsabilità. Ai punti 60 e 61, essa ha concluso che, sebbene la ricorrente avesse contattato dette imprese, sarebbe emerso che esse non erano al corrente della vendita dell’utilizzo di certificati redatti a loro nome e che il sistema utilizzato e la mancanza di contatti dimostravano che la ricorrente fosse pronta ad assumersi rischi per importare banane nell’ambito del contingente tariffario. In secondo luogo, la Commissione ha sottolineato l’esistenza di rapporti commerciali tra la ricorrente e M, vale a dire il fatto che i negoziati per le vendite di certificati di importazione avvenivano direttamente tra essi (punto 62), che i pagamenti della ricorrente erano effettuati su un conto personale di M e non su un conto del datore di lavoro di M (punto 63) e che la ricorrente non forniva la prova che i certificati di importazione, che essa rinviava a M, fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, mentre i titolari di detti certificati dovevano recuperarli per ottenere lo svincolo della garanzia che essi avevano dovuto costituire (punto 64). In terzo luogo, la Commissione ha osservato che l’acquisizione dell’uso dei certificati avveniva mediante fatture pro forma, inviate da due imprese spagnole, e che le fatture erano trasmesse per fax a partire da indirizzi o da persone sconosciute e l’insieme di tale sistema operativo, su cui non sembrava che la ricorrente si fosse posta alcuna questione, non rientrava nelle prassi commerciali normali.

22. La Commissione ha concluso, al punto 67 della decisione impugnata, che la ricorrente non aveva dato prova della diligenza richiesta ad un operatore esperto e che, pertanto, non le poteva essere riconosciuta l’assenza di negligenza manifesta. Per contro, essa ha ritenuto che l’agente doganale della ricorrente non avesse commesso né frode né negligenza manifesta e che esso potesse, di conseguenza, beneficiare dello sgravio dei dazi all’importazione.

Procedimento e conclusioni delle parti

23. Con atto introduttivo, depositato presso la cancelleria del Tribunale l’11 agosto 2010, la ricorrente ha proposto il presente ricorso.

24. A seguito della modifica della composizione delle sezioni del Tribunale, la causa, inizialmente attribuita alla Settima Sezione, è stata assegnata alla Seconda Sezione il 23 settembre 2010.

25. La ricorrente chiede che il Tribunale voglia:

– annullare l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della decisione impugnata;

– condannare la Commissione alle spese.

26. La Commissione conclude che il Tribunale voglia:

– respingere il ricorso in quanto infondato;

– condannare la ricorrente alle spese.

27. Con lettera depositata presso la cancelleria del Tribunale il 19 novembre 2010, il Regno del Belgio, conformemente all’articolo 115 del regolamento di procedura del Tribunale, ha chiesto di intervenire a sostegno della ricorrente nella presente causa.

28. Con ordinanza del 18 gennaio 2011, il Presidente della Seconda Sezione del Tribunale ha ammesso il Regno del Belgio ad intervenire a sostegno delle conclusioni della ricorrente.

29. A sostegno delle conclusioni della ricorrente, il Regno del Belgio chiede, in sostanza, che il Tribunale voglia:

– annullare l’articolo 1, paragrafi 1 e 3, della decisione impugnata;

– condannare la Commissione alle spese.

30. Con atto depositato presso la cancelleria del Tribunale il 15 aprile 2011, la Commissione ha presentato le sue osservazioni sulla memoria di intervento del Regno del Belgio e la ricorrente, da parte sua, non ha presentato alcuna osservazione.

31. A titolo di misura di organizzazione del procedimento, il Tribunale ha posto vari quesiti alle parti e ha chiesto loro di produrre documenti. Le parti hanno risposto con lettere depositate il 18 ottobre 2012, per la ricorrente, e il 19 ottobre 2012, per la Commissione.

In diritto

32. A sostegno del suo ricorso, la ricorrente deduce sei motivi: violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC, delle disposizioni del regolamento (CEE) n. 1442/93 della Commissione, del 10 giugno 1993, recante modalità d’applicazione del regime d’importazione delle banane nella Comunità (GU L 142, pag. 6) e del regolamento n. 2362/98, delle pratiche commerciali riconosciute dall’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), erronea qualificazione dei fatti e violazione del valore probatorio dei documenti; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, in particolare dell’articolo 239 del CDC e del principio di proporzionalità; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC, dell’ex articolo 211 CE, del principio del legittimo affidamento e del principio giuridico generale patere legem quam ipse fecisti; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, in particolare dell’articolo 239 del CDC e del principio di uguaglianza; violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC; violazione delle forme sostanziali e in particolare dei diritti della difesa.

33. Occorre esaminare anzitutto il quinto e il sesto motivo del ricorso, dedotti avverso il recupero a posteriori dei dazi in forza dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

Sull’attuazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC

34. Occorre ricordare in limine che ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC non si procede al recupero a posteriori da parte delle autorità nazionali in presenza di tre condizioni cumulative. Qualora queste tre condizioni vengano soddisfatte, il debitore ha diritto a che non si proceda al recupero (v., per analogia, sentenza della Corte del 14 novembre 2002, Ilumitrónica, C-251/00, Racc. pag. I-10433, punto 37 e giurisprudenza citata).

35. Anzitutto, occorre che i dazi non siano stati riscossi a causa di un errore delle stesse autorità competenti. Inoltre, l’errore commesso da queste ultime deve essere di natura tale da non poter ragionevolmente essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza professionale e la diligenza di cui era tenuto a dar prova. Infine, quest’ultimo deve aver osservato tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (v., per analogia, sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 38 e giurisprudenza citata).

36. L’esistenza di tali condizioni deve essere valutata alla luce della finalità dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, ossia di tutelare il legittimo affidamento del debitore circa la fondatezza dell’insieme degli elementi che intervengono nella decisione di recuperare o meno i dazi doganali (v., per analogia, sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 39 e giurisprudenza citata).

37. È alla luce di tali considerazioni che occorre esaminare il quinto e il sesto motivo del ricorso.

Sul quinto motivo, attinente alla violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC

38. Il quinto motivo del ricorso si divide in tre parti. In primo luogo, la ricorrente sostiene che il mancato coinvolgimento delle autorità spagnole nella redazione dei certificati di importazione falsi non può essere dimostrato con certezza. In secondo luogo, essa ritiene che esista un nesso tra l’entità dei dazi reclamati e gli errori in cui è incorsa la Commissione nella gestione del contingente tariffario. In terzo luogo, la Commissione non avrebbe esaminato le altre condizioni di applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, che, nella fattispecie, sono soddisfatte.

39. La Commissione contesta l’argomento della ricorrente, mentre il Regno del Belgio non è intervenuto a sostegno di tale motivo.

– Constatazioni effettuate dalla Commissione

40. Nella decisione impugnata, la Commissione ha esaminato se fosse possibile non procedere ad un recupero a posteriori dei dazi all’importazione limitandosi a verificare se una delle condizioni di applicazione di detta misura fosse soddisfatta, vale a dire l’esistenza di un errore delle autorità spagnole.

41. Ai punti 26 e 27 della decisione impugnata, la Commissione ha osservato, in primo luogo, che la concessione di un trattamento tariffario favorevole era soggetta alla presentazione di certificati di importazione; in secondo luogo, che le autorità spagnole avevano comunicato che non erano state loro a rilasciare i certificati controversi, trattandosi quindi di certificati falsi, e che, in terzo luogo, ciò considerato, era impensabile «parlare» di errore da parte di dette autorità, le quali non avevano partecipato alla redazione di tali certificati.

42. Al punto 28 della decisione impugnata, la Commissione ha evidenziato che l’ipotesi del coinvolgimento nella frode di un funzionario spagnolo, richiamata all’inizio dell’inchiesta, era stata esclusa a seguito di uno scambio di corrispondenza tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole.

43. Ai punti 29-31 della decisione impugnata, la Commissione ha risposto agli argomenti della ricorrente. Secondo la Commissione, non potevano costituire un errore delle autorità doganali le circostanze che, anzitutto, non sarebbe stato possibile per gli operatori economici controllare se i titolari dei certificati di importazione fossero effettivamente operatori registrati e che i certificati e i relativi timbri fossero autentici, in secondo luogo, che sarebbe stato impossibile per le autorità nazionali effettuare un controllo e, in terzo luogo, che si sarebbe verificata un’omissione di controllo da parte delle autorità dell’Unione europea.

– Sulla prima parte del quinto motivo

44. La ricorrente sostiene che l’assenza di errori da parte delle autorità spagnole non è dimostrata con certezza. Essa si basa principalmente sui verbali dell’amministrazione belga delle dogane e delle accise, su un documento di lavoro dell’OLAF e su elementi di un processo penale, concluso con una sentenza del Tribunale civile e penale di Ravenna del 6 ottobre 2004, da cui discenderebbe che vi è stata una complicità di funzionari spagnoli nella redazione dei certificati falsi.

45. Con tale argomento la ricorrente addebita alla Commissione di non aver dimostrato l’assenza di errore da parte delle autorità doganali, ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC. Orbene, come rileva la Commissione, il meccanismo di non recupero a posteriori dei dazi presuppone che si dimostri l’esistenza di un errore. La prima parte del quinto motivo si fonda quindi su una premessa contraria alle disposizioni dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC e che non consente comunque di dimostrare l’esistenza di un errore.

46. Inoltre, l’analisi degli argomenti della ricorrente e dei documenti su cui essa si fonda non permette di riconsiderare tale conclusione.

47. In primo luogo, la ricorrente si basa sul PV complementare che si riferisce all’inchiesta dell’OLAF, durante la quale si sarebbe menzionata l’esistenza di un furto di certificati di importazione in seno al segretariato generale del commercio estero spagnolo. Orbene, dal documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000 emerge che tale evento è avvenuto alla fine del 1999 e che i certificati sottratti sarebbero stati utilizzati nei primi due trimestri del 2000. Pertanto, non si può trattare dei certificati controversi, presentati per importazioni di cui le ultime hanno avuto luogo l’8 novembre 1999, dato che gli ultimi certificati utilizzati in tale occasione riguardavano, secondo il loro testo, il 23 settembre 1999 come asserita data di emissione.

48. In secondo luogo, la ricorrente fa riferimento alla sentenza del Tribunale civile e penale. Tuttavia, quest’ultimo si è limitato a menzionare l’ipotesi, considerata dall’OLAF, di un’eventuale corruzione di un funzionario del Ministero spagnolo del Commercio con l’estero e la circostanza che l’OLAF aveva adito le autorità giudiziarie spagnole. Di per sé, esso non ha accertato gli atti di corruzione di un funzionario spagnolo, avendo dichiarato che, alla data della sentenza, l’inchiesta penale era ancora in corso in Spagna.

49. In terzo luogo, la ricorrente sostiene che l’assenza di errore da parte delle autorità spagnole non sarebbe dimostrata, in quanto l’esistenza di una corrispondenza tra l’OLAF e le autorità giudiziarie spagnole relativa al mancato coinvolgimento di un funzionario spagnolo non è stata, a suo avviso, dimostrata. Orbene, una lettera del 20 ottobre 2005, inviata dalle autorità giudiziarie spagnole all’OLAF, attesta il mancato coinvolgimento di funzionari spagnoli nel caso relativo ai certificati di importazione falsi. Inoltre, il 28 gennaio 2010 la Commissione ha trasmesso copia di tale lettera alla ricorrente nell’ambito del procedimento amministrativo.

50. Sebbene la ricorrente si riferisca a numerose prove del coinvolgimento di funzionari spagnoli nella redazione di certificati falsi, è giocoforza constatare che dagli atti non risulta che siffatte prove esistano, dato che sia il documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000 sia il PV complementare e la sentenza del Tribunale civile e penale del 6 ottobre 2004 adducono, tutt’al più, solo ipotesi in tal senso.

51. In quarto luogo, la ricorrente rileva, nella replica, l’esistenza di vari comportamenti, che essa qualifica come errori, imputabili alle autorità spagnole: sarebbero stati emessi certificati di importazione in bianco; non sarebbero state date alla Commissione determinate informazioni, come il furto di formulari di certificati di importazione o del timbro utilizzato da dette autorità, o come l’assenza di informazioni circa la modifica al timbro utilizzato da queste ultime.

52. In primo luogo occorre ricordare che il furto di certificati di importazione non ha alcuna incidenza sulla presente controversia (v. punto 47 supra) e che l’asserito furto del timbro in seno all’amministrazione spagnola non è dimostrato, poiché nessun elemento del fascicolo suffraga un fatto simile e la ricorrente non cita alcun documento in tal senso.

53. In secondo luogo, l’omessa comunicazione alla Commissione della modifica del timbro utilizzato costituisce un inadempimento da parte delle autorità spagnole che non può, tuttavia, essere qualificato come errore all’origine dell’assenza di contabilizzazione dei dazi legalmente dovuti, poiché solo un comportamento attivo delle autorità dà diritto al non recupero a posteriori (v. sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punti 38 e 42 e giurisprudenza citata).

54. In terzo luogo, la ricorrente non rinvia ad alcuna precisazione o documento sulla messa a disposizione da parte delle autorità spagnole di certificati di importazione in bianco, limitandosi a rilevare che una circostanza siffatta risulta dal documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000. Si deve osservare che l’OLAF ha constatato che le autorità spagnole mettevano in vendita formulari in bianco di certificati di importazione e che era stato posto fine a questo sistema nel 1999, tenuto conto dei rischi di abuso ad esso inerenti. Sebbene le autorità spagnole abbiano considerato che una circostanza simile presenta un rischio di abuso, essa non può costituire di per sé un errore delle autorità doganali.

55. Di conseguenza, il primo capo del quinto motivo dev’essere respinto.

– Sulla seconda parte del quinto motivo

56. La ricorrente addebita alla Commissione di essere incorsa, nella gestione del contingente tariffario, in errori di cui si sarebbe dovuto tener conto nell’attuazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

57. La Commissione fa valere che essa non fa parte delle autorità doganali, i cui errori sono presi in considerazione nell’applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

58. L’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC prevede che il non recupero a posteriori dei dazi all’importazione è possibile solo se l’importo dei dazi legalmente dovuti non è stato contabilizzato per un errore delle autorità doganali stesse.

59. Nell’ambito della normativa in vigore prima del CDC, la Corte ha dichiarato che, in mancanza di una definizione precisa e tassativa delle «autorità competenti», non soltanto le autorità competenti a procedere al recupero ma qualsiasi autorità, la quale, nell’ambito delle sue competenze, fornisca elementi rilevanti per la riscossione dei dazi doganali e sia quindi idonea a suscitare il legittimo affidamento del debitore devono essere considerate come un’«autorità competente» (sentenza Ilumitrónica, punto 34 supra, punto 40).

60. Inoltre, dall’articolo 4, punto 3, del CDC discende che, per «autorità doganali» occorre intendere le autorità competenti, tra l’altro, ad applicare la normativa doganale. Ne risulta che sono quindi contemplate le autorità amministrative degli Stati membri come degli Stati terzi che sono incaricate di garantire la vigilanza e il controllo sulla normativa doganale, conformemente alle definizioni di tali compiti date dall’articolo 4, punti 13 e 14, del CDC. Sebbene la Commissione rivesta un ruolo nella gestione del contingente tariffario che consente di importare banane dietro pagamento di un dazio doganale ridotto, non per questo essa può essere considerata un’autorità doganale ai sensi del CDC. Pertanto, gli errori in cui essa sia eventualmente incorsa in tale ambito non possono dare diritto al meccanismo di non recupero a posteriori dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

61. Infine, si deve disattendere l’argomento della ricorrente secondo cui la circostanza che la Commissione non sia un’autorità doganale non può essere sufficiente per non considerarla responsabile dei propri errori, dato che l’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC costituirebbe una clausola di equità che impedisce di sanzionare gli operatori per gli errori commessi dalle autorità. Infatti, se tale argomento fosse accolto, esso indurrebbe il Tribunale a non tener conto dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC, per applicare una clausola di equità, la cui normativa doganale prevede che essa non intervenga nella fase del procedimento di recupero a posteriori, ma successivamente, nell’attuazione dell’articolo 239 del CDC.

62. Occorre pertanto respingere il secondo capo del quinto motivo.

– Sulla terza parte del quinto motivo

63. È vero che la Commissione, come sostiene la ricorrente, dopo aver esaminato se un errore potesse essere addebitato alle autorità spagnole, ha affermato espressamente, al punto 33 della decisione impugnata, che non occorreva verificare se le altre due condizioni di applicazione dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC fossero soddisfatte. Orbene, poiché le condizioni poste da tale articolo sono cumulative, la Commissione non doveva esaminare i suoi altri presupposti di applicazione, dal momento che il primo non era comunque soddisfatto (v., per analogia, sentenza del Tribunale del 9 giugno 1998, Unifrigo e CPL Imperial 2/Commissione, T-10/97 e T-11/97, Racc. pag. II-2231, punto 65).

64. Di conseguenza, si deve respingere la terza parte del quinto motivo e, con essa, l’intero motivo.

Sul sesto motivo, attinente alla violazione delle forme sostanziali e in particolare dei diritti della difesa

65. La ricorrente sostiene di aver chiesto all’OLAF l’accesso a qualunque documento o informazione su un’eventuale complicità all’atto del rilascio di certificati falsi. Tuttavia, la maggior parte dei documenti richiesti non sarebbe mai stata messa a sua dis posizione, anche dopo l’intervento del Mediatore europeo, che avrebbe proposto una composizione amichevole che l’OLAF non avrebbe ancora eseguito. Tutti i tentativi della ricorrente al fine di ottenere maggiori informazioni e di difendersi contro il recupero a posteriori sarebbero stati respinti per quanto riguarda i documenti essenziali relativi alle asserite falsificazioni e alla complicità delle autorità spagnole. Ciò precisato, la ricorrente sostiene che i suoi diritti della difesa hanno subito una violazione sostanziale.

66. La Commissione contesta l’argomento della ricorrente, mentre il Regno del Belgio non è intervenuto a sostegno di tale motivo.

67. In primo luogo, la ricorrente censura l’OLAF per non averle consentito l’accesso completo ai documenti richiesti. Essa considera che le informazioni che le sono state negate sarebbero state essenziali per determinare l’esistenza di un errore delle autorità spagnole, ai sensi dell’articolo 220, paragrafo 2, lettera b), del CDC.

68. Quanto alla parte dell’argomento della ricorrente diretta contro le decisioni con le quali l’OLAF ha negato l’accesso completo ai documenti richiesti, adottate sul fondamento del regolamento (CE) n. 1049/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2001, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione (GU L 145, pag. 43), si deve constatare che dal fascicolo risulta che l’OLAF, con le decisioni del 26 ottobre e del 3 dicembre 2004, ha risposto alle due domande confermative di accesso ai documenti presentate dalla ricorrente. Inoltre, quest’ultima non contesta il fatto di non aver proposto un ricorso giurisdizionale avverso tali decisioni, come rilevato dalla Commissione. Di conseguenza, la circostanza che l’OLAF avrebbe negato il completo accesso ai documenti richiesti non ha alcuna incidenza sulla presente controversia.

69. In secondo luogo, la ricorrente sostiene che i suoi diritti della difesa sarebbero stati oggetto di una violazione sostanziale, in quanto essa non avrebbe potuto ottenere le informazioni che cercava sull’asserita falsificazione dei certificati di importazione controversi e sulle eventuali complicità in seno alle autorità spagnole.

70. Va ricordato che, in forza del principio del rispetto dei diritti della difesa, non può spettare alla Commissione da sola decidere quali siano i documenti utili per la parte interessata ai fini del procedimento di non recupero a posteriori. Il fascicolo amministrativo può includere documenti contenenti elementi favorevoli al non recupero, utilizzabili dall’interessato a sostegno della sua domanda, anche se la Commissione non se ne è servita. Il richiedente deve quindi potere accedere a tutti i documenti non riservati figuranti nel fascicolo, ivi inclusi quelli non utilizzati per fondare le obiezioni della Commissione (sentenza del Tribunale del 13 settembre 2005, Ricosmos/Commissione, T-53/02, Racc. pag. II-3173, punto 72).

71. Con la sua argomentazione, la ricorrente si limita a sostenere che essa non ha avuto accesso ai documenti relativi alla falsificazione dei certificati di importazione controversi e alle possibili complicità in seno alle autorità spagnole. Riguardo a tale aspetto, come sottolinea la Commissione, si rendono necessarie due constatazioni.

72. Da un lato, la Commissione, prima di adottare la decisione impugnata, ha inviato alla ricorrente copia della lettera delle autorità giudiziarie spagnole del 20 ottobre 2005, che attestava il mancato coinvolgimento di funzionari spagnoli nel caso dei certificati di importazione falsi. Inoltre, la Commissione fa valere che forse non è possibile ottenere informazioni relative all’asserita complicità in seno all’amministrazione spagnola per il semplice motivo che simili fatti non sono stati dimostrati. Si deve quindi considerare che la Commissione ha sostenuto di non aver conoscenza dell’esistenza di siffatte informazioni e di non possedere alcun documento corrispondente. Orbene, dalla giurisprudenza emerge che l’inesistenza di un documento cui è stato richiesto l’accesso è presunta allorché un’affermazione in tal senso è fatta dall’istituzione interessata. Trattasi nondimeno di una presunzione semplice che il ricorrente può rovesciare con qualsiasi mezzo, sulla base di indizi pertinenti e concordanti (sentenze del Tribunale del 25 ottobre 2002, Tetra Laval/Commissione, T-5/02, Racc. pag. II-4381, punto 95, e del 22 dicembre 2005, Gorostiaga Atxalandabaso/Parlamento, T-146/04, Racc. pag. II-5989, punto 121). Nel caso di specie, la ricorrente non ha fornito siffatti indizi sull’esistenza di documenti che dimostrerebbero l’asserita falsificazione dei certificati di importazione controversi e le eventuali complicità in seno alle autorità spagnole.

73. D’altro lato, occorre rilevare che la ricorrente ha presentato vari documenti dinanzi al Tribunale per suffragare l’esistenza dell’asserita complicità e della modalità – o delle modalità – di falsificazione dei certificati di importazione controversi. Ciò vale, in particolare, per il documento di lavoro dell’OLAF del 22 settembre 2000, per la sentenza del Tribunale civile e penale, menzionati all’atto dell’esame del quinto motivo, o per il verbale del 23 giugno 2004, che riproduce la deposizione degli agenti dell’OLAF incaricati dell’inchiesta concernente le importazioni fraudolente dinanzi al giudice per le indagini preliminari di Ravenna. Risulta altresì dal fascicolo che la ricorrente era già in possesso di questi tre documenti quando ha presentato all’amministrazione belga delle dogane e delle accise un documento intitolato «Position paper» (rapporto) del 25 giugno 2007, cui essi erano allegati. Come affermato sopra ai punti 48 e 50, sia il documento di lavoro dell’OLAF sia la sentenza del Tribunale civile e penale menzionano unicamente sospetti di complicità in seno all’amministrazione spagnola nella redazione di certificati di importazione falsi. Lo stesso vale per il verbale delle deposizioni degli agenti dell’OLAF.

74. Da quanto precede emerge che, ancor prima che la Commissione venisse adita per il procedimento di non recupero a posteriori, la ricorrente era in possesso di documenti che menzionavano sospetti di complicità in seno all’amministrazione spagnola nell’elaborazione di certificati di importazione falsi e che descrivevano con precisione le modalità operative probabili della falsificazione dei certificati, i quali le consentivano di presentare la propria difesa sulla questione dell’eventuale complicità di un funzionario spagnolo nella redazione di certificati falsi.

75. Ciò considerato, occorre rilevare che la ricorrente non può legittimamente sostenere che i suoi diritti della difesa sono stati oggetto di una violazione sostanziale, in quanto essa non avrebbe avuto accesso a talune informazioni o a determinati documenti.

76. Poiché la ricorrente non ha fornito maggiori precisazioni sull’asserita violazione dei diritti della difesa che avrebbe subito e non ha suffragato più dettagliatamente la semplice menzione di una violazione delle forme sostanziali, si deve respingere l’argomento sollevato e, con esso, il sesto motivo del ricorso.

Sull’attuazione dell’articolo 239, paragrafo 1, secondo trattino, del CDC

Considerazioni preliminari

77. Va ricordato che l’articolo 905 del regolamento n. 2454/93, disposizione che precisa e amplia la norma contenuta all’articolo 239 del CDC, costituisce una clausola generale di equità intesa, in particolare, ad abbracciare situazioni eccezionali che, per loro stessa natura, non sono riconducibili ad alcuna delle ipotesi previste agli articoli 900-904 di detto regolamento (sentenza della Corte del 25 febbraio 1999, Trans-Ex-Import, C-86/97, Racc. pag. I-1041, punto 18). Da detto articolo 905 risulta che il rimborso dei dazi all’importazione è subordinato a due condizioni cumulative, vale a dire anzitutto all’esistenza di una situazione particolare e poi all’assenza di negligenza manifesta e di manovre fraudolente da parte dell’interessato (sentenza del Tribunale del 12 febbraio 2004, Aslantrans/Commissione, T-282/01, Racc. pag. II-693, punto 53). Di conseguenza, basta che manchi una delle due condizioni perché tale rimborso debba essere rifiutato (sentenze del Tribunale del 5 giugno 1996, Günzler Aluminium/Commissione, T-75/95, Racc. pag. II-497, punto 54, e Aslantrans/Commissione, cit., punto 53).

78. Dalla decisione impugnata risulta che la condizione dell’esistenza di una situazione specifica è soddisfatta nella fattispecie (v. supra punto 18). Pertanto, l’esame del Tribunale deve vertere esclusivamente sulla questione se la Commissione abbia ritenuto correttamente che vi è stata negligenza manifesta.

79. Secondo la giurisprudenza, per valutare se vi sia manifesta negligenza ai sensi dell’articolo 239 del CDC, occorre tener conto, in particolare, della complessità delle norme il cui inadempimento ha fatto sorgere l’obbligazione doganale, nonché dell’esperienza professionale e della diligenza dell’operatore (sentenze della Corte dell’11 novembre 1999, Söhl & Söhlke, C-48/98, Racc. pag. I-7877, punto 56, e del 13 marzo 2003, Paesi Bassi/Commissione, C-156/00, Racc. pag. I-2527, punto 92).

80. Inoltre, va ricordato che la Commissione dispone di un margine di discrezionalità nell’adottare una decisione in applicazione dell’articolo 239 del CDC (v., per analogia, sentenza del Tribunale del 18 gennaio 2000, Mehibas Dordtselaan/Commissione, T-290/97, Racc. pag. II-15, punti 46 e 78). Occorre rilevare altresì che il rimborso o lo sgravio dei dazi all’importazione, che possono essere concessi soltanto a determinate condizioni e in casi specificamente previsti, costituiscono un’eccezione rispetto al normale regime delle importazioni e delle esportazioni e che, di conseguenza, le disposizioni che prevedono siffatto rimborso devono essere interpretate restrittivamente. In particolare, essendo la mancanza di manifesta negligenza un presupposto essenziale per poter chiedere un rimborso o uno sgravio dei dazi all’importazione, ne consegue che tale nozione deve essere interpretata in modo che il numero dei casi di rimborso o di sgravio resti limitato (sentenza Söhl & Söhlke, punto 79 supra, punto 52).

81. Tuttavia, sebbene la Commissione disponga di un margine di discrezionalità per quanto concerne l’applicazione dell’articolo 239 del CDC, essa deve esercitare tale potere ponendo realmente a confronto, da un lato, l’interesse dell’Unione a verificare il rispetto delle disposizioni doganali e, dall’altro, l’interesse dell’importatore in buona fede a non subire danni che eccedano l’ordinario rischio commerciale (v. sentenza del Tribunale del 30 novembre 2006, Heuschen & Schrouff Oriëntal Foods/Commissione, T-382/04, non pubblicata nella Raccolta, punto 46 e giurisprudenza citata).

82. È alla luce di tali considerazioni che si deve esaminare, in particolare, il secondo motivo del ricorso, a sostegno del quale è intervenuto il Regno del Belgio.

Sul secondo motivo, attinente ad una violazione del Trattato e delle norme relative alla sua applicazione, segnatamente dell’articolo 239 del CDC e del principio di proporzionalità

83. La ricorrente contesta la dichiarazione di negligenza manifesta oppostale dalla Commissione nella decisione impugnata. Sostenuta dal Regno del Belgio, essa sviluppa vari argomenti a sostegno di tale motivo.

84. La ricorrente fa valere in primo luogo che la Commissione non poteva addebitarle la benché minima negligenza manifesta, dato che gli asseriti inadempimenti si baserebbero sull’ipotesi errata che essa avrebbe concluso un accordo di riacquisto di merci. In secondo luogo, la ricorrente sostiene che, alla luce delle circostanze del caso di specie, essa non poteva sapere dell’esistenza di asseriti certificati di importazione falsi, acquisiti alle condizioni di mercato tramite M, che intratteneva da anni un rapporto di fiducia con la sua controllata. In terzo luogo, contrariamente alla giurisprudenza del Tribunale, la Commissione non avrebbe fornito la prova di una negligenza manifesta della ricorrente, mentre essa stessa aveva sempre agito nell’ambito di prassi commerciali normali e dimostrato un comportamento professionale e diligente. In quarto luogo, la ricorrente sostiene essenzialmente che gli addebiti della Commissione riguardo ai rapporti commerciali con M e i titolari dei certificati di importazione controversi sono infondati, in quanto tali rapporti rientrano nelle prassi commerciali normali. In quinto luogo, la diligenza imposta contrasterebbe con la giurisprudenza, sarebbe particolarmente eccessiva e sproporzionata, nell’ambito di una situazione specifica che supera ampiamente il rischio commerciale normale. Orbene, all’epoca dei fatti, non si sarebbe dovuto sospettare dell’autenticità dei certificati di importazione. In sesto luogo, la Commissione avrebbe ritenuto a torto che la condizione relativa alla complessità della normativa non sia rilevante.

85. Con il terzo, il quarto e il quinto argomento, che occorre esaminare congiuntamente e preliminarmente, la ricorrente ritiene sostanzialmente che la Commissione non abbia dimostrato la sua assenza di diligenza.

86. In primo luogo va ricordato che, qualora le autorità doganali abbiano affermato che non poteva dimostrarsi che all’operatore economico fosse attribuibile alcuna frode o negligenza manifesta, la Commissione, quando intende non conformarsi alla presa di posizione delle autorità nazionali, è tenuta a dimostrare, sulla base di elementi fattuali rilevanti, l’esistenza di un comportamento manifestamente negligente di detto operatore (sentenza del Tribunale del 27 settembre 2005, Geologistics/Commissione, T-26/03, Racc. pag. II-3885, punti 78 e 82).

87. Orbene, si deve sottolineare che l’amministrazione belga delle dogane e delle accise, nella sua lettera del 14 dicembre 2007, riteneva che esistesse una situazione specifica ai sensi dell’articolo 239 del CDC e che la ricorrente non avesse commesso alcuna negligenza manifesta.

88. In secondo luogo si deve ricordare che, per concludere che la ricorrente non era stata diligente, la Commissione, al punto 60 della decisione impugnata, ha evidenziato l’assenza di tracce di contatti con i titolari dei certificati di importazione, mentre contatti siffatti sarebbero stati indispensabili per l’immissione in libera pratica delle merci, dato che il nome di tali imprese figurava nelle dichiarazioni di immissione in libera pratica, il che poteva fare sorgere la loro responsabilità. Ai punti 60 e 61 essa ha rilevato che, se la ricorrente avesse contattato dette imprese, sarebbe emerso che esse non erano al corrente della vendita dell’utilizzo di certificati redatti a loro nome, affermando che il sistema utilizzato e l’assenza di contatti dimostravano che la ricorrente era pronta ad assumersi rischi per importare banane nell’ambito del contingente tariffario. La Commissione, al punto 62, ha sottolineato che le trattative per l’acquisto di certificati di importazione avvenivano direttamente tra la ricorrente e M, al punto 63, che i pagamenti della ricorrente erano effettuati su un conto personale di M e non su un conto del datore di lavoro di quest’ultimo, al punto 64, che la ricorrente non forniva la prova che i certificati di importazione, che essa rinviava a M, fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, mentre i loro titolari dovevano recuperarli per ottenere lo svincolo della garanzia che avevano dovuto costituire, in forza della normativa, e, al punto 65, che l’acquisto dell’utilizzo dei certificati avveniva tramite fatture pro forma inviate da due imprese spagnole e che determinate fatture erano trasmesse per fax a partire da indirizzi o da persone sconosciute. Secondo la Commissione, tale sistema non rientrava nelle prassi commerciali normali.

89. In sintesi, le circostanze addotte dalla Commissione per concludere per l’assenza di diligenza sono cinque: la mancanza di contatti tra la ricorrente e le imprese titolari di certificati di importazione; l’acquisto dell’utilizzo dei certificati mediante trattative dirette tra la ricorrente e M; i pagamenti effettuati sul conto personale di M; l’assenza di prova del ricevimento da parte di M dei certificati rinviati dalla ricorrente; la fatturazione dell’acquisto dell’uso dei certificati mediante fatture pro forma trasmesse per fax, talune provenienti da indirizzi o da persone sconosciuti.

90. In terzo luogo va rilevato che la Commissione, nel controricorso, ritiene che il sistema utilizzato dalla ricorrente per ottenere l’uso di certificati di importazione sia «illecito», poiché contrario all’articolo 21, paragrafo 2, secondo comma, del regolamento n. 2362/98, che vieta qualunque trasferimento di diritti derivanti da un certificato di importazione di un operatore nuovo arrivato a favore di un operatore tradizionale. Riguardo a tale aspetto, è giocoforza constatare che la decisione impugnata, dato che rifiuta lo sgravio dei dazi all’importazione, non è basata sull’illegittimità del sistema di acquisto dell’utilizzo dei certificati di importazione, bensì sulla negligenza manifesta della ricorrente.

91. Pertanto, l’argomento della Commissione non può avere alcuna incidenza, nel caso di specie, sulla fondatezza del rifiuto di concedere lo sgravio dei dazi all’importazione.

92. In quarto luogo si deve rilevare che la ricorrente, in ciò sostenuta dal Regno del Belgio, ritiene che solo in caso di dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione il grado di diligenza avrebbe comportato in capo ad essa il sorgere di un obbligo attivo. La Commissione fa valere che, alla luce delle circostanze del caso di specie, note solamente alla ricorrente, quest’ultima avrebbe dovuto nutrire dubbi e richiedere maggiori informazioni sui titolari dei certificati di importazione e l’eventuale assenza di dubbio da parte delle autorità doganali è irrilevante in tal senso.

93. Ad una prima lettura non emerge dalla decisione impugnata che la Commissione abbia rifiutato di concedere lo sgravio dei dazi all’importazione in quanto la ricorrente avrebbe dovuto nutrire dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione controversi. In tale decisione l’assenza di diligenza risulta fondata sul sistema attuato per procurarsi l’uso di tali certificati, di cui taluni aspetti non sarebbero rientrati nelle prassi commerciali normali (punto 65 della decisione impugnata). In relazione ad un contenuto siffatto, l’argomento della ricorrente non è pertinente ai fini della valutazione della fondatezza della decisione impugnata.

94. Tuttavia, non si può escludere che la Commissione abbia considerato che, con riguardo al sistema utilizzato per acquisire l’uso dei certificati di importazione controversi, la ricorrente avrebbe dovuto nutrire dubbi sull’autenticità di questi ultimi, essendosi rilevato, ai punti 60 e 65 della decisione impugnata, che sarebbero stati indispensabili contatti con i titolari di tali certificati e che la ricorrente non si era posta alcuna questione sul fatto che fossero state pagate notevoli somme di denaro sulla base di fatture pro forma ricevute via fax. Cionondimeno, per i motivi di cui ai successivi punti 98-102 e 111-115, questi elementi, nelle circostanze della fattispecie, non potevano far sorgere dubbi sull’autenticità dei certificati di importazione controversi.

95. In quinto luogo, occorre esaminare i cinque addebiti in base ai quali la Commissione ha ritenuto che la ricorrente non avesse dato prova di diligenza.

96. In primo luogo la ricorrente sostiene che essa non poteva contattare ogni titolare dei certificati, se non sostenendo un onere amministrativo sproporzionato in considerazione del numero significativo di certificati controversi. Essa avrebbe operato nell’ambito di rapporti commerciali normali, lasciando che M gestisse i contatti con la sua rete. Se avesse agito diversamente, avrebbe pregiudicato i propri rapporti professionali con M, di cui aveva bisogno affinché questi trovasse operatori nuovi arrivati che intendessero vendere l’utilizzo dei loro certificati di importazione. Essa ritiene di non aver avuto alcun motivo, all’epoca dei fatti, per dar prova di particolare vigilanza in relazione agli accordi conclusi tramite M, in quanto il metodo utilizzato era lo stesso di quello adottato con altri intermediari.

97. Secondo la Commissione, la ricorrente non può trincerarsi dietro l’argomento relativo al rapporto di fiducia con M, se non sopportando tutte le conseguenze di tale scelta, in quanto essa fa prevalere tale rapporto sull’osservazione della diligenza richiesta. Inoltre, essa ritiene che la ricorrente avrebbe potuto richiedere a M di fornirle informazioni sui titolari dei certificati, perché i loro rapporti commerciali erano abbastanza recenti all’epoca dei fatti. Infine, essa rileva che le misure specificamente adottate dalla ricorrente per la gestione dei certificati di importazione sono prive di rilievo, dato che non si è precisato in cosa esse contribuissero a verificare l’uso diligente e legittimo dei certificati.

98. Dal fascicolo emerge che la ricorrente aveva ottenuto tutti i certificati di importazione controversi tramite M, e che tali certificati erano messi a sua disposizione, di norma, alla fine dei trimestri per i quali erano utilizzati. Va osservato che la ricorrente, sia nei suoi atti sia in udienza, ha insistito sul fatto che le operazioni per le quali i certificati di importazione controversi sono stati utilizzati riguardavano sempre piccoli quantitativi di banane. Una circostanza simile, a suo avviso, avrebbe giustificato il ricorso ad un intermediario che fosse maggiormente in grado di ottenere in tempi rapidi i certificati che consentivano di importare carichi entro i limiti del contingente tariffario. Questi diversi elementi di fatto non sono stati contestati dalla Commissione. Inoltre, la ricorrente sostiene, senza essere contraddetta, che essa verificava la forma e il contenuto dei certificati di importazione che utilizzava, in particolare riguardo alla quest ione se i quantitativi che figuravano sui certificati corrispondessero ai quantitativi attribuiti all’operatore nuovo arrivato il cui nome era indicato nel certificato.

99. Nonostante i controlli così effettuati, il primo addebito della Commissione comporta che la ricorrente sarebbe stata obbligata a contattare in tempi rapidi i titolari dei certificati controversi al fine di evitare le contestazioni formulate ai punti 60 e 61 della decisione impugnata.

100. La Commissione, interrogata in udienza sulla natura e sulla portata di tale obbligo, che emerge dal punto 60 della decisione impugnata, non è stata in grado di individuare le disposizioni che avrebbero fondato la sua esistenza e di precisare la sua portata sulla procedura di sdoganamento delle merci importate, segnatamente la loro immissione in libera pratica, limitandosi ad affermare che l’acquisto del diritto di utilizzo di certificati di importazione da parte di operatori nuovi arrivati non sarebbe conforme alla normativa doganale. Orbene, come già rilevato ai precedenti punti 90 e 91, la decisione impugnata non è basata sull’illegittimità del sistema di acquisto del diritto di utilizzo di certificati di importazione.

101. Di conseguenza, la Commissione non dimostra che la ricorrente era tenuta a contattare i titolari dei certificati di importazione controversi per procedere alle operazioni di sdoganamento. In particolare, la Commissione non fornisce alcun elemento che dimostri che simili contatti sarebbero stati obbligatori affinché la ricorrente immettesse in libera pratica le merci importate, mentre non è contestato che quest’ultima abbia potuto compiere senza ostacoli tutte le formalità amministrative connesse all’importazione delle merci contemplate dai certificati di importazione controversi.

102. Del resto, non si può accettare, di norma, che un operatore economico, il quale importi merci nell’Unione e, a tal fine, ricorra al servizio di un intermediario per ottenere l’uso di certificati di importazione, sia considerato imprudente o non diligente qualora non effettui verifiche presso i titolari dei certificati. Infatti, il ricorso al servizio di un simile intermediario rientra nelle modalità pratiche di esercizio dell’attività di importazione a discrezione dell’importatore e il suo oggetto consiste nel facilitare l’esercizio di tale attività, poiché l’importatore ritiene che, in un determinato contesto economico, l’intermediario sia la persona più adatta per procurargli operatori nuovi arrivati che abbiano ottenuto i certificati e che intendano cederne l’utilizzo, soprattutto qualora, come nella fattispecie, l’importatore necessiti in tempi rapidi di un numero significativo di certificati (v. punto 98 supra). In mancanza di qualunque altro elemento dettagliato che possa far sorgere dubbi in capo all’operatore circa l’autenticità dei certificati di importazione utilizzati, non si può ritenere che i contatti con i titolari di certificati di importazione fossero indispensabili per consentire l’immissione in libera pratica delle merci importate.

103. Pertanto, la Commissione non dimostra che le circostanze rilevate ai punti 60 e 61 della decisione impugnata costituiscono una mancanza di diligenza da parte della ricorrente.

104. In secondo luogo, la ricorrente sostiene che era normale effettuare i pagamenti sul conto personale di M, dato che quest’ultimo operava in modo indipendente, e che essa agiva così con altri intermediari; che non le si può addebitare di non aver verificato se i certificati che essa rinviava a M fossero effettivamente ricevuti da quest’ultimo, il che costituirebbe un onere di lavoro sproporzionato e non corrisponderebbe ad una prassi commerciale normale; e che essa sarebbe stata informata se M non avesse ricevuto i certificati, in considerazione, segnatamente, della regolarità dei loro rapporti professionali.

105. Nel controricorso, la Commissione ribadisce le contestazioni formulate nella decisione impugnata, vale a dire che, sulla base del grado di diligenza applicabile nel caso di specie, ci si poteva aspettare che la ricorrente provvedesse a che i pagamenti fossero effettuati sui conti appropriati e verificasse il regolare ricevimento dei certificati che essa rinviava. La Commissione rileva che la ricorrente, in quanto operatore diligente, avrebbe dovuto nutrire dubbi sul fatto che M chiedeva il versamento di importi significativi a suo nome e su conti privati, all’insaputa del suo datore di lavoro.

106. Il secondo, il terzo e il quarto addebito di cui ai punti 62-64 della decisione impugnata riguardano l’acquisto del diritto di utilizzo dei certificati mediante trattative dirette tra la ricorrente e M, i pagamenti effettuati sul conto personale di quest’ultimo e l’assenza di prova del ricevimento da parte di M dei certificati rinviati dalla ricorrente (v. punto 89 supra).

107. Sul piano fattuale si deve constatare che la ricorrente intratteneva dal 1997 rapporti commerciali con M, dato che una delle sue controllate italiane aveva avuto precedentemente relazioni professionali per vari anni con un’impresa portoghese operante nel commercio internazionale per la quale M lavorava. Risulta altresì dall’intero fascicolo che, come sostiene la ricorrente, il rapporto commerciale instauratosi ai fini dell’acquisto del diritto di utilizzo dei certificati controversi si svolgeva unicamente tra la ricorrente stessa e M, circostanza che, in udienza, la Commissione ha ammesso di non contestare. Inoltre, nella decisione impugnata o negli atti della Commissione nulla consente di rimettere in discussione l’affermazione della ricorrente secondo cui M svolgeva la propria attività di intermediario in modo indipendente o indica che quest’ultimo avrebbe esercitato tale attività in modo fraudolento. Pertanto, gli argomenti della Commissione di cui al precedente punto 105 possono essere solo disattesi, in quanto fondati sull’idea, anch’essa risultante dalla decisione impugnata, che, al fine di acquisire i diritti di utilizzo dei certificati controversi, il ricorso ad un intermediario – il quale sarebbe stato inoltre un dipendente di un’impresa operante nel commercio internazionale – avrebbe comportato un rischio maggiore di manovre fraudolente.

108. Nelle circostanze della fattispecie, tenendo conto altresì di quanto affermato al punto 102 supra, né la trattativa da parte della ricorrente, direttamente con M, dell’acquisto dell’utilizzo dei certificati controversi, né i pagamenti della totalità di tali acquisti sul conto personale di quest’ultimo, né l’assenza di una richiesta a M della prova del ricevimento dei certificati utilizzati che essa gli rinviava dimostrano che la ricorrente abbia dato prova di una mancanza di diligenza.

109. In terzo luogo, la ricorrente sostiene che l’uso di fatture pro forma sarebbe una prassi commerciale normale, utilizzata con altri intermediari e da importatori diversi, poiché tali fatture costituiscono buoni d’ordine sulla cui base essa pagava M, il quale redigeva in seguito le fatture definitive. La circostanza che le fatture fossero state inviate da società spagnole ignote alla ricorrente non rappresenterebbe una particolarità che avrebbe dovuto indurla ad una vigilanza maggiore, dato che gli operatori di cui trattasi erano imprese sconosciute nel settore della banana e l’insieme dei contatti con tali operatori era gestito da M, mentre la Commissione non fornisce la prova di una negligenza manifesta.

110. Quest’ultima considera che il problema è rappresentato dalle circostanze in cui ha avuto luogo l’utilizzo delle fatture pro forma, vale a dire l’invio per fax da parte di persone ignote a partire da indirizzi sconosciuti. Di conseguenza, la ricorrente avrebbe dovuto effettuare verifiche.

111. Riguardo a tale aspetto, occorre ricordare che la Commissione, al punto 65 della decisione impugnata, ha evidenziato quanto segue:

«[L]a fatturazione dell’acquisto dell’uso di certificati era effettuata mediante fatture pro forma inviate per [fax] dalle due imprese spagnole summenzionate, e risulta dal fascicolo che alcune di tali fatture pro forma sono state trasmesse per [fax] a partire da indirizzi o da persone sconosciuti. La Commissione dubita che le prassi commerciali normali prevedano il pagamento di somme assai importanti di denaro sulla base di semplici fatture pro forma ricevute via [fax] in circostanze siffatte; orbene, dal fascicolo non emerge che la [ricorrente] si sia posta la minima questione al riguardo».

112. Va anzitutto constatato che le misure di organizzazione del procedimento e l’udienza rivelano una diversa valutazione su un elemento di fatto. Infatti, la Commissione, in risposta ai quesiti posti dal Tribunale, ha prodotto le fatture di quattro imprese dalle quali la ricorrente avrebbe acquisito il diritto di utilizzo dei certificati controversi. Orbene, da un lato, la ricorrente ha contestato in udienza la realtà di tali dati, affermando che solo una delle imprese di cui trattasi le aveva venduto il diritto di utilizzo dei certificati controversi. Dall’altro, questi dati contrastano con gli elementi rilevati dall’OLAF, nel documento di lavoro del 22 settembre 2000, che menzionavano due imprese spagnole coinvolte – una, nel 1998 e l’altra, nel 1999 – nonché con la decisione impugnata (punti 11 e 65).

113. Si deve altresì rilevare che la Commissione, per dimostrare la mancata diligenza della ricorrente, si basa segnatamente sulla circostanza che le fatture pro forma di acquisto dei diritti di utilizzo dei certificati controversi sarebbero state inviate a partire da fax sconosciuti e da persone ignote. In particolare, la Commissione ha osservato, in udienza, che le fatture pro forma in esame provenivano dalla Spagna, che i numeri di fax erano spagnoli o che la menzione di «copy shops» (servizi di reprografia) spagnoli figurava sulle fatture ricevute per fax.

114. Orbene, dall’intero fascicolo emerge che i diritti di utilizzo dei certificati controversi, riguardanti unicamente il 1999, sono stati acquisiti presso un’impresa spagnola (v. il precedente punto 112). Le fatture pro forma di tale impresa, prodotte dalla Commissione in risposta alle misure di organizzazione del procedimento, contengono tutte un indirizzo postale e un numero di fax, menzionati nelle relative intestazioni. Una delle fatture contiene l’indicazione «casa de fotocopia» (servizio di reprografia) sul margine superiore e un’altra reca un numero di fax, apparentemente spagnolo e l’indicazione «cemon» sul margine superiore.

115. Sebbene gli elementi indicati al punto 114 supra non risultino espressamente dalla decisione impugnata, si può ritenere che la Commissione vi facesse riferimento osservando, al punto 65, che le fatture pro forma erano inviate per fax a partire da indirizzi sconosciuti. Tuttavia, una circostanza siffatta non può essere sufficiente a dimostrare la mancanza di diligenza della ricorrente nella fattispecie. Da un lato, il fatto che una fattura pro forma proveniente da un’impresa avente sede in Spagna sia inviata da un fax situato in tale paese non costituisce una circostanza tale da indurre l’operatore che la riceve ad innalzare il suo grado di diligenza. Dall’altro, il fatto che una delle cinque fatture sia stata trasmessa alla ricorrente da detta impresa spagnola tramite un servizio che sembra un servizio di reprografia non può, di per sé, far sorgere dubbi in capo alla ricorrente sul suo rapporto commerciale con tale impresa o sull’autenticità dei certificati controversi. In mancanza di altri elementi dettagliati a sostegno dell’addebito relativo all’uso di fatture pro forma, non è possibile ritenere comprovati i dubbi della Commissione sul fatto che il pagamento di somme assai importanti di denaro versate sulla base di simili fatture ricevute nelle circostanze summenzionate rientri nelle prassi commerciali normali.

116. Di conseguenza, la Commissione non dimostra, con gli elementi rilevati al punto 65 della decisione impugnata, che la ricorrente abbia dato prova, nella fattispecie, di una mancanza di diligenza.

117. Senza che sia necessario statuire sul primo, sul secondo e sul sesto argomento del secondo motivo del ricorso, dai precedenti punti 103, 108 e 116 discende che il secondo motivo è fondato, poiché la Commissione non ha dimostrato, come richiede la giurisprudenza richiamata al citato punto 86, l’assenza di diligenza della ricorrente e, pertanto, la sua negligenza manifesta.

118. Di conseguenza, senza che sia necessario statuire sul primo, sul terzo e sul quarto motivo del ricorso, occorre pronunciare l’annullamento dell’articolo 1, paragrafo 3, della decisione impugnata e respingere il ricorso quanto al resto.

Sulle spese

119. Ai sensi dell’articolo 87, paragrafo 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Tuttavia, secondo il paragrafo 3 del medesimo articolo, il Tribunale può ripartire le spese o decidere che ciascuna delle parti sopporti le proprie spese se le parti soccombono rispettivamente su uno o più capi.

120. Nel caso di specie, la Commissione, essendo rimasta sostanzialmente soccombente, dev’essere condannata a sopportare le proprie spese e quelle sostenute dalla ricorrente.

121. A tenore dell’articolo 87, paragrafo 4, primo comma, del regolamento di procedura, gli Stati membri intervenuti nella causa sopportano le proprie spese. Nel caso di specie, si deve condannare il Regno del Belgio a sopportare le proprie spese.

Dispositivo

Per questi motivi,

IL TRIBUNALE (Seconda Sezione)

dichiara e statuisce:

1) L’articolo 1, paragrafo 3, della decisione C (2010) 2858 def. della Commissione, del 6 maggio 2010, che dichiara che è legittimo contabilizzare a posteriori i dazi all’importazione e che lo sgravio dei dazi è giustificato nei confronti di un debitore, ma non nei confronti di un altro debitore in un caso specifico, è annullato.

2) Per il resto, il ricorso è respinto.

3) La Commissione europea sopporterà le proprie spese nonché quelle sostenute dalla Firma Léon Van Parys NV.

4) Il Regno del Belgio sopporterà le proprie spese.

Góra