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Document 61990CC0006

Conclusioni dell'avvocato generale Mischo del 28 maggio 1991.
Andrea Francovich e altri contro Repubblica italiana.
Domande di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Vicenza e Pretura di Bassano del Grappa - Italia.
Mancata attuazione di una direttiva - Responsabilità dello Stato membro.
Cause riunite C-6/90 e C-9/90.

Raccolta della Giurisprudenza 1991 I-05357

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1991:221

61990C0006

Conclusioni dell'avvocato generale Mischo del 28 maggio 1991. - ANDREA FRANCOVICH E DANILA BONIFACI E ALTRI CONTRO REPUBBLICA ITALIANA. - DOMANDE DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: PRETURA DI VICENZA E PRETURA DI BASSANO DEL GRAPPA - ITALIA. - MANCATO RECEPIMENTO DI UNA DIRETTIVA - RESPONSABILITA DELLO STATO MEMBRO. - CAUSE RIUNITE C-6/90 E C-9/90.

raccolta della giurisprudenza 1991 pagina I-05357
edizione speciale svedese pagina I-00435
edizione speciale finlandese pagina I-00467


Conclusioni dell avvocato generale


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Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. Raramente è stata sottoposta a questa Corte una causa in cui le conseguenze negative derivanti dalla mancata trasposizione di una direttiva siano, per i soggetti privati interessati, così gravi come nella specie. Al tempo stesso, dal punto di vista giuridico, la situazione è tutt' altro che facile da risolvere. La Corte è, infatti, chiamata a pronunciarsi sull' eventuale efficacia diretta di una direttiva che contiene norme particolarmente complesse. In subordine, la causa investe l' intera problematica della responsabilità degli Stati membri per l' omessa trasposizione di una direttiva, anzi, in termini più generali, per l' inadempimento degli obblighi sanciti dal diritto comunitario.

2. La direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro (GU L 283, pag. 23), prevede che "gli Stati membri adottino le misure necessarie affinché gli organismi di garanzia ((istituiti o designati dagli Stati stessi)) assicurino (...) il pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati, risultanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro e relativi alla retribuzione del periodo situato prima di una data determinata" (art. 3, n. 1). La direttiva consente agli Stati membri di scegliere fra tre termini relativi all' insolvenza o alla cessazione del rapporto di lavoro e, inoltre, concede loro la facoltà di limitare l' obbligo di pagamento degli organismi di garanzia.

3. Con sentenza 2 febbraio 1989, Commissione/Italia (causa 22/87, Racc. pag. 143), la Corte ha dichiarato che l' Italia, non avendo provveduto alla trasposizione della direttiva nei termini prescritti, vale a dire entro il 23 ottobre 1983, è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi del Trattato. Tale trasposizione non sembra, peraltro, essere stata sinora effettuata.

4. I fatti all' origine della controversia nella causa principale possono essere così riassunti.

Il sig. Francovich, ricorrente nella causa principale C-6/90, aveva lavorato alle dipendenze dell' impresa "CDN Elettronica Snc", con sede a Vicenza, dal 16 gennaio 1983 al 7 aprile 1984, ricevendo solamente sporadici acconti sulla propria retribuzione. Egli adiva, quindi, la Pretura competente che condannava l' impresa resistente al pagamento di una somma pari a circa 6 milioni di LIT. Non avendo potuto ottenere il pagamento di tale somma dall' impresa, il Francovich richiedeva allo Stato italiano le garanzie previste dalla direttiva 80/987 o, in via subordinata, il risarcimento del danno.

Nel procedimento C-9/90, la sig.ra Danila Bonifaci e trentatré altre dipendenti dell' impresa "Gaia Confezioni Srl", dichiarata fallita il 5 aprile 1985, erano creditrici della somma di oltre 253 milioni di LIT, somma ammessa al passivo fallimentare dell' impresa. Trascorsi oltre quattro anni dal fallimento, nessuna somma era stata loro versata ed il curatore fallimentare aveva fatto loro presente che persino un parziale soddisfacimento del loro credito doveva ritenersi del tutto improbabile. Esse convenivano pertanto in giudizio la Repubbblica italiana chiedendone la condanna - in considerazione dell' obbligo ad essa incombente di dare esecuzione alla direttiva 80/987 - al pagamento delle somme loro dovute a titolo di stipendi arretrati quanto meno per le ultime tre mensilità o, in difetto, al risarcimento del danno.

La Pretura circondariale di Vicenza (nella causa C-6/90) e la Pretura circondariale di Bassano del Grappa (nella causa C-9/90) hanno sottoposto a questa Corte tre questioni pregiudiziali formulate in termini identici. Propongo di esaminarle in successione.

Sulla prima questione

5. La prima questione così recita:

"In forza del sistema di diritto comunitario vigente, può il privato che sia stato leso dalla mancata attuazione da parte dello Stato della direttiva 80/987 - mancata attuazione accertata con sentenza di condanna della Corte di giustizia - pretendere l' adempimento da parte dello Stato stesso delle disposizioni in essa contenute che siano sufficientemente precise e incondizionate invocando direttamente, nei confronti dello Stato membro inadempiente, la normativa comunitaria per ottenere le garanzie che lo Stato stesso doveva assicurare, e comunque rivendicare il risarcimento dei danni subiti relativamente alle disposizioni che non godono di tale prerogativa ?"

6. E' evidente che con tale questione i giudici di rinvio sollevano due differenti problemi, che devono essere tenuti ben distinti, vale a dire:

- se la direttiva 80/987 possa produrre effetti diretti a favore dei singoli;

- in caso contrario, se i singoli possano pretendere un risarcimento dallo Stato che abbia omesso di trasporre correttamente la direttiva nei termini prescritti.

I - Sull' efficacia diretta della direttiva 80/987

7. Nella sentenza Busseni (1) questa Corte ha riassunto tutti gli elementi fondamentali della propria giurisprudenza in materia di efficacia diretta delle direttive nei termini seguenti:

"Secondo la giurisprudenza della Corte, quando le autorità comunitarie abbiano, mediante direttiva, imposto agli Stati membri di adottare un determinato comportamento, l' 'effetto utile' dell' atto sarebbe attenuato se agli amministrati e ai giudici nazionali fosse precluso di prenderlo in considerazione come elemento del diritto comunitario. Di conseguenza, lo Stato membro che non abbia adottato, entro i termini, i provvedimenti dell' attuazione imposti dalla direttiva non può opporre ai singoli il suo inadempimento degli obblighi derivanti dalla direttiva stessa. Perciò, in tutti i casi in cui una o più disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate, in mancanza di provvedimenti d' attuazione adottati entro i termini, per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva, ovvero in quanto siano atte a definire diritti che i singoli possono far valere nei confronti dello Stato (v., in particolare, sentenza 19 gennaio 1982, Ursula Becker, causa 8/81, Racc. pag. 53)".

8. Affinché un lavoratore possa invocare i diritti di cui la direttiva 80/987 prevede l' istituzione, prima della trasposizione della direttiva stessa, occorre che siano incondizionate e sufficientemente precise le disposizioni relative:

- all' individuazione dei beneficiari;

- all' estensione dei diritti;

- all' individuazione del relativo debitore.

A - Sull' identità dei beneficiari

9. Varie disposizioni della direttiva contribuiscono a definire i lavoratori beneficiari.

L' art. 1, n. 1, stabilisce, infatti, che

"La presente direttiva si applica ai diritti dei lavoratori subordinati derivanti da contratti di lavoro o da rapporti di lavoro ed esistenti nei confronti dei datori di lavoro che si trovano in stato di insolvenza ai sensi dell' articolo 2, paragrafo 1".

L' art. 2, n. 2, fa rinvio, a sua volta, all' ordinamento nazionale per quanto riguarda la definizione dei termini "lavoratore subordinato" e "datore di lavoro", come peraltro confermato dalla Corte nella citata sentenza nella causa 22/87, nei punti 17, 18 e 19 della motivazione.

10. E' vero che, ai sensi dell' art. 1, n. 2, gli Stati membri possono, in via eccezionale, escludere dal campo di applicazione della direttiva i diritti di alcune categorie di lavoratori. Secondo l' allegato della direttiva, punto II.C, si tratta, per l' Italia,

- dei lavoratori subordinati che beneficiano delle prestazioni previste dalla vigente legislazione in materia di garanzia del reddito in caso di crisi economica dell' impresa;

- degli equipaggi delle navi marittime.

Nella citata sentenza Commissione/Italia, causa 22/87, la Corte ha già avuto modo di precisare che nella prima categoria rientravano solamente i lavoratori che beneficiavano effettivamente delle prestazioni de quibus.

Anche se, da un punto di vista formale, la norma di cui trattasi attribuisce solamente una facoltà agli Stati membri, può ritenersi, soprattutto alla luce di quanto detto nell' ambito della causa 22/87, che, per quanto riguarda l' Italia, l' indicazione di queste due precise categorie nell' allegato della direttiva corrispondesse alla ferma volontà di escluderle. I giudici nazionali devono, quindi, solamente accertare se i ricorrenti appartengano o no ad una di tali categorie.

11. Quanto ai dubbi formulati dal governo italiano e dalla Commissione sulla questione se la direttiva possa essere validamente invocata dal Francovich, atteso che non è chiaro se il suo ex datore di lavoro si trovi formalmente in stato d' insolvenza, si deve rilevare che l' art. 2, n. 1, definisce molto chiaramente cosa debba intendersi per "stato d' insolvenza". Spetta al giudice nazionale verificare se, nella specie, tale presupposto sussista.

12. Da tutte le considerazioni che precedono emerge che le disposizioni della direttiva che definiscono la sfera dei soggetti beneficiari della stessa sono incondizionate e sufficientemente precise per consentire ai giudici nazionali di stabilire se esse possano applicarsi ad un soggetto determinato.

B - Sull' estensione dei diritti

13. Ai sensi dell' art. 3 della direttiva, gli organismi di garanzia assicurano il pagamento dei crediti insoddisfatti dei lavoratori subordinati relativi alla retribuzione del periodo situato prima di una data determinata. Tale data è, a scelta degli Stati membri:

"- o quella dell' insorgere dell' insolvenza del datore di lavoro;

- o quella del preavviso di licenziamento del lavoratore subordinato interessato, comunicato a causa dell' insolvenza del datore di lavoro;

- o quella dell' insorgere dell' insolvenza del datore di lavoro o quella della cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro del lavoratore subordinato interessato, avvenuta a causa dell' insolvenza del datore di lavoro".

14. Non è quindi possibile sapere di quale delle tre possibilità si sarebbero avvalse le autorità italiane qualora la direttiva fosse stata trasposta. Si potrebbe essere, dunque, indotti a ritenere che tale norma non sia incondizionata, in quanto prevede necessariamente una scelta da parte di ogni Stato membro.

15. I ricorrenti nelle cause principali e la Commissione invitano, tuttavia, a non lasciarsi fuorviare da tale considerazione, bensì a basarsi sul fatto che le autorità italiane avrebbero quantomeno dovuto scegliere quella delle tre alternative che impone oneri meno gravosi all' organismo di garanzia.

Orbene, secondo i ricorrenti, considerato che la data dell' "insorgere dell' insolvenza" si colloca logicamente prima di quella del "preavviso di licenziamento del lavoratore subordinato interessato" e di quella della "cessazione del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro del lavoratore subordinato interessato, avvenuta a causa dell' insolvenza del datore di lavoro", è la prima data quella che attribuisce al lavoratore subordinato la garanzia minima. In tal caso, infatti, il credito del lavoratore si riferisce ad un periodo di durata inferiore rispetto alle altre due ipotesi.

16. Risulta, tuttavia, che altre norme della direttiva attribuiscono agli Stati membri la facoltà di limitare le garanzie a favore dei lavoratori.

Così, a termini dell' art. 4, n. 1,

"Gli Stati membri hanno la facoltà di limitare l' obbligo di pagamento degli organismi di garanzia, di cui all' articolo 3",

e ciò secondo le modalità di cui al n. 2 del medesimo articolo. Qualora lo Stato membro abbia optato per la prima ipotesi, che ho definito come garanzia minima, e qualora si sia avvalso della facoltà di limitare l' obbligo di pagamento dell' organismo di garanzia, questo dovrà garantire il pagamento dei crediti insoddisfatti relativi alle retribuzioni degli ultimi tre mesi del contratto di lavoro o del rapporto di lavoro situati entro il periodo di sei mesi precedente la data dell' insorgere dell' insolvenza del datore di lavoro.

17. In secondo luogo, il n. 3 del medesimo articolo consente agli Stati membri,

"per evitare di versare delle somme che vanno oltre il fine sociale della presente direttiva, ((di)) (...) fissare un massimale per la garanzia di pagamento dei diritti non pagati dei lavoratori subordinati. Quando si avvalgono di tale facoltà, gli Stati membri comunicano alla Commissione i metodi con cui fissano il massimale".

18. L' art. 10, infine, autorizza gli Stati membri ad adottare le misure necessarie per evitare abusi e a rifiutare o a ridurre l' obbligo di pagamento a fronte dell' esistenza di legami particolari tra il lavoratore subordinato ed il datore di lavoro e di interessi comuni che si traducono in una collusione tra i medesimi.

19. La Commissione sottolinea come tutte queste norme prevedano solamente facoltà per gli Stati membri e come appaia incompatibile con il concetto di efficacia diretta delle direttive il fatto che, se una direttiva definisce in termini precisi i diritti dei singoli, lo Stato membro possa invocare il proprio inadempimento affermando che, qualora avesse provveduto alla trasposizione della direttiva, avrebbe potuto legittimamente fissare i diritti dei singoli ad un livello più basso.

20. Cosa pensare di tale ragionamento? E' anzitutto giocoforza rilevare che la Commissione non ricorda affatto la seconda condizione posta dalla Corte, vale a dire quella del carattere incondizionato delle norme invocate. Ci si chiede se, a fronte di un complesso di disposizioni che fissano una regola e prevedono, al tempo stesso, una serie di possibilità di restringerne la portata, si possa enucleare la regola dal resto ed affermare che essa è precisa e incondizionata. O si vuol lasciar intendere che il principio secondo cui uno Stato membro non può invocare il proprio inadempimento conduca a rendere "incondizionata in base al proprio contenuto" una norma in ordine alla quale è espressamente lasciato allo Stato membro un ampio margine di discrezionalità? Tale ragionamento mi sembra inaccettabile.

21. A sostegno della loro tesi i ricorrenti nella causa principale si richiamano alla sentenza Marshall e la Commissione alle sentenze Becker e McDermott e Cotter.

Orbene, nel punto 55 della motivazione della sentenza Marshall (2) la Corte ha appunto affermato

"che l' art. 5 della direttiva ((76/207)) non attribuisce affatto agli Stati membri la facoltà di condizionare o di restringere l' applicazione del principio della parità di trattamento nel proprio campo d' applicazione".

Analoga conclusione era stata espressa dalla Corte nel punto 39 della motivazione della sentenza Becker (3).

E' certo, invece, che nel caso in esame l' art. 4 attribuisce agli Stati membri il diritto di limitare l' obbligo di pagamento degli organismi di garanzia.

22. Quanto al punto 15 della sentenza McDermott e Cotter (4), citato dalla Commissione, vi si afferma che

"non si può invocare il fatto che le direttive lasciano la scelta della forma e dei mezzi onde raggiungere il risultato perseguito per negare qualsiasi efficacia a quelle disposizioni della direttiva che possono essere fatte valere in giudizio".

Nella sentenza McDermott e Cotter la Corte ha considerato, sostanzialmente, che sussistevano due possibilità di realizzare la parità di trattamento fra uomini e donne: o alzare il livello delle prestazioni previdenziali previste per le donne adeguandolo a quello degli uomini, ovvero ridurre quest' ultimo. Atteso che l' Irlanda non aveva provveduto a trasporre la direttiva e non aveva, dunque, operato alcuna scelta, la Corte ha dichiarato che doveva trovare applicazione la prima soluzione. Ma il risultato finale, vale a dire la parità di trattamento, era prescritto dalla direttiva in termini chiari e incondizionati.

23. Nel caso in esame, invece, ci troviamo ancora nella fase in cui occorre accertare se le disposizioni della direttiva che definiscono i diritti dei singoli siano sufficientemente precise e incondizionate per poter essere invocate in giudizio. Non si tratta in questo caso della scelta della forma e dei mezzi per raggiungere il risultato prescritto, bensì, in misura assai ampia, della definizione del risultato stesso.

Orbene, nella sentenza Kaefer e Procacci (5) questa Corte ha affermato che

"una disposizione è incondizionata quando non lascia agli Stati membri alcun margine discrezionale".

Pertanto, se si volesse seguire, pur in presenza di tale statuizione, il ragionamento suggerito dai ricorrenti e dalla Commissione e tentare di ricavare dalle norme della direttiva un "obbligo minimo" (idea in sé e per sé interessante) in ogni caso vincolante per gli Stati membri, si dovrebbe tuttavia tener conto della facoltà prevista dall' art. 4, n. 2.

24. Anche questa via non è, però, percorribile, in quanto in tal modo si ignorerebbe il margine di discrezionalità estremamente ampio che il n. 3 del medesimo articolo lascia agli Stati membri (fissazione di un tetto per evitare il versamento di somme che vadano di là dalle finalità sociali della direttiva). Ritengo, pertanto, che non sia possibile ricavare un tale "obbligo minimo".

25. Per quanto attiene, invece, all' art. 10 della direttiva 80/987, ritengo fondato l' argomento dedotto dalla Commissione in relazione al punto 32 della motivazione della sentenza Becker. Si trattava d' interpretare la portata dell' art. 13, parte B, lett. d), punto 1, della sesta direttiva in materia di IVA, il quale stabilisce che

"gli Stati membri esonerano, alle condizioni da essi stabilite per assicurare la corretta e semplice applicazione delle esenzioni sottoelencate e per prevenire ogni possibile frode, evasione, ed abuso (...) d) le operazioni seguenti: 1. la concessione e la negoziazione di crediti".

Questa Corte ha rilevato che le "condizioni" di cui alla detta disposizione

"non riguardano in alcun modo la definizione del contenuto del previsto esonero" (punto 32 della motivazione della sentenza)".

Si può ritenere che l' art. 10 della direttiva 80/987 sia anch' esso diretto, sostanzialmente, ad evitare frodi e abusi.

26. Resta il fatto che l' ampio margine di discrezionalità che l' art. 4 lascia agli Stati membri non consente di affermare che le disposizioni della direttiva che definiscono l' estensione dei diritti dei beneficiari siano incondizionate e sufficientemente precise.

C - Sull' individuazione del debitore

27. Esaminiamo, innanzitutto, cosa prevede la direttiva. L' art. 3 dispone che

"Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché gli organismi di garanzia assicurino (...) il pagamento dei diritti non pagati (...)".

Ai sensi dell' art. 5,

"Gli Stati membri fissano le modalità di organizzazione, di finanziamento e di funzionamento degli organismi di garanzia nel rispetto, in particolare, dei seguenti principi:

a) il patrimonio degli organismi dev' essere indipendente dal capitale di esercizio dei datori di lavoro e essere costituito in modo da non poter essere sequestrato in un procedimento in caso di insolvenza;

b) i datori di lavoro devono contribuire al finanziamento, a meno che quest' ultimo non sia integralmente assicurato dai pubblici poteri;

c) l' obbligo di pagamento a carico degli organismi esiste indipendentemente dall' adempimento degli obblighi di contribuire al finanziamento".

28. A mio avviso, da tali norme emerge che l' applicazione in concreto della direttiva è subordinata in ogni caso a due condizioni, vale a dire:

- l' istituzione di un organismo di garanzia o la designazione di un ente esistente come debitore delle prestazioni previste dalla direttiva;

- la determinazione delle modalità del suo finanziamento e, in particolare, del ruolo che lo Stato intende assumere a tal riguardo.

29. La Commissione, che ha particolarmente approfondito il problema, non contesta che spetti allo Stato l' adozione di tutti i detti provvedimenti, ma non ne deriva la conclusione che le norme della direttiva non siano direttamente applicabili.

Ad avviso della Commissione, è sufficiente dimostrare che la responsabilità finanziaria per le prestazioni previste dalla direttiva gravi in ultima analisi sullo Stato per poter assimilare gli organismi di garanzia allo Stato. Il giudice nazionale potrebbe, quindi, condannare lo Stato a versare le indennità minime previste dalla direttiva.

La Commissione ritiene che tale possibilità di assimilare gli organismi allo Stato discenda dall' art. 5, lett. b), della direttiva, ai sensi del quale "i datori di lavoro devono contribuire al finanziamento ((dell' organismo di garanzia)) a meno che quest' ultimo non sia integralmente assicurato dai pubblici poteri". La direttiva prevede, quindi, come facoltà alternativa il finanziamento integrale degli organismi da parte dello Stato.

Orbene, prosegue la Commissione, se la direttiva prevede la possibilità di essere applicata in base al principio della responsabilità finanziaria dello Stato, quest' ultimo non può sottrarsi a tale responsabilità adducendo che, se avesse rispettato l' obbligo di dare applicazione alla direttiva, avrebbe potuto far sostenere una parte o eventualmente la totalità dell' onere finanziario da altri soggetti.

30. Tale ragionamento non mi appare convincente. Infatti, delle due l' una. O il finanziamento dell' organismo di garanzia da parte dei datori di lavoro costituisce la regola ed il finanziamento da parte della pubblica amministrazione la facoltà alternativa, ed in tal caso la Commissione non può sostenere, contrariamente a quanto ha affermato in relazione agli artt. 3 e 4, che pur, in mancanza di una decisione dello Stato membro di avvalersi della facoltà alternativa, questa deve comunque trovare applicazione. Oppure lo Stato membro deve necessariamente operare una scelta circa le modalità di finanziamento dell' organismo di garanzia e, in tal caso, la norma de qua non ha carattere incondizionato. Quest' ultima ipotesi è, a mio avviso, quella giusta. La questione se l' organismo di garanzia sia o no assimilabile allo Stato dipende da una decisione che spetta allo Stato medesimo.

31. Propongo, pertanto, di risolvere la prima parte della prima questione nel senso che le disposizioni della direttiva 80/987 non sono sufficientemente precise e incondizionate per poter generare diritti che i privati possano far valere in giudizio.

II - Sul risarcimento del danno subito da soggetti privati per effetto della mancata trasposizione della direttiva 80/987

32. Le prime questioni poste dai due giudici di rinvio riguardano, in secondo luogo, espressamente l' ipotesi in cui le disposizioni pertinenti della direttiva 80/987 non siano sufficientemente precise e incondizionate per poter essere invocate dinanzi al giudice nazionale: si chiede se, in tal caso, un singolo leso dalla mancata esecuzione della direttiva da parte di uno Stato membro possa pretendere il risarcimento del danno eventualmente derivatogli.

33. In considerazione della complessità delle riflessioni che i molteplici aspetti di tale problematica richiedono, farò, in un primo momento, una sintesi delle conclusioni cui sono giunto, ed esporrò più in dettaglio, in un secondo momento, il ragionamento seguito, basato essenzialmente sulla giurisprudenza di questa Corte.

A - Sintesi

1. Se, allo stato attuale del diritto comunitario, spetta in linea di principio all' ordinamento giuridico di ogni Stato membro determinare l' iter giuridico che consenta di realizzare la piena efficacia del diritto comunitario, tale competenza dello Stato trova tuttavia una limitazione certa nell' obbligo stesso degli Stati membri, sancito dal diritto comunitario, di garantire tale efficacia.

2. Ciò non vale unicamente per le norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta, bensì per tutte le norme intese ad attribuire diritti ai singoli. L' assenza di efficacia diretta non significa, infatti, che l' effetto voluto dal diritto comunitario non sia quello di attribuire diritti ai singoli, bensì solamente che tali diritti non sono sufficientemente precisi ed incondizionati perché possano essere fatti valere ed applicati senza ulteriori misure.

3. In caso di mancata o non corretta trasposizione di una direttiva, lo Stato membro priva il diritto comunitario dell' effetto voluto ed incorre, al tempo stesso, nella violazione degli artt. 5 e 189, terzo comma, del Trattato, che sanciscono la natura vincolante della direttiva ed obbligano lo Stato membro ad adottare tutte le misure necessarie ai fini della sua esecuzione.

4. Qualora la violazione di tale obbligo sia stata dichiarata in una sentenza della Corte emanata ai sensi degli artt. 169-171 del Trattato, l' autorità del giudicato nonché l' art. 171 del Trattato impongono allo Stato membro di adottare - senza poter opporre ostacoli di qualsivoglia natura - tutte le misure atte a rimuovere l' inadempimento ed a ripristinare l' effetto voluto del diritto comunitario. Lo Stato membro può essere anche obbligato, a tal titolo, al risarcimento dei danni causati ai singoli per effetto del proprio illegittimo comportamento.

5. In base al diritto comunitario la responsabilità dello Stato membro deve poter sorgere quantomeno nel caso in cui ricorrano i presupposti che fanno sorgere la responsabilità della Comunità per violazione del diritto comunitario da parte di una delle sue istituzioni. Nell' ipotesi di una direttiva che avrebbe dovuto essere trasposta per mezzo di un atto normativo è, pertanto, sufficiente che le pertinenti disposizioni della direttiva siano dirette alla tutela degli interessi dei singoli. La condizione di una violazione grave di una norma giuridica di rango superiore deve, infatti, ritenersi sussistente nell' ipotesi in cui la Corte abbia dichiarato l' inadempimento dello Stato membro in una sentenza pronunciata in base agli artt. 169-171 del Trattato.

6. Allo stato attuale del diritto comunitario, l' azione per responsabilità promossa dinanzi al giudice nazionale contro uno Stato membro soggiace, per quanto attiene agli altri aspetti e, in particolare, alla valutazione del pregiudizio subito ed alle modalità procedurali, alle norme dell' ordinamento nazionale, con la duplice riserva che esse non possono essere meno favorevoli rispetto a quelle riguardanti analoghe azioni di carattere interno e che non possono essere congegnate in maniera tale da rendere praticamente impossibile la riparazione del danno subito. Ciò implica quanto meno che i mezzi di ricorso più idonei esistenti nell' ordinamento nazionale debbano essere interpretati in modo da rispettare tali esigenze se non addirittura che, ove non esistano rimedi giuridici idonei, si debba provvedere alla loro istituzione.

7. L' azione per responsabilità riveste natura differente rispetto all' azione risarcitoria basata su norme di una direttiva aventi efficacia diretta. Non si tratta di giungere, per via indiretta, allo stesso risultato che si avrebbe nell' ipotesi in cui le norme della direttiva fossero munite di efficacia diretta. Il pregiudizio può essere valutato dal giudice nazionale "ex aequo et bono". Le norme della direttiva possono tuttavia servirgli come punto di riferimento.

8. In considerazione dell' incertezza sussistente sino ad oggi in ordine alla responsabilità degli Stati membri in caso di violazione del diritto comunitario e delle conseguenze economiche che la decisione di questa Corte potrebbe produrre per inadempimenti verificatisi in passato, occorre porre limiti temporali alla sua efficacia.

B - I dettagli del mio ragionamento

34. I ricorrenti nella causa principale e la Commissione chiedono, in subordine, la condanna dello Stato italiano al risarcimento del danno.

La Commissione ha voluto sottolineare all' udienza che non è affatto suo intendimento proporre alla Corte di risolvere, in occasione della controversia in esame, la questione generale se la mancata trasposizione di una direttiva non avente efficacia diretta possa consentire un' azione di responsabilità. La tesi della Commissione sarebbe, invece, fondata su un' analisi dettagliata e minuziosa della direttiva de qua. Essa si baserebbe sulla peculiarità di quest' ultima.

La Commissione suggerisce di operare una distinzione fra azione di rimborso ed azione di accertamento della responsabilità per danni. A suo avviso, l' esperimento dell' azione di rimborso è subordinato alla prova che tre gruppi di norme siano muniti di "efficacia diretta", vale a dire:

- quelle che individuano i beneficiari dei diritti previsti dalla direttiva;

- - quelle che definiscono l' estensione di tali diritti;

- e quelle che individuano il relativo debitore.

Per contro, sempre secondo la Commissione, nell' ambito dell' azione risarcitoria contro lo Stato non occorre dimostrare l' "efficacia diretta" del terzo gruppo di norme, essendo in tal caso il debitore "per definitionem" lo Stato.

35. A prescindere dal fatto che non mi sembra appropriato parlare di "efficacia diretta" con riguardo ad ognuno dei tre detti gruppi di norme singolarmente considerati e che sembrerebbe più corretto utilizzare l' espressione "disposizione incondizionata e sufficientemente precisa", non riesco a comprendere il ragionamento della Commissione. Infatti, anche a voler accogliere l' ipotesi da essa prospettata, vale a dire che nell' ambito della direttiva l' estensione dei diritti dei creditori sia definita in modo incondizionato e sufficientemente preciso, non si sfuggirebbe tuttavia alla necessità di stabilire una volta per tutte, a prescindere quindi dal caso di specie, se la responsabilità degli Stati membri possa sorgere per la mancata trasposizione di una direttiva.

A mio avviso, il punto da risolvere è dunque se, in generale, un giudice nazionale possa essere obbligato, in base al diritto comunitario, a dichiarare la responsabilità dello Stato qualora dalla mancata trasposizione di una direttiva non avente efficacia diretta sia derivato un danno per un privato.

36. I governi della Repubblica federale di Germania, del Regno Unito, dell' Italia e dei Paesi Bassi hanno escluso, nelle rispettive osservazioni presentate alla Corte, l' obbligatorietà del risarcimento, in base al diritto comunitario, dei danni derivanti non solo dalla mancata esecuzione di una direttiva quale quella di cui trattasi nella specie, bensì anche dalla violazione di norme di diritto comunitario direttamente applicabili o aventi efficacia diretta. Considerato che la loro tesi è interamente basata sulla giurisprudenza della Corte relativa a tali norme, è a questa che occorre, innanzitutto, rivolgere l' attenzione.

- La giurisprudenza della Corte relativa alle disposizioni direttamente applicabili o aventi efficacia diretta

37. Per quanto riguarda tali norme, è pacifico che

"secondo il principio della collaborazione, enunciato dall' art. 5 del Trattato, è ai giudici nazionali che è affidato il compito di garantire la tutela giurisdizionale spettante ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta"

e che

"in mancanza di una specifica disciplina comunitaria, è l' ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro che designa il giudice competente e stabilisce le modalità procedurali delle azioni giudiziali intese a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme comunitarie aventi efficacia diretta (...)" (6).

38. Tale tutela deve essere tuttavia "effettiva" come la Corte ha sottolineato nella sentenza 9 luglio 1985, Bozzetti, (punto 17 della motivazione, causa 179/84, Racc. pag. 2301), facendo rinvio alla sentenza 19 dicembre 1968, Salgoil (causa 13/68, Racc. pag. 601, in particolare pag. 615), in cui ha parlato di tutela "diretta e immediata". Si tratta di garantire la "concreta efficacia" del diritto comunitario e qualsiasi disposizione facente parte dell' ordinamento giuridico nazionale o qualsiasi prassi, legislativa, amministrativa o giudiziaria, che porti ad una riduzione dell' efficacia e, a fortiori, che osti alla piena efficacia del diritto comunitario, è incompatibile con le esigenze inerenti alla natura stessa del diritto comunitario (7).

39. I giudici nazionali devono adempiere il proprio obbligo di garantire un' effettiva tutela dei diritti attribuiti ai privati dal diritto comunitario

"disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore sia successiva alla norma comunitaria" (8).

Ciò non vale solamente per le leggi nazionali, bensì per qualsiasi norma dell' ordinamento interno, atteso che la Corte ha precisato nella sentenza 15 luglio 1964, Costa (causa 6/64, Racc. pag. 1127, in particolare pag. 1145), che

"scaturito da una fonte autonoma, il diritto nato dal Trattato non potrebbe, in ragione appunto della sua specifica natura, trovare un limite in qualsiasi provvedimento interno senza perdere il proprio carattere comunitario e senza che ne risultasse scosso il fondamento giuridico della stessa Comunità".

40. Nel caso in cui, in forza di norme nazionali contrastanti con norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta, sia stato imposto a soggetti privati il pagamento di somme di denaro, incombe allo Stato membro, secondo la giurisprudenza della Corte in materia di ripetizione dell' indebito, di garantire il rimborso di tali somme e tale obbligo discende dall' efficacia diretta della norma comunitaria alla quale si è contravvenuto (9). In altri termini

"il diritto di ottenere il rimborso della somma riscossa da uno Stato membro in spregio alle norme del diritto comunitario è la conseguenza e il complemento dei diritti attribuiti agli amministrati dalle disposizioni comunitarie (...)" (10).

41. Orbene, non vedo una differenza sostanziale tra un' azione diretta ad ottenere il rimborso di somme ed un' azione risarcitoria, in quanto in entrambi i casi si tratta di riparare un torto derivante dalla violazione del diritto comunitario. La Corte ha, peraltro, già affermato che l' efficacia diretta di una disposizione del diritto comunitario può costituire la base su cui fondare un' azione risarcitoria: rinvio, a mo' di esempio, alla sentenza della Corte 12 luglio 1990, Foster (causa C-188/89, Racc. pag. I-3313).

42. Dalle suesposte considerazioni emerge che l' eventuale risarcimento di un singolo per il pregiudizio subito per effetto della violazione di una norma del diritto comunitario avente efficacia diretta trova il proprio fondamento nell' ordinamento giuridico comunitario stesso. Certamente, se nell' ordinamento giuridico esistono altri mezzi atti a garantire la concreta efficacia del diritto comunitario, essi potranno essere utilizzati. Ma, come ricordato dalla Corte nella sentenza 9 luglio 1985, Bozzetti, (punto 17 della motivazione, causa 179/84, Racc. pag. 2301), se è pur vero che

"spetta all' ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro designare il giudice competente a risolvere controversie vertenti sui diritti soggettivi, scaturenti dall' ordinamento giuridico comunitario, (...) gli Stati membri sono tenuti a garantire, in ogni caso, la tutela effettiva di detti diritti".

Se, dunque, il risarcimento costituisce l' unico mezzo eventualmente in grado di assicurare una tale tutela effettiva, sullo Stato membro grava l' obbligo, in base al diritto comunitario, di mettere a disposizione degli amministrati i rimedi giuridici che consentano di ottenere il risarcimento stesso.

43. I quattro governi che hanno presentato osservazioni hanno tuttavia sostenuto che la giurisprudenza della Corte non si è limitata a rinviare all' ordinamento nazionale per quanto riguarda le modalità cui devono essere soggette eventuali azioni risarcitorie nei confronti dello Stato e che anche la questione di principio relativa all' esperibilità di tali azioni dovrebbe essere risolta in base al diritto nazionale. Sempre secondo i detti governi, se l' ordinamento giuridico nazionale è già determinante quando si tratti di disposizioni aventi efficacia diretta, ciò varrebbe a fortiori anche in ordine a disposizioni non munite di tale efficacia.

Anche all' udienza gli agenti dei governi britannico e tedesco hanno innanzitutto cercato di confutare gli argomenti dedotti dalla Commissione a sostegno dalla propria tesi dalla sentenza 22 gennaio 1976, Russo (causa 60/75, Racc. pag. 45). In tale sentenza la Corte ha dichiarato che

"Nell' ipotesi che il danno derivi dalla violazione di una norma di diritto comunitario da parte dello Stato, questo dovrà risponderne, nei confronti del soggetto leso, in conformità alle disposizioni di diritto interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione"(punto 9 della motivazione).

Nella specie si trattava della violazione di un regolamento relativo all' organizzazione comune dei mercati agricoli.

44. E' vero che la Corte ha fatto rinvio alle "disposizioni di diritto interno relative alla responsabilità della pubblica amministrazione". Resta però il fatto che essa ha dichiarato che lo Stato deve rispondere, nei confronti dei soggetti lesi, delle conseguenze loro derivanti dalla violazione del diritto comunitario. Mi sembra che in tal modo la Corte abbia affermato il principio dell' obbligo dello Stato di riparare il danno causato, lasciando all' ordinamento nazionale il compito di disciplinarne le modalità. Se la Corte avesse inteso far rinvio all' ordinamento nazionale anche per quanto riguarda il principio stesso, l' avrebbe certamente detto esplicitamente, considerato, da un lato, che una delle questioni pregiudiziali verteva espressamente sull' esistenza di tale principio nel diritto comunitario (v. la quinta questione, Racc. 1976, pag. 47) e, dall' altro, che tanto l' attore nella causa principale (11) quanto la Commissione (12) si erano chiaramente espressi, sulla questione, in senso affermativo.

45. Quanto alle altre sentenze cui i governi si sono richiamati, nuovamente e in particolare nel corso dell' udienza, ritengo che nemmeno queste pronunce debbano necessariamente essere interpretate nel senso da essi suggerito. E' peraltro significativo rilevare che nelle rispettive osservazioni scritte i ricorrenti nella causa principale e la Commissione, da un lato, ed i governi britannico ed olandese dall' altro, hanno citato le stesse sentenze a sostegno di tesi divergenti se non opposte (13).

46. Esaminiamo la causa 33/76 Rewe. E' vero che la sentenza della Corte 16 dicembre 1976, punto 5 della motivazione (Racc. pag. 1989) contiene l' affermazione, precedentemente menzionata, che, secondo alcuni, indicherebbe che, allo stato attuale del diritto comunitario, la responsabilità dello Stato per l' inadempimento dei propri obblighi comunitari rientra unicamente nella sfera del diritto nazionale. Tuttavia, è evidente che la Corte ha fatto rinvio all' ordinamento giuridico interno degli Stati membri solo per quanto attiene all' individuazione dei giudici competenti e alla disciplina delle modalità procedurali, il che implica necessariamente che, per gli Stati membri e, segnatamente, per i rispettivi giudici nazionali, vige il principio dell' obbligo di garantire prima di tutto la tutela giuridica dei diritti che l' ordinamento comunitario attribuisce ai singoli.

La conclusione che l' ordinamento nazionale non può spingersi sino a mettere in discussione il principio stesso dell' obbligo dello Stato membro di garantire la tutela dei diritti attribuiti dal diritto comunitario ai singoli è avvalorata, da un lato, dal fatto che la Corte ha precisato che le modalità procedurali, fissate dall' ordinamento nazionale, non devono condurre

"a rendere praticamente impossibile l' esercizio dei diritti che i giudici nazionali hanno l' obbligo di tutelare".

D' altro canto, rinviando agli artt. 100-102 e 235 del Trattato per quanto attiene all' adozione dei procedimenti eventualmente necessari per ovviare alle divergenze delle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative degli Stati membri in materia, la Corte mi sembra aver implicitamente riconosciuto che il principio della responsabilità dello Stato ricade nella sfera del diritto comunitario. In tal modo la Corte ha ammesso, in ogni caso, che il diritto comunitario può servire da base, se non per la creazione di nuovi rimedi giuridici oltre a quelli previsti dall' ordinamento nazionale, quantomeno per l' adeguamento o l' interpretazione dei rimedi giuridici esistenti in modo che questi possano essere utilizzati ai fini della tutela dei diritti attribuiti ai singoli dal diritto comunitario.

47. Non ritengo che tale conclusione debba essere rivista alla luce della sentenza 7 luglio 1981, relativa ad un' altra causa Rewe (causa 158/80, Racc. pag. 1805). E' vero che la Corte ha ivi affermato che il Trattato

"non ha (...) inteso istituire mezzi d' impugnazione esperibili dinanzi ai giudici nazionali, onde salvaguardare il diritto comunitario, diversi da quelli già contemplati dal diritto nazionale" (punto 44 della motivazione).

Ha aggiunto, tuttavia, che

"per contro, il sistema di tutela giurisdizionale istituito dal Trattato, che trova in particolare espressione nell' art. 177, implica che qualunque tipo d' azione contemplato dal diritto nazionale deve poter essere esperito per garantire il rispetto delle norme comunitarie aventi efficacia diretta alle stesse condizioni di ricevibilità e di procedura che valgono quando si tratta di garantire l' osservanza del diritto nazionale".

Ritengo, quindi, che uno Stato membro non possa eccepire, a fronte di un' azione di responsabilità intentata nei suoi confronti in ragione della violazione di un diritto attribuito dall' ordinamento comunitario direttamente ai privati, che nel proprio ordinamento giuridico nazionale vige il principio della non responsabilità dei pubblici poteri e particolarmente del potere legislativo: se esiste il genere di azione in cui si inquadra l' azione di responsabilità, uno Stato membro non potrà più escluderne l' accesso ai singoli in base ad eccezioni fondate sulla natura del preteso soggetto responsabile e mettere, così, in discussione l' efficacia del diritto comunitario direttamente applicabile.

Ci troviamo qui, peraltro, in un contesto totalmente diverso da quello nell' ambito del quale taluni Stati membri hanno sviluppato la teoria della non responsabilità dello Stato legislatore. Giustamente la Commissione ha osservato all' udienza che nel diritto nazionale non esistono molte ipotesi in cui non solo vi sia l' obbligo per il legislatore di emanare una legge, in cui non solo sia possibile stabilire con sufficiente precisione quel che debba esser fatto, ma, per di più, il legislatore debba agire entro un determinato termine. A mio avviso, non è esagerato affermare che, per quanto riguarda la trasposizione delle direttive, il legislatore si trova in una posizione analoga a quella dell' amministrazione incaricata dell' esecuzione di una legge.

48. Nemmeno si può trarre argomento dal riferimento operato dalla Corte alle condizioni di ricevibilità e procedurali che devono essere soddisfatte qualora si tratti di garantire il rispetto del diritto nazionale. Da un lato, problemi di ricevibilità e procedurali si pongono solo in ordine ad un mezzo di ricorso esistente. Dall' altro, tale riferimento è stato operato nel particolare contesto della causa Rewe (causa 158/80) e, soprattutto, dopo che la Corte aveva espressamente rilevato che nell' ipotesi ivi in esame il diritto nazionale, nella specie quello tedesco, riconosceva a tutti gli interessati un diritto di agire (punto 40 della motivazione della sentenza). La Corte poteva, quindi, limitarsi ad affermare che in tale ipotesi tale diritto d' agire doveva poter essere esercitato in condizioni analoghe nell' ambito dell' ordinamento giuridico comunitario.

Parimenti, nella specie, non sembra esistere alcun dubbio in ordine all' esistenza di un adeguato rimedio giuridico.

49. Dalle considerazioni che precedono deriva che dalla citata sentenza non può ricavarsi che il diritto comunitario non possa imporre in alcun caso ad uno Stato membro di mettere a disposizione degli amministrati rimedi giuridici che consentano loro di far efficacemente valere i diritti loro attribuiti dal diritto comunitario, qualora analoghi rimedi non esistano ovvero non siano accessibili alle stesse condizioni nell' ambito nazionale. L' art. 215, secondo comma, del Trattato presuppone peraltro l' esistenza di tali mezzi d' impugnazione.

50. Obiezioni convincenti non possono essere nemmeno dedotte dalle altre sentenze richiamate in particolare dal governo tedesco. Nella sentenza 13 febbraio 1979, Granaria (causa 101/78, Racc. pag. 623), la Corte ha sì affermato che

"la questione del risarcimento, da parte di un ente nazionale, dei danni causati ai singoli da enti o dipendenti degli Stati membri, sia per violazione del diritto comunitario, sia per azione o omissione contrastante col diritto interno e che abbia avuto luogo in occasione dell' applicazione del diritto comunitario, non rientra nell' ambito dell' art. 215, secondo comma, del Trattato e va valutata dai giudici nazionali in funzione del diritto interno dello Stato membro interessato".

Il caso Granaria presentava, tuttavia, varie particolarità di cui si deve tener conto al fine di valutarne esattamente la portata. Anzitutto, la controversia verteva, in realtà, sulla responsabilità per il danno causato da atti normativi comunitari dichiarati invalidi. La questione del risarcimento da parte di un ente nazionale non si poneva se non in quanto l' ente aveva emanato atti in applicazione di un regolamento comunitario rivelatosi illegittimo. La Corte ha inoltre precisato, senza possibilità di equivoco, che sino alla dichiarazione di illegittimità di tale regolamento l' ente nazionale non poteva fare altro che applicarlo. In base alla stessa considerazione l' avvocato generale Capotorti aveva affermato che

"in realtà, nella specie, nessuna violazione del diritto comunitario (...) si è verificata"

concludendo che

"perciò non vi è luogo a supporre che una responsabilità statale sussista" (Racc. 1979, pag. 644, colonna di sinistra).

La Corte ha, infine, ricordato che l' invalidità del regolamento de quo non era sufficiente perché sussistesse la responsabilità della Comunità ex art. 215, secondo comma, del Trattato. In tale contesto risulta del tutto normale che, nell' ipotesi in cui la questione dell' eventuale responsabilità dell' ente nazionale fosse stata sollevata dinanzi ad un giudice nazionale, questi dovesse risolverla in base al diritto nazionale, tanto più che l' applicazione dell' art. 215, secondo comma, rientra nella giurisdizione esclusiva della Corte di giustizia. E' peraltro pacifico, a seguito della sentenza 27 settembre 1988, Asteris, punti 18, 19 e 20 della motivazione (cause riunite 106/87-120/87, Racc. pag 5515), che, qualora l' illegittimità di un atto comunitario non sia stata ritenuta sufficiente per far sorgere la responsabilità della Comunità, per lo stesso motivo non possa nemmeno sorgere la responsabilità di un' autorità nazionale che si sia limitata a dare esecuzione a tale atto ed alla quale non possa imputarsi l' illegittimità di cui questo è viziato, ma possa tutt' al più esserlo per una causa diversa dall' illegittimità dell' atto comunitario. Questa sentenza mi sembra interessante anche in quanto indica come il diritto comunitario possa influire sui rimedi giuridici interni: una sentenza della Corte che escluda la responsabilità della Comunità ex art. 215 del Trattato osta all' esperimento di un' azione risarcitoria nei confronti dello Stato basata sullo stesso motivo dedotto a fondamento del ricorso respinto dalla Corte (v. anche il punto 29 della motivazione della sentenza).

51. Quanto alla sentenza 9 novembre 1983, San Giorgio (causa 199/82, Racc. pag. 3595), è pur vero che la Corte si è richiamata alla propria tradizione giurisprudenziale secondo cui le condizioni sostanziali e formali relative al rimborso di tributi nazionali in contrasto con le norme di diritto comunitario sono quelle stabilite dall' ordinamento nazionale, con la sola riserva che non possono essere meno favorevoli di quelle riguardanti analoghe azioni di carattere interno e non possono essere congegnate in modo tale da rendere praticamente impossibile l' esercizio dei diritti attribuiti dall' ordinamento giuridico comunitario. Ciò che mi sembra, tuttavia, più importante nel contesto in esame è che la Corte ha anzitutto fatto rilevare che

"il diritto di ottenere il rimborso di tributi riscossi da uno Stato membro in contrasto con le norme di diritto comunitario è la conseguenza ed il completamento dei diritti riconosciuti ai singoli dalle norme comunitarie che vietano le tasse d' effetto equivalente a dazi doganali o, secondo i casi, l' applicazione discriminatoria di imposte interne" (punto 12 della motivazione).

Mi sembra che da tale affermazione emerga chiaramente che uno Stato membro ha l' obbligo di prevedere i mezzi giuridici necessari per consentire agli amministrati di ottenere il rimborso di tributi versati in contrasto con il diritto comunitario e, pertanto, di poter far pienamente valere i diritti loro attribuiti dall' ordinamento comunitario. Ciò è ulteriormente avvalorato dal fatto che la Corte ha infine affermato nella sentenza medesima che uno Stato membro non può subordinare il rimborso di tali tributi a regole che rendano il rimborso stesso praticamente impossibile,

"e ciò anche nel caso in cui il rimborso di altri dazi, imposte o tasse riscossi in contrasto col diritto nazionale sia sottoposto alle medesime condizioni restrittive".

Secondo la Corte, anche la circostanza che tali condizioni restrittive si applichino al complesso delle imposte, dazi e tasse nazionali non può costituire motivo per negare il rimborso di tributi riscossi in contrasto con il diritto comunitario (v. punto 17 della motivazione della sentenza).

52. Nessuna delle sentenze richiamate dai governi che hanno presentato osservazioni dinanzi alla Corte consente, quindi, di ritenere fondata la tesi, dagli stessi prospettata, secondo cui spetterebbe unicamente al diritto nazionale determinare non solo in quali condizioni, ma anche se uno Stato membro possa essere considerato responsabile e tenuto a risarcire i danni subiti dai singoli a causa della violazione, da parte sua, dei diritti ad essi attribuiti dal diritto comunitario.

- L' insegnamento che emerge dalle sentenze Factortame I e Zuckerfabrik

(25) Secondo il diritto comunitario è sufficiente che siano in discussione semplici "interessi" e non diritti soggettivi della persona lesa. Vedasi, oltre alle sentenze Vloeberghs e Kampffmeyer, citate dalla Commissione (v. pag. 17 della relazione d' udienza), Joliet, R.: "Le droit institutionnel des Communautés européennes - Le contentieux, Liegi, 1981, pag. 268, e Waelbroeck, M. in Mégret, J.: Le droit de la Communauté économique européenne, volume 10, tomo 1, Bruxelles, 1983, pag. 292.

(26) V., in tal senso, per quanto attiene le azioni dirette alla ripetizione di tributi nazionali riscossi in violazione del diritto comunitario, le sentenze 16 dicembre 1976, Rewe, punto 5 della motivazione (causa 33/76, Racc. pag. 1989) e Comet, punto 14 della motivazione (causa 45/76, Racc. pag. 2043).

(27) Come giustamente rilevato dal giudice Schockweiler in un recente articolo ("Le dommage causé par suite d' une violation du droit communautaire par l' autorité publique et sa réparation en droit luxembourgeois", in Pasicrisie luxembourgeoise, 1990, n. 2, pag. 35, in particolare pag. 40),

"quest' ultima condizione potrebbe eventualmente indurre gli Stati membri a modificare o ad adeguare il loro sistema di responsabilità della pubblica amministrazione".

(28) V. Bollettino delle Comunità europee, Supplemento n. 9/75, pag. 19.

(29) Vedasi da ultimo la sentenza 17 maggio 1990, Barber, (causa C-262/88, Racc. pag. I-1889, in particolare pag. 1955)

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