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Document 62005CC0017

Conclusioni dell'avvocato generale Poiares Maduro del 18 maggio 2006.
B. F. Cadman contro Health & Safety Executive.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Court of Appeal (England & Wales) (Civil Division) - Regno Unito.
Politica sociale - Art. 141 CE - Principio di parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile - Anzianità di servizio quale elemento concorrente alla determinazione della retribuzione - Giustificazione oggettiva - Onere della prova.
Causa C-17/05.

Raccolta della Giurisprudenza 2006 I-09583

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2006:333

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

POIARES MADURO

presentate il 18 maggio 2006 1(1)

Causa C‑17/05

B. F. Cadman

contro

Health & Safety Executive

Intereveniente: Equal Opportunities Commission

(Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Court of Appeal (England and Wales) (Civil Division) (Regno Unito)

(Parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e di sesso femminile – Uso dell’anzianità di servizio quale criterio di un sistema retributivo – Discriminazione indiretta)





1.     Il presente rinvio pregiudiziale della Court of Appeal (England and Wales) (Civil Division) riguarda lo sviluppo della giurisprudenza comunitaria in materia di parità della retribuzione. Al centro della discussione si colloca l’opportunità di continuare ad applicare la sentenza Danfoss (2), secondo cui l’uso del criterio dell’anzianità di servizio (in prosieguo: «anzianità») nell’ambito di un sistema retributivo non dev’essere giustificato dal datore di lavoro, neanche nel caso in cui comporti uno svantaggio per le donne, in quanto «l’anzianità va di pari passo con l’esperienza e quest’ultima pone generalmente il lavoratore in grado di meglio svolgere le sue prestazioni». La fattispecie ora in esame non chiama direttamente in causa i sistemi retributivi che utilizzano l’anzianità come criterio di retribuzione, ma potrebbe incidere indirettamente su tali sistemi. È in discussione, in primo luogo, la ripartizione dell’onere della prova tra il datore di lavoro e il lavoratore per accertare se la discriminazione indiretta derivante da un sistema retributivo che utilizza il criterio dell’anzianità possa essere giustificata e, in secondo luogo, la natura della giustificazione richiesta e la portata dell’onere della prova. Se si ammettesse che di regola l’anzianità costituisce un criterio valido per premiare l’esperienza e l’efficienza, un lavoratore non potrebbe contestare un sistema retributivo basato sull’anzianità neanche nel caso in cui tale sistema, di fatto, risultasse svantaggioso per le donne. Per contro, qualora si ritenesse che un datore di lavoro sia tenuto a giustificare qualsiasi disparità di trattamento derivante dall’utilizzo del criterio dell’anzianità nell’ambito del sistema retributivo, potrebbe risultare difficoltoso per il datore di lavoro provare in modo preciso e dettagliato in quale misura l’efficienza e la produttività aumentino con l’esperienza.

I –    Contesto normativo

2.     La presente causa riguarda la parità tra uomini e donne, che, conformemente agli artt. 2 CE e 3, n. 2, CE, rappresenta uno dei principi fondamentali del diritto comunitario e fa parte dei fondamenti della Comunità (3). Il principio della parità di retribuzione per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore è sancito dall’art. 141 CE, che così recita:

«1.      Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore.

2.      Per retribuzione si intende, a norma del presente articolo, il salario o trattamento normale di base o minimo e tutti gli altri vantaggi pagati direttamente o indirettamente, in contanti o in natura, dal datore di lavoro al lavoratore in ragione dell’impiego di quest’ultimo.

La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:

a)      che la retribuzione corrisposta per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura;

b)      che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per uno stesso posto di lavoro».

3.     L’art. 141 CE è integrato da vari atti di diritto derivato. La direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975, 75/117/CEE, per il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative all’applicazione del principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile (4) garantisce che gli elementi e le condizioni della retribuzione non determinino discriminazioni tra uomini e donne. L’art. 1 della direttiva 75/117 enuncia esplicitamente quanto segue:

«Il principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, previsto dall’articolo 119 del trattato, denominato in appresso “principio della parità delle retribuzioni”, implica, per uno stesso lavoro o per un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, l’eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni delle retribuzioni.

In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni basate sul sesso».

4.     Benché non sia espressamente contemplata dall’art. 141 CE, la nozione di discriminazione indiretta basata sul sesso è stata sviluppata dalla giurisprudenza (5) e successivamente accolta nella legislazione. L’art. 2, n. 2, della direttiva del Consiglio 15 dicembre 1997, 97/80/CE, riguardante l’onere della prova nei casi di discriminazione basata sul sesso (6), fornisce una definizione della discriminazione indiretta fondata sul sesso: «Ai fini del principio della parità di trattamento di cui al paragrafo 1, sussiste discriminazione indiretta quando una posizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri colpiscono una quota nettamente più elevata d’individui d’uno dei due sessi a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano adeguati e necessari e possano essere giustificati da ragioni obiettive non basate sul sesso».

5.     Benché le direttive successive non siano applicabili alla fattispecie ora in esame, vale la pena di osservare che la nozione di discriminazione indiretta è attualmente definita in maniera uniforme dalla direttiva del Consiglio 29 giugno 2000, 2000/43/CE, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (7), dalla direttiva del Consiglio 27 novembre 2000, 2000/78/CE, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (8) e dalla direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alle promozioni professionali e le condizioni di lavoro (9), come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 23 settembre 2002, 2002/73/CE (10). L’art. 2 della direttiva 76/207, come modificato, contiene la seguente definizione di «discriminazione indiretta: situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari».

6.     Per quanto riguarda la ripartizione dell’onere della prova nelle controversie in materia di parità, l’art. 4 della direttiva 97/80 dispone inoltre che quando il ricorrente produce «elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta», spetta «alla parte convenuta provare l’insussistenza della violazione del principio della parità di trattamento» (11).

7.     Il rapporto tra l’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80, che definisce la nozione di discriminazione indiretta e l’art. 4 della stessa direttiva, che riguarda la ripartizione dell’onere della prova, è decisivo per la soluzione delle questioni sollevate dal giudice nazionale e per valutare se un sistema retributivo in cui l’anzianità costituisce un fattore determinante per la retribuzione possa dare luogo a una discriminazione indiretta.

II – Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

8.     La sig.ra Cadman è dipendente dello United Kingdom Health and Safety Executive (Comitato governativo per la salute e la sicurezza; in prosieguo: l’«HSE»), l’ente pubblico nazionale responsabile per la gestione dei rischi per la salute e la sicurezza derivanti da attività lavorative svolte in Gran Bretagna.

9.     La sig.ra Cadman prendeva servizio presso l’HSE nel giugno 1990 in qualità di Ispettore di stabilimenti. Essa veniva promossa alla fine del periodo di formazione nel giugno 1993. Nel 1996 la sig.ra Cadman diveniva responsabile di una Unità settoriale di servizi e veniva nuovamente promossa, questa volta a HM Principal Inspector of Health and Safety in Pay Band 2 (Ispettore principale di seconda fascia di Sua Maestà per la salute e la sicurezza). Nel febbraio 2001 essa veniva trasferita ad un posto operativo come direttore di una Unità settoriale di gestione.

10.   Nel periodo in cui la sig.ra Cadman è stata alle dipendenze dell’HSE, il modello di sistema retributivo è cambiato più volte. Prima del 1992, vi era una sistema di incrementi, ossia ogni dipendente percepiva un aumento retributivo annuo sino al raggiungimento del livello massimo. Nel 1992 l’HSE introduceva un elemento relativo al rendimento, per cui l’importo dell’aumento annuo veniva adeguato in modo da riflettere il rendimento del dipendente. In base a tale sistema, i dipendenti che avevano un alto rendimento potevano così raggiungere il livello massimo più rapidamente. Nel 1995, a seguito dell’introduzione di un Long Term Pay Agreement (accordo di lungo termine sulla retribuzione), gli aumenti retributivi annui venivano distribuiti in forma di partecipazioni azionarie in base al rendimento del dipendente, rallentando quindi il ritmo di riduzione delle differenze retributive tra dipendenti con maggiore anzianità di servizio e dipendenti con minore anzianità di servizio inquadrati nello stesso grado. Infine, nel 2000, ai lavoratori che si trovavano ai livelli più bassi delle fasce retributive venivano offerti maggiori aumenti retributivi annui, in modo da aumentare la velocità di progressione nella fascia retributiva.

11.   Nell’esercizio finanziario 2000/01 la retribuzione annuale della sig.ra Cadman era pari a GBP 35 129, mentre quella di quattro colleghi di sesso maschile di pari grado ammontava a GBP 39 125, GBP 43 345, GBP 43 119 e GBP 44 183. La differenza di retribuzione annuale tra la sig.ra Cadman e le persone prese a confronto, che oscillava tra GBP 4 000 e GBP 9 000, derivava dal fatto che i quattro colleghi di sesso maschile presi a confronto avevano tutti maturato una maggiore anzianità di servizio presso l’HSE.

12.   Nel giugno 2001 la sig.ra Cadman proponeva ricorso dinanzi al Manchester Employment Tribunal (Tribunale del lavoro di Manchester), affermando che il sistema retributivo dell’HSE aveva un impatto sproporzionatamente sfavorevole sui lavoratori di sesso femminile e che essa aveva quindi diritto a percepire una retribuzione pari a quella delle quattro persone di sesso maschile prese a confronto. La sig.ra Cadman fondava la sua rivendicazione sull’Equal Pay Act 1970 (legge del 1970 sulla parità delle retribuzioni), che dà attuazione all’art. 141 CE.

13.   L’art. 1 della legge sulla parità delle retribuzioni, che è pertinente nella fattispecie, dispone quanto segue:

«1) Se un contratto in virtù del quale una lavoratrice è alle dipendenze di un’impresa in Gran Bretagna non include (direttamente o con riferimento ad un contratto collettivo o altrimenti) una clausola di parità, esso sarà reputato includerla.

2) La clausola di parità è una disposizione che concerne le condizioni contrattuali (siano relative alla retribuzione o meno) in virtù delle quali una lavoratrice è assunta (il “contratto della lavoratrice”) e che ha per effetto che:

(…)

b) qualora la lavoratrice sia adibita ad un lavoro ritenuto equivalente a quello di un lavoratore che svolga le stesse mansioni:

         i) qualunque clausola del contratto di lavoro della lavoratrice, determinata dalla valutazione del lavoro, che (ad eccezione della clausola di parità) sia o divenga meno favorevole alla lavoratrice rispetto ad un’analoga clausola del contratto del suddetto lavoratore, si intende modificata in modo tale da non risultare meno favorevole; e

         ii) il contratto di assunzione di una lavoratrice che in qualsiasi momento (ad eccezione della clausola di parità) non risulti includere una clausola corrispondente a un vantaggio che figuri nel contratto del suddetto lavoratore e determinata dalla valutazione del lavoro, va inteso come se contenesse tale clausola.

(…)

3) La clausola di parità non incide sulla differenza tra il contratto della lavoratrice e quello del lavoratore qualora il datore di lavoro dimostri che la differenza è realmente dovuta ad un criterio materiale diverso dalla differenza di sesso e che tale criterio:

a) nel caso di una clausola di parità rientrante nel suddetto n. 2, lett. a) o b), risulti da un’effettiva differenza tra la situazione della lavoratrice e quella del lavoratore;

(…)».

14.   Inoltre, a norma dell’art. 1, n. 1, lett. b), punto ii), del Sex Discrimination Act (legge contro le discriminazioni fondate sul sesso) del 1975, la discriminazione indiretta basata sul sesso è illegittima a meno che risulti giustificata.

15.   L’Employment Tribunal, che ha esaminato il ricorso della sig.ra Cadman nel periodo compreso tra il 7 maggio e l’8 luglio 2002, ha reputato che la ricorrente aveva diritto ad una dichiarazione, a norma dell’art. 1 della legge sulla parità delle retribuzioni, nel senso che le sue condizioni contrattuali relative alla retribuzione dovevano essere modificate, affinché non risultassero meno favorevoli rispetto a quelle comparabili presenti nei contratti di assunzione dei quattro colleghi presi a confronto.

16.   L’HSE interponeva quindi appello dinanzi all’Employment Appeal Tribunal (Tribunale d'appello del lavoro; in prosieguo: «Appeal Tribunal»), il quale, con sentenza 22 ottobre 2003, accoglieva l’appello per due motivi. In primo luogo esso dichiarava che, alla luce della sentenza della Corte nella causa Danfoss, se la differenza di retribuzione derivava dall’uso del criterio dell’anzianità nell’ambito di un sistema retributivo, non erano richieste giustificazioni. In secondo luogo, anche se fosse stata richiesta una siffatta giustificazione, l’Employment Tribunal era incorso in un errore di diritto nel valutare la questione.

17.   La sig.ra Cadman, a sua volta, impugnava tale decisione dinanzi alla Court of Appeal (Corte d'appello). Alla Equal Opportunities Commission (Commissione per le pari opportunità; in prosieguo: la «CPO») veniva consentito di presentare osservazioni scritte e orali in qualità di interveniente. La CPO dimostrava (con il consenso di tutte le parti) che nel Regno Unito e in tutta l’Unione europea l’anzianità di servizio dei lavoratori di sesso femminile, considerata complessivamente, è inferiore a quella dei lavoratori di sesso maschile e che l’anzianità di servizio come criterio determinante per la retribuzione ha un ruolo importante nel perpetuare il divario tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile.

18.   L’HSE ha costantemente difeso la propria prassi in materia di retribuzione, sostenendo che la differenza di retribuzione derivava dalla minore anzianità di servizio della sig.ra Cadman, un fattore materiale e oggettivo che distingueva la sua situazione da quella delle quattro persone di sesso maschile prese a confronto, come previsto dalla sentenza Danfoss.

19.   La sig.ra Cadman e la CPO, per contro, affermano che la sentenza Danfoss è stata messa in discussione dalla giurisprudenza successiva della Corte. Esse sostengono infatti che il datore di lavoro è tenuto a fornire una giustificazione oggettiva per la disparità di retribuzione tra la sig.ra Cadman e i colleghi presi a confronto.

20.   Rilevando un’apparente discrepanza tra la sentenza Danfoss e pronunce più recenti, in particolare le sentenze Nimz (12), Hill e Stapleton (13) e Gerster (14), la Court of Appeal ha concluso che la materia non era «priva di incertezze» (15) ed ha quindi sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1)      Se, quando l’uso da parte del datore di lavoro del criterio dell’anzianità di servizio come fattore concorrente alla determinazione della retribuzione produce disparità di trattamento tra i lavoratori di sesso maschile rispetto ai lavoratori di sesso femminile, l’art. 141 CE esiga che il detto datore di lavoro fornisca una giustificazione specifica per il ricorso a tale criterio. Qualora la risposta a tale domanda dipenda da determinate circostanze, quali siano tali circostanze.

2)      Se la risposta alla precedente questione possa essere differente qualora il datore di lavoro applichi ai dipendenti il criterio dell’anzianità di servizio su base individuale, in modo da valutare effettivamente entro che limiti una maggiore anzianità di servizio giustifichi un maggiore livello retributivo.

3)      Se vi siano distinzioni rilevanti da porre tra l’applicazione del criterio dell’anzianità di servizio ai lavoratori a tempo parziale e l’applicazione di tale criterio ai lavoratori a tempo pieno».

21.   Hanno presentato osservazioni scritte dinanzi alla Corte la sig.ra Cadman, la CPO, il governo del Regno Unito, l'Irlanda e la Commissione. Tali parti erano inoltre rappresentate all’udienza che ha avuto luogo l’8 marzo 2006, in cui era rappresentato anche il governo francese.

III – Analisi

22.   Per risolvere le questioni sollevate dalla Court of Appeal, descriverò anzitutto i criteri di ripartizione dell’onere della prova nei casi di discriminazione indiretta. Esaminerò quindi entro quali limiti si possa utilizzare il criterio dell’anzianità senza contravvenire all’art. 141 CE, al fine di stabilire se quest'ultimo debba essere interpretato nel senso che non osta a un sistema retributivo quale quello utilizzato dall’HSE. Affronterò infine la questione della limitazione nel tempo degli effetti delle sentenze della Corte, sollevata nella fattispecie dal governo del Regno Unito e dall'Irlanda.

A –    Sulla ripartizione dell’onere della prova nei casi di discriminazione indiretta

1.      Schema d’analisi

23.   A differenza della discriminazione diretta la discriminazione indiretta deriva da disposizioni apparentemente applicabili nello stesso modo agli uomini e alle donne. Un provvedimento neutro che di fatto rechi detrimento alle donne può essere considerato indirettamente discriminatorio (16). Anche un provvedimento apparentemente neutro che operi a svantaggio dei lavoratori più giovani o più anziani può costituire una discriminazione indiretta fondata sull’età (17). Nella fattispecie, benché la questione non sia stata sollevata dal giudice nazionale, non è inconcepibile che il ricorso al criterio dell’anzianità di servizio nell’ambito di un sistema retributivo possa determinare, in alcune circostanze, una discriminazione indiretta in ragione dell’età (18). Il concetto di discriminazione indiretta implica che debba esistere una nozione sostanziale di parità. (19)

24.   Non possono esservi giustificazioni per la discriminazione diretta. Al contrario, conformemente alla giurisprudenza e come dispone l’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80, la discriminazione indiretta può essere giustificata.

25.   Riguardo ai casi di discriminazione indiretta l’art. 4 della direttiva 97/80 stabilisce le regole concernenti la ripartizione dell’onere della prova tra datore di lavoro e lavoratore. Una ricorrente che lamenti una discriminazione indiretta deve dimostrare che il provvedimento contestato ha effettivamente un impatto diverso sui lavoratori di sesso femminile. In questa fase iniziale del procedimento, pertanto, l’onere della prova incombe al lavoratore. L’obbligo del datore di lavoro o del legislatore di fornire una giustificazione per una prassi o una politica apparentemente neutra sorge solo se tale prova viene fornita. Una volta che tale prova sia stata prodotta, il datore di lavoro o il legislatore, a seconda dell’origine del provvedimento, devono dimostrare che le misure di cui trattasi perseguono uno scopo legittimo, sono strettamente necessarie per conseguire tale scopo legittimo e risultano proporzionate (20).

26.   La tesi della sig.ra Cadman secondo cui essa ha subito una discriminazione indiretta va valutata alla luce di tale schema d'analisi. La Court of Appeal si domanda tuttavia se, nella sentenza Danfoss, la Corte si sia discostata, di fatto, da tale analisi relativamente al criterio dell’anzianità in un sistema retributivo. Occorre pertanto chiarire il significato di tale sentenza in relazione alla giurisprudenza successiva.

2.      Giurisprudenza della Corte relativa all’obbligo del datore di lavoro di giustificare l’utilizzo del criterio di anzianità in un sistema retributivo.

27.   Nella sentenza Danfoss la Corte ha esaminato questioni sollevate da un tribunale arbitrale danese che riguardavano un sistema retributivo in cui ai lavoratori inquadrati allo stesso livello retributivo veniva corrisposta la medesima retribuzione base, ma venivano anche concessi aumenti retributivi individuali calcolati in base alla flessibilità, alla formazione professionale e all’anzianità. Una ricorrente affermava che il sistema retributivo determinava una discriminazione indiretta contro le donne. Dopo aver stabilito che l’onere della prova doveva essere ripartito tra il datore di lavoro ed il lavoratore in quanto il sistema retributivo era caratterizzato da una mancanza di trasparenza, la Corte ha valutato la legittimità di ciascuno dei tre criteri summenzionati, tenendo conto del diverso impatto che essi potevano avere sui lavoratori di sesso femminile. La Corte ha dichiarato che il riferimento alla flessibilità costituiva un criterio legittimo se veniva utilizzato per retribuire la qualità del lavoro svolto. Se la flessibilità comprendeva l’adattabilità del lavoratore ad orari e luoghi di lavoro variabili, invece, non poteva essere considerata un criterio neutro, in quanto i lavoratori di sesso femminile, «a causa di impegni casalinghi e familiari di cui hanno sovente la responsabilità, possono meno facilmente dei lavoratori di sesso maschile organizzare il loro orario di lavoro in modo flessibile» (21). Per quanto riguarda la formazione professionale, la Corte ha dichiarato che «il datore di lavoro può giustificare la remunerazione di una formazione professionale particolare dimostrando che tale formazione riveste importanza per l’esecuzione di compiti specifici che sono affidati al lavoratore» (22).

28.   Infine, ed è questa la parte della sentenza rilevante ai fini del caso di specie, la Corte ha dichiarato che il criterio dell’anzianità può «comportare un trattamento meno favorevole dei lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile in quanto le donne sono entrate più recentemente sul mercato del lavoro rispetto agli uomini o subiscono più frequentemente un’interruzione di carriera» (23). Dopo aver fatto tale affermazione, la Corte ha osservato che, «poiché l’anzianità va di pari passo con l’esperienza e quest’ultima pone generalmente il lavoratore in grado di meglio svolgere le sue prestazioni, il datore di lavoro è libero di remunerarla senza dover dimostrare l’importanza che essa riveste per l’esecuzione dei compiti specifici che sono affidati al lavoratore» (24).

29.   Il governo del Regno Unito ha sostenuto che il criterio dell’anzianità, in linea di principio, dev’essere ritenuto giustificato anche se il lavoratore dimostra che esso ha un impatto sproporzionato sui lavoratori di sesso femminile. Il datore di lavoro sarebbe tenuto a fornire una giustificazione specifica solo qualora il lavoratore provasse che l’importanza attribuita all’anzianità è del tutto sproporzionata.

30.   L'Irlanda ed il governo francese hanno adottato un criterio più radicale, asserendo come dalla sentenza Danfoss emerga che l’anzianità dev’essere considerata in ogni caso un criterio legittimo per determinare la retribuzione.

31.   La sig.ra Cadman e la CPO sostengono invece che la sentenza Danfoss dev’essere interpretata nel senso che «nell’ambito di una professione in cui l’esperienza consente a una persona di svolgere meglio i propri compiti, l’anzianità può essere appropriatamente utilizzata quale criterio ragionevole per misurare la diversa capacità dei dipendenti di svolgere le proprie mansioni» (25). A loro parere, il datore di lavoro è quindi tenuto in ogni caso a fornire una giustificazione specifica. Non è del tutto chiaro in che cosa consista tale giustificazione. Sembra che, addirittura, essa potrebbe spingersi così lontano da esigere una giustificazione caso per caso dell’applicazione di una politica retributiva basata sull’anzianità.

32.   La Commissione preferisce considerare la sentenza Danfoss come «una sentenza specificamente fondata sulle particolarissime circostanze di fatto del caso di specie» (26), il che non mette in discussione l’obbligo di giustificazione gravante sui datori di lavoro quando un sistema retributivo ha un diverso impatto rispettivamente sugli uomini e sulle donne.

33.   Per ragioni che esporrò ora, benché condivida l’interpretazione proposta dalla sig.ra Cadman, dalla CPO e dalla Commissione, secondo cui incombe al datore di lavoro l’onere di dimostrare che il sistema retributivo è giustificato, ritengo tuttavia che sia importante definire la natura di tale giustificazione, in modo da non imporre al datore di lavoro un onere eccessivo.

34.   È vero che, ai sensi dell’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80, il fatto che vi sia un impatto diverso su uno dei due sessi non è sufficiente a dimostrare l’esistenza di una discriminazione indiretta, se tale impatto può essere oggettivamente giustificato da uno scopo legittimo e se i mezzi utilizzati per conseguire tale scopo sono appropriati e necessari. Tuttavia l’onere della prova riguardo a tale giustificazione è disciplinato dall’art. 4 della direttiva. Alla luce di tale circostanza ritengo difficile accogliere gli argomenti dei governi nazionali. Il governo francese e l'Irlanda affermano in definitiva che l’anzianità di servizio corrisponde sempre ad uno scopo obiettivamente giustificato, appropriato e necessariamente legittimo. Come spiegherò più avanti, non vedo alcun fondamento per una siffatta approvazione generale e incondizionata di un criterio di anzianità. Il governo del Regno Unito, a sua volta, ammette che talvolta l’anzianità non costituisce un criterio accettabile, ma sostiene che, in tal caso, l’onere della prova incombe al lavoratore. Da parte mia non vedo per quale motivo dovrebbe incombere al lavoratore l’onere di dimostrare che al criterio dell’anzianità si attribuisce un’importanza del tutto sproporzionata e non invece al datore di lavoro provare che il sistema è effettivamente proporzionato. L’art. 4 contraddice tale interpretazione. Il testo, l’economia complessiva e l’obiettivo globale della direttiva sembrano invece indicare che spetta al datore di lavoro, ai sensi degli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva, fornire una giustificazione oggettiva di tale criterio e dimostrare che esso costituisce un mezzo appropriato per conseguire uno scopo legittimo ed è necessario a tal fine. La natura di questa giustificazione, in altre parole, la portata dell’onere posto a carico del datore di lavoro, è una questione diversa. Proprio sotto tale profilo possono assumere rilevanza gli argomenti tradizionali a favore del criterio dell’anzianità e può risultare necessario imporre alcuni limiti all’onere che la sig.ra Cadman e la CPO sembrano ritenere debba essere posto a carico del datore di lavoro.

35.   Va anzitutto rilevato che la causa Danfoss è stata decisa prima dell’adozione della direttiva 97/80. Prima dell’adozione della direttiva, i giudici potevano dichiarare, come avrebbe potuto fare la Corte nella sentenza Danfoss, che i datori di lavoro non erano tenuti a giustificare il ricorso al criterio dell’anzianità. Dopo l’adozione della direttiva, un criterio che abbia un impatto sfavorevole sui lavoratori di sesso femminile non può più essere escluso dal campo di applicazione dell’art. 4 (citato al precedente paragrafo 6).

36.   Non può esservi dubbio che la direttiva 97/80 sia pertinente al caso in esame, dal momento che, ai sensi dell'art. 3, essa si applica a situazioni coperte dall’art. 141 CE.

37.   Inoltre l’interpretazione sostenuta dal governo francese e dall'Irlanda, contrasterebbe se venisse accolta con lo scopo della direttiva, che, ai sensi dell’art. 1, consiste nel «garantire che sia accresciuta l’efficacia dei provvedimenti adottati dagli Stati membri in applicazione del principio della parità di trattamento». Verrebbe, di conseguenza, compromesso anche il principio della parità di retribuzione sancito dall’art. 141 CE.

38.   Pertanto, in conformità dell’art. 4 della direttiva 97/80, spetta al datore di lavoro provare che, qualora l’uso dell’anzianità come fattore determinante in un sistema retributivo abbia un diverso impatto sui lavoratori di sesso femminile, l’uso di tale criterio è giustificabile in quanto risulti appropriato alla luce del sistema retributivo complessivo dell’impresa e della sua attività.

39.   In secondo luogo, al fine di valutare se la sentenza Danfoss possa ancora essere fatta valere da un datore di lavoro onde evitare di fornire giustificazioni per un sistema retributivo che si fonda sull’anzianità e ha un diverso impatto sui lavoratori di sesso femminile, è pertinente la giurisprudenza successiva.

40.   Nella causa Nimz (27) la Corte doveva valutare se l’art. 141 CE potesse essere interpretato nel senso di ammettere clausole applicabili ai lavoratori a tempo parziale in forza del contratto collettivo di lavoro per il pubblico impiego in Germania. Conformemente a tale contratto collettivo i pubblici dipendenti avevano diritto alla promozione dopo un periodo probatorio di sei anni. Il periodo in cui i lavoratori avessero prestato servizio per almeno i tre quarti dell’orario di lavoro normale doveva essere conteggiato per intero. Per coloro che avessero prestato servizio con un orario compreso tra la metà ed i tre quarti dell’orario normale, invece, doveva essere conteggiata solo la metà del periodo di servizio. Il governo tedesco fondava il proprio argomento in merito alla legittimità della disposizione impugnata sul fatto che i lavoratori a tempo pieno avevano un maggiore grado di esperienza e acquisivano le capacità e le competenze relative alle proprie mansioni più rapidamente rispetto ai lavoratori a tempo parziale. La Corte ha invece dichiarato, al punto 15 della motivazione, che l’art. 141 CE ostava a tale disposizione «a meno che il datore di lavoro non dimostri che la suddetta clausola del contratto collettivo è giustificata da fattori la cui obiettività dipende in particolare dal rapporto tra la natura delle mansioni espletate e l’esperienza che l’espletamento di tali mansioni fa acquisire dopo un determinato numero di ore di lavoro effettuate».

41.   Nella causa Gerster (28) la Corte ha nuovamente esaminato il metodo di calcolo dell’anzianità nel pubblico impiego tedesco, che distingueva tra lavoratori subordinati rispettivamente a tempo pieno e a tempo parziale. In detta causa la Corte non ha escluso che il giudice nazionale potesse individuare un nesso tra l’acquisizione dell’esperienza e il fatto che un dipendente prestava servizio a tempo pieno anziché a tempo parziale, ma ha comunque dichiarato che occorreva applicare il principio di proporzionalità (29). Nella causa Kording (30) la Corte ha dichiarato che spettava al giudice nazionale accertare se il requisito secondo cui, per poter fruire dell’esonero da un esame di ammissione, candidati impiegati a tempo parziale dovevano aver maturato un’anzianità lavorativa più lunga di quella di quella richiesta per un candidato impiegato a tempo pieno, potesse essere giustificata da criteri obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.

42.   L’avvocato generale La Pergola, nelle sue conclusioni relative alle ultime due cause, aveva proposto un criterio più restrittivo. A suo parere il sistema di promozione di cui alla causa Gerster difettava di razionalità interna, in quanto, da un lato, i lavoratori subordinati a tempo parziale che prestavano servizio per più di due terzi dell’orario normale venivano considerati come lavoratori a tempo pieno mentre, dall’altro, quelli che prestavano l’attività lavorativa per una frazione appena più ridotta rimanevano nella categoria del tempo parziale (31). Più in generale l’avvocato generale La Pergola ha rilevato che il sistema di promozione si basava sulla semplice presunzione che i funzionari i quali lavoravano a tempo parziale dovessero prestare la propria attività per un periodo più lungo rispetto a chi, invece, lavorava a tempo pieno. A suo parere non esisteva alcun elemento di prova che confermasse tale presunzione (32).

43.   Nella causa successiva in cui è stata chiamata ad occuparsi del principio della parità di trattamento, questa volta in relazione al sistema di retribuzione dei pubblici dipendenti irlandesi, nella causa Hill e Stapleton (33), la Corte ha confermato che spettava al datore di lavoro dimostrare che il ricorso al criterio del servizio, definito come il periodo di tempo effettivamente lavorato, nella valutazione dell’avanzamento di scatto da riconoscere ai lavoratori che passassero dal regime di impiego a tempo frazionato a quello a tempo pieno, fosse giustificato da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso.

44.   Nell’ultima sentenza pertinente richiamata dalle parti, Nikoloudi (34), la Corte ha esaminato il criterio dell’anzianità tra altre questioni. In base a un contratto collettivo solo i lavoratori subordinati a tempo pieno con un’anzianità di due anni avevano diritto a un posto nell’organico ordinario. Una delle questioni sollevate in tale causa era se l’anzianità di servizio per i lavoratori subordinati a tempo parziale dovesse essere calcolata in maniera proporzionale o se si dovesse tenere conto di tutto il periodo di lavoro a tempo parziale. La Corte ha ricordato che «l’obiettività [del criterio dell’anzianità] dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto» (35). Il datore di lavoro sosteneva che la presa in considerazione dell’anzianità era necessaria per valutare l’esperienza professionale di un lavoratore. Senza specificare quale impatto potessero avere tali elementi sulla validità del criterio applicato, la Corte ha osservato che la presa in considerazione dell’anzianità poteva anche premiare la fedeltà all’azienda (36).

45.   È significativo che in nessuna di tali cause la Corte abbia fatto riferimento alla sentenza Danfoss per giungere a una decisione. Gli avvocati generali hanno tentato di spiegare l’evoluzione della giurisprudenza. Nelle conclusioni relative alla causa Hill e Stapleton, l’avvocato generale La Pergola ha rilevato che la sentenza Danfoss poteva essere compresa solo nel suo contesto e alla luce dei fatti dedotti dinanzi alla Corte. Analogamente l’avvocato generale Stix-Hackl ha osservato che nelle sentenze Nimz, Gerster e Kording, la Corte si era discostata dalla sentenza Danfoss (37).

46.   Le decisioni successive possono non essersi espressamente discostate dalla sentenza Danfoss, ma non vi è dubbio che essa sia stata comunque rettificata da tali pronunce. Non si può trarre alcuna conclusione dal semplice fatto che la Corte, nelle cause successive, non abbia espressamente respinto quanto dichiarato nella sentenza Danfoss, in quanto solo molto raramente la Corte ribalta la propria giurisprudenza, soprattutto quando nessuna delle cause successive le impone esplicitamente una revisione della sua decisione precedente (38).

47.   In conclusione è evidente che la direttiva 97/80 (39), che è basata sull’art. 141 CE, ha armonizzato e codificato il criterio da applicare ai fini della ripartizione dell’onere della prova, per cui la soluzione adottata dalla Corte nella sentenza Danfoss, sebbene sia comprensibile alla luce delle circostanze particolari di detta causa, non può essere fatta valere nel caso ora in esame. A mio parere la prima questione sollevata dalla Court of Appeal dev’essere risolta nel senso che quando l’uso, da parte del datore di lavoro, del criterio dell’anzianità di servizio come fattore determinante per la retribuzione ha un diverso impatto sui lavoratori di sesso maschile rispetto ai lavoratori di sesso femminile interessati, l’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, esige che il datore di lavoro fornisca una giustificazione per il ricorso a tale criterio. Di seguito sarà esaminata la natura di tale giustificazione.

B –    Sulla natura della giustificazione richiesta per il ricorso al criterio dell’anzianità in un sistema retributivo

48.   La natura della giustificazione che un datore di lavoro deve fornire per superare la presunzione di discriminazione indiretta derivante dal fatto che un sistema retributivo svantaggia i lavoratori di sesso femminile va valutata alla luce della direttiva 97/80 e della giurisprudenza in materia di discriminazione indiretta. Tale questione è fondamentale, dal momento che il tipo di prova richiesto a un datore di lavoro consente di effettuare il controllo giurisdizionale di un sistema retributivo contestato alla luce del principio della parità di retribuzione. Occorre stabilire se possa essere sufficiente una giustificazione generalizzata dell’uso di un criterio di anzianità nell’ambito di un sistema retributivo o se invece la giustificazione richiesta debba essere riferita singolarmente alla situazione di ciascun lavoratore. Nella pratica i datori di lavoro e il legislatore hanno addotto varie possibili giustificazioni per misure che recano detrimento ai lavoratori di sesso femminile (40). Spesso si lascia al giudice nazionale il compito di accertare se i provvedimenti adottati per perseguire uno scopo legittimo siano proporzionati alla luce della giustificazione addotta dal datore di lavoro.

49.   Contrariamente a quanto affermano il governo francese e l'Irlanda, è indubbio che la sentenza Danfoss non possa essere interpretata nel senso che fornisce una giustificazione generalizzata per tutti i sistemi retributivi basati sull’anzianità di servizio. Tuttavia, contrariamente a quanto sembrano sostenere la sig.ra Cadman e la CPO, la denuncia di una discriminazione indiretta da parte di un lavoratore subordinato non può far scattare l’obbligo del datore di lavoro di giustificare la retribuzione corrisposta a un lavoratore rispetto ad altri. Accogliendo questo argomento si rischierebbe di imporre un onere eccessivo ai datori di lavoro e la tesi dedotta, di per sé, non tiene conto del fatto che, ai sensi dell’art. 2, n. 2, la giustificazione può essere riferita al criterio stesso e non necessariamente ad ogni singolo caso di disparità di trattamento tra lavoratori subordinati. In altri termini l’onere della prova incombente al datore di lavoro può essere assolto se il criterio adottato per il sistema retributivo risulta giustificato e non sempre occorre fornire una giustificazione per la disparità di trattamento tra singoli lavoratori che può derivare da tale criterio.

50.   All'udienza il rappresentante del governo del Regno Unito ha affermato che vi sono moltissime ragioni per le quali un datore di lavoro potrebbe decidere di utilizzare un sistema retributivo basato sull’anzianità. Un lavoratore esperto, di regola, è più produttivo, in quanto ha maggiore familiarità con l’attività del datore di lavoro e con i suoi clienti. La stabilità del personale consente inoltre al datore di lavoro di ridurre le spese connesse alla formazione e di evitare un costoso processo di assunzione. Pertanto esiste un ovvio incentivo economico per il datore di lavoro a premiare l’anzianità di servizio.

51.   Nelle sue osservazioni orali il governo francese ha dedotto ulteriori argomenti per spiegare perché un datore di lavoro abbia un motivo legittimo per premiare i dipendenti più anziani. Nel pubblico impiego francese l’anzianità non è connessa al tipo di lavoro svolto, ma si giustifica con il rapporto del pubblico dipendnete con l’amministrazione. Un sistema retributivo basato sull’anzianità garantisce l’autonomia e la neutralità dei pubblici dipendenti.

52.   Benché non sia in discussione la legittimità del criterio dell’anzianità in quanto tale, si pone comunque la questione dei limiti entro cui gli interessi economici del datore di lavoro debbano conciliarsi con l’interesse dei lavoratori subordinati al rispetto del principio della parità di retribuzione. Infatti, se pure è legittimo per i datori di lavoro premiare l’anzianità di servizio e/o la fedeltà, è innegabile che esistono situazioni in cui un sistema retributivo, benché concettualmente neutro, risulta sfavorevole per i lavoratori di sesso femminile. In questi casi l’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80 assoggetta il criterio utilizzato in un sistema retributivo che reca detrimento alle donne alla verifica della proporzionalità, in cui occorre dimostrare che il criterio si fonda su scopi legittimi ed è proporzionato rispetto all’obiettivo di conseguire gli scopi perseguiti.

53.   Come ha ammesso il governo del Regno Unito, un sistema retributivo con aumenti di retribuzione automatici connessi esclusivamente all’anzianità di servizio ha un impatto negativo sui lavoratori di sesso femminile, in quanto le donne, generalmente, entrano più tardi sul mercato del lavoro e interrompono più frequentemente la loro attività per motivi connessi alla maternità e alla cura dei figli.

54.   Il governo del Regno Unito sostiene che la Corte, nella sentenza Danfoss, ha accordato uno status speciale all’anzianità, dal momento che «al datore di lavoro è stato permesso di fornire la prova della giustificazione facendo ricorso a una generalizzazione anziché a una prova specifica» (41). L’Irlanda sostiene largamente la stessa tesi. Ciò implicherebbe, a loro parere, che, poiché l’anzianità di servizio può essere considerata una garanzia di migliori prestazioni, il ricorso alla stessa in un sistema retributivo è sempre compatibile con l’art. 141 CE.

55.   Non condivido tale presunzione. A mio avviso essa non risponde al criterio di proporzionalità di cui all’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80, che definisce la nozione di discriminazione indiretta.

56.   La verifica della proporzionalità prevista all’art. 2, n. 2, della direttiva 97/80 (42) impone di dimostrare che il criterio contestato sia «adeguat[o] e necessari[o] e [possa] essere giustificat[o] da ragioni obiettive non basate sul sesso».

57.   Se si ammettesse che una giustificazione generalizzata, come il fatto che l’anzianità di servizio consente ad un lavoratore subordinato di svolgere meglio le proprie mansioni sarebbe, nell'ottica dell'art.  141 CE, sufficiente per giustificare un sistema retributivo che reca detrimento alle donne, al lavoratore non rimarrebbe praticamente alcun margine per contestare su tale base un sistema retributivo.

58.   Inoltre in siffatte circostanze non sarebbe possibile alcun controllo giurisdizionale. Proprio per tale motivo la Corte, nella sentenza Seymour-Smith (43), ha respinto «semplici affermazioni generiche» in quanto non costituivano un mezzo valido per giustificare un provvedimento discriminatorio. A mio parere la verifica della proporzionalità di cui all’art. 2, n. 2, impone al datore di lavoro di dimostrare che il sistema retributivo adottato, anche quando si fonda su un obiettivo legittimo, è concepito in modo da minimizzarne il diverso impatto sulle donne. Ciò richiede, come spiegherò più avanti, un esame, ad esempio, delle modalità con cui l’anzianità viene presa in considerazione e del modo in cui viene bilanciata, nell’ambito del sistema retributivo, con altri criteri (quale il merito) meno sfavorevoli ai lavoratori di sesso femminile.

59.   Per una migliore comprensione della natura della giustificazione richiesta, può essere utile rilevare un’analogia con le cause concernenti la libera circolazione dei lavoratori, in quanto il contemperamento che occorre effettuare in quei casi può talora presentare affinità con quello realizzato per esaminare un criterio di anzianità quando vi sia un sospetto di discriminazione indiretta. Nella sentenza Köbler (44) la Corte ha dichiarato che un’indennità speciale di anzianità di servizio concessa dallo Stato austriaco, in qualità di datore di lavoro, ai professori universitari in aggiunta alla retribuzione di base a determinate condizioni (45) era incompatibile con l’art. 39 CE e non poteva essere giustificata da imperiosi motivi d’interesse pubblico. La Corte ha contemperato il diritto di un datore di lavoro a premiare la fedeltà con il principio della libera circolazione dei lavoratori (46). Essa ha ammesso che premiare la fedeltà costituiva uno scopo legittimo, ma ha ritenuto che ciò non fosse sufficiente a giustificare l’ostacolo che ne derivava. Lo Stato era tenuto a giustificare le particolari condizioni su cui si fondava la remunerazione alla luce del suo impatto sugli interessi della libera circolazione. Poiché il premio di fedeltà poteva scoraggiare i professori austriaci dall’esercitare il loro diritto alla libera circolazione e comportava quindi una compartimentazione del mercato del lavoro dei professori universitari, la Corte ha concluso che esso era incompatibile con l’art. 39 CE.

60.   Analogamente, ai fini dell’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, non è sufficiente dimostrare che un criterio basato sull’anzianità di servizio può, in generale, perseguire uno scopo legittimo (compensare l’esperienza e la fedeltà). Tale criterio deve essere proporzionato allo scopo perseguito, tenuto conto dell’eventuale impatto sfavorevole che può avere sulle donne.

61.   Infine, anche dalla giurisprudenza successiva alla sentenza Danfoss emergono indizi nel senso che l’utilizzo di un criterio di anzianità in un sistema retributivo in quanto strumento di misurazione dell’esperienza non può costituire, di per sé, una giustificazione della diversità degli effetti che il sistema retributivo produce sulle retribuzioni delle donne.

62.   Gli avvocati generali Darmon (47) e La Pergola (48) hanno entrambi espresso dubbi sulla questione se la presa in considerazione dell’esperienza debba essere ammessa in quanto regola generale e astratta. Anche la Corte ha respinto tale impostazione. Benché la causa vertesse su un confronto tra lavoratori subordinati rispettivamente a tempo parziale e a tempo pieno, nella sentenza Nimz la Corte ha dichiarato che «anche se anzianità ed esperienza professionale vanno di pari passo, ponendo di regola il lavoratore in grado di meglio espletare le proprie mansioni, l’obiettività di un siffatto criterio dipende dal complesso delle circostanze del caso concreto e, in particolare, dal rapporto tra la natura delle mansioni esercitate e l’esperienza che l’espletamento di tali mansioni fa acquisire dopo un determinato numero di ore di lavoro effettuate» (49). Ne discende che la Corte intendeva collegare l’obiettività del criterio dell’esperienza alla natura del lavoro in questione. L’obiezione dell’Irlanda secondo cui le cause successive riguardano solo il calcolo dell’anzianità di servizio dei lavoratori subordinati a tempo parziale non può essere accolta. Infatti la circostanza che il lavoro fosse svolto a tempo parziale o a tempo pieno era del tutto irrilevante.

63.   Alla luce delle considerazioni che precedono, il tipo di prova che il datore di lavoro deve produrre per dimostrare che il ricorso a un criterio di anzianità non determina una discriminazione indiretta può essere sinteticamente definito come segue. In primo luogo, occorre un certo grado di trasparenza delle modalità con cui il criterio dell’anzianità viene applicato nell’ambito del sistema retributivo, di modo che possa avere luogo il controllo giurisdizionale (50). In particolare deve emergere con chiarezza l’importanza attribuita, nella determinazione della retribuzione, all’anzianità di servizio, intesa come modalità di misurazione dell’esperienza o come mezzo per compensare la fedeltà, rispetto ad altri criteri quali il merito e le qualifiche. Inoltre, il datore di lavoro deve spiegare perché l’esperienza sia rilevante in un determinato lavoro e perché sia remunerata in maniera proporzionale. A tale proposito, mentre il giudice nazionale dovrà procedere ad un esame,è indubbio, ad esempio, che l’esperienza assume maggiore rilevanza, e viene quindi legittimamente premiata, nel caso di lavori che comportano responsabilità e compiti gestionali, più che nel caso di mansioni ripetitive, per le quali il criterio dell’anzianità può essere pertinente solo in relazione ad una piccola parte della retribuzione. Tale criterio può essere particolarmente rilevante nella fase della formazione, ma lo è meno dopo che il lavoratore abbia acquisito sufficiente dimestichezza con le proprie mansioni. Infine le modalità con cui viene valutata l’anzianità devono anche minimizzare l’impatto negativo di tale criterio sulle donne. Mi sembra, ad esempio, che un sistema che escludesse i periodi di congedo di maternità o paternità, benché apparentemente neutro, determinerebbe una discriminazione indiretta contro le donne.

64.   Il tipo di prova richiesto nei casi di discriminazione indiretta rimane generico nel senso che il datore di lavoro non è tenuto a giustificare il fatto che uno specifico lavoratore subordinato riceva una retribuzione superiore rispetto a quella percepita da un altro, sempreché il sistema retributivo sia strutturato coerentemente in modo da tenere conto delle caratteristiche del lavoro e delle esigenze produttive dell’azienda e da minimizzare il diverso impatto che il sistema può avere sulle donne. Se tale prova è stata prodotta, non vi sono motivi per ritenere che sussista una violazione dell’art. 141 CE, a meno che il lavoratore subordinato possa dimostrare che l’applicazione non corretta del sistema determina una discriminazione indiretta. Tuttavia, se il datore di lavoro non dimostra che l’uso del criterio dell’anzianità nel sistema retributivo è proporzionato o se risulta impossibile verificare tale circostanza in quanto il sistema retributivo non presenta una sufficiente trasparenza, il datore di lavoro è tenuto a giustificare le differenze di retribuzione in relazione alla specifica situazione del lavoratore subordinato che contesta il sistema retributivo.

65.   Nel caso della sig.ra Cadman spetta al giudice nazionale stabilire se l’HSE abbia fornito una giustificazione sufficiente per l’uso dell’anzianità di servizio come fattore determinante per la retribuzione dei dirigenti delle Unità settoriali di gestione. In tale contesto l’HSE deve spiegare come l’anzianità venga contemperata con altri criteri, quale il merito, al fine di determinare la retribuzione dei dipendenti e per quale motivo il criterio dell’anzianità sia necessario e proporzionato rispetto all’obiettivo di remunerare l’esperienza e/o premiare la fedeltà, tenuto conto della natura del lavoro svolto.

66.   Per risolvere in maniera più completa la prima questione della Court of Appeal, occorre aggiungere che, qualora l’uso, da parte del datore di lavoro, del criterio dell’anzianità quale fattore determinante per la retribuzione abbia un diverso impatto sui lavoratori di sesso femminile rispetto a quelli di sesso maschile, l’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, impone al datore di lavoro di dimostrare che le modalità con cui il criterio viene utilizzato in quanto fattore determinate per la retribuzione in relazione al posto di lavoro considerato tengono conto delle esigenze produttive dell’azienda e che il criterio viene applicato in maniera proporzionata in modo da minimizzarne l’impatto sfavorevole sulle donne. Il datore di lavoro, qualora non sia in grado di fornire una giustificazione per la struttura del sistema retributivo, deve fornire una specifica giustificazione per la differenza di livello retributivo tra il lavoratore denunciante e gli altri lavoratori che svolgono le stesse mansioni.

C –    Sull’esigenza di limitare nel tempo gli effetti della sentenza

67.   I governi irlandese e del Regno Unito hanno chiesto una limitazione nel tempo dell’applicabilità della sentenza nel caso in cui la Corte dichiari che il datore di lavoro è tenuto a giustificare il ricorso al criterio dell’anzianità in un sistema retributivo ogni qual volta un lavoratore lamenti una violazione del principio della parità di retribuzione in quanto il sistema retributivo reca detrimento alle donne.

68.   A sostegno di tale richiesta il Regno Unito deduce che la sentenza della Corte avrebbe effetti retroattivi che metterebbero in dubbio i rapporti giuridici tra datori di lavoro e lavoratori costituiti in buona fede e in conformità della sentenza Danfoss. A suo parere, pertanto, il principio della certezza del diritto imporrebbe di confermare la motivazione della sentenza Danfoss fino alla data in cui la Corte si pronunci sulla fattispecie ora in esame. Il Regno Unito sostiene che, se i datori di lavoro dovessero giustificare i sistemi retributivi utilizzati in passato, verrebbe messo in discussione un gran numero di rapporti contrattuali, dal momento che, nel Regno Unito, un lavoratore subordinato può rivendicare la parità di retribuzione con effetto fino ai sei anni precedenti. Inoltre, sarebbe difficile ottenere la prova dei fatti oggettivi pertinenti dopo molti anni.

69.   Secondo una giurisprudenza consolidata la Corte limita l’efficacia nel tempo di una pronuncia pregiudiziale solo in circostanze eccezionali, qualora sussistano due condizioni cumulative (51). In primo luogo, la Corte può applicare il principio della certezza del diritto per limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata allo scopo di rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. In secondo luogo, la Corte richiede la prova che vi sia il rischio di gravi ripercussioni economiche, dovute in particolare all’elevato numero di rapporti giuridici costituiti in buona fede.

70.   Nella fattispecie ritengo persuasivo l’argomento del Regno Unito secondo cui l’interpretazione proposta dell’art. 141 CE potrebbe rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Infatti – e ciò spiega perché il giudice nazionale abbia scelto di sospendere il procedimento e di effettuare un rinvio pregiudiziale alla Corte –, sussiste qualche incertezza in merito all’interpretazione dell’art. 141 CE con riguardo all’uso dell’anzianità nell’ambito di un sistema retributivo. In primo luogo, la Corte non si è mai espressamente discostata dalla sentenza Danfoss. In secondo luogo, le cause successive riguardanti la ripartizione dell’onere della prova tra il datore di lavoro e il lavoratore con riguardo al potenziale impatto discriminatorio dei sistemi di retribuzione o di promozione non erano riferibili alla direttiva 97/80. Alla luce di tali elementi, gli Stati membri e le parti interessate potevano ragionevolmente concludere che dal ricorso al criterio dell’anzianità in un sistema retributivo non poteva derivare una discriminazione indiretta ai sensi dell’art. 141 CE (52).

71.   Per quanto riguarda la seconda condizione, benché sia convinto che l’interpretazione da me proposta dell’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, continui a consentire l’uso dell’anzianità come criterio nei sistemi retributivi, non si può escludere che essa possa incidere su tali sistemi retributivi per quanto riguarda le modalità con cui l’anzianità deve essere presa in considerazione e bilanciata con altri criteri pertinenti. Di conseguenza, qualora la Corte accolga l’interpretazione da me proposta nel caso in esame, potrebbe risultarne interessato un gran numero di lavoratori subordinati (53), i quali avrebbero diritto a rivendicazioni che le aziende non potevano prevedere (54).

72.   Considerata la buona fede di tutte le parti coinvolte per quanto riguarda l’obbligo del datore di lavoro di giustificare un sistema retributivo che si basa sull’anzianità e ha un diverso impatto sulle donne, sembra opportuno tenere conto di considerazioni connesse alla certezza del diritto che riguardano tutte le parti interessate e impedire, in linea di principio, la riapertura della questione con riguardo al passato (55). Pertanto suggerisco alla Corte di dichiarare che l’interpretazione proposta per l’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, non può essere fatta valere a sostegno di rivendicazioni connesse a una discriminazione indiretta derivante da un sistema retributivo basato sull’anzianità esercitate prima della data della sentenza nella presente causa, fatta eccezione per quei lavoratori che prima di tale data abbiano esperito un’azione in giudizio o proposto un reclamo equivalente.

IV – Conclusione

73.   Alla luce delle suesposte considerazioni, propongo alla Corte di risolvere nei termini seguenti le questioni sollevate:

1)      Quando l’uso, da parte del datore di lavoro, del criterio dell’anzianità di servizio come fattore determinante per la retribuzione ha un diverso impatto sui lavoratori di sesso femminile rispetto ai lavoratori di sesso maschile, l’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, esige che il datore di lavoro dimostri che le modalità con cui tale criterio viene utilizzato come fattore determinante per la retribuzione in relazione al posto di lavoro considerato tengono conto delle esigenze produttive dell’impresa e che il criterio viene applicato in maniera proporzionata in modo da minimizzarne l’impatto sfavorevole sulle donne. Il datore di lavoro, qualora non sia in grado di fornire una giustificazione per la struttura del sistema retributivo, è tenuto a fornire una giustificazione specifica per la differenza di livello retributivo esistente tra il lavoratore denunciante e gli altri lavoratori che svolgono le stesse mansioni.

2)      Vista la soluzione della prima questione, non occorre risolvere la seconda.

3)      Non occorre alcuna distinzione tra l’uso del criterio dell’anzianità nel caso di lavoratori a tempo parziale e l’uso di tale criterio nel caso di lavoratori a tempo pieno.

4)      Tale interpretazione dell’art. 141 CE, in combinato disposto con gli artt. 2, n. 2, e 4 della direttiva 97/80, non può essere fatta valere a sostegno di rivendicazioni esercitate prima della data della sentenza nella presente causa in relazione a discriminazioni indirette derivanti da un sistema retributivo basato sull’anzianità, fatta eccezione per quei lavoratori che prima di tale data abbiano esperito un’azione in giudizio o proposto un reclamo equivalente.


1 – Lingua originale: il portoghese.


2 – Sentenza 17 ottobre 1989, causa 109/88, Handels-og Kontorfunktionærernes Forbund I Danmark (detta «Danfoss») (Racc. pag.  3199, punto 24).


3 – Sentenza 8 aprile 1976, causa 43/75, Defrenne (Racc. pag. 455, punto 12).


4 – GU L 45, pag. 19.


5 – Sentenza 31 marzo 1981, causa 96/80, Jenkins (Racc. pag. 911).


6 – GU L 14, pag. 6.


7 – GU L 180, pag. 22.


8 – GU L 303, pag. 16.


9 – GU L 39, pag. 40.


10 – GU L 269, pag. 15.


11 – Lo stesso meccanismo è rilevabile nel trentunesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/78 e nel ventunesimo ‘considerando’ della direttiva 2000/43, i quali enunciano che «[l]e norme in materia di onere della prova devono essere adattate quando vi sia una presunzione di discriminazione e, nel caso in cui tale situazione si verifichi, l’effettiva applicazione del principio della parità di trattamento richiede che l’onere della prova sia posto a carico del convenuto».


12 – Sentenza 7 febbraio 1991, causa C-184/89 (Racc. pag. I-297).


13 – Sentenza 17 giugno 1998, causa C-243/95 (Racc. pag. I-3739).


14 – Sentenza 2 ottobre 1997, causa C-1/95 (Racc. pag. I-5253).


15 – Punto 23 della sentenza che dispone il rinvio pregiudiziale alla Corte.


16 – V., in tal senso, sentenze 13 maggio 1986, causa 170/84, Bilka (Racc. pag. 1607, punto 31), Gerster, punto 30, 2 ottobre 1997, causa C-100/95, Kording (Racc. pag. I-5289, punto 16) e Hill e Stapleton, citata, punto 24.


17 – Nella sentenza 22 novembre 2005, causa C‑144/04, Mangold (Racc. pag. I‑9981, punto 75), la Corte ha dichiarato che il principio di non discriminazione in ragione dell’età deve essere considerato un principio generale del diritto comunitario.


18 – Si può immaginare un sistema retributivo che collochi i lavoratori più giovani in una posizione svantaggiata in quanto favorisce in misura sproporzionata l’anzianità di servizio e pertanto favorisce i lavoratori più anziani. Per contro un diverso sistema retributivo che non tenga conto dell’esperienza dei lavoratori potrebbe essere considerato sfavorevole ai lavoratori più anziani. Per quanto riguarda l’accesso al lavoro, l’art. 6, n. 1, lett. b), della direttiva 2000/78 consente tuttavia la «fissazione di condizioni minime di età, di esperienza o di anzianità di lavoro». In generale il divieto di discriminazione fondata sull’età è soggetto a numerose clausole condizionali e limitazioni (conclusioni dell’avvocato generale Jacobs presentate il 27 ottobre 2005 nella causa C-227/04 P, Lindorfer/Consiglio, ancora pendente dinanzi alla Corte, paragrafo 87).


19 – S. Prechal, «Equality of treatment, non‑discrimination and social policy: achievements in three themes», CMLRev., Vol. 41 (2004) Fasc. 2, pag. 533.


20 – Lo stesso criterio viene applicato dai giudici inglesi, a prescindere dalla circostanza che si richiamino o meno alla giurisprudenza della Corte, v. sentenza dell’Employment Tribunal nella causa Crossley v Arbitration Conciliation and Advisory Service (causa n. 1304744/98, allegata alle osservazioni della sig.ra Cadman).


21 – Punto 21.


22 – Punto 23.


23 – Punto 24.


24 – Ibid.


25 – Osservazioni scritte della CPO, punto 103.


26 – Osservazioni scritte della Commissione, punto 30.


27 – Citata.


28 – Citata.


29 – In altre parole gli strumenti adottati devono rispondere a un legittimo obiettivo di politica sociale ed essere idonei e necessari per raggiungere l’obiettivo perseguito (sentenza Gerster, punto 40).


30 – Punto 26.


31 – Conclusioni nella causa Gerster, paragrafo 47.


32 – Ibid., paragrafo 40.


33 – Punto 43.


34 – Sentenza 10 marzo 2005, causa C-196/02 (Racc. pag. I-1789).


35 – Sentenza Nikoloudi, punto 55.


36 – Ibid., punto 63.


37 – Conclusioni nella causa Nikoloudi, paragrafo 50.


38 – Su questo punto v. le mie conclusioni presentate il 1° febbraio 2006 nelle cause C-94/04, Cipolla, e C‑202/04, Macrino e Capodarte, ancora pendenti, paragrafi 28 e 29.


39 – V., ad esempio, sentenze 27 ottobre 1993, causa C-127/92, Enderby (Racc. pag. I‑5535, punti 13-19 e 31 maggio 1995, causa C‑400/93, Royal Copenhagen (Racc. pag. I‑1275, punto 24).


40 – V. T.K. Hervey, «EC law on justifications for sex discrimination in working life», in Collective bargaining, discrimination, social security and European integration, Bulletin of comparative labour relations, n. 48, 2003, pag. 103. Tra le varie giustificazioni addotte l’autore distingue tra giustificazioni connesse alla professione e giustificazioni quali capacità fisiche, qualifiche e formazione, giustificazioni connesse all’impresa, quali l’efficienza economica o finanziaria e giustificazioni legate all’interesse pubblico, quali l’esigenza di incentivare l’occupazione o la volontà di incentivare le piccole imprese.


41 – Osservazioni scritte del governo del Regno Unito, punto 26.


42 – Prevista anche dalle direttive 2000/78, 2000/43 e 76/207, come modificata.


43 – Sentenza 9 febbraio 1999, causa C-167/97 (Racc. pag. I-623, punto 76).


44 – Sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01 (Racc. pag. I-10239).


45 – Vale a dire, purché essi avessero maturato un’anzianità di servizio di almeno 15 anni presso un’università austriaca e avessero beneficiato per almeno quattro anni della normale indennità di anzianità di servizio.


46 – Sentenza Köbler, punto 86.


47 – Nelle sue conclusioni relative alla causa Nimz, paragrafo 15, l’avvocato generale Darmon ha rilevato quanto segue: «l’esperienza [non] costituisce un criterio ugualmente rilevante per un posto di addetto alle manutenzioni e per uno di caposervizio amministrativo».


48 – Conclusioni dell’avvocato generale La Pergola nella causa Hill e Stapleton, paragrafo 34. V. anche le sue conclusioni relative alle cause Gerster e Kording, citate alla nota 27.


49 – Sentenza Nimz, punto 14. V. anche sentenze Gerster, punto 39 e Kording, punto 23.


50 – V. art. 9, n. 2, della direttiva 76/207, che impone agli Stati membri di esaminare «periodicamente le attività professionali di cui all’articolo 2, paragrafo 2, al fine di valutare se sia giustificato, tenuto conto dell’evoluzione sociale, mantenere le esclusioni in questione».


51 – V. in tal senso sentenze 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot (Racc. pag. 379, punto 28), 17 maggio 1990, causa C-262/88, Barber (Racc. pag. I-1889, punto 41) e 29 novembre 2001, causa C-366/99, Griesmar (Racc. pag. I-9383, punto 74).


52 – In tal senso v. sentenza Barber, punto 43.


53 – All'udienza il governo del Regno Unito ha affermato che il 36% dei lavoratori viene remunerato in base a un sistema retributivo basato sull’anzianità di servizio.


54 – In tal senso v. sentenza Defrenne, punto 70.


55 – In tal senso v. sentenze Defrenne, punto 74 e Barber, punto 44.

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