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Document 61997CC0185

    Conclusioni dell'avvocato generale Mischo del 2 aprile 1998.
    Belinda Jane Coote contro Granada Hospitality Ltd.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Employment Appeal Tribunal, London - Regno Unito.
    Direttiva del Consiglio 76/207/CEE - Rifiuto del datore di lavoro di fornire referenze a un ex dipendente licenziato.
    Causa C-185/97.

    Raccolta della Giurisprudenza 1998 I-05199

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1998:163

    61997C0185

    Conclusioni dell'avvocato generale Mischo del 2 aprile 1998. - Belinda Jane Coote contro Granada Hospitality Ltd. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Employment Appeal Tribunal, London - Regno Unito. - Direttiva del Consiglio 76/207/CEE - Rifiuto del datore di lavoro di fornire referenze a un ex dipendente licenziato. - Causa C-185/97.

    raccolta della giurisprudenza 1998 pagina I-05199


    Conclusioni dell avvocato generale


    1 Nell'ambito di una controversia che oppone la signora Coote al Granada Hospitality Ltd, l'Employment Appeal Tribunal ci ha sottoposto le seguenti questioni pregiudiziali:

    «1) Se la direttiva del Consiglio 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (1), obblighi gli Stati membri a introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali le norme necessarie affinché la parte che si ritiene lesa possa agire in giudizio qualora ricorrano le seguenti circostanze:

    i) l'attore sia stato dipendente del convenuto;

    ii) nel corso del rapporto di lavoro, l'attore abbia promosso contro il convenuto un procedimento per discriminazione fondata sul sesso, conclusosi con una transazione;

    iii) dopo il termine del rapporto di lavoro, l'attore abbia cercato senza successo un lavoro a tempo pieno;

    iv) il convenuto abbia causato, o contribuito a causare, le difficoltà dell'attore nella ricerca di un lavoro rifiutando, quando richiesto, di fornire referenze a potenziali datori di lavoro;

    v) il datore di lavoro abbia deciso di rifiutare le referenze quando il rapporto di lavoro dell'attore era già terminato;

    vi) il solo o il principale motivo del rifiuto da parte del datore di lavoro di fornire all'attore le referenze consista nel fatto che quest'ultimo aveva promosso un procedimento contro il convenuto per discriminazione fondata sul sesso.

    2) Se la direttiva del Consiglio 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, obblighi gli Stati membri a introdurre nei rispettivi ordinamenti nazionali le norme necessarie affinché una persona possa agire in giudizio ove ricorrano le circostanze sub 1) salvo che:

    i) il convenuto abbia deciso di rifiutare le referenze quando il rapporto di lavoro dell'attore non era ancora terminato; ma

    ii) le referenze sono state effettivamente rifiutate quando il rapporto di lavoro dell'attore era già terminato».

    2 Riassumendo, l'Employment Appeal Tribunal vorrebbe dunque sapere se, sulla base della direttiva 76/207 (in prosieguo: la «direttiva»), gli Stati membri sono tenuti ad introdurre le misure necessarie per consentire ad un lavoratore di agire in giudizio contro l'ex datore di lavoro, nel caso in cui ritenga che il rifiuto da parte di quest'ultimo di fornire referenze, utili per la ricerca di un nuovo impiego, sia motivato dal fatto che il detto datore di lavoro gli contesta di aver promosso un procedimento contro di lui per discriminazione fondata sul sesso.

    3 Ponendoci questa domanda, l'Employment Appeal Tribunal ci induce a rivolgere la nostra attenzione ancora una volta su un testo che ci è familiare, come risulta dall'abbondante giurisprudenza alla quale ha dato luogo. Questa familiarità non significa, tuttavia, che la risposta alla domanda sia del tutto evidente, tanto più che l'esame dei motivi per i quali siamo aditi fa emergere che le questioni poste sottintendono in realtà due problemi, che mi sembra necessario distinguere. Per questo motivo, credo sia utile iniziare ricordando i dati essenziali della causa come si presenta davanti alla giurisdizione nazionale.

    La causa principale e il diritto nazionale

    4 La signora Coote è stata dipendente della Granada Hospitality Ltd (in prosieguo: la «Granada») dal dicembre 1992 al settembre 1993. Nel 1993 ha promosso un procedimento per discriminazione fondata sul sesso affermando di essere stata licenziata a causa della sua gravidanza. Questo procedimento si è chiuso a seguito di una transazione intercorsa tra la signora Coote e il suo ex datore di lavoro. Nel luglio 1994 la signora Coote ha cominciato a cercare un nuovo impiego, rivolgendosi ad alcune agenzie di collocamento. Il ritorno sul mercato del lavoro si è rivelato irto di difficoltà, che la signora Coote attribuisce al fatto che il suo ex datore di lavoro avrebbe rifiutato di fornire referenze ad una delle agenzie di collocamento, fatto che viene contestato dalla Granada. La signora Coote ha allora promosso un procedimento dinanzi all'Industrial Tribunal, affermando di essere stata danneggiata dal rifiuto della Granada di rilasciare le referenze. Questa azione è stata respinta, in quanto l'Industrial Tribunal si è dichiarato incompetente in ragione del fatto che l'asserita discriminazione, di cui si lamentava la signora Coote, si era verificata, supponendola provata, dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

    5 A questo punto dell'esposizione, è necessario rivolgere la nostra attenzione alle disposizioni del diritto del Regno Unito relative al divieto di discriminazione nei riguardi dei lavoratori fondata sul sesso al quale questi appartengono, nonché all'interpretazione che ne viene data dalle giurisdizioni nazionali. L'art. 4 del Sex Discrimination Act presenta in effetti la particolarità di assimilare in tutto ad una discriminazione fondata sul sesso il trattamento meno favorevole che un datore di lavoro riserva ad un dipendente in ragione del fatto che quest'ultimo ha promosso un procedimento volto a far constatare che è stato vittima di una discriminazione fondata sul sesso. In altri termini, la misura di ritorsione che il datore di lavoro adotta contro il dipendente che si è avvalso del divieto di discriminazione fondata sul sesso è, essa stessa, considerata come una violazione del detto divieto.

    6 Si tratta di una disposizione chiaramente molto protettiva. Da una parte, questa garantisce, assicurandogli l'impunità, al dipendente - che osi affrontare il proprio datore di lavoro contestandogli di attuare discriminazioni fondate sul sesso - che non dovrà pentirsi della sua audacia. Dall'altra parte, questa disposizione è tale da dissuadere i datori di lavoro dal cedere alla tentazione di ritorsioni. Tenuto conto di questa disposizione di diritto nazionale, la signora Coote avrebbe dovuto - supponendo che fosse provato il rifiuto da parte della Granada di fornire le referenze e che questo rifiuto abbia costituito una misura di ritorsione - vincere la causa, senza che il giudice dovesse interrogarsi sull'interpretazione della direttiva. Se così non è stato, ciò è dovuto al fatto che il giudice si è dovuto confrontare con un problema di ambito d'applicazione ratione temporis del Sex Discrimination Act. Questo, infatti, è interpretato dalle giurisdizioni del Regno Unito, così come il Race Relations Act, che proibisce le discriminazioni razziali, come non applicabile alle discriminazioni che il datore di lavoro compie nei riguardi dell'ex dipendente. La signora Coote, licenziata nel 1993, si vede dunque negata la possibilità di avvalersi del Sex Discrimination Act per promuovere un procedimento nel 1994. Il giudice nazionale ha fatto dunque ricorso al rinvio pregiudiziale chiedendosi se la direttiva sia trasposta correttamente dalla legge nazionale, dal momento che quest'ultima vieta la discriminazione solo in occasione dell'assunzione ed in pendenza del rapporto di lavoro, e prevede un diritto di ricorso giurisdizionale a vantaggio del dipendente solo quando la discriminazione si inscrive in questo contesto.

    7 Che la questione dell'ambito di applicazione ratione temporis dei divieti che il legislatore nazionale deve sancire per trasporre la direttiva sia proprio al cuore del dibattito svoltosi davanti al giudice nazionale è confermato dalla stessa redazione della domanda pregiudiziale. Pur riguardando solo il caso in cui il rifiuto di fornire referenze si è verificato dopo la conclusione del periodo di lavoro, la domanda pregiudiziale opera infatti una distinzione tra l'ipotesi in cui il datore di lavoro ha preso la decisione di rifiutare le referenze dopo la fine del periodo di lavoro di colui che ne avrebbe bisogno e l'ipotesi in cui la decisione di rifiuto è maturata prima della fine del periodo di lavoro.

    Il rilascio delle referenze rientra nell'ambito di applicazione della direttiva?

    8 Credo che, se vogliamo dare al giudice nazionale una risposta che vada veramente incontro alle sue preoccupazioni, dobbiamo in primo luogo affrontare il problema di sapere se il rilascio di referenze rientri nell'ambito di applicazione della direttiva. Per quanto mi riguarda, sono convinto che sia così, il che non vuole assolutamente dire che sia d'accordo in tutto con le osservazioni della Commissione su questo problema.

    9 La Commissione sostiene, in effetti, che il rilascio delle referenze rientra sia nel campo di applicazione dell'art. 3 della direttiva che in quello dell'art. 5.

    10 L'art. 3, ricordiamolo, enuncia al n. 1 che «l'applicazione del principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda le condizioni di accesso, compresi i criteri di selezione, agli impieghi o posti di lavoro qualunque sia il settore o il ramo di attività, e a tutti i livelli della gerarchia professionale». La Commissione trae argomenti dalla sentenza Meyers (2) per affermare che, essendo atto a facilitare l'accesso all'impiego, il rilascio di referenze vi rientrerebbe.

    11 Per quanto mi riguarda, ritengo che il collegamento con l'art. 3 supporrebbe una interpretazione particolarmente estensiva dello stesso, la cui opportunità mi sembra dubbia, dal momento che questa non è necessaria per far rientrare il rilascio di referenze nell'ambito di applicazione della direttiva. Credo che si possa avanzare su un terreno molto più sicuro se si fa rientrare il rilascio di referenze nell'ambito di applicazione dell'art. 5 della direttiva, che riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento.

    12 Nessuno potrebbe in effetti contestare che la valutazione effettuata dal datore di lavoro circa la qualità dei servizi prestati - perché è di questo che si tratta quando parliamo di referenze che possono servire a trovare un nuovo impiego - si inscrive perfettamente nel contesto dei rapporti che si stabiliscono tra il dipendente e il suo datore di lavoro. Senza voler arrivare a dire che si tratterebbe quasi di un accessorio della remunerazione, in quanto il dipendente potrebbe pretendere, in cambio dei suoi buoni e leali servigi, sia una contropartita pecuniaria che una contropartita immateriale sotto forma di elogio, ritengo che il servizio che il datore di lavoro rende fornendo al proprio dipendente il viatico costituito dalle referenze non possa essere scorporato dai rapporti di lavoro, e in ogni caso non possa essere scorporato dalle condizioni di licenziamento, che, secondo la sentenza Burton (3), devono essere interpretate estensivamente.

    La fine del rapporto di lavoro fa cessare la protezione assicurata dalla direttiva?

    13 Quanto al problema del momento in cui interviene la decisione del datore di lavoro di fornire o meno referenze, ritengo che esso non sia rilevante dal momento che siamo nell'ambito di applicazione dell'art. 5. Se è vero che nella maggior parte dei casi le referenze saranno fornite dopo la fine del rapporto di lavoro, cioè dopo le dimissioni o il licenziamento, non è affatto escluso che queste possano essere fornite durante l'esecuzione del rapporto di lavoro. È' sufficiente pensare al caso del dipendente che, poiché il coniuge ha trovato un lavoro in un'altra regione o, pur conservando il proprio impiego, è stato trasferito dal suo datore di lavoro in un'altra regione, prepari il proprio trasferimento verso questa regione, e cominci dunque a esplorare il mercato del lavoro. Questo dipendente chiederà sicuramente al suo attuale datore di lavoro di fornire referenze a eventuali futuri datori di lavoro.

    14 Sarebbe del tutto ingiustificato che l'applicazione del principio di non discriminazione in funzione del sesso a una decisione di fornire o no referenze dipenda dal momento in cui questa decisione è presa, o dal momento in cui si concretizza, sia attraverso la consegna delle referenze, sia attraverso il rifiuto esplicito di fornirle. Eccetto il caso sopra evocato, in cui il salariato programma il proprio cambiamento di datore di lavoro, il momento in cui il dipendente ha veramente bisogno delle referenze è precisamente quello in cui, essendo terminato il proprio contratto, si mette alla ricerca di un nuovo impiego. Privarlo in questo momento della protezione che la direttiva intende assicurargli, per il fatto che si tratterebbe di una discriminazione imputabile ad un ex datore di lavoro, con il quale non ha più alcun legame contrattuale, sarebbe particolarmente inopportuno e contrario allo spirito della direttiva. Ricordiamo, d'altronde, che questa ha voluto, con il suo art. 3, proteggere il lavoratore contro le discriminazioni fondate sul sesso che potrebbe compiere un futuro datore di lavoro, con cui, per definizione, il lavoratore non ha ancora alcun rapporto contrattuale.

    15 La giurisprudenza della Corte ha, d'altronde, sempre dichiarato, trattandosi di parità di remunerazione, che il divieto per il datore di lavoro di compiere tra i suoi dipendenti discriminazioni fondate sul sesso non termina di produrre i propri effetti con la fine del contratto di lavoro. A questo riguardo, è particolarmente chiara la sentenza Kowalska (4), nella quale la Corte ha dichiarato che si doveva applicare l'articolo 119 del Trattato ad indennità versate dopo la fine del rapporto di lavoro. Nulla potrebbe giustificare che ci si discosti da questa impostazione con riferimento alla direttiva relativa alla parità di trattamento.

    16 Ritengo dunque che un datore di lavoro non potrebbe, quando si tratta di fornire referenze che interessano uno dei propri dipendenti, compiere una discriminazione fondata sul sesso, e ciò qualunque sia il momento, durante o dopo il rapporto di lavoro, in cui adotta una decisione a questo proposito e qualunque sia il momento in cui queste referenze gli sono richieste.

    17 Aggiungerei tre precisazioni, per evitare eventuali malintesi. La prima per sottolineare che, beninteso, il divieto di discriminazione nel caso in cui il datore di lavoro fornisce referenze non rivela assolutamente l'esistenza di un obbligo di fornire referenze. Così come ha riconosciuto la Commissione, la direttiva di per sé non crea alcun obbligo in tal senso. In altri termini, il datore di lavoro deve rispettare il principio di parità solo quando è tenuto, in forza di una disposizione legislativa o contrattuale, esplicita o implicita, a fornire referenze, oppure quando segue una pratica che consiste nel dare seguito alle richieste di referenze.

    18 Ma, come è stato sottolineato nella sentenza Garland (5), resa a proposito di taluni vantaggi in materia di trasporto accordati da un datore di lavoro ai suoi ex dipendenti senza che vi fosse tenuto per contratto, non si potrebbero dispensare i datori di lavoro dall'obbligo di rispettare il principio di parità di trattamento quando concedono, su base strettamente volontaria, vantaggi ai loro dipendenti, perché è nell'insieme dei rapporti di lavoro che sono vietate tutte le discriminazioni fondate sul sesso.

    19 Per non trascurare alcuna ipotesi, aggiungerei che, nel caso in cui un datore di lavoro abbia solo un dipendente, il fatto di rifiutargli le referenze in ragione del suo sesso costituirebbe ancora una violazione del principio di non discriminazione in funzione del sesso.

    20 In secondo luogo, bisogna precisare che il fatto che il rilascio delle referenze ad ex dipendenti rientri nel campo di applicazione della direttiva non interferisce in alcun modo con eventuali norme di diritto nazionale relative alla portata dell'obbligo del datore di lavoro di fornire tali referenze, quale sarebbe una disposizione che, per ragioni pratiche, limitasse nel tempo questo obbligo, prevedendo per esempio che il diritto di ottenere referenze possa esercitarsi solo durante il primo anno che segue la fine del rapporto di lavoro.

    21 Infine, terza precisazione, il datore di lavoro resta interamente libero nella sua valutazione della qualità dei servizi resi, a condizione che resti nei limiti di ciò che impone il dovere di obiettività.

    22 Se non si trattasse che di dissipare i dubbi del giudice nazionale quanto al campo di applicazione ratione temporis del divieto di discriminazione in ragione del sesso sancito dalla direttiva, potrei fermare qui il mio ragionamento, in quanto sono giunto alla conclusione che il rilascio di referenze ad un dipendente, che rientra nel campo di applicazione della direttiva così come definito dal suo art. 5, rimane sottoposto al detto divieto qualunque sia il momento in cui esso si pone, durante o dopo il rapporto contrattuale di lavoro. Ma la domanda del giudice nazionale, così come risulta formulata, non me lo consente, in quanto evidenzia la circostanza che il rifiuto di fornire referenze costituirebbe una misura di ritorsione conseguente ad un procedimento intentato dall'interessato per ottenere il rispetto del principio di parità di trattamento e ci chiede se, in simile circostanza, gli Stati membri abbiano l'obbligo di introdurre nel loro ordinamento giuridico le disposizioni necessarie per consentire al dipendente che si ritenga leso di far valere i suoi diritti per via giudiziaria.

    Il rifiuto delle referenze quale misura di ritorsione

    23 In altri termini, l'obbligo di prevedere mezzi di ricorso, così come istituito dall'art. 6 della direttiva, esiste anche per l'ipotesi in cui il dipendente ritenga di essere vittima non di una discriminazione operata sulla base del sesso, ma di una misura di ritorsione, che trova la sua origine nel fatto che egli ha fatto uso del suo diritto di ricorso per denunciare una discriminazione fondata sul sesso, di cui avrebbe sofferto?

    24 A questa domanda la risposta non può, a mio parere, che essere negativa. In effetti, l'esame delle disposizioni della direttiva fa chiaramente emergere che il legislatore comunitario, pur perfettamente cosciente del fatto che la rivendicazione della parità dei sessi può irritare alcuni datori di lavoro, al punto che essi potrebbero dare vita a ritorsioni, ha inteso prendere in considerazione un'unica misura di ritorsione, la più grave ma forse non la più rara, «il licenziamento».

    25 Questa considerazione si è tradotta nell'art. 7 della direttiva, ai sensi del quale «gli Stati membri adottano le misure necessarie per proteggere i lavoratori contro i licenziamenti che rappresentino una reazione del datore di lavoro ad una rimostranza presentata a livello aziendale o ad un'azione giudiziaria volta a far osservare il principio della parità di trattamento».

    26 Si potrebbe pensare che, non obbligando gli Stati membri ad assicurare una protezione contro le altre forme di ritorsione alle quali possono essere tentati di ricorrere i datori di lavoro, contrariati dal fatto di essere stati chiamati a rispondere davanti a un giudice del loro comportamento rispetto al divieto di discriminazione fondata sul sesso, il legislatore si sia dimostrato timoroso.

    27 Non è tuttavia possibile, partendo da una tale constatazione, e dalle legittime lamentele che essa può far sorgere, costruire un ragionamento giuridico che porti a rinvenire nella direttiva obblighi a carico degli Stati membri che non vi compaiono.

    28 Una misura di ritorsione diversa dal licenziamento non fa sorgere il diritto ad un ricorso giurisdizionale salvo il caso, beninteso, in cui il datore di lavoro ricorra a misure di ritorsione nei confronti del dipendente, che ha avuto la «tracotanza» di far valere il suo diritto alla parità di trattamento, proprio per motivi fondati sul sesso dal dipendente.

    29 In questo caso, in effetti, ci si troverebbe nuovamente in presenza di una discriminazione direttamente fondata sul sesso, operata nel contesto delle relazioni di lavoro, e dunque si applicherebbe l'art. 6 della direttiva.

    30 Tuttavia questo non sembra essere, sfortunatamente per lei, il caso della signora Coote, o quantomeno l'interessata non ha rilevato che le ritorsioni esercitate dal suo ex datore di lavoro sarebbero selettive, essendone vittime solamente le donne.

    31 Riconosco volentieri che, se non ci fosse l'art. 7 - il quale, come sottolinea molto giustamente il governo del Regno Unito, traduce una chiara scelta politica -, sarebbe stato possibile domandarsi se l'art. 6 non dovesse essere interpretato nel senso che bisogna non soltanto che il ricorso possa permettere ai dipendenti discriminati di ottenere una riparazione effettiva, come ha giudicato la Corte nella causa Von Colson et Kamann (6), ma anche che il suo esercizio non possa scatenare ritorsioni.

    32 Un tale ragionamento si sarebbe iscritto nella linea giurisprudenziale, ricca di potenzialità, che fa ricorso alla nozione di effetto utile. Si avrebbe potuto ritenere che l'efficacia del diritto di ricorso previsto dall'art. 6 sarebbe nettamente rinforzata, se non aleggiasse sull'audace ricorrente la minaccia di misure di ritorsione, e dedurne un obbligo per gli Stati membri di riconoscere un diritto di ricorso alla vittima di tali misure. Ma la presenza dell'art. 7 mi sembra non lasciare spazio ad una tale costruzione.

    33 Né vi è maggiore spazio per un'interpretazione che farebbe delle misure di ritorsione una discriminazione indiretta fondata sul sesso, ai sensi dell'art. 2 della direttiva, il quale, ricordiamolo, al suo n. 1 enuncia che «il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia».

    34 Sono infatti convinto che, in questo articolo, per «indirettamente» bisogna intendere che, benché non siano esplicitamente lavoratori di un sesso determinato ad essere destinatari dell'una o dell'altra misura, è in realtà possibile lacerare il velo delle apparenze e identificare con certezza il sesso di cui trattasi.

    35 La precisazione «in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia» mi sembra non lasciare sussistere alcun dubbio a questo riguardo. Ora, mi pare che nel caso della signora Coote non si possa riscontrare una tale ipotesi. Le domande che ci sono poste mettono in effetti l'accento sul fatto che le referenze, se è vero che sono state effettivamente rifiutate, lo sono state perché la signora Coote ha promosso un procedimento giudiziale contro il suo datore di lavoro, e non perché è una donna.

    36 Non si potrebbe dunque ritenere che la direttiva imponga agli Stati membri di introdurre, nel loro ordinamento giuridico interno, le misure necessarie per consentire al dipendente, che si ritiene leso, di agire in giudizio per far valere i suoi diritti in un'ipotesi quale quella del comportamento, senz'altro moralmente riprovevole, che avrebbe adottato l'ex datore di lavoro della signora Coote.

    Conclusione

    37 Propongo, per concludere, che la Corte articoli la sua risposta alle domande pregiudiziali deferitele dall'Employment Appeal Tribunal nel modo seguente:

    «1) Il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso sancito dalla direttiva Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, si estende al rilascio da parte del datore di lavoro di referenze ai suoi dipendenti. E' irrilevante a questo riguardo:

    - che il rifiuto effettivo di fornire le referenze abbia luogo nel corso del rapporto di lavoro o dopo la cessazione di questo;

    - che il datore di lavoro abbia preso la propria decisione prima o dopo la cessazione del rapporto di lavoro.

    2) La direttiva 76/207 non obbliga tuttavia gli Stati membri ad introdurre nel loro ordinamento giuridico interno le misure necessarie per consentire ad un dipendente di far valere i propri diritti in giudizio nei riguardi del suo ex datore di lavoro che ha opposto un rifiuto ad una richiesta di referenze che lo riguardavano, quando questo rifiuto si risolve in una misura di ritorsione, in seguito ad un procedimento giudiziario promosso dal dipendente contro il suo datore di lavoro per far rispettare la parità di trattamento tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di esso femminile».

    (1) - GU L 39, pag. 40.

    (2) - Sentenza 13 luglio 1995, causa C-116/94 (Racc. pag. I-2131).

    (3) - Sentenza 16 febbraio 1982, causa 19/81 (Racc. pag. 555, punto 9).

    (4) - Sentenza 27 giugno 1990, causa C-33/89 (Racc. pag. I-2591).

    (5) - Sentenza 9 febbraio 1982, causa C-12/81 (Racc. pag. 359).

    (6) - Sentenza 10 aprile 1984, causa C-14/83 (Racc. pag. 1891). «Da questa disposizione [l'articolo 6] discende che gli Stati membri sono obbligati ad adottare provvedimenti che siano sufficientemente efficaci per conseguire lo scopo della direttiva ed a far sì che tali provvedimenti possano essere effettivamente fatti valere dinanzi ai giudici nazionali dagli interessati» (punto 18).

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