Choose the experimental features you want to try

This document is an excerpt from the EUR-Lex website

Document 62005CC0016

Conclusioni dell'avvocato generale Geelhoed del 12 settembre 2006.
The Queen, Veli Tum e Mehmet Dari contro Secretary of State for the Home Department.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: House of Lords - Regno Unito.
Accordo di associazione CEE-Turchia - Art. 41, n. 1, del Protocollo addizionale - Clausola di "standstill" - Ambito di applicazione - Legislazione di uno Stato membro che ha introdotto, dopo l’entrata in vigore del Protocollo addizionale, nuove restrizioni relative all’ammissione sul suo territorio di cittadini turchi ai fini dell’esercizio della libertà di stabilimento.
Causa C-16/05.

Raccolta della Giurisprudenza 2007 I-07415

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2006:550

CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

L.A. GEELHOED

presentate il 12 settembre 2006 1(1)

Causa C-16/05

The Queen, su istanza di Veli Tum

e

The Queen, su istanza di Mehmet Dari

contro

Secretary of State for the Home Department

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla House of Lords (Regno Unito)]

«Interpretazione dell’art. 41, n. 1, del Protocollo addizionale, firmato il 23 novembre 1970, allegato all’accordo che crea un’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia – Possibilità per uno Stato membro di introdurre nuove restrizioni all’ingresso di cittadini turchi che intendano svolgere un’attività economica sul suo territorio»





I –    Introduzione

1.     L’art. 41, n. 1, del protocollo del 1970 allegato all’accordo di associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia del 1963 pone il divieto di introdurre nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi tra le parti contraenti. La questione principale da risolvere nel caso in esame è se tale disposizione faccia inoltre divieto agli Stati membri di porre condizioni per l’ingresso di cittadini turchi nel loro territorio più restrittive di quelle esistenti alla data di entrata in vigore del protocollo medesimo negli Stati membri interessati.

II – Disposizioni rilevanti

A –    Diritto comunitario

2.     L’Accordo che crea un’associazione tra la Comunità economica europea e la Turchia (in prosieguo: l’«accordo di associazione») è stato firmato ad Ankara il 12 settembre 1963 dalla Repubblica di Turchia, dagli Stati membri della CEE e dalla Comunità, ed è stato concluso, approvato e confermato, a nome della Comunità, con decisione del Consiglio 23 dicembre 1963, 64/732/CEE (2). Il protocollo addizionale allegato all’accordo di associazione è stato firmato a Bruxelles il 23 novembre 1970 e concluso, approvato e confermato a nome della Comunità con regolamento (CEE) del Consiglio 19 dicembre 1972, n. 2760 (3).

3.     L’art. 13 dell’accordo di associazione contiene la seguente disposizione generale sulla libertà di stabilimento tra gli Stati membri e la Turchia:

«Le Parti Contraenti convengono d’ispirarsi agli articoli da 52 a 56 incluso e all’articolo 58 del Trattato che istituisce la Comunità per eliminare tra loro le restrizioni alla libertà di stabilimento (4)».

4.     L’art. 41 del protocollo addizionale stabilisce quanto segue:

«1. Le parti contraenti si astengono dall’introdurre tra loro nuove restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.

2. Conformemente ai principi enunciati agli articoli 13 e 14 dell’Accordo di associazione, il consiglio di Associazione stabilisce il ritmo e le modalità secondo le quali le parti contraenti sopprimono progressivamente tra loro le restrizioni alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi.

Il consiglio di Associazione stabilisce tale ritmo e tali modalità per le diverse categorie di attività, tenendo conto delle disposizioni analoghe già adottate dalla Comunità in questi settori, nonché della particolare situazione economica e sociale della Turchia. Sarà accordata priorità alle attività che contribuiscono particolarmente allo sviluppo della produzione e degli scambi».

Fino ad oggi, il consiglio di associazione non ha adottato alcuna misura ai sensi dell’art. 41, n. 2, del protocollo addizionale.

B –    Normativa nazionale

5.     L’art. 11, n. 1, dell’United Kingdom Immigration Act 1971 (legge del 1971 sull’immigrazione) cosí recita:

«Ai fini della presente legge, chi giunga nel Regno Unito per via marittima o aerea non sarà considerato avervi fatto ingresso fino al momento dello sbarco e, anche in tale momento, si considererà non aver fatto ingresso nel paese fino a quando si manterrà nell’area portuale, o aeroportuale, di arrivo a tal fine definita da un funzionario dell’Ufficio immigrazione; una persona che non sia giunta in altro modo nel Regno Unito si considererà non esservi entrata per tutto il tempo in cui sarà soggetta a detenzione, ammissione temporanea o rilascio in libertà provvisoria, sulla base dei poteri conferiti dall’allegato 2 di questa legge o dalla parte III dell’Immigration and Asylum Act 1999».

6.     Al 1° gennaio 1973, data dell’adesione del Regno Unito alla Comunità europea, le norme sull’immigrazione rilevanti ai fini dell’avvio di attività economiche e della prestazione di servizi erano contenute nello Statement of Immigration Rules for Control on Entry [Prospetto delle norme sull’immigrazione per il controllo all’ingresso] (HC 509), presentato al Parlamento il 23 ottobre 1972 (in prosieguo: le «norme sull’immigrazione del 1973»). Nell’ordinanza di rinvio, tali norme vengono riassunte come segue: l’art. 30 delle norme sull’immigrazione del 1973 (dal titolo «Imprenditori») stabilisce che i passeggeri che non sono in grado di esibire un visto d’ingresso, ma che nondimeno sembrano in grado di soddisfare i requisiti di uno dei successivi due paragrafi, devono essere ammessi per un periodo non superiore a due mesi, con divieto di occupazione, ed essere sollecitati a sottoporre il proprio caso all’Home Office. L’art. 31 si riferisce al requisito che il richiedente abbia fondi sufficienti da investire in un’attività economica, se essa è stata già avviata, e da far fronte alla propria parte di perdite; esso dispone che l’interessato dovrà essere in grado di provvedere a se stesso ed alle persone a suo carico, che dovrà partecipare attivamente alla gestione dell’attività ed altri requisiti di questo genere. A tenore dell’art. 32, il richiedente che desideri avviare un’attività economica per contro proprio dovrà dimostrare che farà entrare nel paese risorse sufficienti al fine di avviare un’attività economica dalla quale ci si possano realisticamente attendere guadagni tali da permettere all’interessato di soddisfare le proprie necessità e quelle delle persone a carico senza dover far ricorso ad un impiego per il quale sia necessario un permesso di lavoro.

7.     Le attuali norme che interessano le persone che richiedono un permesso per entrare nel Regno Unito al fine di esercitare un’attività economica sono attualmente contenute nell’HC 395 (in prosieguo: le «attuali norme sull’immigrazione»). Gli artt. 201-205 stabiliscono in proposito i seguenti requisiti:

«201. Una persona che desidera ottenere un permesso per entrare nel Regno Unito al fine di esercitarvi un’attività economica in proprio deve soddisfare le seguenti condizioni: (i) possedere i requisiti indicati all’art. 202 o all’art. 203; (ii) essere titolare di una somma di denaro non inferiore a GBP 200 000 e disporre della stessa nel Regno Unito; tale somma non deve essere vincolata ad alcun fondo o ad altro strumento di investimento e dovrà essere investita dal titolare nella propria attività nel Regno Unito; (iii) in attesa di percepire i primi utili dall’impresa, disporre di risorse economiche sufficienti per soddisfare le proprie necessità e quelle delle persone a carico senza dover lavorare (se non per la propria attività autonoma) né ricorrere a fondi pubblici; (iv) essere impegnato attivamente ed a tempo pieno nello svolgimento di attività commerciali o nella fornitura di servizi in proprio o in società, ovvero occuparsi della promozione e della gestione della propria società in qualità di dirigente; (v) dimostrare che la sua quota di investimenti finanziari è proporzionale alla sua partecipazione nell’impresa; (vi) detenere una quota di maggioranza o equalitaria nell’impresa ed assicurare che la posizione di socio o di dirigente non dissimulerà un rapporto di lavoro subordinato; (vii) essere in grado di assumersi la propria quota di responsabilità; (viii) dimostrare l’esistenza di un reale bisogno dei suoi investimenti e servizi nel Regno Unito; (ix) ricavare dalla propria attività utili sufficienti a soddisfare le proprie necessità e quelle delle persone a suo carico, senza dover lavorare (se non nella propria attività autonoma), né ricorrere a fondi pubblici; (x) non cercare di incrementare i propri redditi svolgendo un lavoro nel Regno Unito diverso da quello svolto per la propria impresa; (xi) possedere un visto d’ingresso per il Regno Unito valido a tale titolo.

202. Una persona che intenda assumere la gestione di un’impresa esistente o far parte di un’impresa in qualità di socio, nel Regno Unito, oltre a soddisfare i requisiti indicati all’art. 201, dovrà produrre: (i) una dichiarazione scritta delle condizioni di acquisto o di partecipazione; (ii) i bilanci certificati dell’impresa negli anni precedenti; (iii) la prova che i suoi servizi e investimenti produrranno un aumento dei posti di lavoro offerti dall’impresa alle persone ivi stabilite nella misura di almeno due nuovi impieghi a tempo pieno.

203. La persona che intenda avviare un’impresa nel Regno Unito, oltre a soddisfare i requisiti di cui all’art. 201, dovrà dimostrare: (i) che importerà nel paese fondi propri in quantità sufficiente da avviare l’attività, e (ii) che l’impresa sarà in grado di creare posti di lavoro retribuiti a tempo pieno per almeno due persone già stabilite nel Regno Unito.

Rilascio dell’autorizzazione all’ingresso nel Regno Unito per una persona che intenda esercitare un’attività economica.

204. Una persona che chieda l’autorizzazione per entrare nel Regno Unito allo scopo di esercitarvi un’attività economica può essere ammessa nel paese per un periodo non superiore a dodici mesi con una restrizione che limita la sua libertà di rivolgersi al mercato del lavoro, purché possa presentare al funzionario dell’immigrazione, al suo arrivo, un valido permesso per entrare nel Regno Unito in tale posizione.

Diniego dell’autorizzazione all’ingresso nel Regno Unito per una persona che intenda esercitare un’attività economica.

205. L’autorizzazione all’ingresso nel Regno Unito di una persona che intenda esercitarvi un’attività economica può essere negata se l’interessato non è in grado di presentare al funzionario dell’immigrazione, al suo arrivo, un valido permesso per entrare nel Regno Unito in tale posizione».

III – Fatti e procedimento

8.     Poiché i fatti relativi alle cause Tum e Dari sono ampiamente simili, conviene descriverli congiuntamente.

9.     Il sig. Veli Tum ed il sig. Mehmet Dari, ambedue cittadini turchi, sono giunti nel Regno Unito, rispettivamente, il 29 novembre 2001 ed il 1° ottobre 1998. Ad entrambi era stato concesso un permesso temporaneo di soggiorno ai sensi dell’art. 11 dell’Immigration Act del 1971, accompagnato da una restrizione relativa all’accesso all’occupazione (nel caso del sig. Tum) ed un vero e proprio divieto di prestare lavoro (nel caso del sig. Dari). Entrambi avevano fatto richiesta di asilo nel Regno Unito. Tuttavia, le loro domande erano state respinte dal Secretary of State che aveva inoltre dato disposizioni, ai sensi della Convenzione di Dublino (5), di espellere i due interessati e di rinviarli negli Stati membri in cui avevano presentato in precedenza una domanda di asilo, vale a dire in Germania (Tum) ed in Francia (Dari). I ricorsi giurisdizionali da loro successivamente intentati contro tali decisioni sono stati respinti.

10.   Nel periodo in cui ha soggiornato nel Regno Unito, il sig. Dari ha avviato una propria pizzeria a Herne Bay, nel Kent. Il 30 settembre 2002 ha presentato all’autorità dell’immigrazione una domanda d’ingresso nel Regno Unito allo scopo di poter continuare ad esercitare la sua impresa. Analogamente, il sig. Tum ha chiesto un permesso d’ingresso nel Regno Unito per poter avviare un’impresa di pulizia nel Nord di Londra. Poiché si trovavano nel Regno Unito con un permesso temporaneo concesso ai sensi dell’art. 11 dell’Immigration Act del 1971, e pertanto non avevano formalmente fatto ingresso nel Regno Unito a fini di immigrazione, Tum e Dari hanno fondato le loro domande sull’accordo di associazione e sul protocollo addizionale, chiedendo che venissero esaminate con riferimento alle norme sull’immigrazione del 1973.

11.   Il 12 maggio 2003 il Secretary of State, considerata la questione alla luce delle attuali norme sull’immigrazione e non delle norme sull’immigrazione del 1973, ha respinto la domanda di ingresso inoltrata dal sig. Tum allo scopo di esercitare un’attività economica ed ha indicato che sarebbero stati presi provvedimenti per rinviare l’interessato in Germania il più presto possibile. La domanda del sig. Dari è stata respinta per gli stessi motivi. Il sig. Tum ha ottenuto un’inibitoria concernente l’ordine di espulsione.

12.   Il sig. Tum e il sig. Dari hanno successivamente presentato un ricorso giurisdizionale avverso la decisione del Secretary of State. I loro casi sono stati sottoposti insieme alla High Court of Justice, Queen’s Bench Division, che ha accolto i ricorsi con sentenza 19 novembre 2003. In sostanza tale sentenza ha stabilito che i ricorrenti avevano il diritto di far valere le cosiddette clausole di «standstill» di cui all’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale e pertanto di chiedere che le loro domande d’ingresso nel Regno Unito in qualità di imprenditori venissero esaminate in base alle norme sull’immigrazione in vigore alla data in cui il Regno Unito aveva aderito alla Comunità, cioè il 1° gennaio 1973.

13.   Tale decisione è stata confermata dalla Court of Appeal con sentenza 24 maggio 2004.

14.   Il 9 luglio 2004 il Secretary of State ha chiesto alla House of Lords l’autorizzazione ad impugnare le sentenze della Court of Appeal nelle cause riunite. A seguito di un’udienza tenutasi il 27 ottobre 2004, l’Appellate Committee della House of Lords ha disposto che si chiedesse una pronuncia pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee a norma dell’art. 234 CE sulla seguente questione:

«Se l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale all’accordo di associazione firmato a Bruxelles il 23 novembre 1970 debba essere interpretato nel senso che vieta ad uno Stato membro di introdurre nuove restrizioni, a partire dalla data in cui il detto protocollo è entrato in vigore in tale Stato membro, in ordine alle condizioni e alla procedura per l’ingresso nel suo territorio di un cittadino turco che intenda esercitare un’attività economica nello Stato membro in questione».

15.   Hanno presentato osservazioni scritte nel presente procedimento i sigg. Tum e Dari, i governi slovacco e britannico e la Commissione. All’udienza del 18 maggio 2006 hanno svolto osservazioni orali il sig. Tum, il sig. Dari, i governi del Regno Unito e dei Paesi Bassi e la Commissione.

16.   I sigg. Tum e Dari, il governo slovacco e la Commissione ritengono che la questione posta dalla House of Lords debba essere risolta in senso affermativo. I governi del Regno Unito e dei Paesi Bassi sono del parere contrario e sostengono che la Corte dovrebbe dare una risposta negativa.

IV – Sintesi degli argomenti

17.   I sigg. Tum e Dari sostengono anzitutto che la clausola di «standstill» contenuta nell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale vale non soltanto per le condizioni di stabilimento in sé e per sé, ma anche per le condizioni relative all’ingresso ed al soggiorno. Nel diritto comunitario, queste ultime sono infatti considerate come l’inevitabile corollario della libertà di stabilimento (6). Essi riconoscono che i cittadini turchi non derivano direttamente da tale disposizione il diritto di stabilirsi o di fare ingresso in uno Stato membro; tuttavia asseriscono che, in forza della detta disposizione, la loro domanda di ottenere l’autorizzazione ad entrare nel Regno Unito per esercitare un’attività economica avrebbe dovuto essere esaminata sulla base della normativa nazionale in vigore all’epoca in cui il Regno Unito ha aderito al protocollo addizionale, ossia il 1° settembre 1973.

18.   Il sig. Tum ed il sig. Dari sostengono che nella sentenza Savas (7) la Corte ha già chiarito che tutti i cittadini turchi, anche quelli che non abbiano regolarizzato la loro presenza nel Regno Unito, possono invocare l’effetto diretto della clausola di «standstill» di cui all’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale. Essi rilevano che in tale causa la Corte non ha dovuto considerare la questione relativa all’ingresso, poiché il sig. Savas era entrato legalmente nel Regno Unito, benché la sua permanenza in tale paese fosse illegale. La Corte ha pertanto limitato il suo esame alle condizioni che consentivano all’interessato di rimanere e di stabilirsi nel Regno Unito.

19.   A sostegno ulteriore del loro argomento principale, relativo alla portata dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, i sigg. Tum e Dari osservano che, contrariamente ad altre analoghe clausole di «standstill» (8), la formulazione di tale disposizione non suggerisce affatto che l’applicazione della medesima sia limitata alle condizioni di soggiorno e di stabilimento, escludendo quindi le condizioni per l’ingresso. La clausola di «standstill» rimarrebbe priva di significato qualora agli Stati membri fosse consentito, in contrasto con gli obiettivi dell’accordo di associazione, sottoporre l’ingresso nel loro territorio a condizioni píu restrittive se non impossibili. Essi sottolineano che tale interpretazione dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non inficia la competenza degli Stati membri in ordine all’immigrazione dei cittadini turchi, ma mette semplicemente questi ultimi nella posizione che avrebbero avuto all’epoca in cui lo Stato membro interessato è diventato parte del protocollo addizionale, come esige la clausola di «standstill».

20.   Infine, replicando all’affermazione del Regno Unito secondo cui la tutela conferita dall’art. 41, n. 1, non dovrebbe venire estesa alle persone la cui domanda di asilo sia stata respinta (v. infra, paragrafo 25), i sigg. Tum e Dari segnalano che, nonostante siano fisicamente presenti nel Regno Unito, ai sensi dell’art. 11 dell’Immigration Act del 1971 essi tuttavia non hanno formalmente fatto ingresso nel Regno Unito. Stabilire se essi possano o meno essere rimandati in un altro Stato membro in forza della Convenzione di Dublino è irrilevante al fine di risolvere la questione pregiudiziale posta dalla House of Lords. Tale questione si limita infatti a chiedere di stabilire quali regole siano applicabili alle domande presentate dal sig. Tum e dal sig. Dari per ottenere un permesso d’ingresso nel Regno Unito al fine di esercitare un’attività economica.

21.   Il governo slovacco e la Commissione appoggiano ampiamente la tesi esposta dai sigg. Tum e Dari. Entrambi sostengono che, siccome l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale vieta agli Stati membri di imporre nei confronti dei cittadini turchi misure che rendano l’esercizio di un’attività economica più difficile rispetto alla situazione esistente al momento in cui il detto protocollo è entrato in vigore nello Stato membro ospitante, come corollario di tale divieto discende che gli Stati membri non possono vanificare il diritto in parola introducendo nuove restrizioni al diritto di residenza e al diritto di ingresso, giacché questi ultimi sono inscindibili dal diritto di stabilimento.

22.   La Commissione osserva che, in quanto la Corte, nella sentenza Savas, ha ammesso che una persona legalmente entrata in uno Stato membro ma priva di regolare permesso di soggiorno possa beneficiare della clausola di «standstill» contenuta nel suddetto art. 41, n. 1, sarebbe un paradosso non estendere tale beneficio ad una persona che abbia regolarmente fatto domanda di un visto d’ingresso mentre si trovava in Turchia. La Commissione aggiunge che chi facesse domanda per ottenere un visto turistico, avendo in realtà l’intenzione di esercitare un’attività economica una volta entrato nel paese ospitante, non potrebbe avvalersi della tutela garantita dall’accordo. Tuttavia, sarebbe assai difficile, se non impossibile, provare tale intenzione fraudolenta.

23.   La Commissione mette in evidenza che, sebbene la Corte abbia confermato che la decisione 1/80 non incide sulla competenza degli Stati membri a disciplinare il primo ingresso dei lavoratori turchi nel loro territorio, ciò non significa che l’accordo di associazione o il protocollo addizionale non possano in alcuna circostanza influire sul potere degli Stati membri di disciplinare l’ingresso di lavoratori turchi nei loro territori. In realtà, la competenza degli Stati membri di controllare la prima ammissione di cittadini turchi nei loro territori è stata assoggettata a limiti. Anche se dobbiamo considerare tale risultato inevitabile, la Commissione suggerisce che la Corte circoscriva l’ambito della sua risposta alle sole restrizioni che sono inevitabilmente connesse con il diritto di stabilimento, per evitare di intralciare indebitamente il diritto degli Stati membri di regolare la prima ammissione di cittadini turchi nei loro territori.

24.   Il governo del Regno Unito sostiene anzitutto che, conformemente ad una consolidata giurisprudenza della Corte, gli Stati membri continuano ad avere la facoltà di stabilire le condizioni per il primo ingresso di cittadini turchi nei loro territori. L’accordo di associazione ed il protocollo addizionale non sono intesi a conferire ai cittadini turchi diritti di stabilimento paragonabili a quelli di cui godono i cittadini dell’UE. Il Regno Unito avrebbe legittimamente modificato, nell’esercizio di tale potere, le condizioni alle quali i cittadini turchi possono entrare nel suo terriorio al fine di avviare un’impresa, anche se tale modifica ha avuto l’effetto di rendere l’ingresso nel Regno Unito più difficile rispetto al 1° gennaio 1973. Tale argomento si basa sulla sentenza Savas, nel punto in cui la Corte ha stabilito che l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale regola solo le condizioni applicabili dagli Stati membri a coloro che intendono esercitare un’attività economica dopo essere entrati in uno Stato membro con regolare permesso e che tale disposizione non incide sulla libertà degli Stati membri di stabilire le condizioni per l’ingresso di tali cittadini nel loro territorio.

25.   Il Regno Unito sostiene, in subordine, che, qualora la Corte concludesse che l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale vieta effettivamente agli Stati membri di porre nuove restrizioni all’ingresso di cittadini turchi che intendano esercitare attività economiche nel loro territorio, tale regola non si applicherebbe comunque a chi cercasse di rimanere e di esercitare un’attività economica dopo aver ricevuto un rifiuto alla domanda di asilo, potendo essere rinviato in uno altro Stato membro in forza della Convenzione di Dublino o di successiva legislazione. Al riguardo, il governo del Regno Unito rileva che i sigg. Tum e Dari hanno invocato i loro diritti ai sensi dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale solo nel momento in cui erano esposti al trasferimento in Francia e Germania. Consentire a persone che si trovano in tale situazione di tutelarsi contro un trasferimento disposto ai sensi della Convenzione di Dublino significherebbe permettere ai richiedenti asilo di paralizzare il funzionamento del sistema comune europeo di asilo. Ciò equivarrebbe ad un abuso di diritto, in quanto una persona richiedente asilo sarebbe in grado di beneficiare di diritti garantiti dalla normativa comunitaria, a motivo di un ingresso e soggiorno irregolari in uno Stato membro.

26.   Anche il governo olandese ritiene che i diritti conferiti dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale possano essere invocati solo dai cittadini turchi che si trovino in regola con le norme nazionali in materia di ingresso e soggiorno. Consentire a persone che siano entrate in uno Stato membro illegalmente e che successivamente abbiano avviato un’attività economica di avvalersi della protezione conferita dall’art. 41, n. 1, comprometterebbe l’efficacia della normativa nazionale sull’immigrazione, materia, questa, che continua a rientrare nelle competenze degli Stati membri. Tale risultato priverebbe inoltre di efficacia il sistema comunitario di asilo. Il governo olandese considera che, anche se, effettivamente, il sig. Tum e il sig. Dari avessero fatto ritorno in Turchia e presentato una nuova domanda di ingresso nel Regno Unito sulla base delle attività economiche avviate in tale paese durante il periodo di soggiorno irregolare, essi non potrebbero comunque invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale. Accogliere tale pretesa significherebbe compromettere l’efficacia e la credibilità della normativa nazionale sull’immigrazione.

V –    Valutazione

27.   Come ho già indicato all’inizio di queste conclusioni, la questione principale da risolvere nel presente procedimento è se l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, che vieta l’introduzione di nuove restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libertà di prestazione dei servizi dopo l’entrata in vigore del protocollo addizionale per lo Stato membro interessato, vieti altresí agli Stati membri di porre condizioni di ingresso più restrittive per i cittadini turchi.

28.   Tutti coloro che hanno presentato osservazioni fanno riferimento alla sentenza della Corte nella causa Savas (9), per suffragare tesi diametralmente opposte, siano esse a favore di una soluzione positiva ovvero negativa. È perciò necessario anzitutto riassumere i fatti essenziali di tale causa e la relativa sentenza della Corte.

A –    La causa Savas

29.   Il sig. Savas (10), cittadino turco, aveva ottenuto l’autorizzazione ad entrare nel Regno Unito come turista per il periodo di un mese. Il suo visto d’ingresso era accompagnato da una condizione espressa che gli vietava di prestare lavoro subordinato o di esercitare qualsiasi attività economica o professione. Nonostante il fatto che il suo visto fosse scaduto, il sig. Savas è rimasto nel Regno Unito, in violazione della legge nazionale sull’immigrazione. Alcuni anni più tardi, egli ha iniziato a gestire un’impresa di confezione di camicie senza aver mai chiesto l’autorizzazione a lavorare o ad esercitare un’attività in qualità di lavoratore autonomo. Dopo aver esercitato tale attività per qualche tempo, il sig. Savas ha sollecitato la regolarizzazione della sua posizione alle autorità nazionali competenti in materia di immigrazione. Tuttavia, la sua domanda di autorizzazione al soggiorno è stata respinta ed è stato emanato un ordine di espulsione nei suoi confronti. L’interessato si è successivamente appellato contro tale decisione, ma il suo ricorso è stato respinto.

30.   Il sig. Savas, che aveva inizialmente basato le sue domande sul solo diritto nazionale, ha successivamente invocato l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, sostenendo che la sua domanda doveva esaminata conformemente alle norme sull’immigrazione del 1973. Tale argomento è stato respinto dalle autorità competenti per l’immigrazione, con il motivo che, alla data di presentazione della domanda di regolarizzazione del suo soggiorno nel Regno Unito, il sig. Savas non era più autorizzato a rimanere e pertanto non poteva beneficiare delle norme sull’immigrazione del 1973. Il sig. Savas ha allora proposto un ricorso dinanzi alla Queen’s Bench Division della High Court of Justice. Tale giudice si è chiesto se l’accordo di associazione abbia l’effetto di conferire diritti a stranieri che, come il sig. Savas, si trovino illegalmente nel territorio di uno Stato membro, ed ha di conseguenza deciso di chiedere una pronuncia pregiudiziale della Corte di giustizia sull’effetto diretto dell’art. 41 del protocollo addizionale e sulla portata della tutela conferita da tale disposizione.

31.   Per quanto qui interessa, è necessario richiamare solo le considerazioni della Corte in merito alla portata dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale. Tuttavia, per esigenze di completezza, faccio notare che la Corte ha ammesso senza alcuna difficoltà che tale disposizione possa essere invocata nei procedimenti che si svolgono dinanzi ai giudici nazionali (11).

32.   Con riguardo alla portata dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, nelle sue osservazioni scritte il sig. Savas aveva fatto valere, in un primo momento, che la detta disposizione era tale da conferirgli direttamente un diritto di stabilimento, nonché un correlativo diritto di soggiorno, nonostante il fatto che egli avesse esercitato un’attività economica nel Regno Unito in violazione della normativa nazionale in materia di immigrazione. Tuttavia, all’udienza, egli ha abbandonato tale argomento, asserendo piuttosto che la detta disposizione gli dava il diritto di chiedere ad un giudice nazionale di verificare se la normativa interna che era stata applicata al suo caso fosse più restrittiva, con riguardo alla libertà di stabilimento e al diritto di soggiorno, di quella che era applicabile alla data dell’entrata in vigore del protocollo addizionale nel Regno Unito. Nella sentenza, la Corte si è pronunciata su entrambi gli argomenti.

33.   Il primo argomento avanzato dal sig. Savas ha fornito alla Corte l’opportunità di ricordare i principi di base stabiliti dalla sua giurisprudenza in relazione ai lavoratori turchi. Tali principi sono:

–       «allo stato attuale del diritto comunitario, le disposizioni relative all’associazione CEE-Turchia non incidono sul potere degli Stati membri di disciplinare tanto l’ingresso sul proprio territorio dei cittadini turchi quanto le condizioni della loro prima occupazione, bensì si limitano a disciplinare la posizione dei lavoratori turchi già regolarmente inseriti nel mercato del lavoro degli Stati membri (12)»;

–       «i lavoratori turchi, contrariamente ai cittadini degli Stati membri, non hanno il diritto di circolare liberamente all’interno della Comunità, ma fruiscono solo di taluni diritti nello Stato membro ospite sul cui territorio sono entrati legalmente e hanno svolto una regolare attività lavorativa durante un determinato periodo (13)»;

–       «i diritti così conferiti ai lavoratori turchi sul piano dell’occupazione implicano necessariamente, a meno di non rendere totalmente inefficace il diritto di accedere al mercato del lavoro e di esercitarvi un’occupazione, l’esistenza di un correlativo diritto di soggiorno in capo agli interessati (14)»;

–       «la regolarità dell’occupazione di un cittadino turco nello Stato membro ospitante presuppone una situazione stabile e non precaria sul mercato del lavoro di detto Stato membro ed implica pertanto un diritto di soggiorno incontestato (15)».

–       «i periodi di occupazione compiuti da un cittadino turco in possesso di un permesso di soggiorno rilasciatogli solo grazie ad un comportamento fraudolento che ha determinato la condanna dell’interessato non sono basati su una situazione stabile e debbono considerarsi effettuati in via meramente provvisoria, in quanto, durante i periodi considerati, l’interessato non aveva legalmente fruito di un diritto di soggiorno (...); [è] da escludersi che un’occupazione svolta da un cittadino turco in base ad un permesso di soggiorno ottenuto in un tale contesto di frode possa far sorgere diritti a suo vantaggio (16)».

34.   La Corte ha poi considerato che «tali principi, sanciti nell’ambito dell’interpretazione delle disposizioni dell’associazione CEE-Turchia dirette a realizzare progressivamente la libera circolazione dei lavoratori turchi nella Comunità, debbono valere altresì, in via analogica, nell’ambito delle disposizioni della detta associazione relative al diritto di stabilimento (17)».

35.   Su tale punto, la Corte ha concluso che «la clausola di “standstill” di cui all’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non è di per sé tale da conferire ad un cittadino turco il beneficio del diritto di stabilimento nonché del diritto di soggiorno che ne costituisce il corollario (18)».

36.   Il giudice comunitario ha poi proseguito nel senso che «la prima ammissione di un cittadino turco nel territorio di uno Stato membro è disciplinata esclusivamente dal diritto nazionale di detto Stato e l’interessato può far valere, in base al diritto comunitario, taluni diritti in materia di esercizio di un’occupazione o di un’attività autonoma e, correlativamente, in materia di soggiorno solo se si trova in una situazione regolare nello Stato membro interessato (19)».

37.   Alla luce della sua posizione rispetto alle norme sull’immigrazione, il sig. Savas non poteva invocare un diritto di stabilimento o di soggiorno conferitogli direttamente dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale.

38.   In risposta al secondo argomento addotto dal sig. Savas, la Corte ha ricordato di avere stabilito che l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale conferisce ai singoli diritti individuali che i giudici nazionali devono tutelare e che tale disposizione «osta all’adozione da parte di uno Stato membro di qualsiasi nuova misura che abbia per oggetto o per effetto di sottoporre lo stabilimento e, correlativamente, il soggiorno di un cittadino turco nel suo territorio a condizioni più restrittive di quelle che erano applicabili al momento dell’entrata in vigore del detto protocollo addizionale nei confronti dello Stato membro considerato (20)». Spetta al giudice nazionale stabilire se ciò si verifichi nel caso di specie.

39.   La Corte ha riassunto le conclusioni tratte in merito alla portata dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale nei seguenti termini:

–       «[L’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale] non è di per sé tale da conferire ad un cittadino turco un diritto di stabilimento e, correlativamente, un diritto di soggiorno nello Stato membro nel cui territorio egli ha risieduto e ha esercitato attività lavorative come lavoratore autonomo in violazione della normativa nazionale in materia di immigrazione.

–       Invece, l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale vieta l’introduzione di nuove restrizioni nazionali alla libertà di stabilimento e al diritto di soggiorno dei cittadini turchi a partire dalla data di entrata in vigore del detto protocollo nello Stato membro ospitante. Spetta al giudice nazionale interpretare il diritto interno per determinare se la normativa applicata al ricorrente nella causa principale sia meno favorevole di quella applicabile al momento dell’entrata in vigore del protocollo addizionale (21)».

B –    Analisi

1.      Questioni rimaste irrisolte nella sentenza Savas

40.   Come ho indicato in precedenza, i sigg. Tum e Dari, appoggiati dalla Commissione e dal governo slovacco, interpretano la sentenza della Corte nella causa Savas nel senso che un cittadino turco può invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale esigendo che alla sua situazione vengano applicate le norme in materia di stabilimento applicabili al momento dell’entrata in vigore del protocollo addizionale per il Regno Unito, a prescindere dal fatto che egli si trovi o meno in posizione regolare nel territorio di tale Stato membro. A loro avviso, le norme in materia di stabilimento includono necessariamente le condizioni di ingresso nello Stato membro interessato. Il fatto che nella citata sentenza la Corte non abbia menzionato specificamente le condizioni di ingresso puó spiegarsi in quanto il sig. Savas era entrato legalmente nel Regno Unito. Essi sostengono che le osservazioni svolte dalla Corte in merito alla competenza degli Stati membri con riguardo all’ingresso di cittadini turchi nel loro territorio devono essere considerate come la risposta della Corte al primo argomento addotto dal sig. Savas nelle osservazioni scritte e non incidono sulla risposta relativa al secondo argomento avanzato da quest’ultimo.

41.   Per contro, il governo del Regno Unito, appoggiato dal governo olandese, fa notare soprattutto come la Corte abbia sottolineato la competenza esclusiva degli Stati membri nel disciplinare le condizioni per l’ingresso di cittadini turchi nei loro territori. Un cittadino turco potrebbe avvalersi della tutela conferita dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale solo qualora sia stato ammesso nel territorio dello Stato ospitante conformemente alle disposizioni in materia di immigrazione vigenti al momento della presentazione della domanda di ingresso. Tale governo rileva che al punto 69 della sentenza Savas (citata supra, al paragrafo 38), la Corte si è riferita al solo diritto di stabilimento e, come corollario di questo, al diritto di soggiorno, quali diritti rientranti nella sfera di applicazione dell’art. 41, n. 1, senza menzionare, in tale contesto, le condizioni d’ingresso.

42.   Non sorprende il fatto che tutti coloro che hanno presentato osservazioni si richiamino alla sentenza Savas per appoggiare tesi apparentemente inconciliabili, poiché le stesse conclusioni cui la Corte è giunta in tale sentenza appaiono contraddittorie. Da un lato, la Corte sottolinea la competenza esclusiva degli Stati membri a disciplinare la prima ammissione di cittadini turchi nel loro territorio e conferma che questi ultimi possono reclamare un diritto di collocamento o un diritto di esercitare un’attività economica solo se la loro permanenza nello Stato membro ospitante è regolare. Dall’altro, essa riconosce che un cittadino turco possa invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale per evitare che vengano applicate alla sua situazione condizioni di stabilimento e di soggiorno più restrittive di quelle applicabili al momento in cui il protocollo addizionale è entrato in vigore nello Stato membro ospitante, anche se la persona interessata si trovi illegalmente all’interno di tale paese. Se è vero che un cittadino turco può reclamare un diritto ad esercitare un’attività economica in forza della normativa nazionale solo quando si trova in una situazione regolare in tale Stato membro, perché mai – ci si potrebbe chiedere – egli dovrebbe avere il diritto di far esaminare la sua domanda di ingresso ai sensi della precedente legislazione, più generosa della attuale, anche qualora si trovi nello Stato membro ospitante in violazione della normativa nazionale in materia di immigrazione?

43.   Ad ogni modo, è chiaro che nella sentenza Savas la Corte non si è pronunciata direttamente sulla questione se un cittadino turco possa invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale per ottenere un permesso per entrare in uno Stato membro al fine di esercitare un’attività economica. Il problema sul quale tale causa verteva riguardava il fatto che, dopo essere entrato legalmente nel Regno Unito, il sig. Savas vi era rimasto in violazione della normativa nazionale in materia di immigrazione. Al contrario, i sigg. Tum e Dari, sebbene fossero fisicamente presenti nel Regno Unito, non erano ancora entrati, giuridicamente, in tale paese, trovandosi solamente in una situazione di ammissione temporanea.

44.   I due approcci seguiti dai partecipanti al presente procedimento corrispondono a due questioni, diverse ma collegate, riguardanti l’interpretazione dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, che la sentenza Savas ha lasciato irrisolte:

1)      se la circostanza che il cittadino turco interessato sia entrato legalmente nel territorio dello Stato membro interessato costituisca una condizione preliminare per invocare la tutela garantita dalla suddetta disposizione;

2)      se il concetto di «libertà di stabilimento» ai sensi di tale disposizione comprenda le condizioni di ingresso in uno Stato membro.

2.      Il soggiorno regolare come condizione preliminare per invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale

45.   Di norma, la disciplina dell’immigrazione di cittadini di Stati terzi, inclusi i cittadini turchi, continua a rientrare nelle competenze degli Stati membri, nei limiti in cui le legislazioni nazionali in materia di immigrazione non siano state oggetto di misure di armonizzazione adottate ai sensi dell’art. 63, primo comma, punto 3, CE (22) e tali misure siano applicabili allo Stato membro interessato (23). Ciò implica che gli Stati membri hanno il diritto di stabilire le condizioni per l’ammissione dei cittadini di Stati terzi nel loro territorio e, più precisamente, hanno il diritto di ammetterli solo dopo aver valutato la situazione individuale della persona interessata ed i motivi che la spingono a chiedere di entrare nel suo territorio.

46.   Il principio secondo il quale gli Stati membri mantengono le rispettive competenze per quanto riguarda la disciplina dell’immigrazione dei cittadini turchi è stato sottolineato dalla Corte in un consolidato filone giurisprudenziale riguardante tanto i lavoratori subordinati turchi quanto i cittadini turchi impegnati nell’esercizio di attività autonome. Si può fare riferimento, in proposito, alle considerazioni svolte dalla Corte nella sentenza Savas, citate supra, al paragrafo 33, che sono state poi confermate in occasione della sentenza resa nella causa Abatay e Sahin (24). Di conseguenza, gli Stati membri sono competenti a decidere sull’ammissione di cittadini turchi nel loro territorio conformemente ai criteri stabiliti dalla legislazione nazionale in materia di immigrazione.

47.   Tale punto è pacifico tra le parti del procedimento principale. La questione controversa consiste invece nello stabilire se, al fine di invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, costituisca una condizione preliminare il fatto che il cittadino turco interessato sia stato legalmente ammesso e soggiorni legalmente nello Stato membro ospitante. In altre parole, è condizione necessaria che l’interessato abbia ottenuto l’ingresso nel territorio dello Stato membro ospitante conformemente al diritto interno sull’immigrazione prima di avere accesso al mercato nazionale del lavoro in tale Stato membro al fine di esercitare un’attività economica come lavoratore subordinato o autonomo?

48.   Su tale punto la Corte, sempre nella sentenza Savas, ha statuito inequivocabilmente che i cittadini turchi possono far valere taluni diritti di carattere economico nello Stato membro ospitante solo se si trovano in una situazione regolare in tale Stato membro (25). Di per sé, l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non conferisce direttamente ai cittadini turchi diritti di carattere economico, ma stabilisce soltanto che i diritti che possono essere reclamati da tali cittadini nello Stato membro ospitante devono essere determinati in base alla normativa nazionale esistente al momento dell’entrata in vigore del protocollo addizionale nello Stato membro interessato. Ciononostante, poiché esiste innegabilmente una componente sostanziale nella determinazione della legge applicabile ad una domanda di autorizzazione all’esercizio di attività economiche in uno Stato membro, in quanto tale decisione, a sua volta, determina la portata dei diritti di cui potrà potenzialmente beneficiare l’interessato in forza della normativa nazionale, non vi è ragione per cui la regola stabilita nella sentenza Savas, che richiede la previa ammissione legale nel paese ospitante e la regolarità del soggiorno del cittadino turco interessato, non debba valere anche nel caso dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale.

49.   In realtà, questa sembra l’unica chiave di lettura capace di dare alla sentenza Savas un’interpretazione coerente. Dobbiamo presumere che, laddove la Corte ha indicato che spettava al giudice nazionale stabilire se la normativa interna applicata al sig. Savas dalle autorità competenti avesse la conseguenza di aggravarne la situazione rispetto alle norme sull’immigrazione del 1973 (26), tale affermazione si riferisca unicamente alla situazione successiva all’ottenimento da parte del sig. Savas di un regolare permesso di entrare nel Regno Unito per svolgervi attività economiche. Il fatto che l’interessato avesse ottenuto il permesso di entrare nel paese con un visto turistico non può considerasi sufficiente al riguardo, in quanto lo stabilimento implica, per definizione, una permanenza per un periodo prolungato. Se, invece, si dovesse leggere il suddetto passo nel senso che la Corte abbia inteso escludere l’applicazione di tale condizione al sig. Savas, tale conclusione metterebbe quest’ultimo – e gli altri cittadini turchi che si trovano nel Regno Unito in violazione delle norme nazionali sull’immigrazione – in una posizione più vantaggiosa rispetto ai cittadini turchi che richiedono un permesso per entrare nel Regno Unito, a scopo di stabilimento, in conformità delle vigenti norme in materia d’immigrazione. L’intenzione della Corte non poteva essere tale. Il diritto comunitario non può essere interpretato ed applicato in modo da facilitare e perfino incoraggiare l’elusione delle disposizioni nazionali che, per di più, appartengono ancora alla sfera di competenza esclusiva degli Stati membri.

50.   È stato poi asserito che, rispetto ad altre clausole di «standstill» –come l’art. 13 della decisione 1/80 –, l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non pone restrizioni o condizioni alla sua applicazione. Si ricorderà che l’art. 13 della decisione 1/80 vieta agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni sulle condizioni di accesso all’occupazione dei cittadini turchi e dei loro familiari che si trovino nei loro territori «in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione».

51.   Non trovo convincente tale argomento. L’art. 13 della decisione 1/80 costituisce una delle disposizioni specifiche adottate dal consiglio di associazione sulla base dell’art. 36 del protocollo addizionale, che prevede che il consiglio di associazione adotti misure per la realizzazione graduale della libera circolazione dei lavoratori tra gli Stati membri e la Repubblica di Turchia. Fino ad oggi non è stata approvata alcuna disposizione simile riguardante i cittadini turchi che intendano esercitare attività economiche negli Stati membri. I loro diritti sono interamente determinati dalla clausola di «standstill» di cui all’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale. Sarei del parere che in tale situazione, considerato che in materia di libertà di stabilimento mancano disposizioni specifiche paragonabili alla precedente, tale mancanza non può significare che i diritti dei cittadini turchi intenzionati a stabilirsi in uno Stato membro per esercitarvi un’attività economica in qualità di lavoratori autonomi abbiano portata maggiore dei diritti di cui godono i cittadini turchi che chiedano di accedere al mercato del lavoro per esercitare un’attività economica – magari la stessa – in un rapporto di lavoro subordinato. Invece di differenziare in tal senso le disposizioni relative ai lavoratori subordinati ed autonomi, c’è piuttosto bisogno di interpretare tali disposizioni in maniera uniforme. Ciò è ancor più vero in quanto gli interessi degli Stati membri con riferimento all’ammissione di entrambe le categorie di lavoratori turchi sono simili, se non identici.

52.   Per tutte le suesposte ragioni, ritengo che, come condizione preliminare affinché i cittadini turchi possano legittimamente avvalersi della tutela garantita dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale al fine di chiedere che le loro domande di stabilimento in uno Stato membro vengano esaminate alla luce della normativa esistente al momento dell’entrata in vigore del protocollo addizionale nello Stato membro ospitante, gli interessati devono essere stati ammessi legalmente in tale Stato membro ed avere ottenuto un regolare permesso di soggiorno, conformemente alle disposizioni nazionali in materia di immigrazione.

3.      Se la libertà di stabilimento applicata nel contesto dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale includa il diritto di entrare in uno Stato membro

53.   Coloro che si sono espressi a favore di una soluzione affermativa della questione preliminare posta dalla House of Lords fanno riferimento all’art. 13 dell’accordo di associazione, il quale stabilisce che, per eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento tra le parti contraenti, queste ultime si ispirano all’art. 43 CE. Nella giurisprudenza sull’art. 43 CE la Corte ha costantemente affermato che l’esercizio della libertà di stabilimento tra Stati membri presuppone necessariamente il diritto di ingresso nello Stato membro ospitante (27). Gli stessi sostengono che la suddetta conclusione deve applicarsi anche nell’ambito dell’accordo di associazione.

54.   Esse sottolineano inoltre che nella sentenza Barkoci e Malik (28), in una causa che riguardava la libertà di stabilimento nel contesto dell’accordo di associazione con la Repubblica ceca, la Corte, riferendosi alla sua precedente giurisprudenza sulle disposizioni del Trattato CE e dell’accordo di associazione con la Turchia, ha ricordato che «il diritto al trattamento nazionale per quanto attiene allo stabilimento (...), implica certamente l’attribuzione di un diritto di ingresso e di un diritto di soggiorno, quale corollario del diritto di stabilimento, ai cittadini cechi che intendano svolgere attività di carattere industriale, commerciale, artigianale o attività di lavoro autonomo in uno Stato membro (29)».

55.   Ritengo tuttavia discutibile che i principi applicabili in relazione al diritto di stabilimento all’interno della Comunità possano essere trasferiti senza ulteriori precisazioni all’esercizio di tale libertà da parte di cittadini di Stati terzi nel contesto delle relazioni tra tali Stati e la Comunità. Le norme ed i principi applicabili alla libertà di stabilimento all’interno della Comunità derivano dall’obiettivo fondamentale di quest’ultima di instaurare un mercato interno, che, come si può ricordare, ai sensi dell’art. 14 CE «comporta uno spazio senza frontiere interne, nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali secondo le disposizioni del [Trattato CE]». In considerazione di tale obiettivo, il diritto di entrare in uno Stato membro con l’intenzione di esercitare le libertà garantite dal Trattato CE è essenziale. Se gli Stati membri avessero il potere di condizionare l’ingresso dei cittadini di altri Stati membri nel loro territorio, la realizzazione del mercato interno diventerebbe puramente illusoria.

56.   L’obiettivo dell’associazione con la Turchia è alquanto diverso. Ai sensi dell’art. 2, n. 1, dell’accordo di associazione, tale strumento ha lo scopo di «promuovere un rafforzamento continuo ed equilibrato delle relazioni commerciali ed economiche tra le Parti, tenendo pienamente conto della necessità di assicurare un più rapido sviluppo dell’economia turca ed il miglioramento del livello dell’occupazione e del tenore di vita del popolo turco». In ultima istanza, l’accordo mira ad elevare il livello di vita del popolo turco al fine di facilitare l’adesione in un momento successivo della Repubblica di Turchia alla Comunità (30).

57.   Fino ad oggi, la cooperazione tra la Comunità e la Turchia ha portato all’instaurazione di un’unione doganale, ma non di un mercato comune o interno, caratterizzato dall’eliminazione delle frontiere interne. A differenza delle unioni doganali, che si limitano a liberalizzare gli scambi di beni tra gli Stati interessati, un mercato comune è volto a realizzare la libera circolazione dei beni, dei servizi e dei fattori di produzione. Di conseguenza, esso deve assicurare il libero movimento dei lavoratori, dei capitali e la libertà di stabilimento. Le pertinenti disposizioni contenute nell’accordo di associazione e nel protocollo addizionale sono di carattere principalmente programmatico e costituiscono solo il punto di partenza per una futura liberalizzazione. Anche laddove siano state concordate disposizioni più specifiche, come nel caso della libera circolazione dei lavoratori (art. 6 e segg. della decisione 1/80), tali disposizioni non sarebbero comparabili ai paralleli diritti garantiti dal Trattato CE (art. 39 CE e regolamento n. 1612/68). In mancanza di disposizioni simili volte a realizzare la libertà di stabilimento, è a fortiori evidente che non si possa effettuare un parallelo tra le norme in materia di stabilimento nel contesto dell’accordo di associazione e l’art. 43 CE. Più precisamente, poiché le frontiere tra la Comunità e la Turchia non sono state eliminate al fine di assicurare la libera circolazione delle persone come nel mercato interno della Comunità, il diritto di ingresso in uno Stato membro non può essere considerato una condizione preliminare necessaria per l’esercizio dei diritti pertinenti allo stabilimento nell’ambito dell’accordo di associazione con la Turchia.

58.   Una seconda differenza tra le disposizioni sulla libertà di stabilimento contenute nel Trattato CE e quanto previsto dall’accordo di associazione e dal protocollo addizionale consiste nel fatto che, mentre le prime conferiscono un diritto di stabilimento che può essere fatto valere direttamente dinanzi ai giudici nazionali, i cittadini turchi non possono derivare un diritto di stabilimento direttamente dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, come la Corte ha chiarito nella sentenza Savas. Essi possono invocare tale disposizione solo allo scopo di assicurare che vengano loro applicate le norme nazionali in materia di stabilimento esistenti al momento in cui il protocollo addizionale è entrato in vigore nello Stato membro ospitante. Ciò significa che gli Stati membri erano autorizzati ad applicare tali norme nazionali sullo stabilimento ai cittadini turchi, indipendentemente dalla circostanza che esse potessero essere giustificate o meno qualora applicate nel contesto del Trattato CE. Tale differenza considerevole tra la natura del diritto di stabilimento ai sensi del Trattato CE e dell’accordo di associazione costituisce la seconda ragione per cui non è evidente che le interpretazioni dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale e dell’art. 13 dell’accordo di associazione, da un lato, e dell’art. 43 CE, dall’altro, possano convergere.

59.   Considerato che, contrariamente ai cittadini degli Stati membri, i cittadini turchi non godono di un diritto di stabilimento negli Stati membri in maniera diretta ed automatica, ne discende necessariamente che i secondi non hanno un diritto implicito o derivato di entrare nel territorio di uno Stato membro per esercitarvi un’attività economica. Al di fuori del contesto della circolazione intra-comunitaria, la questione dell’accesso al territorio di uno Stato membro dev’essere tenuta distinta dalla questione dell’accesso al mercato del lavoro in tale Stato membro. Il diritto di entrare in uno Stato membro non può essere considerato come l’inevitabile corollario della libertà di stabilimento nell’ambito dell’accordo di associazione con la Turchia. Ciò significa che le norme regolanti l’ingresso di cittadini turchi nel territorio degli Stati membri non rientrano nell’ambito di applicazione ratione materiae dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale e, di conseguenza, possono essere adeguate, o rese più restrittive, dagli Stati membri, in considerazione degli interessi socio-economici e demografici di questi ultimi.

60.   È vero che nella sentenza Barkoci e Malik la Corte ha indicato che, conformemente alla sua giurisprudenza sulla libertà di stabilimento affermata nell’ambito dell’interpretazione del Trattato CE e dell’accordo di associazione con la Turchia, la libertà di stabilimento implica il diritto di ingresso e il diritto di soggiorno a titolo di corollari. In tale contesto, la Corte ha fatto riferimento, con riguardo ai cittadini turchi, alla sentenza Savas. Tuttavia, i punti citati dalla Corte (31) in tale occasione si riferiscono unicamente ad un diritto di soggiorno come corollario del diritto di stabilimento, e non menzionano affatto l’ingresso. Senza dubbio, come ho osservato supra, la sentenza Savas non ha toccato direttamente la questione dell’ingresso dei cittadini turchi, giacché, non era in discussione in tale procedimento. Il diritto dei cittadini di Stati terzi di entrare nel territorio degli Stati membri è totalmente distinto dal diritto di soggiorno finalizzato all’esercizio della libertà di stabilimento e non si può semplicemente ritenere che il primo sia implicito nella libertà di stabilimento, senza ulteriori spiegazioni da parte della Corte. Il riferimento, nella sentenza Barkoci e Malik, al diritto di ingresso come corollario della libertà di stabilimento dei cittadini turchi non è pertanto supportato dalla giurisprudenza della Corte.

61.   Concludo pertanto nel senso che il concetto di libertà di stabilimento cui si riferisce l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non include le condizioni che disciplinano l’ingresso dei cittadini turchi negli Stati membri. Ciò significa che tale disposizione non può essere invocata da un cittadino turco allo scopo di evitare l’applicazione di condizioni di ingresso più severe di quelle esistenti al momento in cui è entrato in vigore il protocollo addizionale nello Stato membro interessato.

4.      Problema derivante dal fatto che la normativa in materia di immigrazione prevede condizioni per lo stabilimento

62.   Se i cittadini turchi non possono invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale per opporsi all’applicazione di condizioni di immigrazione più restrittive, ma si limita a tutelare tali cittadini contro l’applicazione di criteri più severi in materia di stabilimento, ci si chiede allora come debbano essere applicati tali principi a disposizioni come quelle controverse del Regno Unito in materia di immigrazione, considerato il fatto che tali disposizioni hanno l’effetto di far dipendere la decisione sull’ingresso, nel Regno Unito, di cittadini turchi che intendano esercitare un’attività economica in tale paese dall’osservanza delle norme in materia di stabilimento applicabili in tale Stato membro.

63.   Prima di rispondere a tale questione occorre sottolineare, ancora una volta che, allo stato attuale del diritto comunitario, gli Stati membri mantengono le rispettive competenze in materia di immigrazione e sono pertanto liberi di disciplinare la prima ammissione di cittadini di Stati terzi nel loro territorio. Poi, come ho concluso poc’anzi, i cittadini turchi possono far valere diritti di carattere economico nell’ambito dell’accordo di associazione con la Turchia solo se sono stati legalmente ammessi e se il loro soggiorno nel territorio dello Stato membro è in regola con le condizioni e le procedure di immigrazione ivi applicabili. Invece, i diritti di carattere economico che possono eventualmente essere conferiti ai cittadini turchi in tale ambito non possono venire invocati per far valere un diritto di ingresso in uno Stato membro.

64.   È un dato di fatto che da quando l’Europa occidentale ha attraversato un periodo di stagnazione economica, negli anni settanta, gli Stati membri hanno adottato politiche dell’immigrazione più restrittive nei confronti dei cittadini di Stati terzi, inclusa la Turchia. Dalla prospettiva del diritto comunitario, tale evoluzione si è svolta senza suscitare particolari polemiche, a causa del fatto che la politica dell’immigrazione è interamente affidata agli Stati membri. Nel contesto delle loro rispettive politiche dell’immigrazione, oltre ad applicare criteri relativi all’ordine pubblico, gli Stati membri possono adottare criteri relativi ai motivi per i quali viene chiesto l’ingresso nel loro territorio, per esempio studio, impiego o stabilimento, e possono verificare la conformità con tali criteri prima di concedere il permesso d’ingresso. Così gli Stati membri sono in grado non soltanto di salvaguardare gli obiettivi di politica nazionale, ma altresí di assicurare che il cittadino dello Stato terzo richiedente il permesso possa raggiungere gli obiettivi e che le sue intenzioni siano serie. In tale contesto, è evidente che una domanda diretta ad ottenere l’autorizzazione per entrare nel territorio di uno Stato membro a fini di stabilimento richiede un esame più attento rispetto alla domanda di un visto turistico e che quest’ultimo non può essere usato come fondamento per svolgere attività che non erano previste tra i motivi del suo rilascio. La competenza esclusiva di cui godono gli Stati membri nel disciplinare l’immigrazione dei cittadini di Stati terzi implica che i primi possano legittimamente adeguare i criteri per il rilascio del permesso di ingresso nei loro territori alle esigenze di ordine pubblico nonché all’evoluzione dei loro interessi di carattere socio-economico e demografico e che infine, ove necessario, possano introdurre criteri più severi.

65.   Alla luce di tali principi, dobbiamo riconoscere che un cittadino turco non può invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale per richiedere che la sua domanda di ingresso nel territorio di uno Stato membro allo scopo di esercitare un’attività economica venga esaminata conformemente ai criteri applicabili al momento in cui il protocollo addizionale è entrato in vigore nello Stato membro interessato. Se tale diritto venisse riconosciuto, ciò lederebbe la competenza esclusiva degli Stati membri a disciplinare la prima ammissione dei cittadini turchi, riconosciuta dalla Corte nella sentenza Savas. Siffatta competenza non include solamente il potere di esaminare le domande di ingresso, ma anche il potere di adattare i criteri di valutazione. In un settore come quello della politica dell’immigrazione, il diritto comunitario dev’essere interpretato ed applicato in modo tale da garantire che le competenze proprie degli Stati membri possano essere effettivamente esercitate (32).

66.   Si potrebbe aggiungere che, quando, da un punto di vista economico, sia irrilevante il fatto che i cittadini turchi svolgano le suddette attività economiche nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato o in qualità di lavoratori autonomi, è illogico ritenere che gli Stati membri siano soggetti ad una clausola di «standstill» con riguardo all’ammissione di questi ultimi, ma non dei primi.

67.   Mi rendo conto del fatto che tale approccio provoca de facto la conseguenza che i cittadini turchi che intendono avviare un’attività economica in uno Stato membro debbano conformarsi a criteri più restrittivi rispetto a quelli applicabili al momento in cui il protocollo addizionale è entrato in vigore nello Stato membro ospitante. Tuttavia, tale risultato costituisce l’inevitabile conseguenza della ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e la Comunità in materia di immigrazione. Un cittadino turco, una volta che sia stato ammesso nel territorio di uno Stato membro, potrà far valere la tutela garantita dall’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale per contestare l’applicazione di qualsiasi altra condizione di stabilimento che, nel frattempo, sia stata resa più restrittiva. Siffatto diritto è particolarmente importante per i cittadini turchi che siano stati ammessi nel territorio di uno Stato membro come lavoratori subordinati e che decidano dopo qualche tempo di esercitare un’attività autonoma, potendo quindi fruire di condizioni di stabilimento meno restrittive. Mi sembra che questo sia lo scopo principale dell’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale.

68.   Tali considerazioni mi portano a concludere che l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale non si applica a norme in materia di immigrazione come quelle controverse nel procedimento principale.

5.      Diniego di asilo

69.   Per il caso in cui la Corte non condividesse tale opinione, occorre prendere in esame l’argomento formulato in subordine dal Regno Unito, secondo cui le persone la cui domanda di asilo sia stata respinta non dovrebbero avere il diritto di invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale, poiché ciò equivarrebbe ad un abuso di diritto.

70.   Al riguardo è importante sottolineare come, tanto una decisione che nega l’asilo ad un cittadino turco e che, di conseguenza, dispone il trasferimento dell’interessato in un altro Stato membro conformemente al sistema comunitario in materia di asilo, quanto una decisione con cui uno Stato membro rifiuti di ammettere nel suo territorio un cittadino turco che voglia esercitare un’attività economica, siano basate sul diritto nazionale. L’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale stabilisce unicamente a quale legge ratione temporis debba uniformarsi la seconda decisione, ma non conferisce un autonomo diritto di stabilimento.

71.   Senza che sia necessario valutare se il tentativo di invocare l’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale da parte dei sigg. Tum e Dari equivalga o meno ad un abuso di diritto, se la Corte decidesse che costoro hanno il diritto di richiedere che le loro domande vengano esaminate ai sensi delle norme sull’immigrazione del 1973, tale conclusione non inficerebbe in alcun modo – almeno dalla prospettiva del diritto comunitario – la validità della decisione iniziale presa dalle autorità dell’immigrazione del Regno Unito in merito alla domanda di asilo degli interessati.

72.   Anche qualora le dette domande fossero conformi ai criteri stabiliti dalle norme sull’immigrazione del 1973, non bisogna dimenticare che gli interessati erano in grado di conformarsi a tale normativa solo grazie ad attività che avevano intrapreso in un periodo in cui non erano stati formalmente ammessi nel territorio del Regno Unito e si trovavano in una situazione giuridicamente irregolare. Una situazione fattuale creatasi durante tale periodo di soggiorno illegale non può, a mio parere, costituire una base idonea a far sorgere diritti economici legati allo stabilimento né il diritto di richiedere che la propria domanda di accesso ai mercati nazionali venga esaminata alla luce di disposizioni nazionali più favorevoli, che sono state nel frattempo sostituite. Le domande di autorizzazione ad entrare in uno Stato membro per esercitarvi un’attività economica presentate da cittadini turchi che in precedenza siano entrati e/o abbiano soggiornato nel detto Stato membro in violazione della normativa nazionale in materia di immigrazione devono essere considerate sullo stesso piano delle analoghe domande presentate da altri cittadini turchi che chiedono di essere ammessi in conformità della medesima normativa nazionale. Sulla compatibilità di tale conclusione con la sentenza Savas, rinvio alle osservazioni svolte supra, al paragrafo 49.

VI – Conclusione

73.   Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo che la questione posta dalla House of Lords debba essere risolta nel seguente modo:

«L’art. 41, n. 1, del protocollo addizionale allegato all’accordo di associazione firmato a Bruxelles il 23 novembre 1970, non impedisce ad uno Stato membro di introdurre nuove restrizioni, a partire dalla data in cui il detto protocollo è entrato in vigore in tale Stato membro, in ordine alle condizioni ed alle procedure per l’ingresso nel suo territorio di un cittadino turco che intenda esercitare un’attività economica in tale Stato membro».


1 – Lingua originale: l'inglese.


2 – GU 1964, n. 217, pag. 3685.


3 – GU L 293, pag. 1.


4 –      In seguito alla rinumerazione del Trattato CE operata dal Trattato di Amsterdam, tale disposizione si riferisce attualmente agli artt. 43 CE-46 CE e 48 CE.


5 – Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle Comunità europee, firmata a Dublino il 15 giugno 1990 (in prosieguo, la «Convenzione di Dublino»; GU 1997, C 254, pag. 1). Tale Convenzione è stata sostituita dal regolamento (CE) del Consiglio 18 febbraio 2003, n. 343, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (GU L 50, pag. 1).


6 – Essi fanno riferimento alle sentenze 8 aprile 1976, causa 48/75, Royer (Racc. pag. 497, punto 50), 20 maggio 1992, causa C-106/91, Ramrath (Racc. pag. I‑3351, punto 17), 12 dicembre 1990, cause riunite C‑100/89 e C‑101/89, Kaefer e Procacci (Racc. pag. I‑4647, punto 15), e 27 settembre 2001, causa C‑257/99, Barkoci e Malik (Racc. pag. I‑6557, punto 44).


7 – Sentenza 11 maggio 2000, causa C‑37/98 (Racc. pag. I‑2927).


8 – Essi si riferiscono all’art. 13 della decisione del consiglio di associazione 19 settembre 1980, n. 1/80, relativa allo sviluppo dell’associazione, in cui si legge: «Gli Stati membri della Comunità e la Turchia non possono introdurre nuove restrizioni sulle condizioni d'accesso all'occupazione dei lavoratori e dei loro familiari che si trovino sui loro rispettivi territori in situazione regolare quanto al soggiorno e all’occupazione» (Il corsivo è mio; in prosieguo: la «decisione 1/80»).


9 – Cit. supra, alla nota 7.


10 – In verità, il sig. Savas era accompagnato dalla moglie quando è entrato nel Regno Unito. Tuttavia, per semplificare questa esposizione, ho preferito descrivere i fatti al singolare.


11 – Punti 46-54 della sentenza.


12 – Punto 58 della sentenza Savas.


13 – Ibidem, punto 59.


14 – Ibidem, punto 60.


15 – Ibidem, punto 60.


16 – Ibidem, punti 61 e 62.


17 – Ibidem, punto 63.


18 – Ibidem, punto 64.


19 – Ibidem, punto 65.


20 – Ibidem, punto 69.


21 – Ibidem, punto 71, terzo e quarto trattino del dispositivo.


22 – Sulla base di tale disposizione è stata adottata una serie di provvedimenti a livello comunitario riguardanti l’ammissione dei cittadini di paesi terzi per motivi specifici. V., per esempio, direttiva del Consiglio 13 dicembre 2004, 2004/114/CE, relativa alle condizioni di ammissione dei cittadini di paesi terzi per motivi di studio, scambio di alunni, tirocinio non retribuito o volontario (GU L 375, pag. 12), e direttiva del Consiglio 12 ottobre 2005, 2005/71/CE, relativa a una procedura specificamente concepita per l’ammissione di cittadini di paesi terzi a fini di ricerca scientifica (GU L 289, pag. 15).


23 – In conformità degli artt. 1 e 2 del protocollo sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda, allegato al Trattato sull’Unione europea ed al Trattato che istituisce la Comunità europea, nessuna delle direttive di cui alla nota precedente si applica al regno Unito.


24 – Sentenza 21 ottobre 2003, cause riunite C-317/01 e C‑369/01 (Racc. pag. I‑12301, punto 65).


25 – Sentenza Savas (punto 65), cit. supra al paragrafo 36.


26 – Sentenza Savas (punto 70).


27 – V. giurisprudenza cit. supra, alla nota 6.


28 – Cit. supra, alla nota 6.


29 – Ibidem, punto 50.


30 – Quarto ‘considerando’ ed art. 28 dell’accordo di associazione.


31 – Punti 60 e 63, cit. supra, ai paragrafi 33 e 34.


32 – Si vedano, in tal senso, le mie conclusioni del 27 aprile 2006 nella causa C-1/05, Jia (paragrafo 63).

Top