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Document 61995CC0300

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 23 gennaio 1997.
Commissione delle Comunità europee contro Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord.
Inadempimento - Art. 7, lett. e) della direttiva 85/374/CEE - Trasposizione non corretta - Esonero dalla responsabilità per i prodotti difettosi - Stato delle conoscenze scientifiche e tecniche.
Causa C-300/95.

Raccolta della Giurisprudenza 1997 I-02649

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1997:35

61995C0300

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 23 gennaio 1997. - Commissione delle Comunità europee contro Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord. - Inadempimento - Art. 7, lett. e) della direttiva 85/374/CEE - Trasposizione non corretta - Esonero dalla responsabilità per i prodotti difettosi - Stato delle conoscenze scientifiche e tecniche. - Causa C-300/95.

raccolta della giurisprudenza 1997 pagina I-02649


Conclusioni dell avvocato generale


1 Le presenti conclusioni riguardano un procedimento ex art. 169 del Trattato promosso dalla Commissione nei confronti del Regno Unito per non aver quest'ultimo trasposto in modo corretto l'art. 7, lett. e), della direttiva del Consiglio 25 luglio 1985, 85/374/CEE, relativa al ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi (1) (nel prosieguo: la «direttiva»).

Il quadro normativo ed il procedimento

2 Come precisato nel suo primo `considerando', la direttiva tende ad eliminare le differenze esistenti fra le legislazioni nazionali in materia di responsabilità del produttore, differenze che «possono falsare il gioco della concorrenza e pregiudicare la libera circolazione delle merci all'interno del mercato comune, determinando disparità nel grado di protezione del consumatore contro i danni causati alla sua salute e ai suoi beni da un prodotto difettoso».

Ai sensi dell'art. 1 della direttiva, «il produttore è responsabile del danno causato da un difetto del suo prodotto». L'art. 4 dispone poi che «il danneggiato deve provare il danno, il difetto e la connessione causale tra difetto e danno»; mentre l'art. 6, n. 1, specifica che «un prodotto è difettoso quando non offre la sicurezza che ci si può legittimamente attendere tenuto conto di tutte le circostanze, tra cui: a) la presentazione del prodotto; b) l'uso al quale il prodotto può essere ragionevolmente destinato; c) il momento della messa in circolazione del prodotto». La stessa disposizione aggiunge che «un prodotto non può essere considerato difettoso per il solo fatto che un prodotto più perfezionato sia stato messo in circolazione successivamente ad esso».

Le cause di esclusione della responsabilità del produttore sono individuate dall'art. 7, in base al quale «il produttore non è responsabile ai sensi della presente direttiva se prova: a) che non ha messo il prodotto in circolazione; b) che, tenuto conto delle circostanze, è lecito ritenere che il difetto che ha causato il danno non esistesse quando l'aveva messo in circolazione o sia sorto successivamente; c) che non ha fabbricato il prodotto per la vendita o qualsiasi altra forma di distribuzione a scopo economico, né l'ha fabbricato o distribuito nel quadro della sua attività professionale; d) che il difetto è dovuto alla conformità del prodotto a regole imperative emanate dai poteri pubblici; e) che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto non permetteva di scoprire l'esistenza del difetto; f) nel caso del produttore di una parte componente, che il difetto è dovuto alla concezione del prodotto in cui è stata incorporata la parte o alle istruzioni date dal produttore del prodotto».

3 Ai sensi dell'art. 19, la direttiva doveva essere attuata entro il 30 luglio 1988. Il Regno Unito vi ha provveduto con la prima parte del Consumer Protection Act (nel prosieguo la «legge»), in vigore dal 1_ marzo 1988, il cui art. 1, n. 1, recita testualmente che «la presente parte ha per oggetto e per effetto di adottare le disposizioni necessarie per conformarsi alla direttiva sulla responsabilità del produttore e sarà interpretata in questo senso». L'art. 4, n. 1, lett. e), norma di attuazione dell'art. 7, lett. e), della direttiva, esclude la responsabilità del produttore nell'ipotesi in cui questi dimostri che «lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche esistenti al momento considerato non permetteva di aspettarsi da un produttore di prodotti del genere di quello in causa che egli avrebbe potuto scoprire il difetto esistente nei suoi prodotti durante il periodo di permanenza degli stessi nella sua sfera di controllo».

4 Ritenendo che la legge non avesse correttamente trasposto la direttiva sotto diversi aspetti, la Commissione, con lettera di diffida del 26 aprile 1989, ha avviato, ai sensi dell'art. 169 del Trattato, una procedura d'infrazione nei confronti del Regno Unito. Quest'ultimo, con lettera del 19 luglio 1989, ha respinto gli addebiti della Commissione, sostenendo che, pur se con una formulazione linguistica diversa, la normativa nazionale in discussione costituisce una corretta trasposizione della direttiva.

Il 2 luglio 1990 la Commissione ha emesso un parere motivato con il quale ha confermato le censure originariamente proposte. Il Regno Unito, a sua volta, ha ribadito le proprie obiezioni nella lettera di risposta, del 4 ottobre 1990, al parere motivato.

5 Tenuto conto delle argomentazioni del Regno Unito, nonché alla luce dell'art. 1, n. 1, della legge, che impone di interpretarne le disposizioni in senso conforme alla direttiva, la Commissione è pervenuta alla conclusione di dover abbandonare cinque delle sei censure contestate nella fase precontenziosa.

Considerando invece fondata quella relativa all'art. 4, n. 1, lett. e), della legge, norma attuativa dell'art. 7, lett. e), della direttiva, la Commissione ha introdotto un ricorso tendente a farne accertare la non corretta trasposizione.

Il merito

6 Secondo la Commissione, la stessa formulazione dell'art. 4, n. 1, lett. e), della legge ne evidenzierebbe l'incompatibilità con l'art. 7, lett. e), della direttiva. Infatti, mentre il criterio stabilito da quest'ultimo è obiettivo, in quanto si fonda sullo «stato delle conoscenze tecniche e scientifiche», senza fare alcun riferimento alla capacità del produttore o di un altro produttore di prodotti simili di scoprire l'esistenza del difetto, la disposizione nazionale, nel porre l'accento sul comportamento di un produttore ragionevole, richiederebbe un apprezzamento soggettivo.

In tal modo, la stessa disposizione finirebbe per trasformare la responsabilità oggettiva o senza colpa introdotta dall'art. 1 della direttiva in una responsabilità fondata sulla negligenza del produttore.

7 La principale conseguenza della modifica del regime di responsabilità accolto dalla direttiva si produrrebbe, ad avviso della Commissione, sul piano processuale: per provare che nel momento considerato non era possibile, né per lui né per un altro produttore di prodotti simili, scoprire il difetto, al produttore di un prodotto difettoso basterebbe infatti dimostrare di non aver commesso alcuna negligenza e di aver adottato tutte le precauzioni in uso in quel determinato settore produttivo.

Si tratterebbe, quindi, di un onere probatorio più lieve di quello imposto dalla direttiva, in base alla quale sarebbe invece irrilevante il comportamento del produttore, la cui responsabilità verrebbe esclusa soltanto nell'ipotesi in cui (sia provato che) lo stato delle conoscenze tecniche e scientifiche del tempo rendeva impossibile la scoperta del difetto.

8 Per la Commissione, la manifesta ed insanabile contrarietà della formulazione della legge al testo della direttiva non potrebbe essere superata neppure dalla previsione dell'art. 1, n. 1, della legge, che pure ne impone l'interpretazione in senso conforme alla direttiva; tantomeno in virtù dei più generali canoni ermeneutici fissati dall'art. 2, n. 4, dello European Communities Act del 1972 e dalla giurisprudenza della House of Lords, canoni utilizzabili solo rispetto a disposizioni dalla formulazione letterale ambigua e suscettibile di diverse interpretazioni e non, quindi, nel caso di specie.

A conferma della fondatezza del ricorso, la Commissione ha inoltre dedotto che nel corso del dibattito alla Camera dei Lords sarebbero stati da più parti sollevati dubbi sulla compatibilità dell'art. 4, n. 1, lett. e), della legge con la direttiva; e che le medesime perplessità sarebbero state espresse dalla più autorevole dottrina britannica.

9 Contrariamente alla Commissione, il governo del Regno Unito ritiene che il criterio stabilito dalla legge non sia nella sostanza diverso da quello fissato dalla direttiva e nega che con tale legge si sia inteso adottare un regime di responsabilità basato sulla colpa del produttore.

La tesi della Commissione, secondo il governo del Regno Unito, riposerebbe su una errata interpretazione delle pertinenti disposizioni della direttiva e della legge.

10 Per quanto riguarda la prima, il governo convenuto sostiene che il fatto stesso di evidenziare che la direttiva non fa alcun riferimento alla capacità del produttore di scoprire il difetto sembrerebbe implicare che l'eccezione in parola non possa trovare accoglimento se non quando il produttore dimostri che non esiste persona al mondo in possesso delle conoscenze necessarie per individuare il difetto. Così interpretata, la previsione dell'art. 7, lett. e), della direttiva finirebbe tuttavia per rivelarsi di fatto inapplicabile.

A parere del Regno Unito, invece, l'unica interpretazione logica della disposizione comunitaria è quella consacrata nell'art. 4, n. 1, lett. e), della legge: la capacità del produttore in causa (o di produttori di prodotti simili) rappresenta infatti una nozione oggettiva ed astratta, a questi fini rilevando non ciò che, concretamente, il produttore sapeva o no, ma ciò che avrebbe potuto e/o dovuto sapere alla luce del patrimonio di conoscenze tecnico-scientifiche disponibile nel momento considerato. Quanto precede, d'altra parte, troverebbe conferma, secondo il governo del Regno Unito, nel settimo `considerando' della direttiva, che, nell'affermare «che una giusta ripartizione dei rischi tra il danneggiato e il produttore implica che quest'ultimo possa esimersi dalla responsabilità se prova l'esistenza di alcuni fatti che lo liberano», evidenzierebbe la volontà del legislatore comunitario di offrire al produttore mezzi di difesa reale ed effettiva, la cui efficacia verrebbe annullata ove si accettasse l'interpretazione proposta dalla Commissione.

11 Per quanto riguarda l'art. 4, n. 1, lett. e), della legge, il governo del Regno Unito fa valere innanzittutto che la Commissione non è riuscita a dimostrare, come invece avrebbe dovuto, che la disposizione controversa può avere un solo significato, assolutamente incompatibile con la direttiva.

In realtà, secondo lo stesso governo, la disposizione in parola, stabilendo un criterio oggettivo - cioè oggettivamente verificabile - di esclusione della responsabilità del produttore, è formulata in modo tale da risultare pienamente conforme alla direttiva, a nulla rilevando sotto quest'aspetto la diversità linguistica del testo rispetto a quello della norma comunitaria. Né potrebbe affermarsi che la legge comporta, a differenza della direttiva, un regime di responsabilità fondata sulla colpa: se così fosse, l'onere della prova della negligenza del produttore incomberebbe sul soggetto danneggiato, mentre, ai sensi dell'art. 4, n. 1, lett. e), spetta al produttore, che intenda liberarsi dalla responsabilità, dimostrare di non essere stato in grado, alla luce delle conoscenze disponibili, di scoprire il difetto.

Infine, il Regno Unito contesta che dal dibattito alla Camera dei Lords possano trarsi elementi utili ad interpretare la legge; e formula un rilievo analogo rispetto alle valutazioni della dottrina citata dalla Commissione, che, per di più, avrebbero in realtà una portata parzialmente difforme da quella loro attribuita nel ricorso.

12 Nel corso dell'udienza, il governo del Regno Unito ha poi insistito sulla necessità che la Corte sia chiamata ad interpretare il diritto comunitario nel quadro di circostanze precise e con riferimento ad un contesto fattuale ben definito; ciò che non si verificherebbe nel caso di specie. Ed infatti, mancando decisioni dei giudici nazionali sull'interpretazione della legge, la Corte sarebbe chiamata a pronunciarsi in astratto ed in via sostanzialmente ipotetica sulla conformità della legge stessa alla direttiva, con la conseguenza che non potrebbe fornire un'interpretazione utile della normativa comunitaria in esame.

Tali rilievi sembrano invero suggerire, in ragione dell'assenza di una prassi nazionale sul punto in discussione, l'irricevibilità del ricorso della Commisione.

13 Al riguardo, ritengo di dover anzitutto sgombrare il campo da ogni equivoco circa la possibilità di attribuire all'assenza di una giurisprudenza nazionale sul punto una qualsivoglia efficacia preclusiva o comunque ostativa rispetto all'introduzione di un ricorso ex art. 169.

La Commissione, infatti, ben può agire ai sensi dell'art. 169 nei confronti di uno Stato membro sulla base della sola difformità letterale della disposizione nazionale di attuazione rispetto alla formulazione della disposizione comunitaria da trasporre (2). Va da sé, naturalmente, che non è sufficiente la semplice deduzione della diversità letterale fra le due disposizioni per stabilire l'inadempimento dello Stato, essendo pacifico che l'attuazione di una direttiva non richiede necessariamente una riproduzione testuale delle sue disposizioni (3).

14 In ogni caso, tenuto conto che nella fase precontenziosa la Commissione ha contestato al Regno Unito l'assoluta ed insanabile incompatibilità della disposizione nazionale controversa con la corrispondente disposizione della direttiva, fino ad affermare che i tribunali britannici non potrebbero in alcun caso interpretarla in modo conforme alla direttiva, non mi sembra che assuma alcuna rilevanza la costante giurisprudenza, pure evocata dalla Commissione nel corso del procedimento dinanzi alla Corte, secondo cui una normativa nazionale ambigua non costituisce puntuale adempimento dell'obbligo di trasposizione di una direttiva. Occorre invece, nella specie, che la Commissione provi l'asserita inadempienza così come contestata nella fase precontenziosa, dimostri cioè che la formulazione letterale della disposizione nazionale sia suscettibile di una sola interpretazione, manifestamente e, direi, irriducibilmente difforme dalla norma comunitaria, dunque con essa incompatibile.

In definitiva, nella specie l'oggetto del ricorso, così come circoscritto nella fase precontenziosa, non riguarda l'eventuale ambiguità della disposizione nazionale di trasposizione, bensì il suo insanabile contrasto con la disposizione comunitaria di cui costituisce attuazione. E', dunque, entro questi limiti che il ricorso della Commissione deve essere esaminato.

15 Tanto premesso, ritengo opportuno, atteso che la direttiva viene per la prima volta all'esame della Corte, evidenziarne sinteticamente i tratti essenziali, al fine di individuare quale sia l'esatta interpretazione della disposizione qui in discussione. Alla luce di tale interpretazione, sarà poi possibile verificare se la norma nazionale controversa non si discosta, nella sostanza, dalla previsione comunitaria; ovvero se, già dalla sua formulazione letterale, deve dedursene un contrasto insanabile con la direttiva.

16 La responsabilità del produttore per la commercializzazione di prodotti difettosi ha costituito, soprattutto negli ultimi decenni, uno degli argomenti più studiati dalla dottrina che si occupa di responsabilità civile. Ciò soprattutto perchè essa ha rappresentato il banco di prova, sul piano sistematico, del passaggio da un sistema di imputazione del fatto illecito basato esclusivamente sulla colpa ad un regime di responsabilità oggettiva, più consono alle esigenze di tutela del soggetto danneggiato, nel quadro di una rilettura delle regole di responsabilità civile in chiave non più soltanto sanzionatoria, ma anche, se non prevalentemente, risarcitoria (4).

L'evoluzione appena descritta è stata peraltro stimolata dalla crescita delle attività industriali (5). Man mano che la sempre maggiore complessità dei processi produttivi moltiplicava e rendeva difficilmente evitabili i rischi legati ai difetti dei prodotti, emergeva con chiarezza l'inidoneità del sistema di responsabilità ancorato alla colpa del produttore ad assicurare una adeguata protezione del consumatore. Quest'ultimo, pur se danneggiato dal prodotto difettoso, veniva di fatto - e troppo spesso - privato di una tutela effettiva, rivelandosi assai arduo sul piano processuale provare la negligenza del produttore, il mancato rispetto, cioè, da parte di quest'ultimo, di tutte le prescrizioni idonee ad impedire l'insorgenza del difetto.

In tale prospettiva, ben si comprende perché proprio negli Stati Uniti, per le dimensioni della crescita industriale in quel Paese, siano state in primo luogo elaborate, a partire dagli anni sessanta, le premesse teoriche di un sistema di responsabilità del produttore sganciata dal requisito della colpa (6). Tali premesse possono così riassumersi (7): a) il maggior potere contrattuale ed economico del produttore rispetto al consumatore e la più incisiva funzione deterrente svolta dal regime di responsabilità oggettiva, rispetto alla responsabilità per colpa; b) il principio della distribuzione dei rischi all'interno di una determinata organizzazione sociale, da attuarsi attraverso il ricorso al meccanismo assicurativo: in altri termini l'internalizzazione dei costi derivanti dai fatti dannosi da parte del produttore; c) la riduzione dei c.d. costi amministrativi secondari e terziari e il raggiungimento di benefici sociali rilevanti per effetto dell'introduzione di un regime di responsabilità oggettiva del produttore.

17 Sul versante comunitario, dopo alcuni progetti presentati alla fine degli anni settanta, si è pervenuti, nel 1985, all'adozione della direttiva, la cui formulazione definitiva si differenzia considerevolmente dal testo della proposta originaria della Commissione (8).

Quest'ultima, infatti, ispirandosi al modello nordamericano, prevedeva un sistema di responsabilità oggettiva del produttore, da un lato ritenuta lo strumento più idoneo ad assicurare una protezione adeguata del consumatore (quarto `considerando'); dall'altro, giustificata dal fatto che il produttore è il centro di imputazione ideale del danno, poiché può «includere le spese che egli affronta a causa di questa responsabilità come costi di fabbricazione nel calcolo dei prezzi e ripartirle quindi su tutti i consumatori che utilizzano prodotti dello stesso tipo ma esenti da difetti» (quinto `considerando').

18 La responsabilità delineata dalla proposta della Commissione, peraltro, andava al di là del regime di strict liability così come in precedenza ricostruito, assumendo carattere assoluto, tale cioè da non ammettere la prova liberatoria del produttore. Ai sensi dell'art. 1 della proposta, infatti, il produttore «è responsabile del danno causato da un difetto della cosa, a prescindere dal fatto che egli ne fosse a conoscenza. Il produttore è responsabile anche se la cosa, in base allo stato di avanzamento della tecnica e della scienza, nel momento in cui egli l'ha messa in circolazione, non poteva essere considerata difettosa».

Veniva in tal modo esclusa la possibilità per il produttore di avvalersi della eccezione basata sullo «state of art», in virtù della quale egli può liberarsi dalla responsabilità se dimostra che lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche esistenti al momento in cui il prodotto è stato messo in circolazione non permetteva ancora di considerare difettoso il prodotto stesso. In altri termini, si finiva per addossare sui produttori anche l'area dei c.d. «rischi da sviluppo», dei rischi, cioè, presenti nei settori produttivi in cui l'incremento delle conoscenze tecnico-scientifiche può far apparire, ex post, difettoso un prodotto che, al momento della sua fabbricazione, non era considerato tale (9).

19 La direttiva, quale adottata dal Consiglio, ha invece optato per un regime di responsabilità oggettiva non più assoluta, ma limitata, in ossequio ad un principio di equa ripartizione dei rischi fra il danneggiato ed il produttore, sul quale devono gravare soltanto i rischi calcolabili e non anche i rischi da sviluppo, che sono, di per sé, incalcolabili (10). Ai sensi della direttiva, pertanto, perché il produttore sia ritenuto responsabile per i difetti del prodotto, il danneggiato deve provare il danno, l'esistenza del difetto del prodotto ed il nesso di causalità tra l'uno e l'altro, ma non la colpa del produttore.

Quest'ultimo, però, può liberarsi dalla responsabilità ove dimostri che lo «state of art» non consentiva di ritenere difettoso il prodotto al momento della sua diffusione sul mercato. Ciò è quanto stabilisce l'art. 7, lett. e), della direttiva (11).

20 Va in primo luogo rilevato che tale disposizione, facendo esclusivo riferimento alle «conoscenze tecniche e scientifiche» disponibili al momento della commercializzazione del prodotto, non riguarda la prassi e gli standard di sicurezza in uso nel settore industriale in cui opera il produttore. In altri termini, non rileva sul piano della esclusione della responsabilità del fabbricante la circostanza che in quella determinata categoria produttiva nessuno adotti gli accorgimenti necessari ad eliminare il difetto od a prevenirne l'insorgenza, se tali accorgimenti siano, in base alle conoscenze disponibili, adottabili.

Parimenti estranei all'ambito di applicazione dell'art. 7, lett. e), sono da considerare i profili attinenti alla praticabilità ed alla convenienza economica degli accorgimenti idonei ad eliminare il difetto del prodotto. Né, da questo stesso punto di vista, può ipotizzarsi che abbia una qualche rilevanza, ai fini dell'esclusione della responsabilità del produttore, la circostanza che egli non sia informato sullo stato delle conoscenze tecnico-scientifiche e non ne segua gli sviluppi, così come resi noti dalla letteratura specialistica. Ritengo, infatti, che la condotta del produttore debba valutarsi utilizzando il parametro delle conoscenze di un esperto del settore (12).

21 Per quanto riguarda, invece, l'individuazione del concetto di «stato delle conoscenze», occorre svolgere qualche considerazione supplementare.

Il progresso della cultura scientifica non si sviluppa con modalità lineari, nel senso che nuovi studi e nuove scoperte possono in un primo tempo ricevere critiche ed essere ritenuti inattendibili dalla generalità della comunità scientifica; salvo poi, a distanza di tempo, subire un processo inverso di «beatificazione» che li rende destinatari di un consenso pressoché unanime. E' ben possibile, quindi, che, al momento della commercializzazione di un determinato prodotto, esistano opinioni isolate che lo ritengono difettoso, mentre la generalità degli studiosi non lo considera tale. Il problema, a questo punto, è stabilire se in una situazione siffatta, in presenza cioè di un rischio che non è certo e che solo ex post diventa da tutti condiviso, il produttore possa comunque invocare l'esimente prevista dall'art. 7, lett. e), della direttiva.

La risposta deve, a mio avviso, essere negativa. In altri termini, lo stato delle conoscenze scientifiche non può essere identificato con le opinioni espresse dalla maggioranza degli studiosi, ma con il livello più avanzato delle ricerche effettuate in un determinato momento.

22 Tale interpretazione, che coincide con quella suggerita dalla Commissione in udienza attraverso alcuni esempi assai pertinenti, è la più aderente alla ratio della disciplina comunitaria: al produttore devono essere addossati i rischi prevedibili, dai quali egli è in grado di tutelarsi o in via preventiva, incrementando la sperimentazione e gli investimenti nella ricerca; oppure in via successiva, stipulando un contratto di assicurazione contro la responsabilità civile, tale da coprire gli eventuali danni causati dal difetto del prodotto.

Nel momento in cui esiste nel panorama scientifico del tempo anche una voce isolata (che, come la storia della scienza insegna, potrebbe diventare, con il passare del tempo, opinio communis), che abbia manifestato la potenziale difettosità e/o pericolosità del prodotto, il suo fabbricante non si trova più di fronte ad un rischio imprevedibile, in quanto tale estraneo all'ambito di applicazione del regime imposto dalla direttiva.

23 Strettamente legato al profilo appena illustrato risulta il problema della disponibilità delle conoscenze scientifiche e tecniche, intesa come possibilità per i soggetti interessati di attingere al patrimonio informativo del tempo. E' innegabile che la circolazione delle informazioni è condizionata da fattori oggettivi, quali, ad esempio, il luogo di provenienza, la lingua in cui tali informazioni vengono comunicate, il grado di diffusione delle riviste sulle quali sono pubblicate.

Esistono, per essere chiari, differenze non lievi, sul piano della rapidità della messa in circolazione e dell'ampiezza della diffusione, fra uno studio di un ricercatore di una università statunitense pubblicato su una rivista internazionale di lingua inglese e, per riprendere un esempio fatto dalla Commissione, una analoga ricerca di uno studioso della Manciuria, pubblicata in lingua cinese sulla locale rivista scientifica, che non oltrepassa i confini della regione.

24 Nella situazione appena descritta, sarebbe irrealistico e, direi, irragionevole ritenere che lo studio in lingua cinese abbia le stesse possibilità dell'altro di essere conosciuto da un fabbricante di prodotti europeo. Non credo, cioè, che in un caso del genere il produttore potrebbe essere ritenuto responsabile perché, al momento in cui ha messo in circolazione il prodotto, il brillante ricercatore asiatico ne aveva scoperto il difetto (13).

Più in generale, lo «stato delle conoscenze disponibili» deve essere inteso in modo da ricomprendere tutti i dati inseriti nel circuito informativo della collettività scientifica nel suo complesso, tenuto conto tuttavia, secondo un criterio di ragionevolezza, delle concrete possibilità di circolazione delle informazioni.

25 Così individuata la portata della disposizione comunitaria, non ritengo di poter condividere la tesi della Commissione secondo cui vi sarebbe un irriducibile contrasto fra questa e la norma nazionale controversa. Invero, non può negarsi che la formulazione dell'art. 4, n. 1, lett. e), della legge contiene un elemento di potenziale ambiguità: riferendosi a ciò che ci si potrebbe attendere dal produttore, essa potrebbe infatti essere interpretata in modo più ampio del dovuto.

Ciononostante, non ritengo che il riferimento alla «capacità del produttore», pur nella sua genericità, possa o addirittura debba (e necessariamente) autorizzare interpretazioni contrarie alla ratio ed alle finalità della direttiva.

26 In primo luogo, infatti, la considerazione della figura del produttore è centrale non solo nella disciplina della direttiva globalmente considerata, ma anche nella previsione dell'art. 7, lett. e), che, pur senza nominarlo, ha come destinatario il produttore stesso, quale soggetto tenuto ad assolvere il relativo onere probatorio per poter escludere la propria responsabilità. La disposizione della legge, da questo punto di vista, non fa che esprimere, in modo palese, un concetto implicito nella norma comunitaria.

In secondo luogo, non è sufficiente il riferimento, contenuto nella legge, alla capacità del produttore di scoprire il difetto, a rendere soggettivo il criterio dalla stessa previsto. Tale riferimento, infatti, ben può essere riguardato, come sostenuto dal Regno Unito, come un parametro oggettivamente verificabile e valutabile, in nessun modo condizionato dalla presa in considerazione delle conoscenze soggettivamente detenute, in concreto, dal produttore, nonché dalle esigenze organizzative ed economiche dello stesso. Alla stregua di tale parametro, ai fini dell'esclusione della responsabilità del fabbricante, rileva dunque la prova dell'impossibilità, alla luce del livello più avanzato delle conoscenze scientifiche e tecniche oggettivamente e ragionevolmente acquisibili e disponibili, di ritenere difettoso il prodotto.

27 Nella misura in cui la disposizione controversa della legge venga così interpretata ed applicata dal giudice nazionale, si rivelano pertanto infondate le preoccupazioni della Commissione circa una indebita «soggettivizzazione» dell'esimente in parola, tale cioè da condurre ad una sostanziale trasformazione del regime di responsabilità accolto dalla direttiva in una responsabilità per colpa.

Sotto tale profilo, del resto, è condivisibile il rilievo del governo del Regno Unito secondo cui mancherebbe, nella legge, un requisito essenziale di tale regime di responsabilità, che, com'è noto, postula la dimostrazione, da parte del consumatore, della «colpa» del produttore. L'art. 4, n. 1, lett. e), della legge, infatti, pone a carico del fabbricante che si avvalga dell'eccezione dello state of art il relativo onere probatorio.

28 Aggiungo poi che non mi sembra possano essere ritenuti privi di rilievo, così come pretenderebbe la Commissione, né la regola ermeneutica fissata dall'art. 1 della legge, che impone al giudice nazionale di interpretarne le previsioni in senso conforme alla direttiva; né gli obblighi interpretativi di analogo tenore e di portata generale posti a carico dei giudici britannici dallo European Communities Act del 1972 e costantemente ribaditi dalla giurisprudenza della House of Lords (14).

Per contro, non sembrano potersi trarre, per confutare la conclusione qui accolta, elementi sufficienti dai dibattiti parlamentari evocati dalla Commissione, dibattiti che al più evidenziano la preoccupazione di un ampliamento eccessivo della portata dell'eccezione dello state of art per effetto del citato riferimento alla capacità del produttore. La sussistenza di un tale rischio, tuttavia, non può comunque essere considerata una prova sufficiente ai fini della constatazione dell'inadempimento fatto valere dalla Commissione.

29 Una tale conclusione risulta peraltro confermata dalla costante giurisprudenza della Corte secondo cui la portata delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative nazionali deve essere valutata alla luce dell'interpretazione che ne danno i giudici nazionali (15). Ne consegue, all'evidenza, che sarebbe stato molto più saggio ed opportuno, prima di agire nei confronti del Regno Unito per la non corretta trasposizione della direttiva, che la Commissione avesse atteso l'applicazione della legge da parte delle giurisdizioni nazionali. Viceversa, così come è stata intrapresa, la procedura d'infrazione della Commissione finisce per apparire quantomeno precipitosa.

In definitiva, ritengo di dover concordare con la posizione del Regno Unito e concludere quindi nel senso che la Commissione non ha affatto dimostrato che l'art. 4, n. 1, lett. e), della legge non costituisce una corretta attuazione dell'art. 7, lett. e), della direttiva.

30 La soluzione qui accolta, implicando la soccombenza della Commissione, ne impone la condanna alle spese.

31 Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, concludo pertanto suggerendo alla Corte di:

1) respingere il ricorso;

2) condannare la Commissione alle spese.

(1) - GU L 210, pag. 29.

(2) - Lo stesso governo del Regno Unito, rispondendo ad un mio preciso quesito sul punto, ha invero espressamente riconosciuto che la mancanza di giurisprudenza nazionale in senso incompatibile con la direttiva non rileva sul piano della ricevibilità del ricorso della Commissione.

(3) - V., ad esempio, sentenza 17 novembre 1993, causa C-71/92, Commissione/Spagna (Racc. pag. I-5923, punto 23).

(4) - V., in tal senso, i puntuali rilievi di Ponzanelli, La responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna, 1992, pag. 107.

(5) - V. Priest, La scoperta della responsabilità d'impresa: una storia critica delle origini intellettuali del moderno sistema di responsabilità civile, in Responsabilità civile, 1985, pag. 275 e ss.

(6) - La dottrina della responsabilità oggettiva o, per usare l'espressione di lingua inglese, strict liability, trae negli Stati Uniti la sua origine da una «concurring opinion» del giudice Roger Traynor nel caso Escola v. Coca Cola bottling Co., 24 Cal. 2 d 453, 461 P 2 d 436 (1944), secondo cui un produttore doveva ritenersi responsabile se, nel lanciare un prodotto sul mercato, sapeva che sarebbe stato usato senza controllo e se risultava che un difetto del prodotto aveva causato un danno. Ciò perché il produttore, a differenza del pubblico, può tutelarsi dall'insorgenza dei rischi ed è in grado di contrarre un'assicurazione distribuendone il costo fra i consumatori. La Corte suprema della California, nel definire le regole di responsabilità civile, accolse la posizione del giudice Traynor nel caso Greenman v. Yuba Power Products Inc. 59 Cal. 2 d 57, 377 P 2 d 897 (1963), ritenendo il produttore convenuto oggettivamente responsabile per i danni causati dal difetto del prodotto. Tale principio venne in seguito recepito dal Restatement Second of Torts nella section 402 A, in cui fu sancita la responsabilità del venditore nei confronti del consumatore per la commercializzazione dei prodotti difettosi «irragionevolmente pericolosi». Il requisito della irragionevolezza, peraltro, fu respinto dalla stessa Corte suprema della California nel caso Cronin v. J. B. E. Olson Corp., 8 Cal. 3 d 121, 501, P 2 d 1153 (1972), perché considerato «in odore» di negligenza, essendo invece sufficiente, per giustificare l'applicazione della responsabilità del fabbricante, la prova del difetto causa del danno. Da notare che, a partire dalla pubblicazione della section 402 A, nella maggior parte degli Stati Uniti sono stati adottati regimi di responsabilità oggettiva. Riassuntivamente sull'argomento, nella sterminata dottrina nordamericana, Shapo, The law of products liability, Boston - New York 1987.

(7) - V. Ponzanelli (citato in nota 4), pagg. 115-116.

(8) - GU C 241, pag. 9.

(9) - In proposito, non è inopportuno ricordare che negli Stati Uniti la giurisprudenza aveva mostrato una propensione verso l'affermazione di una responsabilità assoluta del produttore, soprattutto nel settore dei farmaci. Tuttavia, la «indiscriminate expansion of substantive tort liability» conseguente a tale giurisprudenza, per cui si affermava la responsabilità in tutti i casi e a qualunque costo, rigettando l'eccezione basata sullo state of art, ha provocato una crisi del mercato assicurativo così profonda da sottrarre alcune attività economiche alla copertura assicurativa. In ragione di ciò, si sono manifestati, di recente, segnali sia giurisprudenziali che normativi di una inversione di rotta e di un ritorno alle regole di responsabilità oggettiva non più assoluta: sul tema vedi i rilievi di Priest, The current insurance crisis and modern tort law, in 96 Yale Law Journal 1589 (1987); Id., La controrivoluzione nel diritto della responsablità da prodotti negli Stati Uniti d'America, in Foro italiano, 1989, IV, pag. 119 e ss. In quest'ultimo lavoro l'autore lancia un monito, al mondo giuridico europeo, che è bene tener presente: «La Corte suprema della California nel caso Brown e la nuova normativa del New Jersey hanno cominciato a rianalizzare le premesse della regola di strict liability esistente nel settore della responsabilità da prodotti. Sarà importante verificare se gli Stati europei, nel dare concreta esecuzione alla direttiva comunitaria del 25 luglio 1985, che ha adottato lo standard di strict liability venticinque anni dopo la sua introduzione negli USA, accetteranno le originarie premesse teoriche di quel regime che hanno poi portato gli USA ad una situazione di crisi o, viceversa, accetteranno la controrivoluzione appena iniziata».

(10) - In questo senso depone l'art. 15, lett. b), della direttiva, che infatti lascia agli Stati membri la facoltà di derogare alla previsione relativa ai rischi da sviluppo, introducendo disposizioni legislative più severe.

(11) - Sulla difficile gestazione di tale norma, v. Ghestin, La directive communautaire du 25 juillet 1985 sur la responsabilité du fait des produits défectueux, in Dalloz, 1986, Chron., pag. 135 e ss.

(12) - Ad esempio, se un chimico od un farmacologo devono essere aggiornati sulle caratteristiche di una certa sostanza, analoghe conoscenze saranno richieste, ai fini che qui rilevano, all'industriale che produca farmaci contenenti la medesima sostanza.

(13) - A differenza di quanto sostenuto dalla Commissione nel corso dell'udienza, contraddicendo peraltro quanto da essa stessa prima dichiarato, non ritengo quindi che sia sufficiente, per paralizzare l'eccezione di cui all'art. 7, lett. e), della direttiva, dimostrare l'esistenza di una persona, non importa di quale Paese o di quale lingua, in grado di scoprire il difetto del prodotto.

(14) - Sul punto, poi, è appena il caso di ricordare che i giudici nazionali sono comunque obbligati, secondo la costante giurisprudenza della Corte, ad interpretare la legislazione interna in modo conforme alla direttiva: v. sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing (Racc. pag. I-4135, punto 8).

(15) - V. in particolare sentenze 8 giugno 1994, causa C-382/92, Commissione/Regno Unito (Racc. pag. I-2435, punto 36), e 16 dicembre 1992, cause riunite C-132/91, C-138/91 e C-139/91, Katsikas e a. (Racc. pag. I-6577, punto 39).

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