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Document 61996CC0231

Conclusioni dell'avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer del 26 marzo 1998.
Edilizia Industriale Siderurgica Srl (Edis) contro Ministero delle Finanze.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Tribunale di Genova - Italia.
Ripetizione dell'indebito - Termini processuali nazionali.
Causa C-231/96.

Raccolta della Giurisprudenza 1998 I-04951

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1998:134

61996C0231

Conclusioni dell'avvocato generale Ruiz-Jarabo Colomer del 26 marzo 1998. - Edilizia Industriale Siderurgica Srl (Edis) contro Ministero delle Finanze. - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Tribunale di Genova - Italia. - Ripetizione dell'indebito - Termini processuali nazionali. - Causa C-231/96.

raccolta della giurisprudenza 1998 pagina I-04951


Conclusioni dell avvocato generale


1 Il Tribunale civile di Genova formula tre questioni pregiudiziali vertenti sull'incidenza del diritto comunitario, quale interpretato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, su determinati presupposti per l'esercizio del diritto alla ripetizione di tributi indebitamente riscossi dall'Amministrazione italiana. In concreto, si tratta del rimborso di somme versate dall'impresa ricorrente in assolvimento di un tributo nazionale contrario alla normativa comunitaria.

Fatti, procedimento a quo e questioni pregiudiziali

2 La ricorrente è una società a responsabilità limitata iscritta nel registro delle società del Tribunale di Genova, che, in forza del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641 (in prosieguo: il «DPR n. 641/1972»), versava all'erario italiano, nel periodo 1986-1992, una somma pari a LIT 64 500 000, a titolo di tassa annuale di concessione governativa per l'iscrizione della società nel registro delle imprese.

3 Dopo la pronuncia della sentenza della Corte 20 aprile 1993, Ponente Carni e Cispadana Costruzioni (1) (in prosieguo: la «sentenza Ponente Carni»), in risposta a varie questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione della direttiva del Consiglio 17 luglio 1969, 69/335/CEE, concernente le imposte indirette sulla raccolta di capitali (2), il legislatore italiano aboliva la tassa annuale e riduceva a 500 000 LIT l'importo della tassa per la prima iscrizione delle società nel registro (3).

4 Per parte loro i giudici italiani dichiaravano anch'essi l'incompatibilità della tassa annuale con il diritto comunitario (4) e, conseguentemente, il carattere indebito dei versamenti effettuati a tale titolo.

5 Dopo aver chiesto invano all'Amministrazione italiana la restituzione delle tasse indebitamente versate nel periodo 1986-1992, in data 31 maggio 1996 la società Edis chiedeva al Tribunale di Genova l'emanazione di un decreto ingiuntivo (5) nei confronti del Ministero delle Finanze per ottenere il rimborso di LIT 64 500 000, corrispondenti al loro ammontare.

6 Il presidente del Tribunale, prima di pronunciarsi sulla domanda dell'impresa ricorrente, decideva di sottoporre alla Corte le tre questioni pregiudiziali seguenti:

«1) Se, ad integrazione e chiarimento di quanto già statuito con sentenza 20 aprile 1993, nei procedimenti riuniti C-71/91 e C-178/91, resa nel caso Ponente Carni SpA contro Amministrazione delle Finanze dello Stato, le disposizioni del Trattato vadano interpretate nel senso che ostano all'introduzione e/o al mantenimento da parte di uno Stato membro di una normativa nazionale quale quella introdotta dal legislatore italiano con il comma secondo dell'art. 13 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, nel caso in cui dall'applicazione di tale normativa derivi la conseguenza di limitare nel tempo gli effetti di una sentenza resa dalla Corte di giustizia.

2) Se l'art. 5 del Trattato CE, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte, sia compatibile con una normativa nazionale (art. 13 del D.P.R. 641/72) che, nelle modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la ripetizione di tasse pagate in violazione della direttiva del Consiglio 69/335/CEE, preveda un termine di decadenza triennale a far data dal pagamento, decadenza non prevista, invece, dall'ordinamento nazionale per le azioni di ripetizione dell'indebito fra privati.

3) In caso di risposta affermativa al quesito che precede, dica la Corte di giustizia se l'ordinamento comunitario sia compatibile con una normativa nazionale la quale preveda che un termine di decadenza decorra (in danno di un cittadino di uno Stato membro, che si richiami, al fine di ottenere la restituzione di una tassa indebitamente corrisposta, alle norme di una direttiva) prima che tale direttiva sia stata correttamente trasposta in diritto nazionale».

Disciplina nazionale e sua interpretazione da parte dei giudici italiani

7 Illustrerò in primo luogo le caratteristiche della tassa oggetto dell'indebito pagamento nella ricostruzione fattane nella sentenza Ponente Carni (punti 5-11):

- La tassa di concessione governativa per l'iscrizione delle società nel registro delle imprese (in prosieguo: la «tassa di concessione»), istituita con decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 641 (GURI n. 292 dell'11 novembre 1972, Supplemento n. 3), si applica alle iscrizioni nel registro delle società dei principali atti della vita societaria. Il detto registro è tenuto dalle cancellerie dei tribunali in attesa dell'istituzione del registro delle imprese previsto dall'art. 2188 del codice civile.

- La tassa di concessione, in quanto si applica all'iscrizione dell'atto costitutivo delle società nel registro, è stata oggetto di successive modifiche sia quanto all'importo sia quanto alla periodicità.

- L'importo della tassa, per la detta iscrizione, è stato portato da 81 000 LIT a 5 milioni di LIT per le società per azioni e in accomandita per azioni, a 1 milione di LIT per le società a responsabilità limitata e a 100 000 LIT per le altre società, in forza dell'art. 3, n. 18, del decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853 (GURI n. 347 del 19 dicembre 1984), convertito nella legge 17 febbraio 1985, n. 17 (GURI n. 41 bis del 17 febbraio 1985).

- Il decreto legge 30 maggio 1988, n. 173 (GURI n. 125 del 30 maggio 1988), ha aumentato tali importi. La legge 26 luglio 1988, n. 291 (GURI n. 175 del 27 luglio 1988), nella quale è stato convertito il detto decreto, ha portato, nell'art. 1, l'importo della tassa a 2,5 milioni di LIT per le società a responsabilità limitata e a 500 000 LIT per le altre società. Per le società per azioni e in accomandita per azioni la legge ha fissato, a seconda dell'entità del capitale sociale, cinque importi diversi da 9 a 120 milioni di LIT.

- Il decreto legge 2 marzo 1989, n. 69 (GURI n. 51 del 2 marzo 1989), convertito nella legge 27 aprile 1989, n. 154 (GURI n. 99 del 29 aprile 1989), ha fissato, nell'art. 36, n. 8, l'importo della tassa a 12 milioni di LIT per le società per azioni e in accomandita per azioni, a 3,5 milioni di LIT per le società a responsabilità limitata e a 500 000 LIT per le altre società.

- La citata legge 27 aprile 1989, n. 154, ha aggiunto all'art. 36 del decreto legge 2 marzo 1989 un n. 8 bis da cui risulta che l'importo della tassa per l'anno 1988 è di 15 milioni di LIT per le società per azioni e in accomandita per azioni, di 3,5 milioni di LIT per le società a responsabilità limitata e di 500 000 LIT per le altre società. Queste norme si sono sostituite alle citate disposizioni della legge 26 luglio 1988, n. 291.

- Quanto alla periodicità, il citato decreto legge 19 dicembre 1984, n. 853, ha prescritto che la tassa sia versata non soltanto al momento dell'iscrizione dell'atto costitutivo della società nel registro, ma anche il 30 giugno di ogni successivo anno solare.

8 Tra le norme nazionali che disciplinano l'esercizio dell'azione di rimborso dell'indebito fiscale, assumono rilevanza per il caso di specie le seguenti:

a) l'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972 stabilisce che «il contribuente può chiedere la restituzione delle tasse erroneamente pagate entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere dal giorno del pagamento (...)»;

b) lo stesso termine di decadenza triennale si applica alle azioni di ripetizione di altri tributi erariali, di carattere doganale, secondo il disposto dell'art. 29, primo comma, della legge n. 428/1990 in combinato disposto con l'art. 91 del Testo Unico in materia doganale (DPR 23 gennaio 1973, n. 43). Quest'ultimo fissava un termine di decadenza quinquennale che, a partire dalla detta legge, deve ritenersi applicabile a tutti i ricorsi e le azioni che possano proporsi per la ripetizione delle somme versate in relazione ad operazioni doganali (6).

9 Ai sensi delle norme generali dell'ordinamento nazionale, l'esercizio delle azioni di ripetizione, tra privati, di somme indebitamente pagate non è soggetto ad alcun termine, ad eccezione della prescrizione decennale ordinaria ex art. 2946 del codice civile («salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni»).

10 La Suprema Corte di cassazione, Sezioni unite, dichiarava con sentenza 23 febbraio 1996, n. 3458/96, che la domanda di ripetizione della tassa oggetto di esame è da ritenersi disciplinata dall'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972.

11 La controversia risolta dalla detta sentenza vedeva di fronte due tesi contrapposte:

a) Quella secondo la quale occorreva respingere l'eccezione di decadenza formulata ex art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972 «(...) ritenendo non pertinente l'ipotesi dell'errore, in quanto il pagamento non sarebbe erroneo, in mancanza di falsa rappresentazione della realtà di fatto o di diritto, ma si tratterebbe di carenza assoluta del potere impositivo da parte dello Stato nazionale di fronte alla preesistente legislazione comunitaria». Questa era la posizione difesa dal giudice italiano nella sentenza oggetto di cassazione.

b) Quella secondo la quale «(...) nella disciplina dell'art. 13 vanno ricomprese tutte le tasse erroneamente pagate, quale che sia la causa dell'erroneo pagamento, e quindi anche quelle in esame». Così si difendeva l'Amministrazione delle finanze italiana.

12 Il ragionamento della Corte di cassazione, a favore della tesi sostenuta dall'Amministrazione, si articolava nei seguenti termini:

«Nel vigente sistema tributario la restituzione delle tasse erroneamente pagate è soggetta alla decadenza triennale dal giorno del pagamento, ed a tale regime non sfugge la tassa in esame, trattandosi di disapplicazione del diritto interno, per contrasto con il prevalente ordinamento comunitario che, però, non comporta né l'abrogazione, né l'incompatibilità della legge italiana.

In particolare, sui limiti al diritto di restituzione della tassa erroneamente pagata ha già avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale con sentenza 24 febbraio 1995, n. 56, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 12 del DPR 26 ottobre 1972, n. 641, nella parte in cui non prevede, nelle controversie di cui all'art. 11 del decreto medesimo, l'esperibilità dell'azione giudiziaria anche in mancanza del preventivo ricorso amministrativo. Secondo la giurisprudenza costituzionale la disposizione di cui all'art. 12 mancava di una ratio idonea a giustificare il limite imposto al principio dell'art. 24 della Costituzione. Lo stesso non può dirsi per la disposizione, avente portata generale, di cui al secondo comma dell'art. 13 che impone un termine di decadenza di carattere triennale per la restituzione delle tasse erroneamente pagate, e quindi indebitamente corrisposte dal contribuente allo Stato.

La norma, infatti, è formulata in modo tale da ricomprendere tutte le tasse erroneamente pagate, quale che sia la causa dell'avvenuto indebito pagamento, sicché può riconoscersi che la disposizione dell'art. 13 stabilisce una decadenza di carattere generale per ogni domanda di restituzione, in conformità con l'indirizzo normativo secondo cui le tasse sulle concessioni governative sono sempre state soggette ad un regime di preclusioni, in relazione alle domande di rimborso.

Non è condivisibile la tesi secondo cui, nella fattispecie, il pagamento non sarebbe erroneo, in quanto non si sarebbe verificato lo stato psicologico di falsa rappresentazione di una realtà di fatto e di diritto, con efficacia sulla determinazione volitiva, ma sarebbe stato effettuato nella piena consapevolezza e volontarietà dell'adempimento di una norma tributaria. In altri termini, la sentenza impugnata non nega l'esistenza dell'errore sui presupposti dell'obbligazione tributaria che rende il pagamento effettuato indebito, cioè non dovuto, ma ritiene la decadenza, pur prevista in generale per ogni indebito, inoperante di fronte all'illegittimità della norma d'imposizione tributaria confliggente con l'ordinamento comunitario. Esclusa la carenza di potere tributario e ribadito che il giudice si limita a disapplicare il diritto interno confliggente con quello comunitario, il principio di decadenza, per il ritardo con cui si chiede il rimborso delle tasse indebitamente o erroneamente pagate, esplica integralmente la sua efficacia, ed è quindi applicabile anche alla fattispecie in esame».

Sulla prima questione pregiudiziale

13 Con la sua prima questione, il Tribunale di Genova chiede sostanzialmente se sia ammissibile, dal punto di vista del diritto comunitario, una normativa nazionale la cui applicazione porti a limitare nel tempo gli effetti di una sentenza pronunciata dalla Corte. La legislazione nazionale alla quale si riferisce il giudice a quo è l'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972, già testualmente citato, mentre la sentenza della Corte alla quale il detto giudice fa riferimento è quella nella causa Ponente Carni, anch'essa già citata.

14 La risposta a tale questione pregiudiziale richiede un'analisi sommaria, in primo luogo, dei profili comuni alle sentenze della Corte in materia di limitazione degli effetti delle sue sentenze nel tempo e, in secondo luogo, dell'efficacia nel tempo delle sentenze pronunciate in risposta a questioni pregiudiziali interpretative. A partire dalla detta analisi, giungerò alla conclusione che l'applicazione della norma italiana non costituisce una limitazione nel tempo degli effetti della sentenza Ponente Carni.

i) Limitazione nel tempo degli effetti delle sentenze della Corte di giustizia

15 La Corte di giustizia, sin dalla sentenza 8 aprile 1976, Defrenne (7), ha emanato in varie occasioni una serie di pronunce sulla limitazione degli effetti nel tempo delle sue sentenze (8). Con tali decisioni essa ha voluto conciliare le esigenze derivanti dal principio della certezza del diritto con quelle discendenti, in linea di principio, dall'incompatibilità di una norma nazionale con il diritto comunitario.

16 La base giuridica sulla quale si fonda questo tipo di dichiarazioni è l'art. 174 del Trattato CE, trattandosi di ricorsi diretti di annullamento proposti avverso disposizioni ed atti comunitari (9). Il detto articolo conferisce alla Corte un ampio potere discrezionale che le consente, «ove lo reputi necessario», di convalidare situazioni giuridiche che, altrimenti, sarebbero nulle in quanto derivanti da un regolamento annullato.

17 Per salvaguardare la «necessaria coerenza» tra le sentenze che decidono su ricorsi di annullamento e quelle che risolvono questioni pregiudiziali relative alla validità della normativa comunitaria, la Corte ha esteso a queste ultime il potere attribuitole dall'art. 174. Ciò è logico, dato che una sentenza della Corte che dichiari in via pregiudiziale l'invalidità di un atto comunitario possiede, in linea di principio, effetti retroattivi, ex tunc, al pari di una sentenza di annullamento: la facoltà di limitare un simile effetto retroattivo deve quindi considerarsi estesa a entrambi i tipi di procedimento (10).

18 Anche in mancanza del detto sostegno normativo, e malgrado la mancanza di disposizioni parallele nell'art. 177 del Trattato, la Corte ha applicato un'analoga soluzione alle questioni pregiudiziali di carattere interpretativo, riconoscendo in tal modo che può essere necessario, in casi eccezionali, limitare parimenti gli effetti nel tempo delle sentenze interpretative, per salvaguardare ben precise esigenze di certezza del diritto (11). Si tratta, in ogni caso, di un potere che spetta soltanto alla Corte e a nessun altro organo giurisdizionale.

ii) Efficacia nel tempo delle sentenze pronunciate su questioni pregiudiziali di carattere interpretativo

19 In linea di principio, una sentenza della Corte pronunciata in risposta a una questione pregiudiziale d'interpretazione obbliga il giudice nazionale - fatte salve le eccezioni che analizzerò nel prosieguo - ad applicare la norma comunitaria secondo l'interpretazione formulata dalla citata sentenza, e ciò con piena efficacia, anche riguardo ai rapporti giuridici sorti prima della suddetta pronuncia.

20 Infatti, come dichiarato dalla Corte nelle sentenze 27 marzo 1980, Denkavit italiana (12), e 11 agosto 1995, Roders e a. (13), «l'interpretazione di una norma di diritto comunitario data dalla Corte nell'esercizio della competenza ad essa attribuita dall'art. 177 del Trattato chiarisce e precisa, quando ve ne sia il bisogno, il significato e la portata della norma, quale deve, o avrebbe dovuto, essere intesa ed applicata dal momento della sua entrata in vigore». In maniera più sintetica, nella sentenza 3 luglio 1997, Goldsmiths, la Corte ha fatto riferimento al principio «(...) secondo cui gli effetti di una sentenza interpretativa retroagiscono alla data dell'entrata in vigore della norma interpretata» (14).

21 In altre parole, dato che l'interpretazione di una norma comunitaria non aggiunge nulla, dal punto di vista dell'efficacia nel tempo, alla vigenza della detta norma, le sentenze della Corte che svolgono tale funzione possono applicarsi a qualsiasi tipo di situazioni giuridiche disciplinate dalla normativa comunitaria oggetto d'interpretazione, a prescindere dai suoi connotati cronologici.

22 Ciò non significa però che le sentenze della Corte pronunciate su questioni pregiudiziali di natura interpretativa possiedano un'efficacia esorbitante, tale da prevalere su tutti i tipi di rapporti giuridici anteriori, esauriti o meno. Infatti, la medesima giurisprudenza della Corte prima citata

a) se, da un lato, afferma che «la norma [comunitaria] così interpretata può e deve essere applicata dal giudice anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa (...)»,

b) dall'altro, sottolinea che tale potere-dovere nasce «se (...) sono soddisfatte le condizioni che consentono di portare alla cognizione dei giudici competenti una controversia relativa all'applicazione di detta norma».

23 Questo indirizzo giurisprudenziale - confermato del resto di recente con le sentenze 15 dicembre 1995, Bosman (15), e 13 febbraio 1996, Bautiaa e Société française maritime (16) - fissa in termini precisi l'efficacia nel tempo delle sentenze pronunciate in risposta a questioni pregiudiziali di natura interpretativa.

24 Siffatte sentenze, quindi, anche quando producano l'effetto indiretto di accertare l'incompatibilità di una norma nazionale con il diritto comunitario, non sono dotate di una specie di efficacia sovratemporale che consenta di prescindere dalle diverse situazioni giuridiche nazionali, di fatto e di diritto, alle quali esse risultino eventualmente applicabili. Al contrario, la loro efficacia dev'essere correlata alle situazioni giuridiche che, a norma del diritto interno, costituiscono anche un possibile oggetto di controversia o di controllo giurisdizionale e che, pertanto, possono essere portate alla cognizione di un giudice.

25 Questa conclusione è pienamente estendibile all'esercizio del diritto di ottenere la ripetizione dell'indebito fiscale, qualora questo diritto discenda dall'incompatibilità del tributo nazionale con il diritto comunitario. Una giurisprudenza costante, iniziata con le sentenze Rewe (17) e Comet (18), ha posto in risalto sia l'obbligo degli Stati membri di restituire siffatti introiti, in corrispondenza del diritto dei contribuenti al loro rimborso (19), sia l'assoggettamento di questo diritto alle ordinarie condizioni di esercizio vigenti nell'ordinamento giuridico di ciascuno Stato.

26 Compendiando questo indirizzo giurisprudenziale, la sentenza 29 giugno 1988, Deville (20), affermava: «(...) se non vi è una disciplina comunitaria in fatto di rimborso di tributi nazionali indebitamente riscossi, spetta all'ordinamento giuridico nazionale di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e fissare le modalità di procedura delle azioni giudiziarie destinate a garantire la tutela dei diritti che gli amministrati traggono dall'efficacia diretta del diritto comunitario, fermo restando che dette modalità non possono essere né meno favorevoli di quelle relative alle analoghe azioni di natura nazionale, né essere tali da rendere impossibile in pratica l'esercizio dei diritti che i giudici nazionali devono tutelare (...)» (21).

27 Uno dei requisiti ai quali può essere assoggettato l'esercizio di questo tipo di azioni è proprio quello relativo ai termini. Gli ordinamenti nazionali possono infatti stabilire termini, più o meno ampi, di prescrizione dei diritti oppure di decadenza per l'esercizio delle azioni di ripetizione degli indebiti erariali. Se i detti termini non sono contrari al diritto comunitario - e su questo problema vertono le altre due questioni pregiudiziali -, essi possono esercitare i loro effetti su tutti i tipi di ricorsi di quel genere, senza che ciò equivalga, da un punto di vista giuridico, a una limitazione nel tempo degli effetti delle sentenze della Corte che abbiano rilevato l'esistenza di contrasti fra un tributo nazionale e il diritto comunitario.

iii) Rapporti tra le due figure giuridiche

28 La tecnica di limitare, in via eccezionale, gli effetti nel tempo di una sentenza traccia una specie di cerchio concentrico, all'interno di un altro più ampio, corrispondente a quello della «normale» efficacia della detta sentenza. Questa efficacia - che, secondo quanto già illustrato, non osta all'applicazione dei presupposti richiesti dagli ordinamenti giuridici nazionali, purché essi non siano discriminatori né rendano illusorio il diritto riconosciuto dalla Corte - può anche essere limitata, in casi eccezionali, mediante una dichiarazione espressa in tal senso.

29 La limitazione degli effetti nel tempo di una sentenza interpretativa viene disposta, così, quando esistono diversi rapporti giuridici ancora pendenti, non «esauriti» secondo il diritto nazionale, sui quali di norma dovrebbe incidere l'interpretazione della disposizione comunitaria compiuta dalla Corte. Quest'ultima, in presenza di determinate circostanze eccezionali, può decidere che gli effetti della detta interpretazione non si producano nei confronti dei rapporti giuridici ancora in corso.

30 Pertanto, l'assenza di dichiarazioni di questo tipo nelle sentenze interpretative della Corte (22) non impedisce assolutamente ai giudici nazionali di applicare ai rapporti giuridici sorti o costituitisi prima della pronuncia delle sentenze le disposizioni generali che disciplinano, dal punto di vista processuale, l'esercizio dei diritti corrispondenti. L'applicazione di tali norme trova il suo unico limite nel divieto di discriminazioni e nel principio che impone di non rendere meramente illusori i rimedi giurisdizionali: su entrambi i punti mi soffermerò più avanti, analizzando la seconda e la terza questione pregiudiziale.

31 Sia la Commissione sia i vari governi degli Stati membri che hanno presentato osservazioni (Italia, Francia e Regno Unito) hanno condiviso tale valutazione, sottolineando la netta differenza che esiste tra le due figure giuridiche: la limitazione nel tempo degli effetti di una sentenza della Corte, quale misura eccezionale dalla stessa adottata riguardo a un caso concreto, opera su un piano diverso dalla disciplina generale sull'esercizio dei diritti, dal punto di vista processuale, che spetta a ciascuno Stato stabilire e a ciascuno dei suoi giudici applicare.

32 La Commissione ha tuttavia sostenuto in udienza una posizione non coincidente con quella mantenuta sino ad allora. Nelle sue osservazioni scritte, aveva suggerito una risposta alla prima questione pregiudiziale che confermasse che l'applicazione di un termine per l'esercizio dell'azione di ripetizione dell'indebito non è incompatibile con la prerogativa, spettante in via esclusiva alla Corte, di limitare nel tempo gli effetti delle proprie sentenze (23). In udienza, al contrario, essa ha formalmente proposto che la risposta della Corte sia analoga a quella espressa nelle sentenze Deville (24), già citata, e Barra (25) e che, in particolare, si limitino espressamente i poteri dei giudici nazionali competenti (26).

33 La Commissione è giunta a questa conclusione dopo un'analisi dell'evoluzione seguita dalla giurisprudenza italiana in merito all'interpretazione del termine «errore», riferito all'indebito versamento di determinati tributi, e alla conseguente applicazione dei termini di decadenza per la domanda di ripetizione dei medesimi. Secondo il parere della Commissione, una giurisprudenza costante della Corte di cassazione avrebbe interpretato tale termine in un senso ben preciso (errori in sede di calcolo o di liquidazione), che escluderebbe le ipotesi di versamenti di tributi sine causa, quali sono quelli contrari al diritto comunitario. Questa giurisprudenza, secondo la Commissione, avrebbe subito un mutamento «spettacolare» con la già citata sentenza del 1996, di profilo analogo a quello dei provvedimenti nazionali adottati rispettivamente dagli Stati francese e belga, oggetto delle sentenze Deville e Barra, per sottrarsi alle conseguenze sfavorevoli di una precedente sentenza della Corte.

34 Non condivido questa analisi. I giudici italiani - nel caso concreto, la Corte di cassazione - hanno tratto le debite conseguenze dalla sentenza Ponente Carni affermando il diritto dei contribuenti alla ripetizione della tassa. Se hanno applicato un determinato termine di decadenza, hanno fatto ciò mediante un'interpretazione plausibile di una norma giuridica preesistente, interpretazione che, per di più, cercava di porre in accordo un'ipotesi concreta con il regime generale di preclusioni valido per tutte le tasse dovute a titolo di concessioni governative (27). Come sostenuto in udienza dal rappresentante del governo francese, non c'è motivo per sospettare che, dietro questo mutamento giurisprudenziale, si celino disegni ostili all'imparzialità e all'indipendenza di tale alta autorità giurisdizionale. Tanto questa quanto gli organi giurisdizionali di analogo livello devono a volte modificare la propria precedente giurisprudenza e, inevitabilmente, devono farlo in relazione ad un caso concreto.

35 Per tutte queste ragioni ritengo che la risposta alla prima questione pregiudiziale debba sottolineare la netta differenza esistente tra le due figure giuridiche cui fa riferimento il detto quesito: il fatto che la Corte, nella sentenza Ponente Carni, non abbia limitato gli effetti di quest'ultima nel tempo è compatibile con l'assoggettamento delle domande di ripetizione della tassa, oggetto della sentenza, alle norme generali dell'ordinamento italiano riguardanti tali domande.

Seconda questione pregiudiziale

36 Con la seconda questione pregiudiziale il giudice a quo chiede se sia ammissibile, da un punto di vista comunitario, che le azioni di ripetizione delle tasse pagate in violazione della direttiva del Consiglio 69/335 restino soggette a un termine di decadenza triennale a far data dal pagamento, diverso dal termine di prescrizione (decennale) che l'ordinamento nazionale stabilisce per le azioni di ripetizione dell'indebito tra privati.

37 E' necessario sottolineare anzitutto che, secondo il diritto italiano, il termine di decadenza al quale fa riferimento il giudice a quo non concerne solo le azioni di ripetizione delle tasse incompatibili con il diritto comunitario, bensì tutte le azioni di ripetizione di qualsivoglia tassa di concessione governativa indebitamente versata, a prescindere dall'origine, nazionale o comunitaria, della sua illegittimità.

38 Infatti, come posto in rilievo in sede di illustrazione della normativa nazionale applicabile alle azioni di ripetizione dell'indebito tributario (28), l'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972 non è circoscritto solo alle tasse pagate in violazione del diritto comunitario: esso stabilisce, al contrario, che il contribuente potrà richiedere la restituzione di qualsiasi tassa di concessione governativa pagata per errore entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere dal giorno del pagamento. Termini analoghi si applicano parimenti alle azioni di ripetizione di altri tributi pubblici di carattere doganale.

39 Il dibattito dottrinale e giurisprudenziale svoltosi in Italia sull'interpretazione di tale disposizione - e, più in particolare, sulla nozione di «erroneo pagamento» - costituisce una polemica che riguarda esclusivamente il diritto nazionale, sulla quale la Corte non deve ovviamente pronunciarsi. Basti dire che la Suprema Corte di cassazione, nella già citata sentenza n. 3458/96, ha affermato che la decadenza prevista dall'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972 si estende a tutte le tasse di concessione governativa indebitamente o erroneamente pagate e, pertanto, anche a quella oggetto del presente procedimento (29).

40 A partire da questa premessa, ritengo che nessuna norma o principio di diritto comunitario impedisca al legislatore nazionale di fissare termini di prescrizione di diritti, o di decadenza dall'esercizio di azioni, diversi a seconda del settore dell'ordinamento giuridico interessato, sempreché essi vengano applicati indistintamente ai diritti derivanti da norme sia nazionali sia comunitarie.

41 Infatti, il legislatore nazionale è libero di imporre termini di prescrizione o di decadenza in materia tributaria che non debbono coincidere con quelli stabiliti per altri tipi di rapporti privati. Nessuna norma o principio di diritto comunitario lo obbliga ad equiparare, a tali fini, i rapporti tributari con i rapporti inter privatos.

42 L'ordinamento giuridico italiano conosce, per di più, termini molto diversi a seconda del settore dell'ordinamento giuridico interessato. Per la precisione, il termine generale di prescrizione ordinaria (decennale) è fissato dall'art. 2946 del codice civile «salvi i casi in cui la legge dispone diversamente», e sono numerose le norme di legge che infatti prevedono termini inferiori per la prescrizione di determinati diritti o per l'esercizio di determinate azioni (30).

43 Al pari di tutti gli Stati membri che hanno presentato osservazioni in questo procedimento, non trovo nessun motivo per respingere l'idea che un legislatore nazionale possa imporre alle azioni di ripetizione di indebito fiscale condizioni temporali di esercizio diverse da quelle stabilite per azioni analoghe tra privati.

44 La legittimità della detta distinzione è già stata, per di più, confermata dalla Corte nei punti 22-25 della già citata sentenza Denkavit italiana. Dopo aver affermato che il diritto comunitario non impone necessariamente l'introduzione di una regola uniforme e comune a tutti gli Stati membri in materia di condizioni di forma e di sostanza relative alla contestazione o alla ripetizione delle tasse contrarie a tale diritto, e che la disciplina di questo problema varia da uno Stato all'altro, e persino all'interno di ciascuno Stato, a seconda dei vari tipi di tributi, la Corte ha riconosciuto legittimi i due tipi di regimi nazionali più qualificati in materia:

- in alcuni casi, le leggi nazionali assoggettano le contestazioni o le domande di ripetizione dei tributi illegittimamente riscossi a condizioni precise di tempo e di forma, per quanto concerne sia i reclami rivolti all'amministrazione fiscale sia i ricorsi giurisdizionali;

- in altri casi, le azioni di rimborso delle tasse indebitamente versate debbono essere proposte innanzi ai giudici ordinari, in particolare sotto forma di azioni di ripetizione dell'indebito. Questo tipo di azioni può essere esercitato entro termini più o meno lunghi che, in determinati casi, corrispondono a quelli di prescrizione ordinaria.

45 Subito dopo la Corte, nel richiamare la sua giurisprudenza Rewe e Comet, già citata, ha affermato che, dal punto di vista comunitario, le condizioni che i vari sistemi giuridici nazionali devono comunque rispettare, in relazione alle contestazioni di indebiti fiscali la cui illegittimità derivi da una norma comunitaria, sono, come già detto, il divieto di discriminazioni e l'effettività delle corrispondenti azioni. Secondo la recente sentenza 10 luglio 1997, Palmisani (31), entrambi sono espressione, rispettivamente, del «principio dell'equivalenza» (ai requisiti stabiliti per i reclami analoghi di natura interna) e del «principio di effettività» del diritto comunitario.

46 In un altro caso, analogo a quello attuale, la Corte ha avuto l'opportunità di precisare, ancora una volta, la sua precedente posizione, risolvendo una questione pregiudiziale con la quale si chiedeva «in sostanza (...) entro quali limiti i principi generali del diritto comunitario ostino a norme nazionali che contemplino un termine perentorio di tre anni per le domande di rimborso di dazi indebitamente pagati, senza eccezioni per causa di forza maggiore».

47 La risposta, data con la sentenza 9 novembre 1989, Bessin e Salson (32), risulta perfettamente trasponibile al caso di specie, essendo le situazioni giuridiche manifestamente analoghe. La norma nazionale allora in discussione era il code des douanes (codice doganale) francese, il quale imponeva un termine triennale per le richieste di restituzione di dazi all'importazione indebitamente versati: tale norma speciale si discostava da quella ordinaria di prescrizione, applicabile, in assenza di un qualsiasi altro termine, a norma del code civil (codice civile) francese, alle domande di ripetizione dell'indebito.

48 Nella sentenza con cui si è pronunciata su tale questione pregiudiziale la Corte, dopo aver ricordato la necessità di un'applicazione non discriminatoria della legislazione nazionale, in relazione ai procedimenti miranti a risolvere controversie puramente nazionali del medesimo tipo, e che la detta normativa non deve risolversi nel rendere praticamente impossibile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento comunitario, ha concluso che il periodo di prescrizione triennale analizzato «corrisponde ad una scelta legislativa nazionale che non ha l'effetto di pregiudicare l'esigenza sopra ricordata».

49 Infine, in due sentenze del 17 luglio 1997, Texaco e Olieselskabet Danmark (33) nonché Haahr Petroleum (34), la Corte ha ribadito la medesima posizione confermando che «la fissazione di ragionevoli termini di ricorso a pena di decadenza, che costituisce l'applicazione del principio fondamentale della certezza del diritto, soddisfa le due summenzionate condizioni e non si può considerare in particolare che essa renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario, anche se, per definizione, lo spirare di detti termini comporta il rigetto, totale o parziale, dell'azione esperita». Di conseguenza, essa ha dichiarato che il termine di prescrizione quinquennale, applicato dalla legislazione danese a talune domande di rimborso di tasse nazionali contrarie al diritto comunitario, è compatibile con quest'ultimo, anche quando precluda, in modo totale o parziale, la ripetizione richiesta.

50 Si avrebbe quindi una discriminazione se la norma italiana sulla decadenza dalle azioni di rimborso della tassa indebitamente versata stabilisse termini diversi a seconda dell'origine, nazionale o comunitaria, dell'obbligo di rimborso. Così avverrebbe, difatti, se il termine di legge per richiedere la ripetizione della tassa, a causa della sua incompatibilità con il diritto comunitario, fosse inferiore a quello prescritto per richiedere la ripetizione di questa stessa tassa in forza di una qualsiasi altra motivazione di diritto nazionale. Ma poiché ciò non avviene, e il termine fissato dall'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972 si applica indistintamente a tutte le azioni di ripetizione della tassa, a prescindere dal loro fondamento, la risposta alla seconda questione pregiudiziale non può che affermare la compatibilità di tale norma con il diritto comunitario.

51 In questa fase della discussione la Commissione illustra una posizione diversa, che la porta a «riformulare completamente» la seconda questione pregiudiziale. A suo parere, la detta questione nella formulazione ad essa data dal giudice a quo dovrebbe considerarsi inammissibile, dato che farebbe riferimento a un mero problema di interpretazione del diritto nazionale o, altrimenti, dovrebbe essere riformulata nei seguenti termini:

«Se il diritto comunitario osti ad una normativa nazionale che, così come interpretata dalle autorità nazionali competenti, sottopone l'esperimento delle azioni di restituzione di una tassa nazionale incompatibile con l'art. 10 della direttiva 69/335/CEE ad un termine di decadenza che presuppone la valida esistenza di un potere impositivo dello Stato membro e la conseguente esistenza di un'obbligazione tributaria, e non al termine di prescrizione applicabile, in base alla medesima normativa nazionale, alle situazioni di indebito oggettivo determinato dal venir meno del potere impositivo dello Stato e della relativa obbligazione tributaria».

52 Non condivido questa posizione né riguardo all'asserita inammissibilità della questione pregiudiziale né riguardo alla necessità od opportunità di riformularla.

53 Per quanto concerne l'eccezione di inammissibilità, non è certo che la seconda questione pregiudiziale verta su un problema di diritto nazionale, quale sarebbe la mera interpretazione della nozione di «tasse erroneamente pagate», di cui all'art. 13, secondo comma, del DPR n. 641/1972. Al contrario, ciò che il giudice a quo desidera sapere è se, a partire dall'interpretazione che di tale nozione hanno dato i giudici italiani, l'applicazione di un termine triennale all'azione di ripetizione della tassa, in luogo di quello decennale di prescrizione tra privati, sia contraria al diritto comunitario. La questione risulta pertanto ammissibile, dato che ciò che si richiede è un chiarimento della giurisprudenza della Corte sui requisiti di uguaglianza che devono presentare le azioni di ripetizione di tributi contrari al diritto comunitario.

54 A mio parere, nemmeno la proposta di riformulazione della seconda questione pregiudiziale può essere accolta. Il giudice a quo non risale ai «presupposti» dell'art. 13 del DPR n. 641/1972 né all'esistenza o inesistenza della potestà tributaria dello Stato per dedurre da tali elementi l'applicabilità di un termine di decadenza triennale o di un altro di prescrizione decennale. Questi problemi, al contrario, sono oggetto in realtà di alcune questioni pregiudiziali proposte da altri giudici italiani in merito alla ripetizione della tassa oggetto di questo procedimento e devono essere risolti nell'ambito dei rispettivi giudizi (35).

55 E' certo tuttavia che, in sede di motivazione giuridica del provvedimento di rinvio, il giudice a quo sostiene che «il sistema dei rimborsi, come configurato dall'art. 13 del DPR n. 641/1972» contrasta con il regime generale dell'ordinamento nazionale, secondo il quale l'esercizio dell'azione di ripetizione dell'indebito è soggetto soltanto alla prescrizione generale ordinaria di dieci anni. Esso aggiunge che «la Corte costituzionale italiana, con la sentenza n. 56 del 20 febbraio 1995, ha collocato nell'ambito di questa disciplina - azioni di ripetizione dell'indebito - l'azione promossa dal contribuente per la restituzione delle tasse di concessione governativa (...)».

56 La Commissione, nello stesso senso, sottolinea che la citata sentenza della Corte costituzionale «sembra opporsi» alla teoria accolta dalla Suprema Corte di cassazione nella sentenza n. 3458/96, anch'essa citata: la Corte costituzionale avrebbe qualificato le azioni di ripetizione di indebito fiscale «azioni di ripetizione dell'indebito», espressione che in diritto italiano ha un significato chiaro e inequivoco, in quanto fa rinvio all'art. 2033 del codice civile («indebito oggettivo»). Da ciò discenderebbe che il termine di prescrizione applicabile alle dette azioni sarebbe quello decennale e non il termine di decadenza triennale fissato dal DPR n. 641/1972.

57 A mio giudizio, non esiste tale supposta discrepanza tra le sentenze dei due organi giurisdizionali italiani (36) né, quand'anche esistesse, spetterebbe alla Corte optare per l'una o per l'altra soluzione. Si tratterebbe, in ogni caso, di un mero problema di applicazione di norme nazionali poste a confronto (da un lato, il codice civile, dall'altro, il DPR n. 641/1972), la cui soluzione definitiva spetterebbe ai soli giudici italiani, in base al loro specifico ordinamento processuale.

58 Il punto decisivo non è, quindi, il fatto che le azioni di ripetizione siano soggette a termini diversi a seconda che si tratti di reclami in materia tributaria o di cause civili, bensì che la soluzione adottata dall'ordinamento giuridico nazionale, nell'interpretazione datane dai suoi giudici (37), si applichi indistintamente alle azioni di ripetizione fondate sia sul diritto comunitario, sia sul diritto nazionale. E questo è proprio quello che avviene nel caso della tassa oggetto del contendere, secondo quanto è dato dedurre dagli elementi ricavabili dagli atti.

59 La Commissione, sia in sede di osservazioni scritte sia, più estesamente, in udienza, sostiene che si giungerebbe a una violazione del principio di parità di trattamento se le azioni di ripetizione dell'indebito tributario, basate sulla violazione del diritto comunitario, fossero trattate, in Italia, meno favorevolmente delle azioni di ripetizione fondate sulla violazione di una norma superiore di diritto nazionale, in particolare nel caso di tributi versati in virtù di leggi nazionali incostituzionali.

60 A suo parere, le «modalità procedurali di diritto nazionale» che dovrebbero servire come punto di riferimento per applicare il principio della parità di trattamento sarebbero le azioni di ripetizione proposte dai contribuenti che abbiano assolto un tributo conforme a una legge nazionale, successivamente dichiarata incostituzionale. Nelle sue osservazioni scritte, la Commissione aveva affermato che sia la legislazione sia la giurisprudenza italiana consideravano tali azioni come un'ipotesi di «ripetizione di indebito oggettivo», soggette al regime comune del codice civile italiano (art. 2033) e, pertanto, al termine ordinario di prescrizione decennale. In udienza, la Commissione ha ridimensionato notevolmente tali affermazioni, riconoscendo che detto problema «non è di facile soluzione» e che spetta ai giudici italiani decidere sul punto.

61 Partendo dalla premessa che debbono essere i giudici italiani ad avere l'ultima parola sulla questione, le informazioni fornite a tale proposito dal governo italiano in udienza non confermano necessariamente la posizione della Commissione.

62 Infatti, la tesi accolta dalla Corte di cassazione (Sezioni unite) nella sua sentenza 9 giugno 1989, n. 2876, sulle conseguenze delle pronunce di incostituzionalità di una legge in materia fiscale in relazione ai tributi già assolti in forza della medesima, è la seguente:

- Le sentenze della Corte costituzionale che dichiarano l'illegittimità di norme aventi forza di legge eliminano le medesime dall'ordinamento giuridico con effetto ex tunc, nel senso che esse non possono più essere applicate con riguardo ai rapporti giuridici pendenti, mentre restano insensibili alla pronuncia i rapporti esauriti, quelli cioè in ordine ai quali gli effetti costitutivi si sono consolidati diventando intangibili.

- In particolare, le dette sentenze non esplicano alcun effetto rispetto ai rapporti giuridici di natura fiscale i quali, per vari motivi, debbano considerarsi conclusi. Possono ritenersi compresi tra questi motivi l'esistenza di una previa pronuncia passato in giudicato, il fatto che la liquidazione del tributo sia diventata inoppugnabile (per mancata impugnazione o per rigetto di quest'ultima) o anche l'avvenuto decorso dei termini di prescrizione o di decadenza stabiliti dalla normativa che regola il tributo.

- Risultano pertanto intangibili i pagamenti di obbligazioni tributarie basate su norma impositiva dichiarata incostituzionale, effettuati da soggetti che abbiano lasciato consolidare il rapporto giuridico sottostante.

- Occorre respingere recisamente la tesi volta a sostenere che, essendo risultato, alla stregua della retroattività della dichiarazione di incostituzionalità, l'obbligo tributario inesistente in radice, dovrebbe esplicare efficacia immediata e diretta la disciplina generale sull'indebito, ex art. 2033 del codice civile, ai sensi del quale l'importo versato potrebbe essere ripetuto indipendentemente dall'impugnativa di un qualsiasi atto impositivo e dalle preclusioni dettate dalla legge tributaria;

- in conclusione, deve ritenersi infondata la tesi che ritiene ammissibile - nei casi di (asserita) mancanza originaria o sopravvenuta di un valido rapporto di imposta - l'azione di ripetizione di indebito di cui al codice civile, in luogo delle norme specifiche del contenzioso tributario, sia sostanziali sia processuali.

63 Questa medesima posizione è stata ribadita nella sentenza della Corte di cassazione (Sezioni unite civili) 21 giugno 1996, n. 5731, che la sintetizza nei seguenti termini: «(...) la dichiarazione di incostituzionalità della norma che prevede una determinata imposta (...) non incide sui rapporti tributari relativamente ai quali siano scaduti i termini concessi al contribuente per contestare il provvedimento impositivo (...), non potendo ritenersi che la declaratoria di illegittimità della norma attributiva del potere impositivo sottragga la controversia ai termini e alle modalità proprie del contenzioso tributario (...). [E'] escluso che la caducazione della norma tributaria per contrasto con la Costituzione possa implicare il superamento dei tempi e dei modi del relativo contenzioso, e consentire la rimessa in discussione di provvedimenti impositivi a suo tempo non impugnati nei prescritti termini (...)».

64 Risulta pertanto infondato l'argomento della Commissione sull'asserita disparità di trattamento nell'ambito delle azioni di ripetizione di indebito fiscale basate sulla violazione di una norma di rango superiore, a seconda che si tratti di norme nazionali o comunitarie.

65 Di conseguenza, non è necessario né riformulare la seconda questione pregiudiziale né sfumarla con riferimento all'asserita disparità delle condizioni di esercizio valide per l'uno o per l'altro tipo di azioni di ripetizione di indebito fiscale. Il tenore della seconda questione pregiudiziale è chiaro, ed è ad esso che la Corte di giustizia deve dare una risposta. Alla luce delle osservazioni che ho appena illustrato, suggerisco alla Corte di rispondere confermando la sua giurisprudenza precedente e ribadendo che il diritto comunitario non osta a che gli ordinamenti nazionali impongano un termine di decadenza triennale per l'esercizio delle azioni, a carico del Fisco, miranti alla restituzione di tributi indebitamente versati, anche se il detto termine è diverso da quello fissato per le azioni di ripetizione dell'indebito tra privati, sempreché esso si applichi indistintamente sia alle azioni di ripetizione fondate su motivi di diritto nazionale sia a quelle derivanti dall'applicazione di norme comunitarie.

Sulla terza questione pregiudiziale

66 Con la terza questione pregiudiziale, che presuppone una risposta in senso affermativo alla precedente, si chiede se sia compatibile con il diritto comunitario una normativa nazionale la quale preveda, in materia di azioni di ripetizione di indebito fiscale, quale dies a quo del termine di decadenza triennale la data di pagamento del tributo, quando la direttiva comunitaria applicabile a quest'ultimo non era stata correttamente trasposta in diritto nazionale.

67 Le osservazioni scritte presentate dall'impresa ricorrente, dalla Commissione e da vari Stati membri sono incentrate sull'incidenza della sentenza della Corte 25 luglio 1991, Emmott (38), sul detto problema. Come è noto, in questa sentenza la Corte ha dichiarato: «(...) fino al momento della trasposizione corretta della direttiva, lo Stato membro inadempiente non può eccepire la tardività di un'azione giudiziaria avviata nei suoi confronti da un singolo al fine della tutela dei diritti che ad esso riconoscono le disposizioni della direttiva e che un termine di ricorso del diritto nazionale può cominciare a decorrere solo da tale momento» (39).

68 E' certo che la portata della sentenza Emmott è stata comunque successivamente ridotta dalla Corte, la quale ha sottolineato che è possibile richiamarsi ad essa solo quando si verifichino le medesime circostanze particolari presenti in quella fattispecie. Nelle sentenze 27 ottobre 1993, Steenhorst-Neerings (40), e 6 dicembre 1994, Johnson (41), la Corte ha confermato l'applicabilità dei termini nazionali di prescrizione a domande di importi dovuti a titolo di prestazioni previdenziali, derivanti dall'applicazione di determinate direttive, anche quando queste ultime non erano state ancora correttamente trasposte in diritto nazionale.

69 Contemporaneamente allo svolgimento del presente procedimento pregiudiziale, la Corte ha pronunciato le sentenze Haahr Petroleum nonché Texaco e Olieselskabet Danmark, già citate. In esse la Corte ha respinto, ancora una volta, l'applicazione del principio giurisprudenziale stabilito dalla sentenza Emmott. In entrambi i casi, una domanda di restituzione - fondata sulla violazione dell'art. 95 del Trattato - era stata rigettata dalle autorità danesi, in forza di una norma nazionale ai sensi della quale l'azione giurisdizionale mirante alla restituzione di un indebito fiscale cade in prescrizione alla scadenza di un termine quinquennale, decorrente dalla data del pagamento. La Corte ha ribadito che, anche se la detta norma impediva la ripetizione totale o parziale dei citati tributi, la sua applicazione in entrambi i casi non era contraria al diritto comunitario.

70 In ultimo, due mesi prima dell'udienza nel presente procedimento, la Corte ha pronunciato la sentenza 2 dicembre 1997, Fantask e a. (42), molto importante ai fini della risposta che occorre ora formulare, giacché si trattava di una causa i cui elementi di diritto e di fatto sono analoghi a quelli della presente. Oggetto della sentenza Fantask era la restituzione di tributi indebiti relativi:

- allo stesso tipo di imposta nazionale (imposta danese per l'iscrizione di società nell'apposito registro);

- allo stesso tipo di incompatibilità con il diritto comunitario (nel caso specifico, con la direttiva 69/335) della norma nazionale disciplinante il tributo;

- allo stesso conflitto dei termini di decadenza o di prescrizione nazionali (cinque anni, secondo la legislazione nazionale, decorrenti dal giorno del pagamento dell'imposta).

71 Così come nel presente caso, nella causa Fantask il giudice nazionale, posto di fronte a una controversia avente le suesposte caratteristiche, chiedeva alla Corte «(...) se il diritto comunitario vieti ad uno Stato membro di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione della direttiva un termine di prescrizione nazionale fintantoché tale Stato membro non abbia correttamente attuato tale direttiva». Le allegazioni della società ricorrente e della Commissione si basavano parimenti sulla giurisprudenza Emmott, alla cui applicazione si opponevano i governi intervenienti nel procedimento pregiudiziale.

72 La Corte ha optato, una volta di più, per quest'ultima soluzione, ribadendo il ragionamento al quale ha fatto riferimento.

73 In primo luogo, come principio generale, essa ha ricordato che, in mancanza di disciplina comunitaria in materia, spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali per la ripetizione dell'indebito, purché tali modalità non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario.

74 In secondo luogo, dopo aver sottolineato la compatibilità con il diritto comunitario della fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell'interesse della certezza del diritto, che tutela al tempo stesso il contribuente e l'amministrazione, essa ha posto in risalto che questi termini non possono essere considerati tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto comunitario, anche se, per definizione, il loro spirare comporta il rigetto, totale o parziale, dell'azione esperita. In concreto, il termine quinquennale fissato dal diritto danese era ragionevole e si applicava indifferentemente ai ricorsi basati sul diritto comunitario e a quelli basati sul diritto interno.

75 In terzo luogo, essa ha nuovamente escluso l'applicabilità a questo tipo di controversie della teoria accolta nella sentenza Emmott, la cui soluzione era giustificata dalle circostanze tipiche di detta causa, nelle quali la decadenza arrivava a privare totalmente la ricorrente della possibilità di far valere il suo diritto alla parità di trattamento in forza di una direttiva comunitaria.

76 Infine, la Corte ha concluso che «(...) allo stato attuale, il diritto comunitario non vieta ad uno Stato membro, che non ha attuato correttamente la direttiva, di opporre alle azioni dirette al rimborso di tributi riscossi in violazione di tale direttiva un termine di prescrizione nazionale che decorra dalla data di esigibilità dei tributi di cui trattasi, qualora tale termine non sia meno favorevole per i ricorsi basati sul diritto comunitario di quello dei ricorsi basati sul diritto interno e non renda praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario».

77 Stanti la chiarezza della posizione ora illustrata e l'evidente analogia delle circostanze di fatto e di diritto tra la causa Fantask e la presente, la Commissione ha rinunciato in udienza a difendere la sua precedente tesi e ha ammesso che la questione era stata definitivamente risolta con la pronuncia della sentenza Fantask. Le ricorrenti nella causa principale, al contrario, hanno cercato, nella stessa sede (43), di porre in evidenza l'esistenza di elementi di differenziazione tra gli ordinamenti giuridici danese e italiano, che inficiassero l'applicazione della giurisprudenza Fantask al presente caso.

78 A mio parere, questo tentativo è fallito. In primo luogo, per il fatto che il suo punto di partenza era errato: più che scoprire asserite differenze tra il caso Fantask e il presente, sarebbe stato invece necessario dimostrare l'analogia di circostanze tra il caso Emmott e il presente, dato che la giurisprudenza successiva alla sentenza Emmott ha insistito sulla specificità degli elementi allora accertati, determinanti per la soluzione adottata. A questo proposito, il governo britannico ha sottolineato in udienza che - tra le altre circostanze - era stata la pubblica amministrazione di tale Stato membro quella che, nella fattispecie, aveva esercitato pressioni affinché la signora Emmott non presentasse ricorso. Al contrario, nulla ha impedito alle società italiane l'esercizio del loro diritto di ricorso avverso i corrispondenti atti d'imposizione fiscale (44).

79 In secondo luogo, e a prescindere da quanto precede, le asserite differenze tra l'una e l'altra legislazione nazionale sono irrilevanti per quanto riguarda le ripercussioni della giurisprudenza Fantask su questo caso. Sia che si tratti di un termine quinquennale o triennale, sia che esso venga stabilito da una norma generale o da una speciale dettata per una determinata categoria di tributi, sia che abbia avuto luogo o meno un mutamento giurisprudenziale sull'interpretazione della detta norma preesistente, il punto rilevante è che la Corte ha confermato che il termine - di cinque o di tre anni - di decadenza opponibile alle azioni di ripetizione di indebito fiscale, basate su ragioni di diritto comunitario, può cominciare a decorrere dal momento in cui i tributi sono stati assolti, e non dal momento in cui lo Stato membro ha trasposto correttamente la direttiva nel diritto nazionale.

80 Questa affermazione - che, ovviamente, presuppone l'inesistenza di norme di diritto comunitario che regolino la materia e l'esistenza di una norma di diritto nazionale che fissi in modo non discriminatorio il termine di decadenza - non risulta inficiata dal fatto che la scadenza di quest'ultimo impedisca, di conseguenza, la restituzione del tributo già riscosso. Ciò rientra nella natura di un termine di decadenza avente caratteristiche analoghe, che, ispirato dal principio della certezza del diritto, non per questo rende inefficace il diritto alla tutela giurisdizionale: durante i tre anni successivi al pagamento i contribuenti disponevano della facoltà di impugnare l'atto d'imposizione del tributo.

81 Si potrebbe pensare che questa soluzione non sia troppo soddisfacente dal punto di vista dei contribuenti che si siano visti costretti a versare un tributo contrario al diritto comunitario. E in effetti è così. Una soluzione possibile, benché non priva di serie difficoltà, consisterebbe nella fissazione di una norma comunitaria uniforme in materia, che armonizzasse i diversi regimi nazionali sul punto. Fintantoché non esisterà una norma siffatta, spetterà agli Stati membri determinare, alle condizioni più volte enunciate, i requisiti delle azioni di ripetizione.

82 E' certo che nell'esercizio di questo potere gli Stati membri - nel caso di specie la Repubblica italiana - devono agire in conformità con il disposto dell'art. 5 del Trattato. E' certo, parimenti, che taluni interventi delle autorità italiane in relazione alla restituzione della tassa oggetto di questi rinvii pregiudiziali, secondo la descrizione fattane nelle allegazioni delle parti, sembrano aver frapposto alle azioni di rimborso più difficoltà di quelle ragionevolmente ipotizzabili alla luce di tale articolo (45). Ma né il presente procedimento pregiudiziale può essere convertito in un procedimento d'inadempimento ex art. 169 del Trattato, né può ignorarsi che il comportamento ufficiale delle autorità della Repubblica italiana si è mantenuto sostanzialmente conforme agli obblighi derivanti dal Trattato: i suoi organi legislativi hanno abolito la parte del tributo nazionale contraria al diritto comunitario e riconosciuto espressamente il diritto alla restituzione della stessa (46), diritto parimenti tutelato dai giudici italiani, benché nei limiti delle norme nazionali in tema di decadenza dalle azioni.

Conclusione

83 Propongo pertanto alla Corte di risolvere le questioni formulate dal Tribunale di Genova nel seguente modo:

«1) L'applicazione dei termini di decadenza stabiliti da una norma nazionale per l'esercizio dell'azione di ripetizione dei tributi indebitamente versati non equivale alla limitazione nel tempo degli effetti di una sentenza della Corte di giustizia, che spetta solo a quest'ultima dichiarare.

2) Il diritto comunitario non osta a che gli ordinamenti nazionali impongano un termine di decadenza triennale per l'esercizio delle azioni nei confronti del Fisco miranti alla restituzione di tributi indebitamente versati, anche qualora il detto termine sia diverso da quello fissato per le azioni di ripetizione dell'indebito tra privati, sempreché il medesimo termine si applichi indistintamente alle azioni di ripetizione fondate su motivi di diritto nazionale e a quelle che traggono origine dall'applicazione di norme comunitarie.

3) Nell'ipotesi di una domanda mirante alla restituzione di un tributo incompatibile con una direttiva, il diritto comunitario non osta all'applicazione di una norma nazionale in forza della quale il diritto all'azione giurisdizionale diretta alla restituzione di tributi indebitamente versati decade una volta scaduto un termine di tre anni decorrente dal giorno del pagamento, anche quando la detta norma impedisca la restituzione totale o parziale dei citati tributi».

(1) - Cause riunite C-71/91 e C-178/91 (Racc. pag. I-1915).

(2) - GU L 249, pag. 25.

(3) - V. decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427.

(4) - In tal senso, vedansi le sentenze della Corte di cassazione (Prima Sezione civile) 28 marzo 1994, n. 2992; 23 novembre 1994, n. 9900, e 23 febbraio 1996, n. 4468/96 e n. 3458/96, quest'ultima pronunciata dalle Sezioni unite. Analogamente, nel secondo `considerando' della sentenza 24 febbraio 1995, n. 56, la Corte costituzionale, dopo aver ricordato le vicissitudini legislative della tassa, affermava, con riferimento agli anni precedenti alla sua soppressione (1993), quanto segue: «Poiché per gli anni precedenti la tassa è stata indebitamente riscossa dallo Stato italiano in violazione dell'art. 10 della direttiva 69/335/CEE del 17 luglio 1969, come interpretato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con sentenza 20 aprile 1993, nn. C-71/91 e C-178/91, le somme pagate sono ripetibili in base al diritto comunitario, direttamente applicabile nell'ordinamento italiano».

(5) - L'art. 633 del codice italiano di procedura civile consente ai giudici, in presenza di determinati presupposti (debiti certi, liquidi ed esigibili, fondati su documenti degni di fede), di emettere un decreto ingiuntivo, dotato di efficacia esecutiva, benché provvisoria, mediante il quale si impone al debitore il pagamento dell'importo richiesto.

(6) - L'applicazione della legge n. 428/1990 alle domande di ripetizione di determinati introiti erariali è oggetto delle questioni pregiudiziali proposte nelle cause C-228/96, Aprile II, e C-343/96, Dilexport.

(7) - Causa 43/75 (Racc. pag. 455).

(8) - La medesima tecnica è stata frequentemente utilizzata dalle Corti costituzionali, o paracostituzionali, poste di fronte ai problemi derivanti dalla dichiarazione di incostituzionalità delle leggi. Si veda, in tal senso, l'articolo di E. García de Enterría, Un paso importante para el desarrollo de nuestra justicia constitucional: la doctrina prospectiva en la declaración de ineficacia de las leyes inconstitucionales, in Revista Española de Derecho Administrativo, 1989, n. 61, pag. 5 e ss.

(9) - «Se il ricorso è fondato, la Corte di giustizia dichiara nullo e non avvenuto l'atto impugnato.

Tuttavia, per quanto concerne i regolamenti, la Corte di giustizia, ove lo reputi necessario, precisa gli effetti del regolamento annullato che devono essere considerati come definitivi».

(10) - Sentenza 26 aprile 1994, causa C-228/92, Roquette Frères (Racc. pag. I-1445, punto 17).

(11) - Così si dichiara nella sentenza 16 luglio 1992, causa C-163/90, Legros e a. (Racc. pag. I-4625, punto 30): «Si deve rilevare che solo in via eccezionale la Corte, applicando il principio generale della certezza del diritto inerente all'ordinamento giuridico comunitario, può essere indotta a limitare la possibilità per gli interessati di far valere una disposizione da essa interpretata onde rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. (...) Per stabilire se si debba limitare la portata di una sentenza nel tempo, è necessario tener conto del fatto che, benché le conseguenze pratiche di qualsiasi pronuncia del giudice vadano vagliate accuratamente, non si può tuttavia spingersi fino a sminuire l'obiettività del diritto e compromettere la sua applicazione futura a motivo delle ripercussioni che la pronuncia può avere per il passato (sentenza 2 febbraio 1988, causa 24/86, Blaizot, Racc. pag. 379, punti 28 e 30 della motivazione)».

(12) - Causa 61/79 (Racc. pag. 1205, punto 16).

(13) - Cause riunite da C-367/93 a C-377/93 (Racc. pag. I-2229, punto 42).

(14) - Causa C-330/95 (Racc. pag. I-3801, punto 28).

(15) - Causa C-415/93 (Racc. pag. I-4921, punto 141).

(16) - Cause riunite C-197/94 e C-252/94 (Racc. pag. I-505, punto 47).

(17) - Sentenza 16 dicembre 1976, causa 33/76 (Racc. pag. 1989).

(18) - Sentenza 16 dicembre 1976, causa 45/76 (Racc. pag. 2043).

(19) - Il fondamento di questo diritto di ottenere il rimborso di tributi nazionali incompatibili con il diritto comunitario può riscontrarsi in diverse norme o principi, alcuni dei quali richiamati in occasione di determinate sentenze della Corte di giustizia. Così, è stato possibile far riferimento all'art. 5 del Trattato, in quanto tale norma impone agli Stati di assicurare l'esecuzione degli obblighi derivanti dal medesimo; in altre occasioni si è sottolineata la necessità di salvaguardare l'efficacia diretta della norma comunitaria in contrasto con la disposizione nazionale che aveva istituito il tributo; oppure si è addotto il divieto generale dell'arricchimento senza causa, di cui godrebbe lo Stato se non dovesse rimborsare le somme indebitamente riscosse.

(20) - Causa 240/87 (Racc. pag. 3513).

(21) - Queste affermazioni rappresentano una costante nella già ampia serie di sentenze che, a partire dalle citate Rewe e Comet, sono state pronunciate in materia: sentenze 26 giugno 1979, causa 177/78, Pigs and Bacon Commission (Racc. pag. 2161); 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just (Racc. pag. 501); 5 marzo 1980, causa 265/78, Ferwerda (Racc. pag. 617); Denkavit italiana, citata; 10 luglio 1980, causa 811/79, Ariete (Racc. pag. 2545); 10 luglio 1980, causa 826/79, MIRECO (Racc. pag. 2559); 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio (Racc. pag. 3595); 25 febbraio 1988, cause riunite 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard (Racc. pag. 1099); 23 maggio 1996, causa C-5/94, Hedley Lomas (Racc. pag. I-2553), ed altre.

(22) - Secondo una giurisprudenza costante della Corte, tale limitazione può dichiararsi unicamente nella medesima sentenza con la quale si risolve la questione interpretativa sollevata. Ovviamente, spetta alla sola Corte limitare gli effetti nel tempo delle proprie sentenze.

(23) - E' indubbio che, nelle sue osservazioni scritte, la Commissione aveva già fatto riferimento alla sentenza Deville e a una sua possibile analogia con il caso di specie, ma presentando ciò a livello di ipotesi. Così, nel paragrafo 16 delle sue osservazioni, la Commissione «(...) si chiede se il principio interpretativo formulato nella sentenza Deville non sia applicabile» e «non esclude che (...) si possa pervenire ad una conclusione che, parafrasando il dispositivo stesso della sentenza Deville, potrebbe essere così formulata (...)».

(24) - Nel caso di questa sentenza la Corte ha dichiarato che il legislatore nazionale, dopo una sentenza della Corte che stabilisca che una determinata normativa è incompatibile con il Trattato, non può adottare alcuna norma processuale che riduca specificamente le possibilità di agire per la ripetizione di tributi indebitamente versati in forza di detta normativa.

(25) - Sentenza 2 febbraio 1988, causa 309/85 (Racc. pag. 355).

(26) - La soluzione proposta era pertanto la seguente: «le autorità giurisdizionali di uno Stato membro, dopo una sentenza della Corte che stabilisce che una determinata normativa fiscale è incompatibile con una direttiva comunitaria, non possono interpretare una norma processuale in un modo che riduce specificamente la possibilità per gli interessati di agire per la ripetizione dei tributi indebitamente versati in forza di detta normativa».

(27) - V. paragrafo 12 delle presenti conclusioni.

(28) - Paragrafo 7 delle presenti conclusioni.

(29) - Si veda al riguardo, nel paragrafo 12 delle presenti conclusioni, la motivazione della sentenza della Corte di cassazione.

(30) - Nello stesso codice civile italiano gli artt. 2947 e ss., sotto le rubriche «Delle prescrizioni brevi» e «Delle prescrizioni presuntive», regolano le ipotesi nelle quali i termini sono inferiori a quello ordinario. Così, per esempio, in materia di risarcimento di danni derivanti da fatti illeciti (cinque anni), in materia di società (cinque anni), di contratti di trasporto e di assicurazione (un anno), di rapporti di lavoro (uno o tre anni a seconda dei casi), ecc.

(31) - Causa C-261/95 (Racc. pag. I-4025).

(32) - Causa 386/87 (Racc. pag. 3551, punti 15-18).

(33) - Cause riunite C-114/95 e C-115/95 (Racc. pag. I-4263, punti 45-49).

(34) - Causa C-90/94 (Racc. pag. I-4085, punti 46-53).

(35) - Cause riunite da C-10/97 a C-22/97. In udienza, la Commissione si è astenuta dall'esprimersi in merito agli effetti derivanti da una possibile «inesistenza giuridica» delle leggi nazionali incompatibili con il diritto comunitario, deducibile a suo parere dalla sentenza Simmenthal, e ha affermato espressamente che preferiva rinviare la sua analisi di questo problema all'udienza nelle cause innanzi citate.

(36) - La sentenza della Corte costituzionale faceva riferimento esclusivamente all'onere del previo esperimento dei reclami amministrativi, come requisito imprescindibile, preliminare all'esercizio dell'azione giurisdizionale. Tale requisito era stato giudicato incostituzionale in base al seguente ragionamento:

«Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, l'assoggettamento dell'azione giudiziaria all'onere di previo esperimento di rimedi amministrativi, con conseguente differimento della proponibilità dell'azione a un certo termine decorrente dalla data di presentazione del ricorso, è legittimo soltanto se giustificato da esigenze di ordine generale o da superiori finalità di giustizia, fermo restando che, pur nel concorso di tali circostanze, il legislatore deve contenere l'onere nella misura meno gravosa possibile.

Per le controversie previste dall'art. 12 del DPR n. 641 del 1972, come per quelle previste dalle norme analoghe dei decreti nn. 640 e 642, manca una ratio idonea a giustificare il limite imposto al principio dell'art. 24 della Costituzione. Si tratta di controversie che non implicano accertamenti tecnici in funzione dei quali appaia necessario od opportuno che la fase giudiziaria sia preceduta da un esame in sede amministrativa (cfr. sentenza n. 15 del 1991), tanto meno quando, come nella specie, è chiesto il rimborso di tributi indebitamente riscossi dall'amministrazione finanziaria. Non vi sono ragioni che giustifichino il privilegio di una disciplina speciale, in favore del debitore, dell'azione di ripetizione dell'indebito contro il fisco».

La Commissione cerca di applicare quest'ultima frase, estrapolata dal contesto sul quale si esprime la sentenza, anche ai termini di decadenza di tali azioni, il che, a mio giudizio, costituisce una chiara forzatura rispetto alla ratio decidendi della detta sentenza, che non si riferisce per nulla al problema dei termini dell'azione di ripetizione, bensì all'onere ingiustificato di esperire previamente un reclamo amministrativo.

(37) - La Corte di giustizia ha ripetutamente dichiarato (v., tra le più recenti, sentenza 29 maggio 1997, causa C-300/95, Commissione/Regno Unito, Racc. pag. I-2649, punto 37) che si deve valutare la portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali tenendo conto dell'interpretazione che ne danno i giudici nazionali.

(38) - Causa C-208/90 (Racc. pag. I-4269).

(39) - Punto 23.

(40) - Causa C-338/91 (Racc. pag. I-5475).

(41) - Causa C-410/92 (Racc. pag. I-5483).

(42) - Causa C-188/95 (Racc. pag. I-6783, punti 42-52).

(43) - L'udienza è stata celebrata congiuntamente per le cause C-231/96, Edis; C-260/96, Spac; C-279/96, Ansaldo Energia; C-280/96, Marine Insurance Consultant, e C-281/96, GMB e a.

(44) - Lo stesso avvocato della società Edis ha reso manifesta tale circostanza quando, in udienza, ha ammesso che già nel 1989 (e, pertanto, non solo prima della pronuncia della sentenza Ponente Carni, bensì anche prima della presentazione della questione pregiudiziale risolta dalla detta sentenza) un'altra società Edis, collegata con la sua, più altre imprese italiane avevano impugnato innanzi ai giudici italiani l'atto di imposizione della tassa di concessione. Anche se le loro domande sono state respinte, per ragioni di merito, ciò evidenzia che non venne loro contestato il diritto alla tutela giurisdizionale.

(45) - Tra di esse, la necessità di proporre azioni giurisdizionali per ottenere un titolo esecutivo nei confronti del Fisco, requisito che, d'altra parte, può far pensare a un aumento ingiustificato del contenzioso - e, conseguentemente, dei ritardi nell'amministrazione della giustizia - a danno dei contribuenti.

(46) - L'art. 61 del decreto legge 30 agosto 1993, n. 331, stabilisce le procedure per il rimborso delle somme indebitamente versate a tale titolo, che possono assumere le forme o del reclamo amministrativo (per le somme versate per l'esercizio fiscale 1992) o della compensazione (per quelle versate per l'esercizio 1993).

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