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Document 62001CC0475

    Conclusioni dell'avvocato generale Tizzano del 15 gennaio 2004.
    Commissione delle Comunità europee contro Repubblica ellenica.
    Inadempimento di uno Stato - Violazione dell'art. 90, primo comma, CE - Diritti di accisa sull'alcool e le bevande alcoliche - Applicazione di un'aliquota meno elevata all'ouzo rispetto alle altre bevande alcoliche - Conformità di tale aliquota ad una direttiva non impugnata entro il termine previsto dall'art. 230 CE.
    Causa C-475/01.

    Raccolta della Giurisprudenza 2004 I-08923

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:2004:22

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

    ANTONIO TIZZANO

    presentate il 15 gennaio 2004 (1)

    Causa C-475/01

    Commissione delle Comunità europee

    sostenuta da

    Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord

    contro

    Repubblica ellenica

    «Ricorso per inadempimento – Asserita incompatibilità di una legislazione nazionale – Conformità di questa ad una direttiva non impugnata – Condizioni di ricevibilità – Art. 90 CE – Accise – Ouzo e altre bevande – Eventuale similarità»





    1.        Nella presente causa la Commissione europea contesta alla Grecia di aver mancato agli obblighi che le incombono in virtù dell’art. 90, primo comma, CE per avere applicato all’ouzo un’aliquota di accisa ridotta rispetto a quella applicata ad altre bevande alcoliche.

    I –    Quadro giuridico

    La disciplina comunitaria

    2.        Com’è noto, l’art. 90 CE stabilisce che:

    «Nessuno Stato membro applica direttamente o indirettamente ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne, di qualsivoglia natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari.

    Inoltre, nessuno Stato membro applica ai prodotti degli altri Stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni».

    3.        La direttiva 92/83/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, relativa all’armonizzazione delle strutture delle accise sull’alcole e sulle bevande alcoliche (2) (in prosieguo: la «direttiva 92/83»), suddivide le bevande alcoliche in cinque sezioni, dedicate ciascuna una categoria: sezione I «birra» (artt. 1-6); sezione II «vino» (artt. 7‑10); sezione III «bevande fermentate» (artt. 11‑15); sezione IV «prodotti intermedi» (artt. 16‑18) e sezione «alcol etilico» (artt. 19‑26).

    4.        L’art. 19 di tale direttiva dispone che:

    «1. Gli Stati membri applicano un’accisa sull’alcole etilico conformemente alla presente direttiva.

    2. Gli Stati membri stabiliscono le proprie aliquote conformemente alla direttiva 92/84/CEE».

    5.        A sua volta, l’art. 20 della stessa direttiva prevede che:

    «Ai fini dell’applicazione della presente direttiva, si intendono per «alcole etilico»:

    –      tutti i prodotti che hanno un titolo alcolometrico effettivo superiore all’1,2% vol. e che rientrano nei codici NC 2207 e 2208, anche quando essi sono parte di un prodotto di un altro capitolo della nomenclatura combinata;

    –      i prodotti che hanno un titolo alcolometrico effettivo superiore a 22% vol. e che rientrano nei codici NC 2204, 2205 e 2206;

    –      le bevande spiritose contenenti prodotti solidi o in soluzione».

    6.        Ai sensi dell’art. 21 della direttiva, poi, gli Stati membri sono tenuti ad applicare «la medesima aliquota di accisa a tutti i prodotti soggetti all’accisa sull’alcole etilico».

    7.        L’art. 22 della medesima direttiva autorizza, tuttavia, gli Stati membri ad «applicare aliquote di accisa ridotte sull’alcole etilico fabbricato da piccole distillerie (…)» a condizione, fra l’altro, che «l’aliquota ridotta da essi eventualmente stabilita sia applicata in modo uniforme all’alcole etilico fornito sul loro territorio da piccoli produttori indipendenti stabiliti in altri Stati membri».

    8.        Inoltre, ai sensi dell’art. 23:

    «I seguenti Stati membri possono applicare ai prodotti in appresso aliquote ridotte che possono essere inferiori all’aliquota minima, ma non possono essere inferiori di oltre il 50% all’aliquota nazionale normale applicata per l’alcole etilico:

    1)         Repubblica francese: rum quale definito all’articolo 1, paragrafo 4, lettera a) del regolamento (CEE) n. 1576/89, ottenuto con zucchero di canna prodotto nel luogo di fabbricazione di cui all’articolo 1), paragrafo 3, punto 1 di detto regolamento, avente un tenore di sostanze volatili diverse dagli alcoli etilico e metilico pari o superiore a 225 grammi per ettolitro di alcole puro e un titolo alcolometrico effettivo uguale o superiore al 40% vol..

    2)         Repubblica ellenica: bevande spiritose all’anice quali definite nel regolamento (CEE) n. 1576/89, incolori e aventi un tenore di zucchero pari o inferiore a 50 grammi al litro e in cui l’alcole aromatizzato ottenuto per distillazione in alambicchi tradizionali discontinui di rame di capacità uguale o inferiore a 1 000 litri rappresenta almeno il 20% del titolo alcolometrico effettivo del prodotto finale».

    9.        Conviene al riguardo ricordare che, in precedenza, il regolamento (CEE) n. 1576/89 del Consiglio, del 29 maggio 1989, che stabilisce le regole generali relative alla definizione, alla designazione e alla presentazione delle bevande spiritose (3) (in prosieguo: il «regolamento n. 1576/89»), aveva previsto, all’art. 1, n. 4, lett. o), punto 3, che:

    «Per essere denominata ouzo la bevanda spiritosa aromatizzata con anice deve:

    –      essere elaborata esclusivamente in Grecia;

    –      essere ottenuta dalla combinazione degli alcoli aromatizzati per distillazione o macerazione, con l’impiego dei semi dell’anice ed eventualmente del finocchio, del mastice derivante da un lentisco indigeno dell’isola di Chios (Pistacia lentiscus Chia o latifolia) e di altri semi, piante e frutti aromatici; l’alcole aromatizzato per distillazione deve rappresentare almeno il 20% del titolo alcolometrico dell’ouzo.

    Tale distillato deve:

    –      essere ottenuto per distillazione in alambicchi tradizionali discontinui di rame di capacità uguale o inferiore a 1 000 litri.

    –      avere un titolo alcometrico non inferiore a 55% vol e non superiore a 80% vol.. L’ouzo deve essere incolore, con un tenore di zucchero uguale o inferiore a 50 grammi a litro».

    10.      Va inoltre ricordato, poi, che la direttiva 92/84/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, relativa al ravvicinamento delle aliquote di accisa sull’alcole e sulle bevande alcoliche (in prosieguo: la «direttiva 92/84») (4), impone agli Stati membri di non applicare aliquote inferiori ad una certa soglia. Ai sensi dell’art. 3, n. 1, infatti:

    «A decorrere dal 1º gennaio 1993, l’aliquota minima dell’accisa sull’alcole e sull’alcole contenuto in bevande diverse [dai prodotti intermedi, dal vino e dalla birra] è fissata a ecu 550 per ettolitro di alcole puro».

    11.      Infine, ai sensi dell’art. 7, n. 1, della medesima direttiva:

    «La Repubblica ellenica può applicare un’aliquota ridotta di accisa sull’alcole etilico consumato nei dipartimenti di Lesbo, di Chio, di Samo, del Dodecaneso e delle Cicladi nonché nelle seguenti isole del mar Egeo: Taso, Sporadi settentrionali, Samotracia e Schiro.

    L’aliquota ridotta, che può essere inferiore all’aliquota minima di accisa, non può essere inferiore di oltre il 50% all’aliquota nazionale normale di accisa per l’alcole etilico».

    La disciplina nazionale

    12.      La Grecia ha trasposto la direttiva 92/83 nel proprio ordinamento giuridico con la legge n. 2127/93.

    13.      In base a tale legge l’aliquota di base dell’accisa per cento litri di alcol puro viene fissata a 293 709 dracme (equivalenti a euro 861 949), ma è ridotta del 50% per l’ouzo dall’art. 26 della medesima legge.

    II – Fatti e procedura

    14.      A seguito di alcune denunce di privati, che lamentavano l’applicazione da parte delle autorità greche di un’aliquota di accisa più favorevole all’ouzo rispetto a quella applicata ad altre bevande alcoliche quali il gin, la vodka, il whisky, il rum, la tequila e l’arak, il 16 dicembre 1998 la Commissione, dopo aver chiesto chiarimenti a dette autorità, inviava una lettera di messa in mora per contestare la violazione dell’art. 90 CE. Insoddisfatta delle risposte ricevute, con parere motivato del 10 agosto 1999, invitava la Grecia ad adottare le misure necessarie a rimuovere la violazione contestata. A fronte del rifiuto opposto da quello Stato di conformarsi a tale parere, il 6 dicembre 2001 la Commissione adiva la Corte con il presente ricorso.

    15.      Dinanzi alla Corte hanno presentato osservazioni scritte la Commissione e la Repubblica ellenica.

    16.      Con lettera del 4 aprile 2003 la Corte ha chiesto alla Commissione di chiarire se gli argomenti da essa addotti a fondamento del proprio ricorso non equivalgano a mettere in dubbio la validità dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83. Anche il Consiglio è stato invitato a presentare osservazioni a tale riguardo. La Corte ha inoltre chiesto alla Commissione di chiarire come la Grecia avrebbe potuto dare attuazione al predetto articolo della direttiva senza violare né l’art. 90 CE né la direttiva 92/84, che stabilisce le aliquote minime applicabili all’alcol ed alle bevande alcoliche. Infine, la Corte ha chiesto alla Commissione di indicare se la Repubblica francese si sia avvalsa, ed in che modo, della facoltà concessale dall’art. 23, n. 1, della direttiva 92/83.

    17.      In risposta a tali quesiti la Commissione ed il Consiglio hanno presentato osservazioni scritte, rispettivamente, in data 17 aprile e 5 maggio 2003.

    18.      La Commissione e la Repubblica ellenica hanno inoltre partecipato all’udienza tenutasi il 16 settembre 2003.

    19.      Con istanza depositata alla Corte il 6 maggio 2002, il Regno Unito ha chiesto di intervenire a sostegno delle conclusioni della Commissione. L’istanza è stata accolta con ordinanza del presidente della Corte del 25 luglio 2002. Il Regno Unito, tuttavia, non ha presentato alcuna osservazione scritta nel corso della procedura, né ha partecipato all’udienza del 16 dicembre 2003.

    III – Analisi giuridica

    A – Sull’irricevibilità del ricorso per l’avvio tardivo della fase precontenziosa

    Sintesi degli argomenti delle parti

    20.      La Grecia afferma di aver adottato il regime fiscale oggetto di contestazione nel 1993 in piena conformità all’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83 e di avere di ciò tempestivamente informato la Commissione ai sensi dell’art. 29 della medesima direttiva. In tale occasione, la Commissione non avrebbe sollevato alcuna obiezione e solo il 28 aprile del 1997 avrebbe comunicato i propri dubbi in merito alla compatibilità di detto regime con l’art. 90 CE.

    21.      Ora, a parere del governo ellenico, il fatto che la Commissione, pur essendo a conoscenza fin dal 1993 della disposizione nazionale controversa, abbia avviato un procedimento di infrazione solo alcuni anni più tardi costituirebbe una violazione dei principi di buona fede, del legittimo affidamento e della certezza del diritto.

    22.      Di diverso avviso è la Commissione. Secondo quest’ultima, infatti, essa disporrebbe di un ampio margine di discrezionalità non solo quanto al momento in cui promuovere il ricorso di cui all’art. 226, secondo comma, CE, ma anche quanto all’opportunità di avviare la relativa procedura precontenziosa. Nel caso di specie, per l’appunto, essa ha ritenuto opportuno agire a seguito di una denuncia da parte di terzi interessati. In ogni caso, continua la Commissione, gli Stati membri non potrebbero giustificare il mantenimento di una normativa nazionale in contrasto con le norme del Trattato invocando l’eventuale tardività del ricorso per inadempimento.

    Valutazione

    23.      Mi sembra che su questo punto la tesi della Commissione sia più fedele ad un ben noto e costante indirizzo della giurisprudenza comunitaria.

    24.      Come la stessa Commissione ha ricordato, infatti, risulta da tale giurisprudenza che ad essa spetta decidere se e quando sia opportuno promuovere un ricorso ai sensi dell’art. 226, secondo comma, CE (5), e che spetta sempre ad essa decidere se sia opportuno avviare la fase di cui al primo comma, del medesimo articolo, che precede ed è funzionale a quella contenziosa (6). Mi pare evidente che in quest’ultima affermazione non può non essere incluso anche il riconoscimento della discrezionalità della Commissione su quando avviare detta fase precontenziosa.

    25.      Osservo, d’altra parte, che la tesi del governo ellenico equivarrebbe ad imporre un termine di decadenza per l’esercizio del potere della Commissione di avviare la procedura in questione, e quindi una limitazione di tale potere di cui non v’è alcuna traccia nei testi e che non può essere desunta in via implicita, ancorché in nome dei principi di buona fede, del legittimo affidamento e della certezza del diritto.

    26.      Ciò tanto più che la Corte non è rimasta indifferente alle esigenze sottostanti a tali principi, visto che ha avuto modo di chiarire che «in alcune ipotesi, una durata eccessiva della fase precontenziosa del procedimento prevista dall’art. 169 del Trattato [divenuto art. 226 CE; ma lo stesso può dirsi, a mio avviso, per l’eccessivo ritardo nell’avvio della procedura] può aumentare, per lo Stato coinvolto, la difficoltà di confutare gli argomenti della Commissione e violare, pertanto, i diritti della difesa» (7).

    27.      Incombe però allo Stato convenuto fornire la dimostrazione delle difficoltà in parola e della loro incidenza sull’esercizio del diritto della difesa. Ma nel caso di specie la Grecia non solo non ha dimostrato, ma neppure ha invocato l’argomento.

    28.      Alla luce di quanto precede ritengo pertanto infondato il presente motivo d’irricevibilità.

    B – Sulla questione preliminare concernente l’esistenza di una disposizione comunitaria che autorizza la legislazione nazionale contestata

    Sintesi degli argomenti delle parti

    29.      Nella risposta alla richiesta di chiarimenti formulata dalla Corte in data 4 aprile 2003 (v. supra paragrafo 16), il Consiglio, senza sollevare formalmente un’eccezione di irricevibilità, obietta che con il presente ricorso in realtà la Commissione non mette in causa la compatibilità del comportamento del governo ellenico con il diritto comunitario, ma direttamente la validità dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83.

    30.      A suo parere, tuttavia, ciò non è compatibile con il sistema delle impugnazioni predisposto dal Trattato. Questo, come ha chiarito la Corte, «distingue i ricorsi di cui agli artt. 226 CE e 227 CE, che mirano a far accertare che uno Stato membro non ha adempiuto agli obblighi che gli incombono, dai ricorsi di cui agli artt. 230 CE e 232 CE, che mirano a far controllare la legittimità degli atti o delle omissioni delle istituzioni comunitarie». Ciò appunto perché le due vie di ricorso perseguono obiettivi diversi e sono sottoposte a modalità e condizioni diverse (8). Consentire alla Commissione di contestare, nell’ambito di un ricorso per inadempimento, e quindi oltre il termine di cui all’art. 230, quinto comma, CE, la validità di un atto adottato da un’altra istituzione non si concilierebbe, continua il Consiglio, con il principio della certezza del diritto in base al quale gli atti comunitari non possono essere messi in discussione indefinitamente.

    31.      Nella sua risposta alla medesima richiesta di chiarimenti formulata dalla Corte, la Commissione contesta tali deduzioni asserendo che con il presente ricorso essa ha effettivamente, ed unicamente, di mira il comportamento del governo ellenico e che non intende quindi mettere in alcun modo in discussione la validità dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83.

    32.      Per spiegare i tempi e le modalità della propria iniziativa, la Commissione evoca la sentenza della Corte di giustizia nel caso Socridis. Si deduce da tale sentenza, secondo la ricorrente, che, anche se una direttiva comporta per la propria attuazione modalità incompatibili con il Trattato, non per questo essa è illegittima; lo sarà solo se il margine di scelta lasciato agli Stati non è sufficientemente ampio da consentire loro di attuare la direttiva in un senso conforme alle prescrizioni del Trattato (9). Non è questo però che accade nel caso di specie, dal momento che l’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83 non impone, ma si limita a permettere alla Grecia di applicare un’aliquota di accisa ridotta a favore dell’ouzo. Ne consegue che, non sapendo a priori né come né quando lo Stato membro in causa avrebbe applicato quella disposizione, la Commissione non avrebbe potuto né chiedere l’annullamento della stessa ai sensi dell’art. 230 CE, né agire immediatamente contro quello Stato.

    33.      Ad avvalorare tale posizione, la Commissione ricorda che il diciassettesimo ‘considerando’ della direttiva 92/83 prevede che «nei casi in cui gli Stati membri possono applicare aliquote ridotte, queste non devono avere l’effetto di falsare la concorrenza nell’ambito del mercato interno». Con tale ‘considerando’ – osserva la Commissione – il Consiglio avrebbe trasferito sugli Stati membri la responsabilità di verificare se l’applicazione di aliquote ridotte a favore di determinati prodotti fosse compatibile con il Trattato.

    34.      Nel caso di specie, quindi, incombeva alla Grecia la responsabilità di applicare l’art. 23, n. 2, della direttiva in modo da non violare il diritto comunitario, e questo – riconosce la Commissione – le sarebbe stato possibile solo rinunciando ad avvalersi della deroga autorizzata da tale disposizione.

    35.      Quanto all’obiezione sul diverso trattamento riservato alla Francia in relazione all’analoga facoltà concessa a questo Stato dall’art. 23, n. 1, della direttiva 92/83 di applicare un’aliquota di accisa ridotta a favore del rum, la Commissione ribatte che in questo caso la deroga si fonderebbe sull’art. 227 (divenuto art. 299), n. 2, CE, che prevede l’adozione da parte del Consiglio di misure specifiche intese a promuovere lo sviluppo economico e sociale dei dipartimenti francesi d’oltremare (10).

    36.      In udienza, poi, la Commissione ha ribadito ancora una volta che non era e non è suo intento rimettere in causa, né direttamente né indirettamente (in particolare, con un’eccezione d’invalidità ex art. 241 CE), la legittimità dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83. A suo avviso, tuttavia, anche se alla fine il presente ricorso avesse un’incidenza sotto tale profilo, non per questo potrebbe risultarne precluso il pieno esercizio del potere ad essa conferito dall’art. 226 CE. Ciò sia perché il ricorso di annullamento e il ricorso per inadempimento hanno scopi diversi, sia perché il Trattato non stabilisce alcun limite al potere della Commissione di introdurre un ricorso per inadempimento ma, al contrario, le conferisce un ampio margine di discrezionalità. Ma soprattutto – e questo mi pare il punto centrale del ragionamento della Commissione – perché, anche se è scaduto il termine per proporre un ricorso di annullamento avverso un atto di diritto derivato che accorda una deroga, essa avrebbe pur sempre il potere/dovere di eccepire l’incompatibilità con il Trattato dei comportamenti che si fondano su tale deroga. A suo parere, infatti, la persistenza di simili comportamenti non potrebbe giustificarsi neppure in nome del principio della certezza del diritto.

    37.      Del resto, ricorda la Commissione, la Corte avrebbe già avuto occasione, nell’ambito di rinvii pregiudiziali, di interpretare una norma del Trattato in modo tale da indurre il legislatore a ritenere illegittime disposizioni di diritto derivato fondate su quella norma, e quindi a modificarle. Ciò segnatamente nella sentenza Barber (11), con riguardo alla facoltà concessa agli Stati membri dall’art. 9 della direttiva 86/378/CEE (12) di differire l’attuazione del principio di parità di trattamento, di cui all’art. 119 del Trattato CE (divenuto in seguito art. 141 CE), in relazione alla fissazione del limite di età per la concessione delle pensioni di vecchiaia. In quella pronuncia, avendo la Corte affermato che l’art. 119 del Trattato CE non ammette tale tipo di deroghe, il Consiglio aveva ritenuto che talune disposizioni della direttiva 86/378 fossero parzialmente illegittime e andassero pertanto modificate (13).

    38.      Per parte sua, la Grecia, che ha avuto modo di esprimersi solo in udienza sul punto in discussione, aderisce alle obiezioni del Consiglio, ed aggiunge: che il regime fiscale oggetto di contestazione traspone alla lettera l’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83; che una siffatta disposizione non avrebbe potuto essere inserita nella direttiva senza una previa valutazione della sua compatibilità con il Trattato; e che comunque lo scopo della stessa, cioè la tutela di un prodotto regionale e tradizionale quale l’ouzo, non sarebbe evidentemente perseguibile se – come pretende la Commissione – ad essa non si potesse dare in alcun modo applicazione.

    Valutazione

    39.      Ho riferito con una certa ampiezza gli argomenti delle parti non solo perché quella ora evocata è, a mio avviso, la questione centrale della presente causa, ma anche perché le posizioni delle parti ne hanno reso più complessa la qualificazione sul piano giuridico. In effetti, essa potrebbe essere considerata una questione di ricevibilità se si facesse carico alla Commissione (come sembra fare il Consiglio) di aver inteso, con il presente ricorso, aggirare l’avvenuta scadenza dei termini di cui all’art. 230, quinto comma, CE per chiedere l’annullamento dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83. In caso diverso, ove cioè si discutesse effettivamente (come dichiara di voler fare la Commissione) della liceità del comportamento del governo ellenico e quindi della possibilità di contestare tale comportamento malgrado la sua conformità a quella disposizione, allora la questione sarebbe di merito ed atterebbe di conseguenza alla fondatezza del ricorso. Ed è proprio per questa latente ambiguità della questione che ne separo l’esame sia dalla ricevibilità che dal merito del ricorso.

    40.      Ciò detto, credo che convenga sciogliere subito tale ambiguità rimuovendo, per le ragioni che passo ad illustrare, l'obiezione del Consiglio.

    41.      Tale obiezione, come ho detto, nasce dal sospetto che, dietro lo schermo della procedura d'infrazione, il presente ricorso intenda in realtà mettere in questione la legittimità dell'art. 23, n. 2, della direttiva 92/83.

    42.      Se tale però dovesse essere lo scopo del ricorso, sarebbe agevole pronosticargli un esito negativo. Si dovrebbe infatti obiettare, come ha fatto anche il Consiglio, che la Commissione si è ben guardata dal ricorrere direttamente e tempestivamente contro la disposizione della direttiva di cui si discute, come pure avrebbe potuto facilmente fare, visto che, avendo proposto l’atto, era ben a conoscenza del suo contenuto e delle sue implicazioni fin dal momento della sua adozione. Essa non potrebbe allora reagire solo molti anni più tardi, rimettendo in causa la legittimità dell’atto per vie diverse da quelle previste dal sistema, e meno ancora potrebbe farlo utilizzando una procedura, quale quella di infrazione, che finirebbe con il colpire in modo obliquo non già l’autore, ma il destinatario dell’atto, o meglio il primo per il tramite del secondo.

    43.      Ove dunque, per avventura, pretendesse di mettere in causa non già il comportamento del governo ellenico, ma l’art. 23, n 2, della direttiva 92/83, sul quale tale comportamento si fonda, il presente ricorso dovrebbe essere dichiarato irricevibile appunto perché utilizzerebbe in modo improprio il sistema dei ricorsi istituito dal Trattato (14).

    44.      Come ho già ricordato, però, la Commissione respinge decisamente ogni sospetto di abuso di procedura. L'obiettivo da essa ripetutamente dichiarato è unicamente di far accertare l'incompatibilità della legislazione greca in causa con l'art. 90 CE. In nessun modo, invece, essa intende mettere in questione la legittimità della disposizione della direttiva cui detta legislazione ha dato attuazione.

    45.      Così stando le cose, non vedo allora alcun motivo per non attenersi a queste precisazioni nell'individuare l'oggetto del presente ricorso, tanto più che la Commissione fornisce una specifica motivazione al riguardo.

    46.      Essa sostiene infatti di aver promosso la procedura d'infrazione, anziché un ricorso di annullamento ai sensi dell'art. 230 CE, perché, a suo avviso, nel caso di specie non è in questione la legittimità della ricordata disposizione della direttiva, ma proprio e solo il comportamento del governo ellenico.

    47.      Secondo la Commissione, infatti, la disposizione in questione non impone alla Repubblica greca l’adozione della normativa fiscale controversa, ma la lascia libera di scegliere se, come e quando adottarla. È dunque questa scelta, e non la disposizione della direttiva, ad essere oggetto del presente ricorso; per questo stesso motivo, d’altra parte, la procedura d’infrazione non poteva essere avviata prima che il governo ellenico avesse operato detta scelta.

    48.      Devo osservare però che, anche restando nella prospettiva indicata dalla Commissione, faccio molto fatica a seguire il suo ragionamento.

    49.      Certo, dall’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83 risulta con evidenza che la Grecia era libera di decidere se e quando esercitare la facoltà concessale; ma risulta con altrettanta evidenza che detto Stato non era affatto libero di decidere come esercitare quella facoltà.

    50.      Come ha infatti riconosciuto la stessa Commissione, la Grecia aveva davanti a sé la seguente opzione: o valersi tout court della deroga accordatale dall’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83, ma in questo caso avrebbe violato (secondo quanto ora pretende la ricorrente) l’art. 90 CE, oppure farne un’applicazione estesa a tutti i prodotti similari e/o concorrenti con l’ouzo, ma in questo caso avrebbe violato la direttiva 92/84 che, come si è detto (v. supra, paragrafo 10), vieta in principio agli Stati membri di applicare aliquote inferiori ad un’aliquota minima.

    51.      In altri termini, stando alla stessa tesi della Commissione, la Grecia non aveva alcuna possibilità di scegliere come applicare la disposizione in modo compatibile con le regole del Trattato (sentenza Socridis, supra paragrafo 32); essa aveva solo la paradossale "libertà" di non utilizzare la deroga concessale da tale disposizione. Secondo la Commissione, però, è proprio questo che detto Stato avrebbe dovuto fare, di sua propria iniziativa, per evitare di violare l’art. 90 CE.

    52.      Ora, a parte il fatto che in questo modo si finisce col riversare sugli stessi soggetti destinatari di un atto la responsabilità di valutare se il comportamento da questo autorizzato sia o meno legittimo, c’è da chiedersi per qual motivo e su quale base il governo ellenico avrebbe dovuto considerarsi investito del potere/dovere di operare autonomamente una siffatta valutazione. Ciò tanto più che: il legislatore comunitario aveva evidentemente già formulato tale valutazione per proprio conto, formalmente e ritualmente autorizzando la deroga; che la stessa Commissione si era ben guardata dal contestarla in tempo utile (e per molto tempo ancora); che il significato della norma non si prestava ad equivoci; che per giunta altri Stati membri (come la Francia), quale che ne fosse poi la giustificazione, avevano contestualmente ed in termini del tutto analoghi ricevuto l’autorizzazione ad avvalersi di identiche deroghe. E nel merito, poi, non avrebbe potuto il governo ellenico pervenire a risultati diversi da quelli della Commissione quanto alla legittimità della deroga, ritenendo ad esempio (come in effetti ritiene) che non vi fosse similarità tra l’ouzo e gli altri prodotti in causa e che la diversità di trattamento autorizzata dalla deroga fosse legittimata da esigenze di tutela di un prodotto regionale e tradizionale? E se tale fosse stato il suo giudizio, chi, come e quando avrebbe potuto o dovuto avvertirlo del contrario? La stessa Commissione, se e quando si fosse decisa ad accorgersene?

    53.      D’altra parte, e sempre restando nella logica della Commissione, non mi pare neppure che potesse costituire una sorta di caveat per il governo ellenico la dichiarazione di cui al ricordato diciassettesimo ‘considerando’ della direttiva secondo il quale, nelle ipotesi in cui gli Stati membri sono autorizzati ad applicare aliquote ridotte, tali aliquote «non devono avere l’effetto di falsare la concorrenza nell’ambito del mercato interno» (v. supra, paragrafo 33).

    54.      Non è affatto evidente, invero, che tale ‘considerando’ si riferisca a tutti i casi in cui la direttiva prevede l’applicazione di aliquote ridotte. Non si spiegherebbe infatti perché poi, nell’articolato della stessa direttiva, il divieto in esso annunciato sia espressamente ribadito in alcune disposizioni che contemplano quelle aliquote (15) e omesso invece nell’art. 23. Proprio la diversa disciplina conferma semmai che quella specificamente accordata dal legislatore comunitario alla Grecia per l’ouzo (come alla Francia per il rum) era un’autentica deroga alle regole generali della direttiva.

    55.      Non mi pare dunque che il giudizio sull'illegittimità dell’applicazione della deroga potesse essere così scontato da giustificare quella sorta di autotutela alla rovescia che la Commissione avrebbe preteso dalla Grecia.

    56.      Né quanto precede è contraddetto dalla sentenza Barber, che la Commissione evoca, a mio avviso impropriamente, a sostegno della propria tesi (v. supra, paragrafo 37). Ricordo che in quel caso veniva richiesto alla Corte (non quindi alla valutazione unilaterale di una parte) di pronunciarsi in via pregiudiziale sulla portata di una norma generale del Trattato (l’art. 119 del Trattato CE). Per effetto di tale pronuncia venne di molto limitata la portata di una direttiva fondata su detta norma e divennero, di conseguenza, incompatibili con quest’ultima i comportamenti degli Stati membri autorizzati dalla stessa direttiva.

    57.      Ora, a parte le ulteriori deduzioni che da tale precedente trarrò tra breve (paragrafo 61), mi limito a sottolineare, ai fini qui in discussione, come la Corte abbia riconosciuto, nella situazione indicata, che gli Stati membri avevano «potuto ragionevolmente ritenere» che l’applicazione della direttiva fosse corretta e quindi non potevano essere penalizzati per i comportamenti pregressi (punto 43). Ciò conferma che non incombe agli Stati membri operare giudizi di legittimità sulle norme comunitarie che autorizzano (in quel caso, per giunta, meno inequivocabilmente che nel presente caso) determinati loro comportamenti.

    58.      La Commissione potrebbe però obiettare (e, se capisco bene, è proprio questo che essa obietta) che il presente ricorso intende appunto far emergere ciò che in ipotesi poteva non apparire chiaro al governo ellenico, in particolare chiamando la Corte a dichiarare che tale governo, utilizzando la deroga concessa dall’art. 23, n. 2, della direttiva, avrebbe posto in essere un comportamento contrario al Trattato. Da qui, la scelta di promuovere la procedura d’infrazione, dato che questa, diversamente dal ricorso di annullamento, ha di mira appunto il comportamento dello Stato.

    59.       Mi pare però che una siffatta argomentazione sia contraddetta dalla realtà dei fatti. Come ho detto poc’anzi, infatti, il comportamento del governo ellenico era autorizzato dalla predetta disposizione della direttiva e questa non lasciava alcun margine di apprezzamento al quel governo. Ciò che quindi il presente ricorso mette in causa non sono le modalità di applicazione dell’art. 23, n. 2, della direttiva (la cui piena conformità alla disposizione in effetti non è stata in alcun modo contestata (16)), ma la mera applicazione di tale disposizione, e cioè proprio e solo il fatto dell’esercizio del diritto da questa conferito.

    60.      Mi riesce però difficile comprendere come la mera applicazione di una disposizione che conferisce un diritto ad un soggetto possa comportare una violazione del Trattato senza che sia messa in causa la stessa legittimità della disposizione che di quel diritto costituisce la base giuridica. In effetti, delle due l’una: o la disposizione è legittima, ma allora non può non esserlo anche il corretto esercizio del diritto da essa conferito; o non lo è, ma allora è la stessa base giuridica di tale diritto a venir meno, non (o non solo) la legittimità del suo esercizio. Quel che, invece, mi pare proprio difficile sostenere è che la disposizione sia legittima, ma non lo sia il comportamento del soggetto che ad essa pienamente si conforma.

    61.      Proprio la ricordata sentenza Barber avvalora, del resto, tale ragionamento. Emerge infatti da essa che in tanto si poneva un problema per i comportamenti degli Stati membri considerati in quella causa in quanto, per effetto dell’interpretazione della Corte, erano state private della copertura dell’art. 119 del Trattato CE le disposizioni di diritto derivato che li autorizzavano. Ad essere messe in causa quindi erano, prima ancora di quei comportamenti, proprio tali disposizioni. Ed in effetti, come si è visto (paragrafo 37), proprio su di esse intervenne il Consiglio, su proposta della Commissione, per apportarvi le necessarie modifiche.

    62.      Mi pare dunque che anche questo precedente confermi che non si può prescindere dal nesso esistente tra il comportamento di uno Stato membro e la disposizione di una direttiva che lo autorizzi, e che quindi non si può mettere in causa la liceità del primo senza aver prima contestato la legittimità dell’altra.

    63.      La Commissione pretende invece, come si è visto (paragrafo 36), che quel comportamento dovrebbe essere perseguito di per sé, indipendentemente quindi dalla legittimità della disposizione comunitaria sulla quale esso si fonda, perché  la sua persistenza non potrebbe giustificarsi in alcun modo, neppure in nome del principio della certezza del diritto. A nulla rileverebbe dunque il fatto che quella disposizione non sia stata messa in discussione e non possa più esserlo, come in questo caso, per l’avvenuta scadenza dei termini utili per un ricorso di annullamento

    64.      Una simile pretesa, però, va a mio avviso fermamente respinta, non solo perché è contraddetta dagli argomenti logici poc'anzi evocati (paragrafo 60), ma soprattutto perché autorizza le più serie e fondate preoccupazioni. Essa, infatti, finirebbe inevitabilmente con l’introdurre nel sistema gravi elementi di insicurezza e perfino di destabilizzazione, dato che in questo modo i destinatari di un atto comunitario non potrebbero mai fare affidamento sugli effetti giuridici dell’atto, ed in particolare sui diritti da esso conferiti.

    65.      La tesi della Commissione insomma entrerebbe in diretta collisione con principi consolidati e fondamentali dell’ordinamento comunitario, principi che tale tesi vorrebbe inspiegabilmente e ingiustificatamente sacrificare in nome dell’inerzia di chi avrebbe potuto o potrebbe incidere sulla legittimità dell’atto. Alludo, com’è chiaro, al principio della certezza del diritto ed al suo naturale corollario, il principio della presunzione di legittimità degli atti delle istituzioni comunitarie.

    66.      Com’è noto, in virtù di tale principio, gli atti comunitari devono considerarsi legittimi, e produrre i propri effetti giuridici, finché non siano rimossi nei casi, nelle forme e nei termini previsti dai Trattati (17): si tratti della revoca dell’atto da parte della stessa istituzione che lo ha adottato o del ricorso per l’annullamento di esso o dell’eccezione incidentale di invalidità ex art. 241 CE o della dichiarazione di invalidità nell’ambito di un giudizio pregiudiziale ex art. 234 CE. Ciò proprio perché occorre «preservare la certezza del diritto, evitando che atti comunitari produttivi di effetti giuridici vengano rimessi in discussione all’infinito» (18).

    67.      Nella specie, però, nessuna di quelle ipotesi si è realizzata, perché, come ho detto più volte, la legittimità dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83 non è stata in alcun modo messa in questione.

    68.      Ma se così è, se dunque la disposizione comunitaria che autorizza il comportamento della Grecia deve essere presunta legittima e, come tale, poter pienamente dispiegare i propri effetti giuridici, ne consegue necessariamente, dato quanto detto in precedenza, che deve ritenersi legittimo anche il comportamento da essa autorizzato, vale a dire la legislazione nazionale messa qui in causa.

    69.      Se ne deve allora dedurre che la contestazione della Commissione non ha alcuna ragione d'essere e che quindi il presente ricorso risulta privo di fondamento.

    70.      Ciò detto, peraltro, vorrei ancora precisare, prima di concludere, che quanto precede non intende sottovalutare la questione di principio sottostante all’azione della Commissione, e segnatamente la ricerca di rimedi appropriati in casi, come quello che qui si discute, in cui il risultato sarebbe comunque la persistenza di situazioni da essa ritenute contrarie a norme generali del Trattato. Il fatto è però che se la Commissione, quale che ne sia il motivo, non ha potuto esercitare una tempestiva vigilanza su tali situazioni, essa potrà e dovrà, in ossequio alla propria missione, cercare di rimediarvi ricorrendo a tutti gli strumenti previsti dal sistema, inclusa eventualmente, com’è avvenuto dopo la sentenza Barber, la presentazione di una proposta di modifica o di soppressione delle rilevanti disposizioni. Non può invece pretendere, in nome di quella missione, di alterare precise e fondamentali regole del sistema, anche se ciò dovesse comportare il rischio che sopravvivano situazioni di dubbia legittimità. Sarebbe questa, d'altronde, un'ipotesi non nuova e neppure rara, perché gli ordinamenti giuridici non sono il regno della perfezione, ma delle regole, e tra queste c’è appunto anche il ricordato principio della certezza del diritto.

    71.      Concludo, pertanto, proponendo alla Corte di dichiarare che il presente ricorso deve essere respinto in quanto infondato.

    C – Nel merito

    72.      La prospettata conclusione renderebbe superflua la trattazione delle questioni concernenti il merito del ricorso. Per scrupolo di completezza tuttavia, ed in via del tutto subordinata, dedicherò ugualmente alcuni svolgimenti a tali questioni.

    Sintesi degli argomenti delle parti

    73.      La Commissione imputa alla Grecia di applicare a favore dell’ouzo, cioè della principale bevanda alcolica prodotta in Grecia, un’aliquota di accisa inferiore del 50% rispetto a quella applicata a bevande quali il gin, la vodka, il whisky o il rum. Ciò costituirebbe una discriminazione vietata ai sensi dell’art. 90, primo comma, CE, in quanto la tassazione discriminatoria colpirebbe bevande che devono essere considerate tra loro similari ai sensi di detta norma.

    74.      Tale similarità sarebbe anzitutto desumibile dalla stessa direttiva 92/83, che ha raggruppato le indicate bevande nella medesima categoria fiscale («alcol etilico»), in quanto sono tutte accomunate da un’elevata gradazione alcolica. Ora, secondo la Commissione, risulterebbe anche dalla sentenza della Corte nella causa C-302/00 (19) che l’appartenenza di due prodotti alla medesima categoria fiscale costituisce un indizio della loro similarità ai sensi dell’art. 90 CE.

    75.      Né, continua la Commissione richiamando le sentenze della Corte nelle cause C-171/78 (20) e C-230/89 (21), su cui mi soffermerò più avanti, sarebbe sufficiente a escludere la similarità fra le bevande in causa la circostanza che diverse sono le abitudini nel consumo di tali prodotti, nel senso che l’ouzo accompagna essenzialmente l’antipasto o il piatto principale, mentre le altre bevande alcoliche sono consumate come aperitivi o digestivi.

    76.      Per contro, aggiunge la Commissione, la similarità dell’ouzo alle altre bevande spiritose è desumibile dal fatto che, come la maggior parte di tali bevande, anch’esso proviene dalla distillazione di certe materie prime, ha approssimativamente la medesima gradazione alcolica (37,5% vol.), risponde ai medesimi bisogni dei consumatori e può essere consumato sia allo stato puro sia allungato.

    77.      E’ vero, ammette la Commissione, che detta bevanda presenta certe differenze rispetto ad altre bevande spiritose, segnatamente quanto al suo gusto, legato all’utilizzazione di determinate sostanze aromatiche e alla fabbricazione in tradizionali alambicchi di rame. Tali differenze, tuttavia, non possono essere considerate determinanti ai fini dell’esame della similarità fra le bevande alcoliche, perché se così fosse nessuna bevanda potrebbe considerarsi similare a un’altra. È proprio per evitare una siffatta conseguenza che la Corte avrebbe chiarito che l’esame di similarità ai sensi dell’art. 90 CE non si fonda sul criterio dell’identità, ma su quello dell’analogia tra i prodotti.

    78.      D’altra parte, la stessa Corte, nella causa C-230/89 (22), avrebbe respinto l’argomento delle autorità greche secondo cui l’ouzo ed il whisky non sono similari perché il primo è una bevanda tradizionale della Grecia e, come tale, oggetto di largo consumo popolare, mentre il secondo è considerato dal consumatore come un prodotto di lusso.

    79.      In ogni caso, il fatto che l’ouzo sia un prodotto tradizionale non sarebbe sufficiente, secondo la Commissione, a distinguerlo dalle altre bevande spiritose elencate all’art. 1, n. 4, del regolamento n. 1576/89, dal momento che molte di tali bevande sono ugualmente fabbricate in maniera tradizionale e sono più o meno legate alle abitudini ed ai modi di vita del paese d’origine.

    80.      Ove poi si accertasse la sussistenza della similarità tra i prodotti in questione, la Commissione osserva che la misura fiscale contestata non potrebbe essere giustificata invocando il fatto che in talune ipotesi la stessa direttiva 92/83 autorizza l’applicabilità di aliquote ridotte. Tali ipotesi infatti sono ammesse solo nella misura in cui non comportino una discriminazione nei confronti dei prodotti provenienti da altri Stati membri. Nel caso di specie, invece, la Grecia applica un’aliquota di accisa ridotta esclusivamente a favore di una bevanda alcolica nazionale, svantaggiando i prodotti similari provenienti da altri Stati membri.

    81.      Allo stesso modo, non si potrebbe richiamare, sempre al fine di giustificare la normativa greca in causa, l’art. 7 della direttiva 92/84, perché è vero che tale disposizione consente alla Grecia di applicare un’aliquota di accisa ridotta a favore dell’alcol etilico consumato in determinate regioni, ma essa riguarda il consumo non la produzione della bevanda e comunque non esclude dal beneficio i prodotti provenienti dagli altri Stati membri.

    82.      Di parere diametralmente opposto è, ovviamente, la Grecia, che contesta analiticamente la tesi della Commissione sulla base di argomentazioni di cui darò conto qui di seguito.

    Valutazione

    83.      Prima di prendere posizione sugli argomenti delle parti, devo rilevare che, sia nell’atto introduttivo del presente giudizio sia nella replica e in udienza, la Commissione ha esplicitamente ribadito che il presente ricorso riguarda solo la presunta violazione del primo comma, dell’art. 90 CE.

    84.      Ne consegue che l’unica questione di merito su cui la Corte è chiamata a pronunciarsi nella presente causa è se l’ouzo costituisca o meno un prodotto similare alle altre bevande alcoliche menzionate dalla Commissione, ossia al whisky, al gin, al rum o alla vodka. Se così fosse, infatti, non vi sarebbe alcun dubbio che l’applicazione a favore del solo ouzo di un’aliquota di accisa ridotta costituisce una violazione dell’art. 90 primo comma, CE, posto che esso è per definizione, ai sensi dell’art. 1, n. 4, lett. o), punto 3 del regolamento n. 1576/89 un prodotto fabbricato in Grecia (v. supra, paragrafo 9), mentre il whisky, il gin, il rum o la vodka sono prodotti provenienti prevalentemente da altri Stati membri. Viceversa, qualora fosse escluso, o non fosse sufficientemente provato, che quei prodotti siano similari, il ricorso andrebbe dichiarato infondato e quindi respinto, poiché alla Corte non è stato chiesto, neanche in via subordinata, di accertare se il regime fiscale controverso possa avere carattere protezionistico in violazione del secondo comma del medesimo articolo.

    85.      Sempre in via preliminare, osservo ancora che le parti del presente giudizio fanno leva prevalentemente sulla giurisprudenza della Corte, che in effetti è assai ricca nella materia de qua. Essa peraltro si riferisce normalmente a determinati prodotti e quindi risente spesso delle specifiche situazioni il che ha offerto l’occasione a quelle parti di richiamare i medesimi precedenti in un senso o nell’altro.

    86.      Ciò premesso, passo ad esaminare gli argomenti in campo assumendo un punto di partenza che non mi pare controverso. Emerge in effetti dalla giurisprudenza della Corte che la nozione di "similarità" di cui all’art. 90, primo comma, CE, «dev’essere valutata esaminando se i prodotti di cui si tratta posseggano proprietà analoghe e rispondano alle stesse esigenze dei consumatori, e questo secondo un criterio non di rigorosa identità, ma di analogia e di comparabilità nell’uso» (23).

    87.      In particolare, poi, per quanto riguarda la valutazione del carattere di similarità tra due categorie di bevande alcoliche, va «preso in considerazione, in primo luogo, un complesso di caratteristiche obiettive delle due categorie di bevande, quali la loro origine, i loro processi di fabbricazione, le loro qualità organolettiche, in particolare il gusto e la gradazione alcolica, e, in secondo luogo, il fatto che le due categorie di bevande possono o meno rispondere alle stesse esigenze dei consumatori» (24).

    88.      Perché dunque due categorie di bevande alcoliche possano essere considerate similari ai sensi dell’art. 90, primo comma, devono ricorrere due condizioni: esse devono possedere «un complesso di caratteristiche obiettive» analoghe e devono poter «rispondere alle stesse esigenze dei consumatori».

    89.      Si deduce inoltre da quella giurisprudenza, sempre al medesimo fine, che non è sufficiente che sia soddisfatta una sola di dette condizioni, ma occorre che ricorrano cumulativamente. La Corte ha escluso, infatti, che due bevande che presentano «caratteristiche intrinseche (…) fondamentalmente diverse», quali i processi di fabbricazione e le qualità organolettiche, possano essere considerate similari semplicemente perché potrebbero «prestarsi alle stesse modalità di consumo» (25).

    90.      Applicando ora tali principi al caso di specie, osservo anzitutto che per quanto riguarda le caratteristiche obiettive dei prodotti in causa, è agevole costatare che tanto l’ouzo quanto le altre bevande di cui trattasi presentano alcune analogie, quali la gradazione alcolica elevata o l’origine agricola dell’alcol in essi contenuto. E’ anche vero però che essi si differenziano nettamente sotto altri importanti profili, quali il gusto, le materie prime utilizzate ed i processi di fabbricazione.

    91.      La stessa Commissione, del resto, non contesta tali differenze, ma obietta che, se esse fossero determinanti ai fini dell’applicazione dell’art. 90, primo comma, CE, nessuna bevanda alcolica potrebbe considerarsi similare a un’altra, mentre la Corte ha chiarito, come si è detto, che l’esame di similarità non si fonda sul criterio dell’identità, ma su quello dell’analogia.

    92.      Ricordo tuttavia, con il governo ellenico, che la denominazione di «ouzo» è riservata alla sola bevanda alcolica prodotta a partire dalle materie prime e secondo il processo di fabbricazione descritti dall’art. 1, n. 4, lett. o), punto 3, del regolamento n. 1576/89 (v. supra, paragrafo 9). In particolare, tale bevanda è ottenuta mediante l’impiego di semi d'anice ed eventualmente di finocchio, di mastice derivante da un lentisco dell’isola di Chios, nonché di altri semi, piante e frutti aromatici, ed attraverso un processo di distillazione in alambicchi tradizionali discontinui di rame di capacità uguale o inferiore a 1000 litri.

    93.      L’ouzo è quindi fabbricato a partire da materie prime e mediante un metodo di fabbricazione che gli attribuiscono proprietà organolettiche specifiche e ben distinguibili rispetto a quelle delle altre bevande alcoliche, le quali a loro volta posseggono ciascuna, come emerge dall’art. 1, n. 4, del regolamento n. 1576/89, qualità organolettiche ben determinate (26). Conseguentemente – e questo è confortato anche dalla comune esperienza – anche il suo gusto non solo non è identico, ma neppure può essere ritenuto analogo a quello delle altre bevande menzionate.

    94.      Ricordo, a questo proposito, che in altra occasione, la Corte ha affermato che, sebbene il vermut abbia una gradazione alcolica equiparabile a quella dei vini di frutta tranquilli, «[o]ccorre tuttavia tener conto della circostanza che [esso] non è fabbricato a partire dalle stesse materie prime dei vini di frutta in quanto viene aggiunto al vino di uva non solo dell’alcol etilico, ma anche una composizione di erbe, in quantità minima, che dà al vermut un gusto particolare». Ne consegue «che le qualità organolettiche del vermut non corrispondono a quelle dei vini di frutta tranquilli e che queste due categorie di bevande rispondono ad esigenze diverse dei consumatori» (27).

    95.      Proprio con riguardo a tali esigenze, inoltre, ulteriori elementi sembrano confermare la differenza tra le bevande di cui trattasi. Come ha infatti evidenziato il governo ellenico, senza essere contraddetto dalla Commissione, l’ouzo è consumato soprattutto per accompagnare i pasti (in particolare, il pesce e le pietanze tradizionali greche), da persone prevalentemente di età superiore a 45 anni e in locali tradizionali (come le taverne o i caffè-ristorante o le «ouzerie»), laddove il whisky, il gin, il rum e la vodka sono solitamente consumati o lontano dai pasti o, semmai, in prossimità di questi ultimi, come digestivi o aperitivi, principalmente da persone di età compresa fra i 18 e 44 anni e in locali che servono unicamente bevande (come i bar, i pub e le discoteche). A questo proposito, ricordo che, secondo la Corte, i vini di tipo liquoroso, come lo sherry e il madera, che «vengono abitualmente consumati come aperitivi o come vini da dessert», non sono assimilabili ai vini da tavola, che «rispondono (…) a esigenze diverse dei consumatori» (28).

    96.      Secondo la Commissione, tuttavia, le abitudini dei consumatori non sarebbero determinanti ai fini dell’esame di similarità di cui all’art. 90, primo comma, CE. A tale proposito, come ho accennato sopra (v. supra, paragrafo 75), essa richiama le sentenze Commissione/Danimarca, causa 171/78, e Commissione/Grecia, causa C‑230/89.

    97.      Per quanto riguarda la prima, la Commissione cita il passaggio in cui la Corte afferma che sebbene «in Danimarca l’akvavit sia prescelta dai consumatori per accompagnare determinati piatti tipici, ciò non esclude che detta bevanda possa servire ad altri usi e sia così, quanto meno in parte, sostituibile ad un numero indeterminato di altri tipi di acquavite» (29).

    98.      Tale affermazione, tuttavia, va letta insieme a quella contenuta nella frase immediatamente successiva, nella quale la Corte aggiunge che «[s]i può quindi affermare che, nella misura in cui non sono bevande similari all’akvavit ai sensi dell’art. 95 [ora 90], primo comma, le bevande alcoliche gravate dall’aliquota fiscale più elevata risultano comunque prodotti con essa concorrenti, ai sensi dell’art. 95 [ora 90], secondo comma» (30). Dal che, a mio avviso, si deduce che le abitudini dei consumatori possono anche essere irrilevanti ai fini dell’esame del rapporto di concorrenzialità di cui al secondo comma dell’art. 90, CE, ma ciò non comporta necessariamente che lo siano anche ai fini dell’esame del rapporto di similarità di cui al primo comma del medesimo articolo.

    99.      Le stesse considerazioni valgono, a mio parere, con riguardo all’altra sentenza citata dalla Commissione – la sentenza Commissione/Grecia – nella quale la Corte ha ugualmente risolto il caso ad essa sottoposto valutandolo contestualmente sotto il profilo del primo e del secondo comma dell’art. 90 CE. Così, quando al punto 9 della sentenza la Corte afferma che, «per misurare il grado di sostituibilità possibile tra le bevande, non ci si può limitare alle abitudini di consumo presenti in uno Stato membro od in una regione determinata» (31), non è detto che essa si riferisca alla (o principalmente alla) irrilevanza delle abitudini dei consumatori ai fini dell’esame del rapporto di similarità tra quelle bevande. È più plausibile invece, vista anche la formula utilizzata, che intenda riferirvisi ai (o principalmente ai) fini dell’esame del rapporto di concorrenzialità di cui al secondo comma dell’art. 90, CE.

    100. Per lo stesso motivo, non credo che sia decisivo il richiamo che la Commissione opera a quella medesima sentenza per far valere che in essa la Corte avrebbe riconosciuto l’esistenza di un rapporto di similarità fra l’ouzo ed il whisky. Lungi infatti dal soffermarsi in quella sede a valutare se l’ouzo e il whisky fossero bevande similari, la Corte ha preferito limitarsi ad affermare che «tra gli alcolici vi è un numero imprecisato di bevande che vanno qualificate come prodotti similari ai sensi dell’art. 95 [ora 90], primo comma, ed anche nei casi in cui non è possibile riscontrare un sufficiente grado di analogia fra i prodotti considerati esistono tuttavia proprietà comuni sufficienti per costituire un rapporto di concorrenza almeno parziale o potenziale» (32). E’ solo sulla base di tale premessa che la Corte ha poi aggiunto che «[i]l fatto che l’ouzo sia considerato una bevanda ellenica tradizionale, oggetto di largo consumo popolare, mentre il whisky sarebbe considerato dal consumatore come un prodotto di lusso, è irrilevante a tale riguardo» (33).

    101. Mi pare quindi che in definitiva le bevande in causa si differenzino tra loro sia sotto il profilo delle caratteristiche intrinseche, quali il gusto, le materie prime utilizzate e i processi di fabbricazione, sia sotto il profilo delle esigenze dei consumatori.

    102. Quanto poi all’obiezione che l’ouzo e le altre bevande alcoliche in causa appartengono alla medesima categoria fiscale («alcol etilico») di cui agli artt. 19 e seguenti della direttiva 92/83, ritengo che essa non sia concludente.

    103. Sembra in effetti anche a me, come al governo ellenico, che la segnalata circostanza non possa da sola costituire un elemento decisivo per dedurre che quei prodotti sono similari ai sensi dell’art. 90 primo comma, CE. Come risulta infatti dal terzo e quarto ‘considerando’ della direttiva, quella categoria fiscale si fonda essenzialmente sulla classificazione della tariffa doganale comune, la quale, secondo una giurisprudenza ormai consolidata, può costituire solo un indizio, ma non certo la prova della similarità fra prodotti (34).

    104. Detta conclusione, inoltre, non è neppure smentita, a mio avviso, dalla sentenza nella causa C-302/00 (35), citata dalla Commissione a sostegno dei propri argomenti (v. supra, paragrafo 74). In tale sentenza, infatti, per stabilire se le sigarette di tabacco scuro e quelle di tabacco chiaro fossero prodotti similari la Corte si è basata principalmente sulla considerazione che tali prodotti posseggono proprietà analoghe e rispondono alle stesse esigenze dei consumatori (v. punti 24‑26 della sentenza), mentre solo in via accessoria si è riferita al fatto che quei prodotti hanno un trattamento fiscale uniforme e appartengono alla medesima sottovoce della nomenclatura combinata (v. punti 27 e 28 della sentenza).

    105. D’altronde, che le bevande alcoliche appartenenti alla categoria fiscale «alcol etilico» non siano necessariamente similari fra loro mi pare altresì desumibile, come ha sottolineato il governo ellenico, dal fatto che in tale categoria ricadono anche bevande con un titolo alcolometrico notevolmente inferiore a quello dell’ouzo (il cui titolo alcolometrico è di circa 37,5% vol.). Ai sensi dell’art. 20 della direttiva 92/83, infatti, ricadono in tale categoria «tutti i prodotti che hanno un titolo alcolometrico effettivo superiore all’1,2% vol. e che rientrano nei codici NC 2207 e 2208 (…)», nonché «i prodotti che hanno un titolo alcolometrico effettivo superiore a 22% vol. e che rientrano nei codici NC 2204, 2205 e 2206». Ciò conferma che i prodotti rientranti in questa categoria non sono necessariamente similari, poiché non sarebbe possibile assimilare bevande aventi rispettivamente un titolo alcolometrico, ad esempio, del 2%, del 24% e del 37,5% vol..

    106. In conclusione, mi pare, che nessuno degli argomenti invocati dalla Commissione sia idoneo a dimostrare in modo irrefutabile che le bevande in questione siano similari ai sensi dell’art. 90, primo comma, CE; per contro, sussistono elementi oggettivi che depongono in senso opposto. D’altra parte, come ho già ricordato, la Commissione non ha chiesto di verificare se, in subordine, tra quelle bevande sussista un rapporto di concorrenzialità ai sensi del secondo comma di detta disposizione.

    107. Ora, è noto che, «per giurisprudenza costante, nell’ambito di un ricorso per inadempimento spetta alla Commissione provare l’asserita inadempienza». Più in particolare «[d]etta istituzione [deve] fornire alla Corte gli elementi necessari perché questa verifichi l’esistenza di tale trasgressione, senza potersi fondare su alcuna presunzione» (36); in caso diverso, il ricorso non può essere accolto.

    108. Questo è appunto quanto, a mio avviso, si verifica nel caso di specie. Se ne deve dunque dedurre che il presente ricorso non è fondato e va di conseguenza respinto.

    IV – Sulle spese

    109. In base al disposto dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è fatta richiesta. Poiché la Repubblica ellenica ha concluso in questo senso e considerato quanto ho appena detto sull’esito del ricorso, ritengo che la richiesta vada accolta.

    V –    Conclusioni

    110. Alla luce delle considerazioni che precedono propongo, perciò, alla Corte di dichiarare che:

    1)       Il ricorso è respinto in quanto infondato.

    2)       La Commissione è condannata alle spese.


    1 – Lingua originale: l'italiano.


    2  – GU L 316, pag. 21.


    3  – GU L 160, pag. 1.


    4  – GU L 316, pag. 29.


    5  – V., fra le tante, sentenze 10 dicembre 1968, causa 7/68, Commissione/Italia (Racc. pag. 561); 14 dicembre 1971, causa 7/71, Commissione/Francia (Racc. pag. 1003, punti 5 e 6); 10 aprile 1984, causa 324/82, Commissione/Belgio (Racc. pag. 1861, punto 12), e, da ultimo, 10 maggio 1995, causa C-422/92, Commissione/Germania (Racc. pag. I-1097, punto 18).


    6  – V., ad esempio, sentenza 14 febbraio 1989, causa 247/87, Star Fruit/Commissione (Racc. pag. 291, punto 11) .


    7  – Sentenza 12 settembre 2000, causa C-359/97, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I-6355, punto 28).


    8  – Sentenza 13 dicembre 2001, causa C-1/00, Commissione/Francia (Racc. pag. I‑9989, punto 101).


    9  – Sentenza 17 giugno 1999, causa C-166/98, Socridis (Racc. pag. 3791, punto 19).


    10  – La Commissione osserva inoltre che, sulla base dello stesso articolo del Trattato, il Consiglio ha adottato una serie di decisioni (come la decisione 2002/166/CE, del 18 febbraio 2002; GU L 55, pag. 33), che permettono alla Repubblica francese di applicare un regime fiscale più favorevole, in deroga all’art. 90 CE, al rum proveniente dai dipartimenti francesi d’oltremare.


    11  – Sentenza 17 maggio 1990, causa C-262/88 (Racc. pag. I-1889).


    12  – Direttiva del Consiglio, del 24 luglio 1986, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale (GU L 225, pag. 40).


    13  – V. quattordicesimo ‘considerando’ della direttiva 96/97/CE del Consiglio, del 20 dicembre 1996, che modifica la direttiva 86/378/CEE relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento tra gli uomini e le donne nei regimi professionali di sicurezza sociale (GU L 46, pag. 20).


    14  – V., in tal senso, sia pur con riferimento ad altre ipotesi di ricorso, sentenza 12 novembre 1981, causa 799/79, Bruckner/Commissione (Racc. pag. 2697, punto 19), nella quale la Corte ha affermato che «se è possibile esperire un’azione di risarcimento senza essere contemporaneamente tenuti a chiedere l'annullamento dell'atto illegittimo che ha arrecato il pregiudizio, ciò non consente però di aggirare l'ostacolo dell'irricevibilità di una domanda diretta contro la stessa illegittimità e intesa ad ottenere lo stesso risultato patrimoniale». Nello stesso senso, v. sentenze 15 dicembre 1966, causa 59/65, Schreckenberg (Racc. pag. 733), e 12 novembre 1981, causa 543/79, Birke/Commissione (Racc. pag. 2669, punto 28).


    15  – Si veda, ad esempio, l’art. 4 della direttiva 92/83, che, dopo aver autorizzato, al n. 1, gli Stati membri ad applicare aliquote di accisa ridotte alla birra prodotta dalle piccole birrerie, chiarisce, tuttavia, al n. 3, che essi devono provvedere a che tali aliquote ridotte «siano applicabili uniformemente alla birra fornita sul loro territorio da piccole birrerie indipendenti stabilite in altri Stati membri» ed a che «a nessuna singola fornitura proveniente da un altro Stato membro venga imposta un’accisa superiore a quella del suo esatto equivalente sul piano nazionale». Si vedano, anche, le disposizioni di ugual tenore di cui all’art. 22, nn. 1 e 3, concernenti l’aliquota ridotta applicabile all’alcol etilico prodotto dalle piccole distillerie (v. supra, paragrafo 7).


    16  – D’altronde, ripeto, il governo ellenico ha fin dall'inizio sostenuto, senza essere contraddetto, che la normativa nazionale controversa altro non è che il risultato di una mera trasposizione letterale dell’art. 23, n. 2, della direttiva 92/83 nell’ordinamento greco.


    17  – V., in proposito, sentenze 12 luglio 1957, cause riunite 7/56, 3/57-7/57, Dineke e a./Alta Autorità (Racc. pag. 81); 15 giugno 1994, causa C-137/92 P, Commissione/BASF e a. (Racc. pag. I-2555, punto 48), e 8 luglio 1999, causa C‑245/92 P, Chemie Linz/Commissione (Racc. pag. I-4643, punto 93).


    18  – Sentenza 30 gennaio 1997, causa C-178/95, Wiljo (Racc. pag. I-585, punto 19). V. anche sentenze 9 marzo 1994, causa C-188/92, TWD (Racc. pag. I-833, punto 16), e 15 febbraio 2001, causa C-239/99, Nachi Europe (Racc. pag.  I-1197, punto 29).


    19  – Sentenza 27 febbraio 2002, causa C-302/00, Commissione/Francia (Racc. pag. I‑2055, punto 27).


    20  – Sentenza 27 febbraio 1980, causa 171/78, Commissione/Danimarca (Racc. pag. 447, punto 35).


    21  – Sentenza 18 aprile 1991, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-1909,  punto 9).


    22  – Sentenza 18 aprile 1991, Commissione/Grecia, cit.


    23  – Sentenza 27 febbraio 2002, Commissione/Francia, cit., punto 23. V., nello stesso senso, sentenze 17 febbraio 1976, causa 45/75, Rewe (Racc. pag. 181, punto 12), e 11 agosto 1995, cause riunite C-367/93 e C-377/93, Roders (Racc. pag. I-2229, punto 27).


    24  – Sentenza  Roders, cit., ibidem. V., nello stesso senso, sentenze 4 marzo 1986, causa 106/84, Commissione/Danimarca (Racc. pag. 833, punto 12), e causa 243/84, Walker (Racc. pag. 875, punto 11).


    25  – Sentenza Walker, cit., punti 12 e 13.


    26  – Ai sensi di tale articolo, ad esempio, può essere denominata rum solo:


    «[l]a bevanda spiritosa ottenuta per fermentazione alcolica e distillazione esclusivamente di melasse o sciroppi provenienti dalla fabbricazione dello zucchero di canna, oppure di succo della canna da zucchero, e distillata a meno di 96% vol., cosicché il prodotto della distillazione presenti in modo percettibile le caratteristiche organolettiche specifiche del rum» oppure «[l]'acquavite proveniente esclusivamente dalla fermentazione alcolica e dalla distillazione di succo di canna da zucchero che presenta le caratteristiche aromatiche cui i rum devono il loro carattere specifico e avente un tenore di sostanze volatili pari o superiore a 225 g/hl di alcole a 100% vol. (…)» (il corsivo è mio).


    O, ancora, può essere definita whisky:


    «La bevanda spiritosa ottenuta per distillazione di un mosto di cereali:


    – saccarificato dalla diastasi del malto ivi contenuto, con o senza aggiunta di altri enzimi naturali,


    – fermentato per azione del lievito,


    – distillato a meno di 94,8% vol. in modo che il prodotto della distillazione abbia un aroma e un gusto provenienti dalle materie prime utilizzate e invecchiata per almeno tre anni in fusti di legno di capacità pari o inferiore a 700 litri».


    27  – Sentenza Roders, cit., punto 33.


    28  – Ibidem, punto 32.


    29  – Sentenza 27 febbraio 1980, Commissione/Danimarca, cit., punto 35.


    30  – Ibidem. Il corsivo è mio.


    31  – Sentenza 18 aprile 1991, Commissione/Grecia, cit. Il corsivo è mio.


    32  – Sentenza 18 aprile 1991, Commissione/Grecia, cit., punto 8. Il corsivo è mio.


    33  – Ibidem, punto 9.


    34  – V. sentenze 27 febbraio 1980, causa 169/78, Commissione/Francia (Racc. pag 347, punto 31); 15 luglio 1982, causa 216/81, Cogis (Racc. pag. 2701, punto 8), e 4 marzo 1986, causa 106/84, Commissione/Danimarca (Racc. pag. 833, punto 17).


    35  – Sentenza 27 febbraio 2002, Commissione/Francia, cit.


    36  – Sentenza 6 novembre 2003, causa C-434/01, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I‑13239, punto 21, ove figurano ulteriori richiami). V., nello stesso senso, sentenze 16 dicembre 1992, causa C-210/91, Commissione/Grecia (Racc. pag. I-357, punto 22), 9 settembre 1999, causa C‑217/97, Commissione/Germania (Racc. pag. I‑5087, punto 22), e 14 dicembre 2000, causa C‑55/99, Commissione/Francia (Racc. pag. I‑11499, punto 30).

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