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Document 61989CC0214

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 20 novembre 1991.
Powell Duffryn plc contro Wolfgang Petereit.
Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall'Oberlandesgericht di Coblenza - Germania.
Convenzione di Bruxelles - Accordo attributivo di competenza - Clausola contenuta nello statuto di una società per azioni.
Causa C-214/89.

Raccolta della Giurisprudenza 1992 I-01745

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1991:431

61989C0214

Conclusioni dell'avvocato generale Tesauro del 20 novembre 1991. - POWELL DUFFRYN PLC CONTRO WOLFGANG PETEREIT. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE: OBERLANDESGERICHT KOBLENZ - GERMANIA. - CONVENZIONE DI BRUXELLES - CONVENZIONE ATTRIBUTIVA DI GIURISDIZIONE - CLAUSOLA CONTENUTA NEGLI STATUTI DI UNA SOCIETA PER AZIONI. - CAUSA C-214/89.

raccolta della giurisprudenza 1992 pagina I-01745
edizione speciale svedese pagina I-00001
edizione speciale finlandese pagina I-00029


Conclusioni dell avvocato generale


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Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. Il presente procedimento verte su alcuni quesiti sottoposti alla Corte dall' Oberlandesgericht di Coblenza, circa l' interpretazione dell' art. 17 della Convenzione 27 settembre 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l' esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (in prosieguo: la "Convenzione"), come modificato dalla Convenzione di adesione del 1978.

2. Richiamo brevemente i fatti all' origine del presente procedimento, rinviando per una più ampia esposizione alla relazione d' udienza.

Nel 1979, e successivamente nel 1980 e nel 1981, la società inglese Powell Duffryn partecipava all' aumento di capitale della società tedesca IBH-Holding AG (in prosieguo: "IBH"), sottoscrivendo delle azioni.

Il 28 luglio 1980, nel corso di un' assemblea generale della IBH, venivano apportate delle modifiche allo statuto; tra l' altro, e per quanto qui rileva, veniva inserita una clausola nuova, all' art. 4, del seguente tenore: "con la sottoscrizione o l' acquisto di azioni o certificati provvisori, l' azionista accetta, per tutte le liti con la società o i suoi organi, la competenza del foro ordinario della società". Va qui sottolineato che la Powell Duffryn ha partecipato a tale assemblea e dunque era presente al momento dell' introduzione di siffatta modifica, approvata per acclamazione.

Successivamente all' apertura del fallimento della IBH, il curatore, avvocato Petereit, citava la Powell Duffryn in giudizio dinanzi al Landgericht di Magonza, adducendo che la società inglese non aveva adempiuto agli obblighi derivanti dagli accordi di sottoscrizione e chiedendo la restituzione dei dividendi indebitamente distribuiti. La Powell Duffryn eccepiva l' incompetenza del suddetto tribunale, ma quest' ultimo, ritenendo invece valida ai sensi dell' art. 17 della Convenzione la clausola di giurisdizione di cui all' art. 4 dello statuto, dichiarava la propria competenza.

Contro tale decisione la Powell Duffryn interponeva appello davanti all' Oberlandesgericht di Coblenza, che sospendeva il procedimento ed effettuava un rinvio pregiudiziale a questa Corte, ponendo, in sostanza, i seguenti quesiti:

1. Se una clausola attributiva di giurisdizione figurante nello statuto di una società per azioni costituisca un accordo sulla competenza ai sensi dell' art. 17 della Convenzione e se un tale quesito vada risolto in modo diverso a seconda che l' azionista sottoscriva delle azioni o acquisti azioni già esistenti.

2. In caso di risposta affermativa al primo quesito:

a) se il requisito della forma scritta disposto dall' art. 17 sia soddisfatto da una dichiarazione scritta, in occasione di un aumento di capitale, per la sottoscrizione e l' acquisto di azioni;

b) se sia soddisfatta la condizione della sufficiente determinatezza del rapporto giuridico da cui possono nascere le liti, ai sensi dell' articolo in questione;

c) infine, se la clausola in questione includa anche le pretese pecuniarie derivanti dall' accordo di sottoscrizione di azioni e le pretese relative alla ripetizione di dividendi indebitamente distribuiti.

3. Il punto principale consiste dunque nello stabilire se una clausola attributiva di giurisdizione contenuta nello statuto di una società per azioni costituisca un accordo sulla competenza ai sensi dell' art. 17 e dunque risponda ai requisiti di forma disposti dal medesimo articolo.

L' art. 17, lo ricordo, nella formulazione seguita alla Convenzione di adesione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito del 1978, prevede l' ipotesi che "le parti, di cui almeno una domiciliata nel territorio di uno Stato contraente, abbiano convenuto la competenza di un giudice o dei giudici di uno Stato contraente a conoscere delle controversie, presenti o future, nate da un determinato rapporto giuridico", esigendo che una tale "clausola attributiva di competenza dev' essere conclusa sia per iscritto, sia verbalmente con conferma scritta, sia, nel commercio internazionale, in una forma ammessa dagli usi in questo campo e che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere".

Tenuto conto della formulazione della norma appena citata, ciò che occorre in primo luogo verificare è se la disposizione statutaria in questione (la clausola attributiva di giurisdizione) abbia o meno natura convenzionale ai sensi dell' art. 17. Per rispondere a tale quesito è dunque indispensabile chiarire preliminarmente quale sia la portata dell' espressione convenzione tra le parti ((letteralmente "se le parti (...) hanno convenuto (...) ")) contenuta nella norma in discorso.

Al riguardo è evidente che alle nozioni utilizzate nella Convenzione, allorché non definite da quest' ultima, si può attribuire un significato autonomo, e quindi comune all' insieme degli Stati contraenti, oppure operare un rinvio al diritto nazionale. Ed è noto che questa Corte non ha, in principio, optato per l' interpretazione "nazionale" o per quella autonoma, ma ha subordinato tale scelta ad un esame delle singole nozioni, allo scopo di stabilire di volta in volta quale delle due possibilità contribuisca maggiormente ad una piena efficacia della Convenzione (1).

Tuttavia, nella più recente giurisprudenza la Corte ha mostrato una chiara preferenza per l' interpretazione autonoma della Convenzione (2), tanto da poter affermare che la prassi in materia si è evoluta piuttosto nel senso di un rapporto fra regola generale (interpretazione autonoma) ed eccezione (rinvio al diritto nazionale).

Ritengo che anche la nozione di convenzione tra le parti ai sensi dell' art. 17 debba essere interpretata in modo autonomo. E ciò tenendo conto sia degli obiettivi e del sistema della Convenzione, in particolare dunque allo scopo di evitare divergenze nell' applicazione della Convenzione medesima e garantire così una maggiore certezza del diritto, mediante un' interpretazione chiara ed uniforme per tutti gli Stati contraenti; sia dei principi generali desumibili dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali.

4. Invero, un esame comparativo dei diversi ordinamenti giuridici degli Stati membri ci mostra, da una parte, che la natura dei rapporti sociali ed in particolare - nell' ottica che qui rileva - i rapporti che si instaurano tra la società e gli azionisti, ricevono qualificazioni non univoche; dall' altra, peraltro, che alla diversità di qualificazione non corrispondono conseguenze sostanzialmente diverse.

Ed infatti, nei sistemi giuridici dove prevale la concezione contrattuale, e sono la grandissima maggioranza, è comunque pacifico che gli obblighi risultanti dalla qualità di azionista possono sussistere indipendentemente dalla volontà espressa dal singolo; così, ad esempio, è incontestato che la delibera assembleare adottata a maggioranza, in principio refrattaria ad una qualsiasi qualificazione contrattuale, vincola tutti i soci, ivi compresi i dissenzienti e quelli che successivamente acquistano tale status. Viceversa, negli ordinamenti dove prevale la concezione istituzionale, in base alla quale dunque lo statuto (e già l' atto costitutivo) è un atto sui generis che ha valore di diritto oggettivo per i soci, può darsi che talune clausole statutarie siano opponibili solo a chi vi abbia effettivamente e specificamente prestato il suo consenso, cioè nelle forme convenzionali in senso stretto.

La dicotomia contrattuale-istituzionale, quanto alla qualificazione del rapporto sociale, mi sembra in definitiva, e ai fini della soluzione del problema in esame, piuttosto teorica e comunque di ben scarso rilievo. Ciò che importa, a mio avviso, è piuttosto che, indipendentemente dalla concezione adottata e dal dibattito dottrinale in materia, alla base del fenomeno societario vi è comunque una manifestazione di volontà negoziale, che si concreta nell' atto costitutivo della società, di cui lo statuto è parte integrante; e che instaura in tal modo stretti legami tra gli azionisti e tra questi e la società, vincoli che trovano nello statuto la loro più ampia e definitiva consacrazione e che in sostanza sono comunque, quanto agli effetti e per quanto ci interessa, almeno assimilabili a quelli di tipo contrattuale.

5. Ciò trova una conferma puntuale nella sentenza Peters (3), nella quale questa Corte ha ritenuto rientrare nella materia contrattuale una pretesa pecuniaria di un' associazione munita di personalità giuridica nei confronti di uno dei suoi membri. Tale pronuncia riveste una duplice importanza: da un lato la Corte vi precisa che la nozione di materia contrattuale (di cui all' art. 5 della Convenzione) non può essere interpretata "come un semplice rinvio al diritto nazionale di questo o quello Stato interessato" (4), e ciò al fine di garantire la parità e l' uniformità dei diritti e degli obblighi che derivano dalla Convenzione per gli Stati contraenti e le persone interessate; dall' altro, vi afferma che "l' adesione ad un' associazione crea tra gli associati stretti vincoli dello stesso tipo di quelli che esistono tra le parti di un contratto" (5).

Ed è appena il caso di osservare che i termini generali e perentori di siffatta qualificazione dei rapporti societari operata dalla Corte escludono che la sua portata possa essere ancorata alla sola nozione di "materia contrattuale" di cui all' art. 5, n. 1, della Convenzione, oggetto specifico della pronuncia Peters. Né riesco a vedere una ragione per discostarsi, nel caso di specie, dalla ricordata giurisprudenza.

In definitiva, ritengo che, nel quadro di un' interpretazione autonoma ed uniforme delle nozioni contenute nella Convenzione, e tenuto conto della sostanza del fenomeno societario (al di là delle diverse qualificazioni formali adottate nei vari ordinamenti), sia lecito e ragionevole - ai fini che qui rilevano - riconoscere natura convenzionale, o comunque a questa assimilabile, alle disposizioni statutarie che reggono i rapporti fra la società ed i suoi soci; e ciò, evidentemente, anche riguardo ad una clausola attributiva di giurisdizione quale quella oggetto della presente procedura. Una tale clausola statutaria, dunque, può farsi rientrare nella nozione di convenzione tra le parti ai sensi e per gli effetti di cui all' art. 17.

6. Precisato quanto precede, e dunque che una clausola attributiva di giurisdizione figurante nello statuto di una società rientra nella nozione di convenzione fra società ed azionista, occorre verficarne la rispondenza ai requisiti di cui all' art. 17 della Convenzione.

Ritengo tuttavia utile, prima di procedere ad una tale verifica, richiamare brevemente la giurisprudenza della Corte in materia.

La Corte ha sempre affermato che le disposizioni dell' articolo in parola devono essere interpretate secondo un criterio restrittivo e rigoroso, dato che costituiscono un' eccezione al principio generale del foro del convenuto (art. 2) ed alle competenze speciali di cui agli artt. 5 e 6.

In particolare, la Corte ha chiarito che, subordinando la validità della proroga di giurisdizione "(...) all' esistenza di una convenzione tra le parti, l' art. 17 vincola il giudice a prendere in esame, in primo luogo, se la clausola attributiva di competenza abbia effettivamente costituito oggetto del consenso delle parti, consenso che deve manifestarsi in maniera chiara e precisa" (6). Il modo di manifestazione del consenso è dunque, nell' interpretazione data dalla Corte, intimamente legato alla prova dell' esistenza stessa della convenzione tra le parti. Ed infatti "i requisiti di forma previsti dall' art. 17 hanno lo scopo di garantire che il consenso delle parti sia effettivamente provato" (7).

Peraltro, le soluzioni pratiche adottate mostrano che la Corte ha in qualche misura attenuato il rigore delle esigenze di forma previste dalle disposizioni in questione.

Infatti, dalla conferente giurisprudenza risulta che l' accertamento del consenso delle parti ben può essere effettuato anche sulla base di presunzioni logiche (nel caso, ad esempio, di una parte favorita dalla clausola, che deve presumersi aver accettato la clausola stessa) (8); o sulla base di comportamenti concludenti (ad esempio, nel caso dell' omessa contestazione della conferma scritta promanante dall' altra parte, ovvero dell' accettazione della prestazione prevista come contropartita di una clausola di proroga della competenza favorevole all' altra parte) (9); od ancora sulla base dell' uso dell' ordinaria diligenza: come nel caso di clausole che la parte interessata avrebbe potuto e dovuto conoscere usando dell' ordinaria diligenza, o di usi che avrebbe dovuto e potuto conoscere, ecc. (10).

Una siffatta attenuazione della portata delle condizioni di forma, operata dalla giurisprudenza della Corte, è stata recepita ed ampliata nel nuovo e qui applicabile testo dell' art. 17, così come modificato dalla Convenzione di adesione del 1978, che, lo ricordo, richiama gli usi del commercio internazionale, prevedendo che una clausola attributiva di giurisdizione può essere conclusa anche in una forma ammessa da tali usi: che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere.

Tutto ciò mostra una maggiore (e necessaria) attenzione e sensibilità alle esigenze del commercio internazionale e, più in generale, al concreto operare del mondo degli affari. E' evidente, infatti, che un' applicazione troppo rigorosa dei principi enunciati nell' art. 17 renderebbe praticamente impossibile l' operatività di clausole di deroga inserite in documenti contrattuali - o titoli rappresentativi di rapporti contrattuali (è il caso ad esempio dei titoli di credito) - che, per le loro caratteristiche specifiche, non sono, o difficilmente potrebbero essere, sottoscritti da uno dei contraenti.

7. Ciò detto, è pur vero che la Corte ha comunque insistito sul fatto che deve essere provata l' effettività del consenso delle parti relativamente alle clausole in discorso, e cioè una loro "consapevole accettazione". Lo scopo, infatti, resta sempre quello di evitare che una clausola di deroga alla giurisdizione sia introdotta surrettiziamente, senza cioè che una delle parti ne abbia avuto effettivamente conoscenza, pur nella prospettiva dell' ordinaria diligenza o degli usi che si deve presumere conosciuti, di cui alle ricordate sentenze Salotti e Tilly Russ.

Venendo dunque alla fattispecie che ci occupa, occorre stabilire se vi sia stata la consapevole accettazione, o almeno la conoscenza, rispetto ad una clausola dello statuto di una società che, in deroga al principio generale del foro del convenuto e alle competenze speciali, di cui rispettivamente agli artt. 2, 5 e 6 della Convenzione, stabilisce come foro competente per le controversie societarie quello della sede sociale ("foro ordinario della società"), indipendentemente dalla natura della controversia.

Le ipotesi rispetto alle quali si pone il problema della validità e dunque dell' opponibilità della clausola di deroga si riferiscono a momenti diversi della vita della società.

La prima ipotesi riguarda diciamo pure la validità "originaria" della clausola, quando fosse inserita nello statuto fin dal momento della costituzione della società. Non ritengo che questa ipotesi ponga particolari problemi, quando, sotto il profilo della sostanza, si fosse data una qualificazione contrattuale al vincolo societario, come ho prima suggerito. E quanto alla forma richiesta dall' art. 17, è impensabile che essa, nei termini chiariti dalla Corte, possa far difetto all' atto della costituzione della società.

Problemi non maggiori, né diversi, pone l' ipotesi in cui la clausola di deroga sia introdotta successivamente, con una modifica dello statuto ed a mezzo di una decisione assembleare, in particolare rispetto a quei soci che abbiano espresso con il voto favorevole il proprio consenso all' introduzione della clausola. Anche in tal caso, è incontestabile che ricorrano sia le condizioni sostanziali (consenso), sia le condizioni formali (almeno atto scritto e sottoscrizione) richieste dall' art. 17 della Convenzione.

E' appena il caso di sottolineare, pertanto, che, da quanto risulta dagli atti della procedura, nel caso di specie la clausola è valida e ben opponibile alla Powell Duffryn, che ha espresso voto favorevole in occasione dell' introduzione della clausola nello statuto della holding IBH.

8. Perplessità o addirittura contrarietà sono emerse circa l' ipotesi di considerare valida e opponibile la clausola di deroga anche rispetto ai soci che: a) abbiano espresso dissenso al momento dell' introduzione della clausola nello statuto; b) siano entrati successivamente a far parte della società, magari acquistando un' azione a mezzo telefono o, secondo l' esempio invero infelice rappresentato in udienza, per aver trovato casualmente o persino rubato il titolo, oppure per aver sottoscritto nuove azioni in occasione di un aumento di capitale. In sostanza, nelle due ipotesi ricordate mancherebbero le condizioni imposte dall' art. 17: nella prima il consenso, avendosi addirittura dissenso; nella seconda non essendoci la prova dello specifico consenso alla deroga.

Io non condivido tali perplessità e ritengo invece che una clausola di deroga alla giurisdizione contenuta nello statuto di una società vincoli tutti i soci, anche i soci futuri e persino i soci dissenzienti al momento dell' introduzione della clausola e che abbiano conservato la qualità di soci. E ritengo dunque che l' opposta tesi vada disattesa, poiché non riesce a vedere e risolvere né i problemi prossimi, né quelli più lontani e generali (11).

Si può cominciare con l' osservare, quanto all' ipotesi del socio che abbia manifestato il proprio dissenso rispetto all' introduzione di una clausola attributiva di giurisdizione, che scopo dell' art. 17 è quello di evitare che una tale clausola sia introdotta surrettiziamente in un contratto, ma non certo quello di renderla inapplicabile nei confronti di coloro che, pur essendo perfettamente a conoscenza della sua esistenza e pur non condividendola, conservino la qualità di socio. Invero, sarebbe quantomeno curioso che, mentre normalmente la non accettazione di una clausola di deroga alla giurisdizione comporta il mancato perfezionamento del contratto cui questa si riferisce o l' esclusione della clausola dal contratto, nel caso delle società un tale dissenso consentisse una situazione estremamente vantaggiosa: mantenimento della qualità di socio e al contempo inoperatività della clausola in questione nei confronti dello stesso socio.

Quanto poi all' ipotesi del socio che diventa tale con l' acquisto o la sottoscrizione di un' azione, non è mancato chi ha autorevolmente sostenuto che tale ipotesi è comunque contrassegnata normalmente da una qualche formalità cartacea, contestuale o al più successiva e confermativa, con puntuale riferimento allo statuto della società e a tutti i diritti ed obblighi che ne derivano, sicché le condizioni rigorose prescritte dall' art. 17 della Convenzione, così come lette dalla Corte, sarebbero rispettate (12).

Va tuttavia precisato al riguardo che, come risulta da una nota di ricerca svolta dai servizi della Corte, se è ben vero che la sottoscrizione e l' acquisto di azioni sono effettuati con modalità che richiedono una qualche forma scritta, è pur vero che il bollettino di sottoscrizione e/o l' atto che comprovi l' acquisto di un' azione non contengono normalmente alcun rinvio allo statuto. D' altra parte, al contrario di quanto sostenuto nel corso dell' udienza, non mi pare che un rinvio espresso allo statuto sarebbe indispensabile ai fini della validità di una clausola di deroga alla giurisdizione in esso contenuta, non essendo pertinente la giurisprudenza della Corte relativa alle clausole di deroga che siano inserite in condizioni generali o contratti-tipo.

Infatti, è persino superfluo sottolineare che mentre un rinvio alle condizioni generali di vendita è indubbiamente necessario, in quanto tali condizioni potrebbero anche mancare; il rinvio allo statuto, contenuto in un documento che attesti l' acquisto o la sottoscrizione di azioni, costituirebbe invece un formalismo eccessivo quanto inutile: anche il più sprovveduto e occasionale acquirente di azioni è infatti ben consapevole di essere sottoposto sempre e comunque alle regole statutarie, indipendentemente da un qualsivoglia rinvio che ne richiami l' applicabilità.

9. Peraltro, sono convinto che la soluzione del problema richieda una prospettiva più ampia, che tenga anche conto della peculiarità della clausola di deroga contenuta nello statuto di una società e della rilevanza che nella vita "giuridica" oltre che economica della stessa società ha la volontà collettiva rispetto al consenso del singolo. Se dovessimo non accorgerci che il problema posto dal giudice a quo non può avere una chiave di lettura imperniata sul solo consenso del singolo e sulla dimensione contrattuale tradizionale non andremmo molto lontano; forse si riuscirebbe a risolvere il caso di specie, non importa come: sarebbe in ogni caso una dimensione angusta e niente affatto soddisfacente.

In particolare, ricercare il consenso del singolo socio nei termini tradizionali, applicando alla clausola statutaria di deroga gli stessi criteri utilizzati per il contratto di vendita di una partita di barbabietole, porterebbe sicuramente ed in primo luogo ad una intollerabile dualità di regime tra i soci. E ciò nella misura in cui, allorché rientrante nel campo di applicazione dell' art. 17, una tale clausola fosse opponibile solo a coloro che hanno partecipato alla stipulazione dello statuto contestualmente all' atto costitutivo; oppure, nel caso di clausola introdotta in un momento successivo, solo a coloro che avessero espresso voto favorevole rispetto ad una tale clausola. Non solo: nei confronti dei soci sopravvenuti attraverso l' acquisto di azioni già esistenti, si potrebbe pervenire alla conclusione che ad essi una tale clausola è o meno opponibile a seconda che abbiano acquistato le proprie azioni da soci rispetto ai quali la clausola medesima era o meno operativa; è evidente che ad un tale inaccettabile risultato si giungerebbe, ad esempio, qualora si utilizzasse ciecamente la soluzione adottata da questa Corte nella sentenza Tilly Russ (13).

Non è certo un caso che ad una soluzione che comporti una dualità di regime tra i soci si sono opposte tutte le parti a confronto nella presente procedura. Ed infatti, la dualità di regime porterebbe ad una situazione invero paradossale, specie in una società con soci numerosi e diffusi in più Paesi. La società sarebbe infatti costretta, in assenza di una clausola quale quella che ci occupa, ad agire nei confronti dei suoi soci dinanzi a tribunali sparsi anche in tutta Europa, in America e in Asia, per recuperare magari i decimi.

D' altra parte, è proprio il principio dell' eguaglianza tra i soci, nonché le trasparenti esigenze prima sottolineate, che hanno ispirato i legislatori più avvertiti a sancire il criterio del forum societatis. E' ben noto, infatti, che la competenza esclusiva o concorrente del giudice del luogo in cui la società ha la sede rappresenta una costante in tema di controversie tra soci e tra società e soci: e ciò, è ovvio, indipendentemente dalla natura della controversia e dalla qualità di attore o di convenuto della società (14).

E' emblematico, d' altra parte, che nella clausola di deroga oggetto della presente procedura si utilizzi l' espressione, del resto corrente, foro ordinario della società.

Né ovviamente sarebbe ragionevole ipotizzare che ciascun socio, all' atto di acquisire tale qualità, debba sottoscrivere un' espressa e specifica accettazione della deroga alla giurisdizione in favore del forum societatis. Una siffatta soluzione, già superata dalla stessa giurisprudenza della Corte, sarebbe comunque irrealizzabile, considerate le modalità e le tecniche di circolazione dei titoli, e non eliminerebbe il doppio regime tra i soci: equivarrebbe, in sostanza, ad affermare la radicale impossibilità per una società per azioni di godere dei benefici di una clausola del tipo di quella che ci occupa.

Come si vede, occorre adottare una prospettiva diversa e meno angusta, che, nel pieno rispetto della ratio dell' art. 17 della Convenzione e al di là di un formalismo inutile quanto dannoso, tenga conto della realtà del fenomeno societario e delle caratteristiche che gli sono proprie rispetto ai contratti di scambio, nonché delle esigenze relative alla circolazione dei titoli azionari.

10. Nel caso delle società, è innegabile che alla base della costituzione della società (quale che sia la configurazione giuridica che si voglia attribuire al "contratto" sociale), vi è una confluenza di interessi economici volti al perseguimento di finalità comuni. Nell' atto costitutivo della società si ha una comunanza di interessi, mirando tutti i contraenti a conseguire, mediante l' esercizio di un' attività (economica) comune, lucri e vantaggi. E ciò indipendentemente dai motivi che spingono ciascun socio a perseguire l' interesse comune, motivi che restano ovviamente diversi ma che non hanno rilevanza.

Pertanto, l' originaria convergenza di interessi e l' identità di posizione giuridica dei soci (parità di posizione che sussiste non solo fra i soci fondatori al momento della costituzione, ma anche fra questa e quelli che si siano aggiunti in una fase successiva, con essi instaurandosi una pari comunanza di interessi tesi al perseguimento di finalità comuni) comportano un possibile sacrificio della posizione del singolo rispetto agli scopi che la società persegue e che sono in ogni caso comuni a tutti i partecipanti.

La sottoposizione a tutte le regole statutarie, anche se in ipotesi non si è d' accordo su una di esse, discende infatti dal rispetto delle regole di formazione della volontà sociale, regole che presiedono al funzionamento della società. Tali regole, che potremmo definire le "regole del gioco", implicano per definizione il consenso del socio a sottoporsi alle decisioni assembleari anche in caso di dissenso su una specifica clausola; così come, per il socio che entra successivamente, il suo consenso a sottoporsi all' intero acquis societario.

In definitiva, la sottoposizione a tutti i diritti ed obblighi statutari è intrinseca all' acquisizione della qualità di socio e comporta altresì la sottoposizione a tutte le decisioni passate e future degli organi societari adottate conformemente alle regole statutarie e legali concernenti la formazione della volontà.

11. La logica societaria ed i principi che ne sono alla base, quali appena descritti, rendono palese che il consenso delle parti allo statuto, dunque alle regole che disciplinano il funzionamento della società, è espressione di una manifestazione di volontà complessiva dei soci: la volontà sociale. Del pari, è ancora la volontà sociale, e gli atti che la esprimono, a regolare i rapporti obbligatori tra singoli soci e società, volontà che assorbe anche l' elemento convenzionale che è all' origine della stessa società; sì che risulta improponibile ricercare una convenzione tra le parti nel senso stretto dell' espressione, come fonte esclusiva dei rapporti obbligatori in parola.

Ed è, dunque, con riguardo ad una tale volontà sociale, e non già rispetto al consenso del singolo socio, che va valutata la rispondenza della clausola in questione ai requisiti previsti dall' art. 17.

Una conclusione diversa implicherebbe il disconoscimento tout court della realtà del fenomeno societario e porterebbe a conseguenze sicuramente non volute e comunque non rispondenti alla logica dell' articolo in parola: in particolare, la ricordata dualità di regime fra i soci quanto al foro competente, ipotesi di certo estranea allo scopo dell' art. 17.

Alla luce delle osservazioni che precedono, ritengo pertanto che i requisiti di forma previsti dall' art. 17 della Convenzione sono soddisfatti se la volontà sociale, espressione della volontà complessiva dei soci, si sia formata nel rispetto delle regole nazionali applicabili all' uopo previste.

Un tale rinvio al diritto nazionale applicabile, nei termini indicati, mi sembra indispensabile per verificare se la volontà sociale si è validamente formata (essendo diverse, nei diversi Stati membri, le norme che ne regolano la formazione ed in particolare le maggioranze richieste) ed allo stesso tempo per circoscriverne in modo specifico i contorni. E' appena il caso di sottolineare, infatti, che un tale rinvio non potrà comunque consentire che gli Stati contraenti esigano condizioni di forma diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dall' art. 17 così come interpretato nella presente procedura.

Nella fattispecie tali condizioni sono ampiamente soddisfatte dato che la forma scritta, che spesso assume la veste di atto pubblico, è richiesta in tutti gli ordinamenti degli Stati contraenti per la stipulazione dell' atto costitutivo di società, atto che contiene gli statuti o comunque vi rinvia in modo espresso. Del pari, la modifica degli statuti necessita la forma scritta o, quantomeno, la conferma per iscritto, rispettando - in generale - le stesse condizioni di forma prescritte per l' atto costitutivo.

Da quanto sin qui osservato discende, ovviamente, che si perviene alla medesima conclusione sia che la clausola in questione figuri originariamente nello statuto, sia che venga inserita in una fase successiva attraverso una modifica statutaria.

Relativamente poi a quei soci che non hanno partecipato alla stipulazione della clausola in questione, si impone la stessa conclusione, tenuto conto delle caratteristiche specifiche delle società e delle esigenze imposte dalla circolazione dei titoli. E dunque il fatto stesso di acquisire la qualità di socio (indipendentemente dalla circostanza che si acquistino azioni già esistenti o si sottoscrivano nuove azioni in occasione di un aumento di capitale) comporta la sottoposizione a tutti gli obblighi statutari, ivi compresa una eventuale clausola attributiva di giurisdizione.

12. Né mi pare ragionevole alimentare preoccupazioni di effetti perversi collegati alla soluzione qui suggerita, sottolineando il rischio di scelte cosìdette frivole o di un forum non conveniens (foro di Heidelberg per una società con sede e stabilimento a Napoli).

Ricordo innanzitutto che la Corte è qui chiamata ad interpretare la Convenzione rispetto ad una fattispecie in cui la clausola di deroga prevede "la competenza del foro ordinario della società", cioè del giudice del luogo in cui la società ha la sua sede. Ciò precisato, ritengo tuttavia che il problema meriti una riflessione che vada al di là del caso concreto, sia in considerazione dell' importanza che riveste una tale questione, sia per il fatto che il quesito posto dal giudice a quo è formulato in termini generali.

A prima lettura, invero, potrebbe apparire irrilevante, nella Convenzione e nella giurisprudenza della Corte, il contenuto della scelta operata dalle parti quanto al giudice competente. Ma, a guardare meglio e con la dovuta profondità, non si può escludere del tutto che, nella giurisprudenza della Corte (penso a Tilly Russ, ma anche a Salotti), e soprattutto nello stesso art. 17 così come modificato dalla Convenzione del 1978 (penso al riferimento al commercio internazionale, in particolare agli usi che le parti conoscevano o avrebbero dovuto conoscere), sia rinvenibile anche, e molto opportunamente, un' apertura al contenuto della scelta: in definitiva, un' apertura alla coerenza ed alla ragionevolezza della scelta del foro competente rispetto alla prassi (15).

In ogni caso, ritengo che l' unico modo per non svuotare di ogni contenuto il nuovo testo dell' art. 17, e dunque tener conto delle specifiche esigenze relative al concreto operare del mondo degli affari (senza peraltro stravolgere il disegno originario di tale norma che resta pur sempre quello di garantire certezza e conoscibilità di tali clausole), consista appunto nell' instaurare condizioni specifiche relativamente all' accordo di volontà, condizioni che tengano conto del particolare settore considerato (16).

In tale prospettiva, l' esame della validità di clausole di deroga alla giurisdizione, misurato sugli usi vigenti nel commercio internazionale, è opportuno che riguardi, oltre che il rispetto delle condizioni formali che garantiscano la conoscibilità delle clausole stesse, anche il contenuto: verificando dunque la coerenza e la ragionevolezza della disciplina con gli usi abitualmente praticati nello specifico settore commerciale in considerazione.

Ritornando al caso di specie, e volendo essere ancor più chiari, osservo che, considerata la scelta del forum societatis operata dalla maggior parte degli ordinamenti, una scelta analoga che sia consegnata dai soci nello statuto della società non solo risponde ai requisiti di forma richiesti, ma è anche la sola coerente e ragionevole rispetto alle scelte di fatto e/o di diritto in uso nel settore che ci occupa.

Suggerisco pertanto alla Corte di circoscrivere la validità di una clausola attributiva di giurisdizione all' ipotesi in cui, come nella fattispecie, sia prevista la competenza del foro ordinario della società; e di affermare che una disposizione statutaria che attribuisca tale competenza costituisce un valido accordo ai sensi dell' art. 17, allorché stipulata in conformità delle regole nazionali applicabili concernenti la formazione della volontà sociale. Una siffatta conclusione risponde anche al quesito 2 a).

13. Per quanto concerne poi il quesito se la clausola attributiva di competenza soddisfi, ai sensi dell' art. 17, il requisito della sufficiente determinatezza del rapporto giuridico da cui possono nascere controversie (quesito 2 b)), ricordo innanzitutto che scopo di tale disposizione è quello di evitare che la parte che si trova in una situazione di maggior forza economica imponga alla controparte un determinato foro generale. Tenuto conto di ciò, la disposizione in questione è rispettata se l' art. 4 dello statuto, la cui interpretazione spetta in definitiva al giudice nazionale, è interpretato nel senso che si riferisce a tutte le controversie che oppongono l' azionista alla società in ragione dei reciproci vincoli societari.

Infine, relativamente al quesito 2 c), con il quale il giudice a quo chiede se la clausola di cui all' art. 4 dello statuto includa anche le pretese in denaro derivanti dagli accordi di sottoscrizione e le pretese relative alla ripetizione di dividendi indebitamente pagati, va ricordato che l' interpretazione dell' articolo in questione spetta al giudice della causa principale. E' quest' ultimo infatti che è chiamato a pronunciarsi sulla clausola di proroga allo scopo di determinare in che misura e con quali limiti sia applicabile al recupero di somme dovute alla società ed alla ripetizione di dividendi indebitamente pagati.

14. Alla luce delle osservazioni che precedono, concludo pertanto proponendo alla Corte di rispondere come segue ai quesiti posti dall' Oberlandesgericht di Coblenza:

"1) Una clausola attributiva di giurisdizione figurante nello statuto di una società per azioni, secondo la quale l' azionista è vincolato alla competenza del foro ordinario della società per tutte le controversie con questa od i suoi organi, costituisce per tutti i soci un valido accordo sulla competenza, ai sensi dell' art. 17 della Convenzione, se stipulata nel rispetto delle regole nazionali applicabili concernenti la formazione della volontà sociale.

2) Il requisito della sufficiente determinatezza del rapporto giuridico da cui possono nascere controversie di cui all' art. 17, è soddisfatto se l' art. 4 dello statuto è interpretato nel senso che si riferisce a tutte le controversie che oppongono l' azionista alla società in ragione dei reciproci vincoli societari.

3) Spetta al giudice nazionale interpretare la clausola attributiva di competenza allo scopo di determinare quali siano le controversie rientranti nel suo ambito di applicazione".

(*) Lingua originale: l' italiano.

(1) V. sentenza 6 ottobre 1976, causa 12/76, Tessili/Dunlop, Racc. pag. 1485, punto 11.

(2) V., tra le altre, sentenze 14 ottobre 1976, causa 29/76, Eurocontrol, Racc. pag. 1541; 30 novembre 1976, causa 21/76, Mines de Potasse d' Alsace, Racc. pag. 1735; 18 marzo 1981, causa 139/80, Trost, Racc. pag. 819; 22 marzo 1983, causa 34/82, Peters, Racc. pag. 987.

(3) Sentenza 22 marzo 1983, causa 34/82, Racc. pag. 987.

(4) Ibidem, pag. 1002, punto 9 della motivazione.

(5) Ibidem, punto 13 della motivazione.

(6) Sentenze 14 dicembre 1976, causa 24/76, Estasis Salotti, Racc. pag. 1831, punto 7 della motivazione, e causa 25/76, Segoura, Racc. pag. 1851, punto 6 della motivazione.

(7) Sentenze Estasis Salotti e Segoura, cit., ibidem, rispettivamente punto 7 e 6.

(8) Sentenza 14 luglio 1983, causa 201/82, Gerling, Racc. pag. 2503.

(9) Sentenza 11 novembre 1986, causa 313/85, Iveco Fiat, Racc. pag. 3337, e sentenza 11 luglio 1985, causa 221/84, Berghoefer, Racc. pag. 2699.

(10) Sentenza 14 dicembre 1976, causa 24/76, cit.; sentenza 19 giugno 1984, causa 71/83, Tilly Russ, Racc. pag. 2417, e sentenza 11 novembre 1986, causa 313/85, cit.

(11) Oltre alla parte interessata nella presente procedura, la tesi qui criticata è stata espressa dal Thode, peraltro in una nota all' ordinanza di rinvio che ci occupa (in Wirtschafts- und Bankrecht, VII B.1, 1989, pag. 1425). Di contrario avviso, dunque nella direzione sostanziale qui suggerita, sempre a commento della stessa ordinanza, il Geimer (in Entscheidung zum Wirtschaftsrecht, 1989, pag. 855), che però aveva espresso la stessa opinione anche precedentemente al sorgere della controversia che ci occupa (Geimer-Schuetze, Internationale Urteilsanerkennung, Band I, Muenich 1983, pag. 696 e segg.), così come altri (Kropholler, Europaeisches Zivilprozessrecht, Heidelberg 1987, pag. 152 e segg.). Nel senso della validità di una clausola arbitrale contenuta in uno statuto, rispetto ad una disposizione sui requisiti di forma delle clausole "vessatorie" analoga all' art. 17 (e cioè l' art. 1341 del codice civile), cfr. Cassazione italiana, sentenza 3 febbraio 1968, n. 353, in Giustizia civile, 1968, pag. 179 e segg.

(12) V. in tal senso Geimer-Schuetze, Internationale Urteilsanerkennung, cit., pag. 940.

(13) Sentenza 19 giugno 1984, causa 71/83, cit., punti 24 e 25 della motivazione.

(14) In Belgio è sancita la competenza (esclusiva) del giudice della sede sociale o del principale stabilimento (art. 628 del code judiciaire); in Danimarca l' art. 238 del codice di procedura civile dispone la competenza concorrente del giudice del luogo della sede, così come in Germania l' art. 22 del Zivilprozessordnung; e lo stesso dicasi per il Lussemburgo (art. 36 cod. proc.civ.) e per i Paesi Bassi (art. 126 cod. proc. civ.); in Italia vige il foro generale delle società (art. 19 cpc) e delle cause tra soci (art. 23 cpc).

(15) V. in questo senso gli interessanti rilievi di Carbone, "La disciplina comunitaria della proroga della giurisdizione in materia civile e commerciale", in Diritto del Commercio Internazionale, 1989, pag. 351 e segg., in part. 356 e segg.; e già, dello stesso autore, "Area dell' economia comunitaria e clausole di deroga alla giurisdizione contenute in polizze di carico", in Diritto marittimo, 1977, pag. 169 e segg., in particolare 181.

(16) In argomento v. Kohler, "Riguer et souplesse en droit international privé: Les formes possibles pour une convention de juridiction dans le commerce international par l' article 17 de la Convention de Bruxelles dans sa nouvelle rédaction", in Diritto del Commercio Internazionale, 1990, pag. 611 e segg. L' autore sottolinea giustamente che l' attenuazione delle condizioni di forma operata dal nuovo testo dell' art. 17, comportando un' inevitabile attenuazione delle stesse condizioni concernenti l' accordo di volontà, sarebbe giustificata solo dalla possibilità di un controllo materiale delle clausole attributive di giurisdizione. Pur evidenziando che "les droits nationaux, et notamment les droits relevant de la common law, ont toujours réservé un tel contrôle à leurs juges, non seulement lorsqu' il s' agit de protéger des parties faibles, mais également dans les domaines où les professionnels exercent leur commerce sur base de conditions préétablies", l' a. è tuttavia del parere che un tale controllo non sia possibile sulla base dell' attuale formulazione dell' art. 17, occorrendo invece una modifica dello stesso.

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