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Document 62003CC0453

Conclusioni dell'avvocato generale Tizzano del 7 aprile 2005.
The Queen, su richiesta di ABNA Ltd e altri contro Secretary of State for Health e Food Standards Agency (C-453/03), Fratelli Martini & C. SpA e Cargill Srl contro Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e altri (C-11/04), Ferrari Mangimi Srl e Associazione nazionale tra i produttori di alimenti zootecnici (Assalzoo) contro Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e altri (C-12/04) e Nederlandse Vereniging Diervoederindustrie (Nevedi) contro Productschap Diervoeder (C-194/04).
Domande di pronuncia pregiudiziale: High Court of Justice (England & Wales), Queen's Bench Division (Administrative Court) (C-453/03) - Regno Unito, Consiglio di Stato (C-11/04 e C-12/04) - Italia e Rechtbank 's-Gravenhage (C-194/04) - Paesi Bassi.
Polizia sanitaria - Mangimi composti per animali - Indicazione dell'esatta percentuale dei componenti di un prodotto - Violazione del principio di proporzionalità.
Cause riunite C-453/03, C-11/04, C-12/04 e C-194/04.

Raccolta della Giurisprudenza 2005 I-10423

ECLI identifier: ECLI:EU:C:2005:202

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

ANTONIO TIZZANO

presentate il 7 aprile 2005 (1)

Causa C-453/03

ABNA Ltd e altri

contro

Secretary of State for HealtheFood Standards Agency

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla High Court of Justice, Queen's Bench (Regno Unito)]

e

Cause riunite C-11/04 e C-12/04

Fratelli Martini & C. SpAeCargill srl

contro

Ministero delle Politiche agricole e forestaliMinistero delle Attività produttiveMinistero della salute

e

Ferrari Mangimi srleAssociazione nazionale produttori alimenti zootecnici– Assalzoo

contro

Ministero delle Politiche agricole e forestaliMinistero delle Attività produttiveMinistero della salute

[domande di pronuncia pregiudiziale, proposte dal Consiglio di Stato]

 e

Causa C-194/04

Nederlandse Vereniging Diervoederindustrie Nevedi

contro

Productschap Diervoeder

[domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dal Rechtbank te 's-Gravenhage (Paesi Bassi)]

«Direttiva n. 2002/2/CE – Mangimi composti per animali – Materie prime – Obbligo di indicazione quantitativa dettagliata sull'etichetta e al cliente – Validità – Elenco di materie prime utilizzabili – Assenza – Provvedimenti nazionali d'attuazione – Sospensione cautelare – Competenza delle autorità amministrative»





1.     Con distinte ordinanze (2) tre giudici di altrettanti Stati membri (la High Court of Justice, Queen’s Bench Division, del Regno Unito, il Consiglio di Stato italiano e il Rechtbank te ‘s-Gravenhage dei Paesi Bassi) hanno chiesto alla Corte di pronunciarsi, ai sensi dell’art. 234 CE, sulla validità della direttiva 2002/2/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che modifica la direttiva 79/373/CEE del Consiglio relativa alla circolazione dei mangimi composti per animali e che abroga la direttiva 91/357/CEE della Commissione (in prosieguo: la «direttiva 2002/2» o semplicemente la «direttiva») (3).

2.     In particolare, tutti i giudici richiamati vogliono sapere se, avendo imposto ai produttori di mangimi l’obbligo di indicare – sull’etichetta e al cliente dietro sua richiesta – i quantitativi delle materie prime impiegate nei loro prodotti, la direttiva citata sia invalida perché basata su una base giuridica scorretta o comunque perché contraria al principio di proporzionalità e al diritto fondamentale di proprietà. Il giudice italiano ha inoltre interrogato la Corte sulla validità della direttiva alla luce dei principi di precauzione e di non discriminazione, mentre quello olandese ha evocato al riguardo anche il principio della libertà d’impresa.

3.     Infine, il Consiglio di Stato e il Rechtbank te ‘s-Gravenhage hanno altresì posto alcuni quesiti interpretativi. Il primo, sempre con specifico riferimento alla direttiva, ha chiesto se essa sia applicabile in assenza di un apposito elenco delle materie prime utilizzabili nei mangimi composti; il secondo invece, più in generale, se le autorità amministrative nazionali possano, al pari di quelle giurisdizionali, sospendere in via cautelare l’esecuzione di provvedimenti interni che attuano disposizioni comunitarie di dubbia validità.

I –    Normativa comunitaria

A –    L’art. 152 CE

4.     Fino al Trattato di Amsterdam, le misure in materia di politica agricola comune, che perseguivano anche finalità di tutela della salute pubblica, dovevano essere adottate, secondo la procedura di consultazione, sulla base dell’art. 37 CE.

5.     Dall’entrata in vigore di detto Trattato, alcune di quelle misure possono essere basate sull’art. 152 CE che, a seguito delle modifiche introdotte così dispone:

«1.      Nella definizione e nell’attuazione di tutte le politiche ed attività della Comunità è garantito un livello elevato di protezione della salute umana.

L’azione della Comunità, che completa le politiche nazionali, si indirizza al miglioramento della sanità pubblica, alla prevenzione delle malattie e affezioni e all’eliminazione delle fonti di pericolo per la salute umana. Tale azione comprende la lotta contro i grandi flagelli, favorendo la ricerca sulle loro cause, la loro propagazione e la loro prevenzione, nonché l’informazione e l’educazione in materia sanitaria.

(…)

4.      Il Consiglio, deliberando secondo la procedura di cui all’articolo 251 e previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni, contribuisce alla realizzazione degli obiettivi previsti dal presente articolo, adottando:

(…)

b)      in deroga all’articolo 37, misure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo primario (4) sia la protezione della sanità pubblica;

(…)».

B –    La disciplina comunitaria sull’etichettatura dei mangimi composti per animali e la direttiva 2002/2/CE

6.     La produzione e la commercializzazione dei mangimi composti per animali sono disciplinate dalla direttiva 79/373/CEE del Consiglio, del 2 aprile 1979 (in prosieguo: la «direttiva 79/373») (5).

7.     Questa è stata a più riprese modificata da varie direttive, in particolare nella parte, che qui più interessa, relativa all’etichettatura dei mangimi composti destinati ad animali da reddito.

8.     Una prima modifica al riguardo si è avuta con la direttiva 90/44/CE (in prosieguo: la «direttiva 90/44») (6). Essa armonizzava i requisiti di etichettatura secondo il sistema della «dichiarazione flessibile» (ottavo ‘considerando’), in base al quale il responsabile dell’etichetta doveva enumerare le materie prime impiegate in ordine decrescente in rapporto al peso, senza tuttavia doverne precisare le quantità. Inoltre, esso poteva scegliere se designare dette materie con il loro nome specifico oppure con la denominazione generica della categoria d’appartenenza (art. 1 punto 5).

9.     Le crisi dell’encefalopatia spongiforme bovina (in prosieguo: la «BSE») e della diossina hanno spinto il legislatore ad abbandonare il sistema sopra descritto per accogliere, nella direttiva 2002/2, adottata sulla base dell’art. 152, n. 4, lett. b), CE, la più stringente formula della «dichiarazione aperta».

10.   Secondo il legislatore, infatti, dette crisi hanno dimostrato l’inadeguatezza della normativa esistente, rivelando «la necessità di informazioni più particolareggiate, qualitative e quantitative, sulla composizione dei mangimi» (quarto ‘considerando’). In effetti, tali indicazioni, in particolare quelle quantitative, oltre a costituire «un importante elemento di informazione per gli allevatori» (ottavo ‘considerando’), comportano – sempre secondo il legislatore – «evidenti vantaggi per la salute pubblica», in quanto «possono contribuire alla rintracciabilità di materie prime potenzialmente contaminate, consentendo di risalire a specifiche partite». Esse, inoltre, «consent[ono] di evitare la distruzione di prodotti che non presentano rischi sanitari significativi» (quinto ‘considerando’).

11.   Così, ai sensi dell’art. 1, punto 1), lett. a), della direttiva 2002/2 che modifica l’art. 5, n. 1, lett. j), della direttiva 79/373, l’etichettatura deve ora comprendere anche:

«il numero di riferimento della partita».

12.   Inoltre, ai sensi dell’art. 1, punto 1), lett. b), che modifica l’art. 5, n. 1, lett. l), della direttiva 79/373, essa deve recare anche:

«[n]el caso di alimenti composti diversi da quelli destinati ad animali familiari, la menzione "la percentuale esatta rispetto al peso delle materie prime dei mangimi che compongono questo alimento può essere ottenuta presso: " (nome o ragione sociale, indirizzo o sede sociale e numero di telefono e indirizzo di posta elettronica del responsabile delle indicazioni di cui al presente paragrafo). Questa informazione è fornita dietro richiesta del cliente».

13.   L’art. 1, punto 4), che modifica l’art. 5 quater della direttiva 79/373, dispone poi che:

«1.      Tutte le materie prime dei mangimi composti sono elencate con i loro nomi specifici.

2.      L’enumerazione delle materie prime dei mangimi è soggetta alle norme seguenti:

a)      mangimi composti destinati ad animali diversi dagli animali familiari:

i)      enumerazione delle materie prime dei mangimi con indicazione, in ordine decrescente, delle percentuali rispetto al peso presenti nel mangime;

ii)      è consentita una tolleranza del +/-15% del valore dichiarato delle suddette percentuali;

(…)».

14.   L’art. 1, punto 5), che aggiunge un secondo comma all’art. 12 della direttiva 79/373, prevede infine che:

«[Gli Stati membri] prescrivono che i produttori di mangimi composti sono tenuti a mettere a disposizione delle autorità incaricate di effettuare i controlli ufficiali, su richiesta di queste ultime, qualsiasi documento relativo alla composizione degli alimenti destinati ad essere immessi in circolazione che consenta di verificare la correttezza delle informazioni fornite sull’etichetta».

15.   Per quanto qui interessa, va da ultimo ricordato che, al di fuori dell’articolato, nel suo decimo ‘considerando’ la direttiva 2002/2 chiedeva alla Commissione di presentare al Parlamento europeo e al Consiglio «[i]n base ad uno studio di fattibilità e, al più tardi, il 31 dicembre 2002, (…) una relazione corredata di un’adeguata proposta, che terrà conto delle conclusioni di detta relazione, al fine di compilare un elenco positivo».

16.   Ottemperando a tale indicazione, il 24 aprile 2003 la Commissione ha presentato una relazione (COM 2003 178), nella quale ha però dichiarato che la redazione di un «elenco positivo», ovverosia di «un elenco positivo di materie prime che, previo esame, sono considerate senza pericolo per la salute umana e animale e possono quindi essere utilizzate nell’alimentazione degli animali», non è «decisiva per garantire la sicurezza degli alimenti per animali». Sulla scorta di tale considerazione, la Commissione ha deciso di non presentare alcuna proposta in merito (7).

Il regolamento (CE) n. 178/2002

17.   Benché non venga direttamente in rilievo per la soluzione della presente causa, va qui richiamato anche il regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare, istituisce l’Autorità europea per la sicurezza alimentare e fissa procedure nel campo della sicurezza alimentare (8).

18.   Ai sensi dell’art. 3, punto 15), di tale regolamento per «rintracciabilità» si intende:

«la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione».

19.   L’art. 7, n. 1, dedicato al principio di precauzione, dispone inoltre che:

«Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio».

II – Normative nazionali

20.   La direttiva 2002/2 è stata trasposta:

–      nel Regno Unito, dai Feeding Stuffs (Sampling and Analysis) e Feeding Stuffs (Enforcement) (Amendment) (England) Regulations 2003 (rispettivamente, il regolamento per il controllo a campione e l’analisi dei mangimi per animali e il regolamento d’attuazione per l’Inghilterra; in prosieguo: i «regolamenti inglesi») (9) che modificano i Feeding Stuffs Regulations 2000 (10);

–      in Italia, dal decreto del Ministro delle politiche agricole e forestali del 25 giugno 2003, recante integrazioni e modificazioni agli allegati alla legge 15 febbraio 1963, n. 281, sulla disciplina della preparazione e del commercio dei mangimi, in attuazione della direttiva 2002/2/CE del 28 gennaio 2002 (in prosieguo: il «decreto italiano») (11);

-      nei Paesi Bassi, dal regolamento PDV-25 dell’11 aprile 2003 (in prosieguo: il «regolamento olandese») (12), che modifica il Verordening PDV diervoeders 2003 (regolamento del Productschap Diervoeder sugli alimenti per animali 2003).

III – Fatti e procedura

Nella causa C-453/03

21.   Con ricorso dell’8 settembre 2003, la ABNA Ltd, la Denis Brinicombe (a partnership), la Bocm Pauls Ltd, la Devenish Nutrition Ltd, la Nutrition Services (International) Ltd e la Primary Diets Ltd (in prosieguo collettivamente: la «ABNA»), tutte società attive nella fabbricazione di mangimi composti per animali, hanno impugnato i regolamenti inglesi di attuazione della direttiva 2002/2 dinanzi alla High Court of Justice.

22.   Questa, avendo seri dubbi sulla validità dell’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), di tale direttiva e ritenendo che dall’applicazione delle corrispondenti disposizioni nazionali attuative potesse discendere un danno grave e irreparabile per ABNA, ha deciso di sospendere in via cautelare queste disposizioni e, contestualmente, di chiedere alla Corte:

«Se le disposizioni dell’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva 2002/2, nella parte in cui modifica l’art. 5 quater, n. 2, lett. a), della direttiva 79/373, esigendo l’indicazione delle percentuali siano invalidi per:

a)      assenza di fondamento normativo nell’art. 152, n. 4, lett. b), CE;

b)      violazione del diritto fondamentale di proprietà;

c)      violazione del principio di proporzionalità».

23.    Nel procedimento così instauratosi hanno presentato osservazioni scritte ABNA, i governi di Regno Unito, Francia, Grecia, Spagna e dei Paesi Bassi, nonché il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione.

Nelle cause riunite C-11/04 e C-12/04

Causa C-11/04

24.   Con ricorso notificato il 17 settembre 2003, la Fratelli Martini & C. SpA e la Cargill srl (in prosieguo collettivamente: la «F.lli Martini»), anch’esse società operanti nel settore della produzione di mangimi, hanno impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale del Lazio (in prosieguo: il «TAR») il decreto italiano che traspone la direttiva 2002/2, chiedendone l’annullamento, previa sospensione della provvisoria esecuzione, per contrarietà al diritto comunitario e nazionale.

25.   Il TAR ha respinto l’istanza di cautela. Avverso l’ordinanza di rigetto è stato allora presentato appello al Consiglio di Stato.

26.   Questo, nutrendo – al pari dei giudici inglesi – gravi dubbi sulla validità della direttiva 2002/2, in particolare per il fatto che essa impone dettagliate informazioni quantitative anche per i mangimi a base vegetale da esso considerati innocui per la salute pubblica, con ordinanza dell’11 novembre 2003 ha sospeso le norme nazionali impugnate. Quindi, con distinto provvedimento, ha sottoposto alla Corte i seguenti quesiti pregiudiziali:

«1)      Se l’art. 152, n. 4, lett. b), del Trattato CE debba essere interpretato in modo che possa costituire il fondamento giuridico corretto per l’adozione di disposizioni in materia di etichettatura, contenute nella direttiva 2002/2/CE, ove riferita all’etichettatura dei mangimi vegetali.

2)      Se la direttiva 2002/2/CE nella parte in cui impone l’obbligo dell’indicazione esatta delle materie prime contenute nei mangimi composti, ritenuto applicabile anche ai mangimi su base vegetale, sia giustificata in base al principio di precauzione, in assenza di un’analisi dei rischi basata su studi scientifici che imponga detta misura precauzionale in virtù di una possibile correlazione fra la quantità delle materie prime utilizzate ed il rischio delle patologie da prevenire, e sia comunque giustificata alla luce del principio di proporzionalità, in quanto non ritiene sufficienti al perseguimento degli obiettivi di salute pubblica assunti come scopo della misura, gli obblighi di informazione delle industrie mangimistiche nei confronti delle autorità pubbliche, tenute al segreto, e competenti per i controlli a tutela della salute, imponendo invece una generalizzata disciplina relativa all’obbligo di indicazione, nelle etichette dei mangimi a base vegetale, delle percentuali quantitative delle materie prime utilizzate.

3)      Se la direttiva 2002/2/CE, non risultando rispondente al principio di proporzionalità, non sia in contrasto con il diritto fondamentale di proprietà riconosciuto ai cittadini degli Stati membri».

Causa C-12/04

27.   Con distinto ricorso, anche la società Ferrari Mangimi srl e l’Associazione nazionale produttori alimenti zootecnici – ASSALZOO (in prosieguo collettivamente: la «Ferrari Mangimi») hanno impugnato dinanzi al TAR il decreto italiano, chiedendone anch’esse l’annullamento, previa sospensione della provvisoria esecuzione.

28.   Come per le prime ricorrenti, il TAR ha respinto l’istanza di cautela. Anche in tal caso, avverso l’ordinanza di rigetto è stato presentato appello al Consiglio di Stato il quale, dopo aver sospeso cautelarmente il decreto impugnato, ha sottoposto alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, analoghe questioni di validità della direttiva 2002/2, più una questione interpretativa, così formulate:

«1)      Se l’art. 152, n. 4, lett. b), del Trattato CE debba essere interpretato in modo che possa costituire il fondamento giuridico corretto per l’adozione di disposizioni in materia di etichettatura, contenute nella direttiva 2002/2/CE, ove riferita all’etichettatura dei mangimi vegetali.

2)      Se la direttiva 2002/2/CE nella parte in cui impone l’obbligo dell’indicazione esatta delle materie prime contenute nei mangimi composti, ritenuto applicabile anche ai mangimi su base vegetale, sia giustificata in base al principio di precauzione, in assenza di un’analisi dei rischi basata su studi scientifici che imponga detta misura precauzionale in virtù di una possibile correlazione fra la quantità delle materie prime utilizzate ed il rischio delle patologie da prevenire, e sia comunque giustificata alla luce del principio di proporzionalità, in quanto non ritiene sufficienti al perseguimento degli obiettivi di salute pubblica assunti come scopo della misura, gli obblighi di informazione delle industrie mangimistiche nei confronti delle autorità pubbliche, tenute al segreto, e competenti per i controlli a tutela della salute, imponendo invece una generalizzata disciplina relativa all’obbligo di indicazione, nelle etichette dei mangimi a base vegetale, delle percentuali quantitative delle materie prime utilizzate.

3)      Se la direttiva 2002/2/CE debba essere interpretata nel senso che la sua applicazione e quindi la sua efficacia è subordinata all’adozione dell’elenco positivo di materie prime indicate con i loro nomi specifici, come precisato al considerando n. 10 e nella relazione della Commissione (COM 2003 178) in data 24 aprile 2003 ovvero se l’applicazione della direttiva negli Stati membri debba avvenire prima dell’adozione dell’elenco positivo delle materie prime previsto dalla direttiva ricorrendo ad una elencazione delle materie prime contenute nei mangimi composti con le denominazioni e definizioni generiche delle loro categorie merceologiche.

4)       Se la direttiva 2002/2/CE sia da considerare illegittima per violazione del principio di parità di trattamento e di non discriminazione a danno dei mangimisti rispetto ai produttori di alimenti per il consumo umano in quanto sottoposti ad una disciplina che impone indicazioni quantitative delle materie prime dei mangimi composti».

Procedura dinanzi alla Corte

29.    Con ordinanza del presidente della Corte del 25 marzo 2004, le cause C‑11/04 e C‑12/04 sono state riunite ai fini della procedura scritta e orale e della sentenza.

30.   Nella procedura scritta sono intervenuti la F.lli Martini, la Ferrari Mangimi, i governi di Grecia e Spagna, nonché il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione.

Nella causa C-194/04

31.   La causa olandese vede contrapposti il Productschap Diervoeder (in prosieguo: il «Productschap») e la Nederlandse Vereniging Diervoederindustrie Nevedi (in prosieguo: la «Nevedi»).

32.   Il Productschap è l’ente pubblico olandese competente ad adottare i regolamenti relativi agli alimenti per animali i quali, però, per produrre effetti devono essere approvati dal Ministro dell’Agricoltura, Natura e Pesca (in prosieguo: il «Ministro»).

33.   Dopo aver tempestivamente trasposto la direttiva 2002/2 con un proprio regolamento debitamente approvato dal Ministro, il Productschap si convinceva dell’invalidità della direttiva medesima. Per tale motivo, esso predisponeva un nuovo regolamento diretto alla disapplicazione di quello già in vigore.

34.   Quest’ultimo non otteneva però la necessaria approvazione del Ministro, il quale riteneva che una sospensione puramente amministrativa delle norme attuative della direttiva contrastasse con il diritto comunitario, che riserva tale potere alle sole autorità giurisdizionali nazionali.

35.   Non avendovi provveduto direttamente le autorità governative, la Nevedi richiedeva al Rechtbank te ‘s-Gravenhage la sospensione in via cautelare del regolamento del Productschap.

36.   Il giudice olandese riteneva che l’obbligo previsto dalla direttiva di indicare le percentuali rispetto al peso delle materie prime impiegate nei mangimi non avesse – come richiesto dall’art. 152 CE – alcun legame diretto con la tutela della salute pubblica e costringesse i produttori a rivelare ai concorrenti informazioni segrete, essenziali per le loro aziende.

37.   Per tale motivo, considerata anche la questione di validità già sottoposta dal giudice inglese, esso accoglieva la domanda di cautela proposta e, contestualmente, rinviava alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, i seguenti quesiti pregiudiziali:

«1)      Se le disposizioni dell’art. 1, punto 1), lett. b), della direttiva 2002/2 e/o punto 4), della direttiva 2002/2, nella parte in cui modificano l’art. 5 quater, n. 2, lett. a), della direttiva 79/373, prescrivendo l’elencazione delle percentuali, siano nulli in quanto:

a)      non trovano fondamento normativo nell’art. 152, n. 4, lett. b), del Trattato CE;

b)      violano i diritti fondamentali, quali il diritto di proprietà e il diritto al libero esercizio di un’attività professionale;

c)      violano il principio di proporzionalità.

2)      Qualora ricorrano i presupposti in base ai quali un giudice nazionale di uno Stato membro può sospendere l’esecuzione di un atto controverso delle istituzioni comunitarie, e ricorra, in particolare, anche il presupposto che la questione riguardante la validità di un atto controverso è già stata sottoposta alla Corte di giustizia da un giudice nazionale di uno Stato membro, se anche gli organismi governativi competenti degli altri Stati membri possano, senza intervento giudiziario, procedere essi stessi alla sospensione dell’atto controverso, finché la Corte di giustizia si sia pronunciata riguardo alla validità dell’atto di cui trattasi».

38.   Nel procedimento così instauratosi hanno presentato osservazioni scritte la Nevedi, i governi dei Paesi Bassi, di Grecia e Italia, nonché il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione.

39.   Per la presente causa e per le cause C-453/03 e C‑11/04 e C‑12/04, il 30 novembre 2004 si è tenuta un’udienza comune alla quale hanno partecipatoABNA, la F.lli Martini, la Ferrari Mangimi, la Nevedi (nel prosieguo anche collettivamente: le «ricorrenti nei giudizi principali»), i governi di Italia, Danimarca, Francia, Grecia Spagna e dei Paesi Bassi, nonché il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione.

IV – Analisi giuridica

40.   Come si è visto, nelle cause sopra indicate vengono in buona sostanza sollevati tre quesiti.

41.   Quello principale riguarda la validità dell’art 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva 2002/2, il quale obbliga i produttori di mangimi composti per animali da reddito a:

–      enumerare sull’etichetta le materie prime utilizzate, precisandone, con una tolleranza in difetto o in eccesso del 15%, la percentuale di ciascuna rispetto al peso totale del mangime [art. 1, punto 4)];

–      comunicare ai clienti che lo richiedano la percentuale esatta di ciascuna materia prima rispetto al peso del mangime [art. 1, punto 1), lett. b)];

42.   In effetti, secondo i giudici nazionali tali previsioni potrebbero essere state adottate su una base giuridica scorretta [l’art. 152, n. 4, lett. b), anziché l’art. 37 CE] e violare i diritti fondamentali di proprietà e libertà di impresa, nonché i principi di proporzionalità, precauzione e non discriminazione.

43.   Come ho già accennato, nella causa C-12/04 il giudice italiano ha sottoposto, accanto a tale quesito principale, anche un quesito interpretativo, che riguarda la possibilità di applicare la direttiva 2002/2 in assenza di un apposito elenco positivo di materie prime utilizzabili nei mangimi composti per animali.

44.   Natura interpretativa ha infine anche il terzo quesito. Con esso il giudice olandese chiede, in generale, se le autorità amministrative di uno Stato membro possano sospendere in via cautelare l’applicazione di norme attuative di un atto comunitario di dubbia validità, qualora il giudice di un altro Stato membro abbia già sottoposto al riguardo una questione pregiudiziale di validità.

45.   Poiché il quesito principale è in larga parte comune, procederò al suo esame congiuntamente per le tre cause, analizzando poi gli altri problemi in queste sollevati nell’ordine sopra indicato.

46.   Prima però valuterò la ricevibilità dei quesiti sottoposti alla Corte nella causa C-194/04, ricevibilità che è stata contestata nelle loro osservazioni scritte dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione.

A –    Sulla ricevibilità dei quesiti sottoposti nella causa C-194/04

47.   In effetti, le istituzioni intervenute eccepiscono preliminarmente l’irricevibilità dei quesiti sottoposti dal giudice olandese il quale, a loro avviso, non avrebbe sufficientemente descritto il contesto fattuale e normativo del giudizio principale, né chiarito a sufficienza i motivi per cui esso dubita della validità della direttiva.

48.   A mio avviso però tale censura pecca di eccessivo formalismo.

49.   Ricordo al riguardo che per stabilire se un’ordinanza di rinvio «definisca» a sufficienza «l’ambito di fatto e di diritto in cui si inseriscono le questioni sollevate» (13), e sia di conseguenza ricevibile, si deve svolgere una valutazione puramente funzionale, una valutazione cioè che più che su considerazioni di tipo quantitativo o formale ponga l’accento sulle finalità e sulla struttura del meccanismo pregiudiziale.

50.   Quel che più conta, in altri termini, non è tanto valutare la quantità di indicazioni contenute nell’ordinanza o il modo in cui esse sono presentate dal giudice del rinvio, quanto verificare se dette indicazioni consentono, da un lato, alla Corte «di fornire risposte utili» al giudice nazionale e, dall’altro, «ai governi degli Stati membri nonché alle altre parti interessate di presentare osservazioni ai sensi dell’art. 23 dello Statuto della Corte di giustizia» (14).

51.   Ora, il giudice olandese, dopo aver descritto il quadro giuridico rilevante, nella sua ordinanza ha precisato che la Nevedi ha impugnato il regolamento del Productschap che traspone la direttiva 2002/2 e che esso dubita seriamente della validità di alcune disposizioni di questa.

52.   Di tali dubbi detto giudice ha anche spiegato le ragioni. In parte direttamente, chiarendo che – a suo avviso – le norme contestate non hanno, come richiesto dall’art. 152 CE, un legame diretto con la salute pubblica e che esse obbligano, in contrasto con il diritto di proprietà e la libertà d’impresa, i produttori di mangimi a divulgare ai concorrenti informazioni segrete essenziali. In parte indirettamente, rinviando, in particolare per ciò che riguarda il tema della proporzionalità, all’ordinanza più motivata del giudice inglese.

53.   A me sembra che in tal modo il giudice olandese abbia sufficientemente descritto il contesto giuridico e fattuale della questione sollevata e abbia chiarito, per quanto necessario, le ragioni del rinvio alla Corte. Tali elementi hanno messo tutte le parti interessate, comprese le istituzioni che sono appunto intervenute in questa come nelle altre cause connesse, in condizione di presentare le loro osservazioni sui quesiti sottoposti, che potranno a mio avviso essere utilmente risolti dalla Corte.

54.   Per tale motivo ritengo che l’ordinanza del Rechtbank te ‘s‑Gravenhage sia ricevibile e meriti, al pari di quella inglese e di quelle italiane, una risposta da parte della Corte.

B –    Sulla validità della direttiva

55.   Come si è detto, le cause in esame richiedono anzitutto l’analisi della validità dell’art. 1, punto. 1), lett. b), e punto 4), della direttiva 2002/2 che il Parlamento europeo e il Consiglio hanno adottato, ai sensi dell’art. 152, n. 4, lett. b), CE, a seguito delle crisi della BSE e della diossina.

Premessa

56.   Prima di iniziare tale esame, mi sembra subito necessario indicare alcuni punti fermi da cui, a mio avviso, si deve partire quando, come nel caso di specie, la Corte è chiamata a valutare la legittimità di misure di politica agricola comune che, nelle intenzioni delle istituzioni, sono volte a tutelare la salute pubblica.

57.   Il primo punto è costituito dalla constatazione che in una materia quale la politica agricola comune, che richiede valutazioni politiche, economiche e sociali complesse, il legislatore comunitario dispone di un «ampio potere discrezionale» (15). Di conseguenza, in tale materia, il controllo giurisdizionale della Corte deve essere diretto ad accertare che l’atto contestato sia esente da vizi manifesti; più precisamente, la Corte deve limitarsi a valutare se l’istituzione competente «abbia manifestamente ecceduto i limiti del suo potere discrezionale» ovvero se l’atto da essa adottato «sia viziato da errore manifesto o da sviamento di potere» (16).

58.   Il secondo punto è poi rappresentato dalla primaria importanza riconosciuta alla salute pubblica nell’ordinamento comunitario. L’apporto di «un contributo al conseguimento di un elevato livello di protezione della salute» rappresenta, infatti, un obiettivo della Comunità [art. 3, lett. p), CE)], che deve essere perseguito «nella definizione e attuazione di tutte le politiche ed attività» della Comunità medesima (art. 152, n. 1, CE). Si tratta quindi di un’esigenza «inderogabile» «di interesse generale» che le istituzioni devono sempre «tenere in considerazione nell’esercizio dei loro poteri» (17). Nel bilanciamento degli interessi che tale esercizio comporta, le istituzioni devono riconoscere a detta esigenza un’«importanza preponderante rispetto a considerazioni di ordine economico» (18), spingendosi fino ad imporre «conseguenze economiche negative, anche notevoli, per taluni operatori» (19).

59.   In quest’ottica, in passato la Corte ha considerato valide, o meglio non manifestamente invalide, misure di politica agricola assai onerose per gli operatori economici, legittimando una compressione «anche notevole» dei loro interessi.

60.    Così, ad esempio nel caso – sicuramente emblematico – Affisch, la Corte ha considerato valida, proprio perché volta a perseguire l’«inderogabile» esigenza di tutela della salute pubblica, una decisione con cui, dopo aver visitato sette stabilimenti giapponesi specializzati nella lavorazione di determinati pesci e crostacei e giudicato che taluni di essi presentavano seri rischi per la salute, la Commissione ha deciso di sospendere le importazioni di tutti i prodotti della pesca provenienti dal Giappone (20).

61.   In quest’ottica per così dire di self-restreint mi porrò quindi anch’io nell’analisi dei singoli motivi di censura della direttiva 2002/2, che passo ora ad esaminare.

1)      Sulla base giuridica

62.   Il primo motivo per il quale i giudici nazionali dubitano della validità della direttiva, in particolare del suo art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), riguarda la correttezza della base giuridica dell’atto. In particolare, essi si chiedono se tali disposizioni potessero essere legittimamente fondate sull’art. 152, n. 4, lett. b), CE, il quale consente al Parlamento europeo e al Consiglio di adottare, «in deroga all’articolo 37, misure nei settori veterinario e fitosanitario il cui obiettivo [diretto] (21) sia la protezione della sanità pubblica».

63.   A tale riguardo, ricordo subito che, secondo una giurisprudenza ben consolidata, «nell’ambito del sistema di competenze della Comunità, la scelta del fondamento normativo di un atto deve basarsi su elementi oggettivi, che possono costituire oggetto di sindacato giurisdizionale». Tra detti elementi figurano, in particolare, lo «scopo e il contenuto dell’atto» (22).

64.   Ora, quanto allo scopo, come hanno giustamente osservato le istituzioni intervenute, sostenute sul punto dai governi di Francia, Grecia, Italia e dei Paesi Bassi, emerge dai ‘considerando’ della direttiva che, dopo le gravi crisi sanitarie della BSE e della diossina, il legislatore comunitario ha ritenuto inadeguate le disposizioni della direttiva 79/373 che limitavano gli obblighi dei produttori di mangimi alla sola enumerazione sull’etichetta delle materie prime impiegate (quarto ‘considerando’).

65.   Esso ha pertanto deciso di ampliare detti obblighi imponendo l’indicazione obbligatoria di informazioni particolareggiate «qualitative» e «quantitative». Nel suo disegno, infatti, queste ultime comportano «evidenti vantaggi per la salute pubblica», in quanto «possono contribuire alla rintracciabilità di materie prime potenzialmente contaminate, consentendo di risalire a specifiche partite». Esse inoltre «consent[ono] di evitare la distruzione di prodotti che non presentano rischi sanitari significativi» (quinto ‘considerando’).

66.   Le finalità enunciate dal legislatore nei ‘considerando’ trovano poi un riscontro nel contenuto della direttiva.

67.   Questa infatti, oltre ad imporre l’indicazione del «numero di riferimento della partita» delle materie prime [art. 1, punto 1), lett. a)], obbliga appunto i produttori di mangimi a precisarne la percentuale rispetto al peso con una tolleranza, in difetto o in eccesso, del 15% (art. 1, punto 4), nonché a comunicarne la percentuale, questa volta esatta, ai clienti che ne facciano richiesta [art. 1, punto 1, lett. b)]. A ciò si aggiunge, poi, l’obbligo di comunicare alle autorità di controllo «qualsiasi documento relativo alla composizione degli alimenti destinati ad essere immessi in circolazione che consenta di verificare la correttezza delle informazioni fornite sull’etichetta» (art. 1, punto 5).

68.   Da tale analisi dello scopo e del contenuto della direttiva emerge, a mio avviso, che le disposizioni contestate, unitamente alle altre norme sopra citate, si prefiggevano, come obiettivo diretto, di aumentare il livello di protezione della salute pubblica attraverso un inasprimento delle informazioni sulla composizione dei mangimi da fornire agli allevatori e alle pubbliche autorità.

69.   Convengo tuttavia con le ricorrenti nei giudizi principali e con il governo olandese, quando sostengono che ciò non basta per ritenere corretta la base giuridica scelta.

70.   Come la Corte ha chiarito nella nota sentenza Germania/Parlamento e Consiglio del 5 ottobre 2000, se si vuole evitare che «il controllo giurisdizionale del rispetto del fondamento giuridico [sia] privato di ogni efficacia», bisogna ancora verificare se, al di là delle astratte dichiarazioni e previsioni del legislatore, «l’atto la cui validità è controversa persegua effettivamente gli obiettivi fatti valere dal legislatore comunitario» (23).

71.   In altri termini, se bene interpreto le considerazioni svolte dalla Corte in quella sentenza, per valutare la correttezza della base giuridica bisogna verificare non solo se l’atto contestato si prefigge lo scopo per il quale il Trattato riconosce una competenza legislativa alle istituzioni, ma anche se esso è «effettivamente» destinato a quello scopo e, soprattutto, se è capace di raggiungerlo.

72.   Se questa mia interpretazione è corretta, allora, come ha sottolineato anche il governo danese in udienza, in sede di controllo della base giuridica si rende necessaria una valutazione sull’idoneità dell’atto a raggiungere l’obiettivo perseguito molto simile a quella relativa al principio di proporzionalità, il quale, com’è noto, esige che gli strumenti predisposti da una norma comunitaria siano per l’appunto «idonei a realizzare lo scopo perseguito» e «non vadano oltre quanto è necessario per raggiungerlo» (24).

73.   Poiché, peraltro, nelle cause in esame è stato per l’appunto contestato anche il carattere sproporzionato dell’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva, passo a procedere contestualmente alla relativa valutazione.

2)      Sulla proporzionalità e sui diritti fondamentali di proprietà e di libertà d’impresa

74.   Il motivo d’invalidità centrale nella presente causa è in effetti senz’altro quello relativo alla proporzionalità. Ciò, tanto più che il relativo giudizio non solo, come si è visto, copre in parte quello relativo alla base giuridica, ma a ben vedere nella specie si sovrappone anche, rendendone superflua una specifica analisi, al controllo del rispetto dei diritti fondamentali di proprietà e di libertà d’impresa.

75.   In effetti, secondo la giurisprudenza della Corte, «in relazione alla funzione da essi svolta nella società», questi due diritti fondamentali possono ben subire delle «restrizioni», ma queste non devono tuttavia risolversi «in un intervento sproporzionato» rispetto allo scopo di interesse generale che perseguono (25). Eventuali misure restrittive devono in altri termini rispettare proprio il principio di proporzionalità.

76.   Pertanto, come ha giustamente osservato la Commissione, per rispondere ai quesiti posti dai giudici nazionali, nelle cause in esame non è necessario risolvere il problema – molto dibattuto tra le parti, ma in definitiva qui irrilevante – della brevettabilità delle formule dei mangimi e della possibile inclusione dei segreti commerciali tra i diritti di proprietà intellettuale tutelati dal diritto comunitario.

77.   Basta invece, come in buona sostanza ammette anche ABNA, verificare se le disposizioni della direttiva 2002/2, che obbligano i produttori di mangimi a rivelare quelle formule, siano idonee e necessarie a raggiungere l’obiettivo di tutela della salute pubblica che esse vogliono perseguire. Se lo sono, tali disposizioni rispettano il principio di proporzionalità, sia esso considerato autonomamente o quale limite a potenziali restrizioni dei predetti diritti fondamentali. Se non lo sono, ciò basta per dichiararle illegittime, senza che siano quindi necessarie ulteriori valutazioni.

78.   Ciò posto, passo finalmente a verificare se gli obblighi previsti dall’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva: a) siano idonei a perseguire l’obiettivo di tutela della salute pubblica; b) non vadano oltre quanto necessario a raggiungere tale obiettivo.

a)      Sull’idoneità delle indicazioni quantitative a conseguire lo scopo di tutela della salute pubblica perseguito

79.    Le ricorrenti nei giudizi principali, sostenute sul punto dai governi di Spagna e Regno Unito, ritengono che le indicazioni quantitative particolareggiate imposte dalla direttiva non siano idonee a tutelare la salute pubblica.

80.   Secondo le ricorrenti, infatti, diversamente da quanto dichiarato nel quinto ‘considerando’ della direttiva, tali indicazioni non darebbero alcun contributo effettivo alla rintracciabilità delle materie prime contaminate. A loro avviso, la menzione dei quantitativi delle materie impiegate, senza alcun riferimento al fornitore o alla partita di appartenenza, non darebbe agli allevatori alcuna informazione circa l’origine di quelle materie e quindi non consentirebbe loro di individuarne la presenza nei mangimi acquistati.

81.   Quand’anche tali indicazioni contribuissero alla rintracciabilità, le disposizioni contestate sarebbero comunque inidonee a tutelare la salute pubblica, in quanto esse si applicano solo ai produttori di mangimi composti destinati alla commercializzazione e non anche ai produttori di mangimi destinati all’autoconsumo, cioè a quelle imprese che producono sul proprio fondo i mangimi composti da somministrare ai propri animali. Ad avviso delle ricorrenti, in tal modo ben il 65% del volume complessivo di tali prodotti sfuggirebbe agli obblighi di etichettatura previsti dalla direttiva.

82.   Quanto a quest’ultima censura, dico subito che, a mio avviso, essa va rigettata.

83.   Infatti, la comunicazione – al cliente o sull’etichetta – delle informazioni quantitative ha senso solo quando chi produce e chi acquista sono soggetti diversi. Se chi somministra il mangime lo ha anche prodotto, evidentemente sa bene cosa ha impiegato e in quale quantità e, quindi, anche come deve comportarsi in caso di contaminazione. L’estensione ai produttori per l’autoconsumo degli obblighi di etichettatura in questione sarebbe quindi perfettamente inutile e, questa sì, sproporzionata (in quanto assolutamente non necessaria) rispetto alla finalità di tutela della salute perseguita dalla direttiva.

84.   Quanto alla rintracciabilità, ricordo anzitutto che, secondo la definizione fissata dal regolamento n. 178/2002, che stabilisce i principi generali della legislazione comunitaria in materia di alimenti e mangimi (art. 1, n. 2), con tale termine si intende «la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione» (art. 3, n. 15).

85.   Secondo tale regolamento, la rintracciabilità dei prodotti mira a fornire «informazioni ai consumatori o ai funzionari responsabili dei controlli» e a consentire «ritiri mirati e precisi» in modo da evitare, quando non sia in pericolo la stessa sicurezza degli alimenti, «disagi più estesi e ingiustificati» (ventottesimo ‘considerando’).

86.   Ciò premesso, osservo – assieme alla stessa Commissione – che la rintracciabilità delle materie prime impiegate nei mangimi è garantita principalmente dall’indicazione del numero di partita di dette materie, numero che, ai sensi dell’art. 1, punto 1), lett. a), della direttiva 2002/02, deve ora apparire sull’etichetta accanto alle indicazioni quantitative contestate. Nel caso di contaminazione, infatti, è attraverso tale numero che si può individuare la singola confezione di mangime che contiene la sostanza pericolosa e risalire altresì al suo produttore.

87.   Tuttavia, come hanno osservato la Commissione ed i governi olandese e danese, anche le indicazioni quantitative possono «contribuire alla rintracciabilità» (quinto ‘considerando’) (26), rendendo effettivamente più rapida l’individuazione degli ingredienti contaminati e mirata la distruzione dei mangimi che li contengono.

88.   Come ha giustamente osservato il governo olandese, infatti, quando in un animale o in un alimento da esso derivato viene rilevata una sostanza pericolosa, le indicazioni quantitative consentono all’allevatore e alle autorità di individuare velocemente, e con una ragionevole margine di approssimazione, l’ingrediente del mangime che contiene quella sostanza e di accelerare, quindi, la ricostruzione del percorso da essa seguito nelle fasi della produzione, trasformazione e distribuzione.

89.   In effetti, se il tasso della sostanza rilevata nell’animale è alto, si può ragionevolmente presumere che essa sia contenuta nell’ingrediente o in uno degli ingredienti presenti nel mangime in maggiore quantità. Se viceversa il tasso è molto basso, si può ragionevolmente ritenere che detta sostanza sia presente in un ingrediente di minore quantità. Tutto ciò senza dover attendere gli esiti di analisi di laboratorio, ma semplicemente basandosi sulle indicazioni contenute nell’etichetta o richieste al produttore.

90.   In udienza, il governo danese ha illustrato un esempio concreto che chiarisce molto bene questo tipo di contributo.

91.   Nell’agosto 2004, ha ricordato tale governo, è emerso nell’ambito di controlli di routine che il latte prodotto da un agricoltore danese presentava un livello troppo elevato di aflatossina, sostanza cancerogena generata da alcuni tipi di funghi che si sviluppano in particolare sui cereali. L’etichetta dei mangimi somministrati al bestiame di tale agricoltore indicavano la presenza di un’alta percentuale di mais biologico italiano della campagna 2003. Dalla semplice lettura di tale etichetta le autorità danesi hanno potuto stabilire che la materia contaminata era, con ogni probabilità, proprio il mais italiano. Sulla base di questa prima semplice indicazione quantitativa, esse hanno così potuto disporre adeguate misure di controllo per tutti i lotti di mangimi provenienti dallo stesso produttore, che avevano un tenore altrettanto elevato di detto cereale. Se invece non avessero potuto disporre delle informazioni quantitative, le autorità avrebbero dovuto attendere i risultati delle analisi di laboratorio e sarebbero state quindi costrette a ritardare i necessari provvedimenti di polizia sanitaria o, più verosimilmente, ad adottare misure precauzionali generalizzate.

92.   In effetti, come hanno osservato vari intervenienti, le indicazioni quantitative contribuiscono anche alla realizzazione di un altro obiettivo tipico della rintracciabilità, cioè quello di evitare, nel caso di contaminazione, disagi ingiustificati e più estesi di quanto sia necessario alla tutela della salute pubblica.

93.   Ove infatti un produttore scopra che una materia prima da esso utilizzata è contaminata da una sostanza pericolosa, attraverso l’indicazione del numero di partita esso può allertare gli allevatori che hanno acquistato i mangimi che la contengono. A questo punto, però, attraverso le indicazioni quantitative gli allevatori stessi e le autorità sono in condizione di capire quanta di quella sostanza è stata consumata dagli animali e di graduare conseguentemente i provvedimenti da prendere escludendo, laddove possibile, abbattimenti di bestiame e ritiri di alimenti ingiustificati.

94.   Stando così le cose, mi sembra di poter concludere che un contributo alla rintracciabilità, per quanto limitato, esiste ed è effettivo.

95.   Di conseguenza, ritengo che, giudicando le indicazioni quantitative particolareggiate idonee a tutelare la salute pubblica e fondando di conseguenza la direttiva 2002/2, in particolare l’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), sull’art. 152, n. 4, lett. b), CE, il legislatore comunitario non abbia esercitato in maniera manifestamente erronea il proprio potere discrezionale in materia di politica agricola e sanitaria.

96.   Le ricorrenti nei giudizi principali obiettano ancora però che, a differenza di quelle esatte da comunicare ai clienti ai sensi dell’art. 1, punto 1), lett. b), le informazioni quantitative da indicare sull’etichetta ai sensi dell’art. 1, punto 4), non sono del tutto particolareggiate, in quanto consentono un margine di tolleranza del 15%. Almeno queste – continuano le ricorrenti – non sarebbero quindi idonee a conseguire l’obiettivo perseguito.

97.   A tal riguardo, il governo danese ha sostenuto in udienza che, secondo la sua esperienza, le indicazioni da fornire in etichetta, benché prevedano un margine di tolleranza, sono appropriate per individuare con rapidità e secondo le modalità sopra descritte gli ingredienti contaminati di un mangime.

98.   Tale posizione mi sembra condivisibile, soprattutto se si considera che la valutazione che gli allevatori e le autorità sono chiamati ad effettuare ha natura approssimativa e non richiede un’indicazione esatta al grammo. Infatti, secondo quanto emerso dal dibattito in udienza, nell’ambito di quella valutazione basta sapere se un ingrediente è presente nel mangime in alta o bassa percentuale, in modo da poter capire velocemente se è ad esso che può essere ricollegata l’alta o bassa contaminazione rilevata.

99.   Se così è però, se cioè – come ho detto – già la sola indicazione quantitativa flessibile è sufficiente per ottenere quel limitato contributo alla rintracciabilità voluto dalla direttiva, ci si deve allora chiedere se anche l’ulteriore indicazione esatta da comunicare ai clienti sia realmente indispensabile a quello stesso fine o se, invece, essa vada oltre quanto effettivamente necessario.

100. Tale valutazione rileva però sotto il profilo della necessarietà delle disposizioni contestate ed è quindi in relazione a quest’ultimo che passo ora a svolgerne l’esame.

b)      Sulla necessarietà delle indicazioni quantitative

101. Le ricorrenti nei giudizi principali, sostenute sul punto dai governi di Spagna e Regno Unito, osservano anzitutto che l’obbligo di fornire agli allevatori indicazioni quantitative particolareggiate circa la composizione dei mangimi causa loro un grave danno. Tale obbligo, infatti, le costringerebbe a rivelare ai loro stessi clienti le formule dei mangimi che esse hanno elaborato investendo ingenti risorse nella ricerca scientifica e che, per tale motivo, hanno fino ad oggi tenuto strettamente segrete. Solo grazie a tali ricerche, a loro dire vanificate dalle disposizioni in esame, esse sarebbero in condizione di fornire mangimi sempre più performanti e di adeguarne periodicamente la composizione a seconda delle materie prime disponibili sul mercato e delle esigenze particolari degli allevatori.

102. Ciò detto, le ricorrenti, con argomenti illustrati anche dai giudici nazionali, affermano che le misure in questione andrebbero oltre quanto necessario alla tutela della salute pubblica, in quanto:

i)      si applicano anche ai mangimi composti a base vegetale che, come sostenuto in particolare dal giudice italiano, sarebbero notoriamente innocui per la salute umana;

ii)      l’obiettivo da esse perseguito di scongiurare il ripetersi di crisi alimentari, come quelle della BSE e della diossina, sarebbe già garantito dalle disposizioni che vietano di introdurre nei mangimi materie contaminate o comunque ritenute inidonee all’alimentazione animale, come le farine animali (potenziali vettori della BSE) o i prodotti con elevati tassi di diossina (27);

iii)      più in generale, l’obiettivo della tutela della salute pubblica potrebbe essere conseguito con misure meno restrittive, quali: la semplice elencazione delle materie prime in ordine decrescente rispetto al peso; la comunicazione confidenziale dei dati quantitativi alle sole autorità di controllo; ovvero la comunicazione di detti dati anche agli allevatori, ma per «forcelle», cioè nell’ambito di una forbice minima e massima (28).

103. Venendo ad una valutazione di tali argomenti, osservo quanto segue.

104. i) Quanto all’asserita innocuità dei mangimi vegetali, convengo con il Consiglio quando sostiene che tale affermazione è erronea in fatto. Molte delle sostanze indesiderabili negli alimenti per animali (29) hanno infatti origine vegetale e si trovano o si sviluppano esattamente negli alimenti di origine vegetale.

105. A tale riguardo, senza essere contraddetto dagli altri soggetti intervenuti, il Consiglio ha ricordato che uno dei fattori di pericolo più conosciuti per l’alimentazione animale è costituito dalle aflatossine, tossine altamente cancerogene generate da alcuni tipi di funghi che si sviluppano proprio sui vegetali, in particolare su cereali e frutti a guscio. Tra l’altro, proprio quelle tossine sono state all’origine della contaminazione del mais biologico occorsa nell’estate 2004 in Danimarca (v. supra paragrafo 91).

106. Alla luce di tali elementi, non si può certo dire che i mangimi a base vegetale siano necessariamente sicuri e che un’estensione a questi degli obblighi di etichettatura previsti dalla direttiva 2002/2 sia per ciò stesso sproporzionata.

107. ii) Quanto alle disposizioni che vietano l’utilizzo di sostanze potenzialmente pericolose nei mangimi composti, osservo che esse non possono concretamente impedire che, anche solo accidentalmente, sostanze indesiderabili finiscano negli alimenti destinati agli animali. Se ciò accade, quelle disposizioni nulla dicono, a differenza delle norme sull’etichettatura, su come affrontare una crisi alimentare. In particolare, esse non danno alcun contributo alla rintracciabilità della materia contaminata, come fanno invece le disposizioni dell’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva. Anche in presenza di limitazioni all’uso di determinate sostanze nei mangimi, le disposizioni citate non divengono quindi superflue, mantenendo al contrario una propria specifica utilità.

108. iii) Quanto infine alle possibili misure meno restrittive di cui ho detto poc’anzi (v. supra paragrafo 102), ricordo anzitutto che il legislatore è obbligato a ricorrervi soltanto qualora gli si presenti una scelta tra «più misure» parimenti «appropriate» (30).

109. Così non è, anzitutto, per la semplice enumerazione degli ingredienti in ordine decrescente rispetto al peso. Infatti, tale enumerazione, già prevista dalla direttiva 90/44 e ritenuta dal legislatore stesso inadeguata (v. quarto ‘considerando’ della direttiva 2002/2; v. supra paragrafi 8-10), in quanto esclude qualsiasi indicazione di tipo quantitativo, non può dare quel contributo alla rintracciabilità consentito invece dalle disposizioni contestate e non è quindi appropriata a tutelare la salute pubblica nella stessa misura di quelle.

110. Neppure la comunicazione confidenziale dei dati quantitativi alle sole autorità pubbliche di controllo consente, a mio avviso, un livello di tutela della salute pari a quello di un’informazione rivolta anche agli allevatori. In effetti, in caso di contaminazione sono proprio questi ultimi a poter controllare e ritirare i prodotti contaminati quanto più velocemente possibile, avendo essi la diretta disponibilità del bestiame; e sono sempre gli allevatori a poter immediatamente allertare le autorità di controllo.

111. Sarebbe quindi, a mio avviso, illogico e incoerente con l’obiettivo di assicurare un elevato livello di protezione della salute escludere da informazioni relative all’alimentazione animale chi gli animali alleva e commercializza ed è, quindi, il primo interessato e responsabile della loro sicurezza, nonché di quella dei consumatori finali.

112. Infine, per quanto riguarda la possibilità di ricorrere ad una dichiarazione per «forcelle», cioè ad una dichiarazione delle percentuali degli ingredienti nell’ambito di una forbice minima e massima, convengo con il Consiglio quando osserva che quello adottato dalla direttiva all’art. 1, punto 4), è proprio un sistema di questo tipo e non può pertanto dirsi sproporzionato.

113. Ai sensi della norma citata, infatti, i produttori di mangimi devono indicare sull’etichetta la percentuale rispetto al peso delle materie prime impiegate con un margine di tolleranza del +/- 15%. Concretamente ciò vuol dire che se un mangime composto contiene l’80% di grano, la relativa indicazione deve avvenire appunto nell’ambito di una forbice compresa tra il 68 e il 92%.

114. Ciò, a mio avviso, considerata anche la prassi sopra ricordata dei produttori di modificare lievemente ma continuamente la composizione dei mangimi, esclude la possibilità che si produca quel grave danno che a loro avviso deriverebbe dall’obbligo di rivelare la formula esatta dei propri prodotti.

115. Altro è a dire, invece, per l’ulteriore obbligo previsto dall’art. 1, punto 1), lett. b), il quale impone ai produttori di comunicare ai clienti che ne facciano richiesta l’esatta composizione quantitativa dei loro mangimi, quindi proprio la formula che i giudici nazionali hanno definito «essenziale» per l’esistenza stessa delle aziende in questione.

116. A mio avviso, questo secondo obbligo va manifestamente oltre quanto necessario alla tutela della salute pubblica.

117. Anzitutto, esso è previsto in maniera generalizzata. Sulla base di una semplice richiesta dei clienti, e quindi anche nel caso in cui non vi sia alcun pericolo di contaminazione, i produttori di mangimi sono costretti a rivelare le loro ricette segrete. Per di più, devono farlo ai loro stessi clienti i quali, essendo spesso dotati di avanzate strutture agricole, potrebbero, sfruttando le informazioni ricevute, anche diventare potenziali concorrenti producendo per l’autoconsumo o addirittura per la commercializzazione esterna.

118. Non solo. Come ho sottolineato sopra (v. paragrafi 97-99), detto obbligo si somma, inutilmente, a quello più flessibile, previsto dall’art. 1, punto 4), il quale è già in grado di garantire quel limitato contributo alla rintracciabilità perseguito dal legislatore. Come si è visto, infatti, pur prevedendo un margine di tolleranza del 15%, detta disposizione consente di per sé una rapida e approssimativa individuazione degli ingredienti contaminati e una più mirata eliminazione dei mangimi che li contengono.

119. Non si vede allora cosa, rispetto a questa finalità, voglia e possa aggiungere la più stringente previsione dell’art. 1, punto 1), lett. b). Al contrario, al poco di nuovo e di utile che essa apporta alla tutela della salute pubblica fanno riscontro gli ultronei svantaggi che si presta a provocare ai produttori di mangimi.

120. Credo quindi che tale previsione debba essere considerata manifestamente sproporzionata.

121. Tirando allora le fila dell’esame fin qui svolto sui motivi relativi alla base giuridica e alla proporzionalità, ritengo di poter per ora fissare la seguente conclusione.

122. Giudicando le indicazioni quantitative particolareggiate idonee a tutelare la salute pubblica e fondando di conseguenza la direttiva 2002/2, in particolare l’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), sull’art. 152, n. 4, lett. b), CE, il legislatore comunitario non ha esercitato in maniera manifestamente erronea il proprio potere discrezionale in materia di politica agricola e sanitaria. Poiché peraltro l’obiettivo di tutela della salute pubblica può essere perseguito con la sola previsione dell’obbligo di enumerare sull’etichetta le materie prime utilizzate, precisandone, con una tolleranza in difetto o in eccesso del 15%, la loro percentuale rispetto al peso totale (art. 1, punto 4), l’ulteriore previsione dell’obbligo di comunicare ai clienti che lo richiedano anche la percentuale esatta rispetto al peso di dette materie prime [art. 1, punto 1), lett. b)] è manifestamente sproporzionata e, quindi, invalida.

3)      Sul principio di precauzione

123. Con la prima parte del suo secondo quesito nelle cause C-11/04 e C-12/04, il giudice italiano chiede in buona sostanza se la direttiva 2002/2, nella parte in cui impone l’obbligo dell’indicazione esatta delle materie prime contenute nei mangimi composti, violi il principio di precauzione.

124. Ho appena concluso peraltro che, nella parte in cui impone un’indicazione quantitativa esatta, la direttiva 2002/2 dovrebbe essere dichiarata invalida per violazione del principio di proporzionalità. Mi parrebbe quindi superfluo, in linea di principio, stabilire se, in quella parte, essa violi anche il principio di precauzione. Tuttavia, per esigenze di completezza, esaminerò anche questo motivo di invalidità.

125. Secondo il giudice italiano, il principio citato sarebbe stato violato, in quanto il legislatore comunitario non avrebbe proceduto, prima dell’adozione della direttiva, ad uno studio che dimostrasse scientificamente l’utilità di indicazioni quantitative esatte nella prevenzione delle crisi alimentari.

126. A tale riguardo, ricordo preliminarmente che, secondo la giurisprudenza della Corte, «quando sussistono incertezze riguardo alla portata dei rischi per la salute delle persone», il principio di precauzione autorizza le istituzioni ad «adottare misure protettive senza dover attendere che siano esaurientemente dimostrate la realtà e la gravità di tali rischi» (31).

127. Ricordo altresì che tale principio risulta ora codificato e meglio specificato all’art. 7, n. 1, del regolamento n. 178/2002, il quale prevede che «[q]ualora in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute, ma permanga una situazione di incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio» (32).

128. Come ha giustamente osservato il Consiglio e in definitiva riconosciuto anche la F.lli Martini, il principio di precauzione non trova applicazione nel caso di specie.

129. Infatti, la direttiva 2002/2 non è una misura specifica di gestione del rischio di natura provvisoria che vieta determinati prodotti o pratiche sulla cui pericolosità esistano dubbi scientifici. Si tratta invece di un atto normativo di portata generale che, allo scopo di migliorare il livello di protezione della salute pubblica (v. quarto e quinto ‘considerando’), armonizza i requisiti di etichettatura dei mangimi in maniera più restrittiva rispetto al passato.

130. Per tale direttiva trova invece applicazione il principio più generale, già affermato dalla Corte, per cui «l’azione legislativa della Comunità (…) non può essere circoscritta alle sole ipotesi suffragate da giustificazioni scientificamente dimostrate» (33). L’evoluzione delle «conoscenze scientifiche» non rappresenta, infatti, «il solo motivo per cui il legislatore comunitario può decidere di adeguare la legislazione comunitaria». Nell’esercizio del potere discrezionale di cui dispone, in particolare in materia di politica agricola e sanitaria, esso può pertanto «tenere conto anche di altri fattori» (34), quali, ad esempio, l’accresciuta importanza sul piano politico e sociale della sicurezza alimentare, l’allarme sociale causato dalle crisi alimentari e la conseguente sfiducia dei consumatori nei confronti di determinati operatori economici e delle autorità che li dovrebbero controllare.

131. Alla luce di quanto sopra esposto, ritengo pertanto che il principio di precauzione non trovi applicazione nel caso di specie.

4)      Sul principio di eguaglianza

132. Con il suo quarto quesito nella causa C-12/04, il giudice italiano chiede se, imponendo ai produttori di mangimi obblighi di etichettatura più severi rispetto a quelli previsti per i produttori di alimenti, le disposizioni dell’art. 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva violino il principio di eguaglianza.

133. La Ferrari Mangimi, sostenuta dal governo spagnolo, ritiene che la direttiva introduca un’ingiustificata discriminazione tra detti operatori, in quanto obbliga le imprese mangimistiche a fornire informazioni quantitative relative alle materie prime utilizzate, mentre un obbligo analogo non è previsto per i produttori di alimenti, i quali devono soltanto enumerare sulle etichette in ordine di peso decrescente gli ingredienti impiegati, individuandoli con il loro nome o, in alcuni casi, con la loro categoria, ma senza nessuna indicazione quantitativa (art. 6, nn. 5 e 6, della direttiva 2000/13 (35)).

134. Ora, secondo la ben consolidata giurisprudenza della Corte, il principio generale di eguaglianza impone «di non trattare situazioni analoghe in maniera differenziata e situazioni diverse in maniera uguale, a meno che un tale trattamento non sia obiettivamente giustificato» (36). Quindi, per accertare se un’eventuale disparità di trattamento dia luogo ad una discriminazione vietata, bisogna verificare se le due situazioni raffrontate sono analoghe e, in caso affermativo, se il loro trattamento differenziato si fonda su una giustificazione obiettiva.

135. Quanto al primo punto, mi sembra di poter condividere la posizione della Ferrari Mangimi, quando sostiene che quelle dei mangimi per animali da reddito e delle derrate alimentari, sono situazioni raffrontabili, in quanto in entrambi i casi si tratta di prodotti destinati direttamente o indirettamente ad essere consumati dall’uomo e quindi potenzialmente rischiosi per la salute umana.

136. Tale posizione mi sembra del resto coerente con il più volte citato regolamento n. 178/2002, il quale, considerato che gli animali da reddito nutriti con mangimi sono comunque «destinati alla produzione alimentare» (settimo ‘considerando’), stabilisce i principi e i requisiti generali della legislazione alimentare che valgono appunto sia per i mangimi che per gli alimenti.

137. Non credo però di poter seguire la Ferrari Mangimi quando afferma che la disparità di trattamento in esame non sarebbe giustificata.

138. Infatti, come hanno giustamente osservato il Parlamento europeo e la Commissione, sostenuti sul punto dal governo greco, è proprio il settore dei mangimi che è stato all’origine delle più recenti crisi sanitarie della BSE e della diossina e che richiede quindi maggiori vincoli e cautele.

139. Inoltre, a differenza degli alimenti, i mangimi si pongono all’inizio della catena alimentare. Pertanto, mentre la contaminazione degli alimenti prodotti o commercializzati da un’impresa può compromettere la salute della stretta cerchia dei suoi clienti, una crisi nel settore dei mangimi si può propagare esponenzialmente a tutti gli animali che li assumono e poi a tutti i prodotti che ne derivano, con effetti potenzialmente dannosi per una ampissimo numero di consumatori finali.

140. Il che mi induce appunto a ritenere che una disciplina più restrittiva per i mangimi sia obiettivamente giustificata e che quindi, in tal caso, non si possa parlare di discriminazione.

141. Per tale motivo ritengo che le disposizioni dell’art 1, punto 1), lett. b), e punto 4), della direttiva non violino il principio di eguaglianza.

142. A conclusione dell’analisi sulla validità della direttiva, propongo pertanto di dichiare che:

–      l’art. 1, punto 1), lett. b), della direttiva 2002/2 è invalido;

–      per il resto, dall’esame della questione non sono emersi elementi atti a inficiare la validità di tale direttiva.

C –    Sull’applicabilità della direttiva in assenza di un elenco positivo di materie prime utilizzabili nei mangimi composti

143. Con il suo terzo quesito nella causa C-12/04, il giudice italiano chiede in buona sostanza se l’applicazione della direttiva 2002/2 sia subordinata all’adozione di un elenco positivo che enumeri con i loro nomi specifici le materie prime utilizzabili nell’alimentazione animale e se, in assenza di tale elenco, gli Stati membri possano trasporre la direttiva ricorrendo ad un’elencazione di dette materie recante le denominazioni generiche delle loro categorie merceologiche.

144. Nel sollevare la questione, il giudice italiano sembra ritenere che il decimo ‘considerando’ della direttiva 2002/2 ne subordini effettivamente l’applicazione all’adozione di siffatto elenco positivo, la cui assenza renderebbe obiettivamente inapplicabile la nuova disciplina. Tale posizione è condivisa dalla Ferrari Mangimi e dal governo spagnolo.

145. Detto giudice indica inoltre che, nel trasporre l’obbligo, previsto dalla direttiva, di enumerare con i loro nomi specifici le materie prime riportate sull’etichetta, le autorità italiane avrebbero consentito ai produttori di far ricorso alle denominazioni contenute nell’allegato VII, parte A, della legge n. 281/63 e, per quelle ivi non comprese, alle denominazioni riportate nella parte B dello stesso allegato, che corrisponderebbero alle categorie generiche di materie prime fissate dalla direttiva 91/357, ora abrogata dalla direttiva 2002/2. Anche la Ferrari Mangimi ha illustrato queste modalità di trasposizione della direttiva nell’ordinamento italiano, ritenendole scorrette.

146. A tal riguardo, vanno preliminarmente ricordati alcuni elementi già illustrati nel quadro normativo delle conclusioni (v. supra paragrafi 8-16).

147. In quella sede, si è visto che i requisiti di etichettatura dei mangimi composti destinati ad animali da reddito erano stati inizialmente armonizzati dalla direttiva 90/44 secondo il sistema della «dichiarazione flessibile», in base al quale il responsabile dell’etichetta poteva, tra l’altro, scegliere se designare le materie prime impiegate con il loro nome specifico oppure con la denominazione generica della categoria merceologica d’appartenenza (art. 1 punto 5).

148. A seguito delle crisi della BSE e della diossina, con la direttiva 2002/2 il legislatore ha dettato una disciplina più stringente che impone, oltre alle informazioni quantitative sopra esaminate, la necessaria indicazione di dette materie con i loro nomi specifici (art. 1, punto 4, che modifica l’art. 5 quater della direttiva 79/373).

149. Coerentemente con tale previsione, la direttiva 2002/2 ha abrogato la direttiva 91/357 della Commissione, che stabiliva le categorie di materie prime che potevano essere utilizzate per indicare la composizione dei mangimi composti (v. dodicesimo ‘considerando’ e art. 2) (37).

150. Va altresì ricordato che nel suo decimo ‘considerando’ la direttiva 2002/2 chiedeva alla Commissione di presentare al Parlamento europeo e al Consiglio «[i]n base ad uno studio di fattibilità e, al più tardi, il 31 dicembre 2002, (…) una relazione corredata di un’adeguata proposta, che terrà conto delle conclusioni di detta relazione, al fine di compilare un elenco positivo».

151. Ottemperando a tale indicazione, il 24 aprile 2003 la Commissione ha presentato una relazione, nella quale ha però dichiarato che la redazione di un «elenco positivo», ovverosia di «un elenco positivo di materie prime che, previo esame, sono considerate senza pericolo per la salute umana e animale e possono quindi essere utilizzate nell’alimentazione degli animali», non è «decisiva per garantire la sicurezza degli alimenti per animali». Sulla scorta di tale considerazione, la Commissione ha deciso di non presentare alcuna proposta in merito.

152. Ciò premesso, dico subito che, a mio avviso, la trasposizione e l’applicazione dell’obbligo, previsto dalla direttiva, di menzionare le materie prime impiegate con i loro nomi specifici non è subordinato alla compilazione del suddetto «elenco positivo» e che gli Stati membri non possono attuare detto obbligo consentendo che l’indicazione in questione avvenga tramite denominazioni generiche di categoria.

153. Anzitutto, diversamente da quanto sembra ritenere il giudice italiano e come ha giustamente osservato la Commissione, non emerge né dalle disposizioni della direttiva né, tanto meno, dai suoi ‘considerando’ e dalla relazione della Commissione che la trasposizione o l’applicazione della direttiva medesima sia subordinata all’adozione di siffatto elenco.

154. Come ha sottolineato anche il Parlamento europeo, questo dato letterale è poi confermato da un esame cronologico degli adempimenti richiesti dalla direttiva.

155. Come si è visto, infatti, il decimo ‘considerando’, che in quanto tale è privo di valore precettivo, invitava la Commissione a presentare, in base ad uno studio di fattibilità, una relazione corredata di un’adeguata proposta sul problema dell’«elenco» entro il 31 dicembre 2002. L’art. 3, n. 1, fissava poi quale termine ultimo per la trasposizione della direttiva il 6 marzo 2003. Le norme nazionali attuative dovevano infine essere applicate a partire dal 6 novembre 2003.

156. Ora, a me sembra che sarebbe illogico ritenere che il legislatore abbia imposto l’attuazione della direttiva entro il 6 marzo 2003, subordinandone però l’applicazione all’adozione di un ulteriore provvedimento che, semprese fattibile, avrebbe iniziato il suo iter legislativo appena due mesi prima e che si sarebbe quindi protratto con ogni probabilità ben oltre quella data. In altri termini, sarebbe illogico ritenere che il legislatore stesso abbia voluto imporre ad un proprio atto una condizione che in pratica ne avrebbe vanificato la trasposizione e comportato la quasi automatica inapplicabilità.

157. In realtà, non va dimenticato che, per quanto dettagliata, la direttiva 2002/2 si limita, in quanto tale, a fissare un obbligo di risultato, che spetta agli Stati membri raggiungere con i mezzi e le forme opportune.

158. In quest’ottica, essa ha fissato l’obbligo di enumerare con i loro nomi specifici le materie prime impiegate nei mangimi. Spetta poi agli Stati membri stabilire in che modo ciò debba avvenire nei rispettivi ordinamenti nazionali.

159. Certo, tale compito sarebbe stato più facile in presenza di una qualche standardizzazione comunitaria dei nomi specifici cui gli Stati membri avrebbero potuto fare riferimento. Non solo, ma come ha riconosciuto la stessa Commissione, tale standardizzazione, pur non dovendo risolversi necessariamente in un elenco tassativo di materie utilizzabili, resta tuttora auspicabile per garantire una più ampia tutela dei clienti. La Commissione potrebbe pertanto riconsiderarne l’utilità già nell’ambito della nuova relazione sull’attuazione della direttiva da presentare entro il 6 novembre 2006 (v. art. 1, n. 6).

160. In assenza di detta standardizzazione, comunque, sono gli stessi Stati membri a dover individuare i mezzi di trasposizione più appropriati, ricorrendo eventualmente a quelli suggeriti dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte e in udienza (redazione di elenchi nazionali non tassativi o uso delle denominazioni specifiche correnti delle materie prime).

161. In ogni caso, non spetta alla Corte indicare quali di questi mezzi sia il migliore o il più facilmente realizzabile. Quel che invece la Corte può senz’altro escludere è che la trasposizione dell’obbligo di denominazione specifica possa avvenire ricorrendo (come sembra aver fatto il legislatore italiano) ad un’elencazione di dette materie recante le denominazioni generiche delle loro categorie merceologiche, cioè attraverso un sistema che, con l’abrogazione della direttiva 91/357, il legislatore comunitario ha espressamente escluso.

162. Alla luce delle considerazioni sopra esposte ritengo che la trasposizione e l’applicazione della direttiva 2002/2, in particolare dell’obbligo di elencare con i loro nomi specifici le materie prime dei mangimi composti, previsto dall’art. 1, punto 4), della direttiva medesima, non sono subordinate alla compilazione di un elenco di materie prime utilizzabili nell’alimentazione degli animali.

163. Tale obbligo non può essere trasposto dagli Stati membri ricorrendo ad un’elencazione di dette materie recante le denominazioni generiche delle loro categorie merceologiche.

D –    Sull’estensione alle autorità amministrative nazionali del potere di sospendere in via cautelare provvedimenti interni attuativi di atti comunitari di dubbia validità

164. Con il suo secondo quesito, infine, il giudice olandese chiede se le autorità amministrative di uno Stato membro, che quindi di certo non possono essere considerate giurisdizioni ai sensi dell’art. 234 CE, abbiano il potere di sospendere in via cautelare l’esecuzione di provvedimenti nazionali che attuano disposizioni comunitarie la cui validità sia in contestazione, qualora il giudice di un altro Stato membro abbia già chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla validità di quelle disposizioni.

165. Secondo la Nevedi, il quesito merita una risposta positiva.  Essa ricorda infatti che, nella sentenza F.lliCostanzo (38), la Corte ha già riconosciuto che le amministrazioni nazionali devono, al pari delle autorità giurisdizionali, disapplicare le norme nazionali contrarie a direttive con efficacia diretta, senza quindi obbligare i privati a ricorrere inutilmente in giudizio. Tale soluzione, continua la Nevedi, potrebbe essere trasposta anche nel caso di specie: ricorrendone le condizioni, anche le amministrazioni nazionali dovrebbero poter sospendere in via cautelare i provvedimenti attuativi di norme comunitarie di dubbia validità, in modo da evitare ai singoli un inutile ricorso in giustizia e tutte le gravose spese che ne conseguono.

166. A mio avviso, però, tale soluzione non può essere accolta.

167. Osservo in primo luogo che la ratio dell’obbligo di disapplicazione delle amministrazioni nazionali non risiede in esigenze di economia procedurale, ma nel fatto che «gli obblighi derivanti da (…) disposizioni [comunitarie direttamente efficaci] valgono per tutte le autorità degli Stati membri» (39), siano esse giurisdizionali o amministrative.

168. Ma a parte ciò, ritengo che la sentenza F.lliCostanzo non sia affatto pertinente per la soluzione del quesito in esame. In quel caso infatti, si discuteva se le amministrazioni nazionali potessero disapplicare disposizioni interne contrarie a norme comunitarie sicuramente valide. Qui invece ci si chiede se le amministrazioni nazionali possano sospendere in via cautelare disposizioni interne attuative di norme comunitarie sospette di invalidità.

169. E’ chiaro quindi che non sussistono nel caso in esame quelle esigenze di tutela della piena ed uniforme applicazione del diritto comunitario che sottendono alla sentenza F.lli Costanzo.

170. Non è quindi da tale sentenza che si deve partire per rispondere al giudice olandese, ma piuttosto da quelle pronunce – che passo ad esaminare – in cui la Corte ha riconosciuto alle autorità giurisdizionali nazionali il potere cautelare che si vorrebbe ora estendere anche alle autorità amministrative (40).

171. Come hanno giustamente osservato il governo olandese e la Commissione, da tali sentenze emerge anzitutto che il riconoscimento di detto potere ai giudici nazionali costituisce un «temperamento» del monopolio della Corte sul controllo di legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie, nonché del principio dell’uniforme applicazione del diritto comunitario (41). Infatti, tale potere implica la possibilità per il giudice di uno Stato membro di sindacare provvisoriamente la validità dell’atto comunitario, il quale, in caso di sospensione, non viene applicato, sia pure provvisoriamente, in quello Stato.

172. Tale «temperamento», come hanno sottolineato il governo greco e la Commissione, è però giustificato da due esigenze, entrambe fondamentali.

173. La prima è la piena «tutela giurisdizionale» dei privati, la quale esige che «ai singoli [sia] concesso, nel ricorso di determinati presupposti, di ottenere una misura di sospensione che consenta di paralizzare nei loro confronti gli effetti [dell’atto comunitario]» di cui essi contestano la validità (42).

174. La seconda è la «coerenza» del sistema giurisdizionale comunitario, in particolare del «sistema di tutela cautelare», la quale richiede che «la tutela cautelare garantita ai singoli dal diritto comunitario» non vari a seconda che questi impugnino direttamente un atto comunitario dinanzi alla Corte (caso in cui detta tutela è espressamente prevista dall’art. 242 CE) o ne contestino la validità davanti ai giudici nazionali; e, in quest’ultimo caso, a seconda che «essi contestino la compatibilità delle norme nazionali con il diritto comunitario oppure la validità di norme del diritto comunitario derivato» (43).

175. Benché giustificata da tali esigenze, la sospensione dell’ esecuzione di un provvedimento nazionale adottato in applicazione di un atto comunitario, proprio perché tocca i principi fondamentali sopra ricordati, può essere concessa da un giudice nazionale soltanto a precise condizioni. In particolare occorre:

–      che lo stesso giudice nutra gravi riserve in ordine alla validità dell’atto comunitario e provveda direttamente ad effettuare il rinvio pregiudiziale, nell’ipotesi in cui alla Corte non sia già stata deferita la questione di validità dell’atto impugnato;

176. –       che ricorrano gli estremi dell’urgenza e sul richiedente incomba il rischio di subire un pregiudizio grave ed irreparabile;

177. –       e, infine, che il suddetto giudice tenga pienamente conto dell’interesse della Comunità, imponendo, ove necessario, a chi richiede la cautela la prestazione di adeguate garanzie, quali la costituzione di una cauzione o un sequestro a scopo conservativo (44).

178.  Ora, a me sembra che né le esigenze né le condizioni fissate dalla giurisprudenza sopra ricordata ricorrano quando l’autorità in gioco sia un’autorità amministrativa.

179. In particolare, non sussiste l’esigenza di garantire la coerenza del sistema giurisdizionale comunitario che giustifica il riconoscimento di poteri cautelari anche ai giudici nazionali. A differenza di questi, infatti, le autorità amministrative non celebrano, in piena imparzialità e indipendenza, giudizi volti ad assicurare il rispetto dei diritti di origine comunitaria e nel corso dei quali può essere sottoposto un quesito alla Corte. Esse non fanno quindi parte di quel sistema che è stato incentrato dal Trattato sulla parallela esistenza dei mezzi di ricorso diretti e del rinvio pregiudiziale e di cui la Corte ha voluto salvaguardare la coerenza estendendo al secondo il potere di adottare misure previste dai testi soltanto per i primi.

180. Inoltre, come hanno giustamente osservato i governi olandese e italiano e la Commissione, le condizioni indicate per la sospensione di norme nazionali esecutive di un atto comunitario mal si conciliano con la posizione ed i poteri di dette autorità.

181. In particolare, a me sembra che la condizione relativa all’esistenza di un danno grave e irreparabile per il privato richieda una valutazione da parte di un ente terzo, indipendente e imparziale, e non possa essere effettuata dalla stessa autorità che, come nel caso di specie, ha adottato il provvedimento da sospendere e potrebbe, quindi, anche essere interessata al permanere della sua applicazione.

182. Parimenti, i provvedimenti da adottare per tutelare gli interessi della Comunità, in particolare il sequestro conservativo dei beni, sono provvedimenti tipicamente giurisdizionali che, incidendo sui diritti soggettivi dei singoli, sono di solito riservati alla competenza dei giudici. In assenza di provvedimenti di questo tipo, detti interessi non potrebbero essere debitamente salvaguardati e la Comunità verrebbe esposta a rischi, anche di natura finanziaria, inaccettabili.

183. Per le ragioni sopra esposte, ritengo pertanto che le autorità amministrative di uno Stato membro non abbiano il potere di sospendere in via cautelare l’esecuzione di provvedimenti nazionali che attuano disposizioni comunitarie la cui validità sia in contestazione, neppure qualora il giudice di un altro Stato membro abbia già chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla validità di quelle disposizioni.

V –    Conclusioni

184. Alla luce delle considerazioni che precedono propongo alla Corte di dichiarare:

–      Nelle cause C-453/03, C-11/04 (primo, secondo e terzo quesito) e C-12/04 (primo, secondo e quarto quesito), e C-194/04 (primo quesito):

«1)      L’art. 1, punto 1), lett. b), della direttiva 2002/2/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che modifica la direttiva 79/373/CEE del Consiglio relativa alla circolazione dei mangimi composti per animali e che abroga la direttiva 91/357/CEE della Commissione, è invalido;

2)      Per il resto, dall’esame della questione non sono emersi elementi atti a inficiare la validità della direttiva 2002/2/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002, che modifica la direttiva 79/373/CEE del Consiglio relativa alla circolazione dei mangimi composti per animali e che abroga la direttiva 91/357/CEE della Commissione».

–      Nella causa C-12/04 (terzo quesito):

«La trasposizione e l’applicazione della direttiva 2002/2, in particolare dell’obbligo di elencare con i loro nomi specifici le materie prime dei mangimi composti, previsto dall’art. 1, punto 4), della direttiva medesima, non sono subordinate alla compilazione di un elenco di materie prime utilizzabili nell’alimentazione degli animali.

Tale obbligo non può essere trasposto dagli Stati membri ricorrendo ad un’elencazione di dette materie recante le denominazioni generiche delle loro categorie merceologiche».

–      Nella causa C-194/04 (secondo quesito):

«Le autorità amministrative di uno Stato membro non hanno il potere di sospendere in via cautelare l’esecuzione di provvedimenti interni che attuano disposizioni comunitarie la cui validità sia in contestazione, neppure qualora il giudice di un altro Stato membro abbia già chiesto alla Corte di pronunciarsi sulla validità di quelle disposizioni».


1 – Lingua originale: l'italiano.


2  – Ordinanze 6 ottobre 2003 della High Court of Justice, Queen's Bench Division, del Regno Unito; 11 dicembre 2003 del Consiglio di Stato italiano; e 22 aprile 2004 del Rechtbank te 's-Gravenhage dei Paesi Bassi.


3  – GU L 63, pag. 23.


4  –      [Nota per la sola versione italiana delle conclusioni] La versione italiana di tale disposizione, secondo la quale le misure oggetto della deroga devono avere come «obiettivo primario» la protezione della sanità pubblica, non corrisponde alle altre versioni linguistiche, che si esprimono piuttosto in termini di «obiettivo diretto». A tal riguardo cfr. le versioni francese [«mesures (…) ayant directement pour objectif la protection de la santé publique»]; inglese [«measures (…) which have as their direct objective the protection of public health»]; tedesco [«Maßnahmen (…) die unmittelbar den Schutz der Gesundheit der Bevölkerung zum Ziel haben»]; spagnola [«medidas (…) que tengan como objetivo directo la protección de la salud pública»]; portoghese [«medidas (…) que tenham directamente por objectivo a protecção da saúde pública»]. In tal senso v. anche le versioni finlandese, olandese e svedese.


5  – Direttiva relativa alla commercializzazione degli alimenti composti per gli animali (GU L 86, pag. 30).


6  – Direttiva del Consiglio del 22 gennaio 1990, che modifica la direttiva 79/373/CEE relativa alla commercializzazione degli alimenti composti per animali (GU L 27, pag. 35).


7  – Rapport de la Commission sur la faisabilité d'une liste positive de matières premières pour aliments des animaux, del 24 aprile 2003.


8  – GU L 31, pag. 1.


9  –      SI 2003/1503.


10  –      SI 2000/2481.


11  –      GURI del 6 agosto 2003, n. 181.


12  –      PDO-blad n. 42 del 27 giugno 2003.


13– Sentenze 26 gennaio 1993, cause riunite da C-320/90 a C-322/90, Telemarsicabruzzo e a. (Racc. pag. I-393, punto 6); 14 luglio 1998, causa C‑284/95, Safety Hi-Tech (Racc. pag. I-4301, punti 69); 14 luglio 1998, causa C‑341/95, Bettati (Racc. pag. I-4355, punti 67), e 21 settembre 1999, cause riunite da C‑115/97 a C‑117/97, Brentjens' (Racc. pag. I-6025, punto 38).


14– Sentenza 11 settembre 2003, causa C-207/01, Altair Chimica (Racc. pag. I‑8875, punto 25). V. anche ordinanze 30 aprile 1998, cause riunite C-128/97 e C‑137/97, Testa e Modesti (Racc. pag. I‑2181, punto 6); 11 maggio 1999, causa C‑325/98, Anssens (Racc. pag. I‑2969, punto 8), e 28 giugno 2000, causa C‑116/00, Laguillaumie (Racc. pag. I-4979, punto 15).  


15  – V. sentenza 5 ottobre 1994, Germania/Consiglio, causa C-280/93 (Racc. pag. I‑4973, punto 47). V. anche sentenze 9 luglio 1985, causa 179/84, Bozzetti (Racc. pag. 2301, punto 30); 11 luglio 1989, causa 265/87, Schräder (Racc. pag. 2237, punto 22); 21 febbraio 1990, cause riunite da C-267/88 a C‑285/88, Wuidart e a. (Racc. pag. I-435, punto 14), e 19 marzo 1992, causa C-311/90, Hierl (Racc. pag. I-2061, punto 13).


16  – Sentenze 13 novembre 1990, causa C-331/88, Fedesa e a. (Racc. pag. I-4057, punti 8 e 14), e 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito/Consiglio (Racc. pag. I‑5755, punto 58). Il corsivo è mio.


17  – Sentenza 23 febbraio 1988, causa 68/86, Regno Unito/Consiglio (Racc. pag. 855, punto 12), e ordinanza della Corte 12 luglio 1996, causa C-180/96 R, Regno Unito/Commissione (Racc. pag. I‑3903, punto 63).


18  – Sentenza 17 luglio 1997, causa C-183/95, Affish (Racc. pag. I-4315, punti 43 e 57).


19  – Sentenze citate Fedesa e a., punto 17, e Affish, punto 42.


20  – Sentenza Affish, cit.


21  – [Nota per la sola versione italiana delle conclusioni] V. nota 4.


22  – Sentenze 4 aprile 2000, causa C-269/97, Commissione/Consiglio (Racc. pag. I‑2257, punto 43); 30 gennaio 2001, causa C-36/98, Spagna/Consiglio (Racc. pag. I‑779, punto 58); e 10 dicembre 2002, causa C-491/01, British American Tabacco (Investments) e Imperial Tobacco (Racc. pag. I‑11453, punto 93).


23  – Causa C-376/98 (Racc. pag. I-8419, punti 84 e 85). Il corsivo è mio.


24  – Sentenza British American Tabacco, cit., punto 122. V. anche sentenze 18 novembre 1987, causa 137/85, Maizena (Racc. pag. 4587, punto 15); 7 dicembre 1993, causa C-339/92, ADM Ölmühlen (Racc. pag. I-6473, punto 15); 9 novembre 1995, causa C-426/93, Germania/Consiglio (Racc. pag. I-3723, punto 42); 12 novembre 1996, Regno Unito/Consiglio, cit., punto 57; 11 luglio 2002, causa C‑210/00, Käserei Champignon Hofmeister (Racc. pag. I‑6453, punto 59).


25  – Sentenze Schräder, cit., punto 15; 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf (Racc. pag. 2609, punto 18); 10 gennaio 1992, causa C-177/90, Kühn (Racc. pag. I‑35, punto 16); e sentenza 5 ottobre 1994, Germania/Consiglio, cit., punto 78. Con specifico riferimento al diritto di proprietà, v. anche sentenze 13 dicembre 1979, causa 44/79, Hauer (Racc. pag. 3727, punto 23); 29 aprile 1999, causa C-293/97, Standley e a. (Racc. pag. I‑2603, punto 54). Con specifico riferimento alla libertà d'impresa, v. sentenza Affish, cit., punto 42.  


26  – Il corsivo è mio.


27  –      A tale riguardo la Nevedi cita la decisione 2000/766/CE del Consiglio, del 4 dicembre 2000, relativa a talune misure di protezione nei confronti delle encefalopatie spongiformi trasmissibili e la somministrazione di proteine animali nell'alimentazione degli animali (GU L 306, pag. 32); il regolamento (CE) n. 1234/2003 della Commissione, del 10 luglio 2003, che modifica gli allegati I, IV e XI del regolamento (CE) n. 999/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio e regolamento (CE) n. 1326/2001 relativo alle encefalopatie spongiformi trasmissibili e all'alimentazione degli animali (GU L 173, pag. 6); la direttiva 2001/102/CE del Consiglio, del 27 novembre 2001, che modifica la direttiva 1999/29/CE del Consiglio relativa alle sostanze e ai prodotti indesiderabili nell'alimentazione degli animali (GU L 6, pag. 45); la direttiva 2002/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 maggio 2002, relativa alle sostanze indesiderabili nell'alimentazione degli animali dichiarazione del Consiglio (GU L 140, pag. 10), e la direttiva 2003/57/CE della Commissione, del 17 giugno 2003, recante modifica della direttiva 2000/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle sostanze e ai prodotti indesiderabili nell'alimentazione degli animali (GU L 151, pag. 38).


28  –      Durante l'iter legislativo, il Consiglio aveva proposto un sistema di questo tipo che obbligava il responsabile dell'etichetta a dichiarare le materie prime contenute nei mangimi composti in base alla loro percentuale rispetto al peso, in ordine decrescente, all'interno di cinque «fasce» o «forcelle» (prima fascia: > 30%; seconda fascia: > 15-30%; terza fascia: >5-15%; quarta fascia: 2-5%; quinta fascia: < 2%). V. posizione comune definita dal Consiglio il 19 dicembre 2000 (GU C 36, pag. 35).


29  – A tale riguardo v. la direttiva 2003/100/CE della Commissione, del 31 ottobre 2003, che modifica l'allegato I della direttiva 2002/32/CE del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alle sostanze indesiderabili nell'alimentazione degli animali (GU L 285, pag. 33).


30  – Sentenza Schräder, cit., punto 21. V. anche sentenza 12 settembre 1996, cause riunite C‑254/94 e C-255/94 e C-269/94, Fattoria autonoma tabacchi e a. (Racc. pag. I‑4235, punto 55).


31  – Sentenza 5 maggio 1998, causa C-157/96, National Farmers' Union e a. (Racc. pag. I‑2211, punto 63).


32  – Il corsivo è mio.


33  – Sentenza 12 novembre 1996, Regno Unito/Consiglio, cit. punto 39.


34  – Sentenza British American Tobacco, cit. punto 80.


35  – Direttiva 2000/13/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 marzo 2000, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti l'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari, nonché la relativa pubblicità (GU L 109, pag. 29).


36  – Tra tante, v. sentenze 29 giugno 1995, causa C-56/94, SCAC (Racc. pag.  I‑1769, punto 27); 17 aprile 1997, causa C-15/95, EARL de Kerlast (Racc. pag. I‑1961, punto 35); 17 luglio 1997, causa C-354/95, National Farmers' Union e a. (Racc. pag. I‑4559, punto 61), e 13 aprile 2000, causa C-292/97, Karlsson e a.(Racc. pag. I‑2737, punto 39).


37  – Direttiva 91/357/CEE della Commissione, del 13 giugno 1991, che stabilisce le categorie di ingredienti che possono essere utilizzate per l'indicazione della composizione degli alimenti composti destinati ad animali diversi da quelli familiari (GU L 193, pag. 34).


38  – Sentenza 22 giugno 1989, causa 103/88, F.lli Costanzo (Racc. pag. 1839).


39  – Idem, cit., punto 30.


40  – V., in particolare, sentenze 21 febbraio 1991, cause riunite C-143/88 e C-92/89, Zuckerfabrik (Racc. pag. I-415), e 9 novembre 1995, causa C-465/93, Atlanta e a. (Racc. pag. I-3761).


41  – Sentenza Zuckerfabrik, cit., punto 17 e sentenza 22 ottobre 1987, causa 314/85, Foto-Frost (Racc. pag. 4199, punto 19).


42  – Sentenza Zuckerfabrik, cit., punti 16 e 17.


43  – Idem, punti 18-20.


44  – Idem, punti 22-33.

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