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Document 61985CC0407

Conclusioni riunite dell'avvocato generale Mancini del 26 aprile 1988.
Drei Glocken GmbH e Kritzinger contro USL Centro-Sud e provincia autonoma di Bolzano.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Bolzano - Italia.
Libera circolazione delle merci - Paste alimentari - Obbligo di usare esclusivamente grano duro.
Causa 407/85.
Procedimento penale contro Zoni.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Milano - Italia.
Libera circolazione delle merci - Paste alimentari - Obbligo di usare esclusivamente grano duro.
Causa 90/86.

Raccolta della Giurisprudenza 1988 -04233

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1988:197

61985C0407

CONCLUSIONI RIUNITE DELL'AVVOCATO GENERALE MANCINI DEL 26 APRILE 1988. - DREI GLOCKEN GMBH E GERTRAUD KRITZINGER CONTRO U. S. L. CENTRO-SUD E PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO. - CAUSA 407/85. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE PROPOSTA DAL PRETORE DI BOLZANO. - PROCEDIMENTO PENALE A CARICO DI GIORGIO ZONI. - CAUSA 90/86. - DOMANDA DI PRONUNCIA PREGIUDIZIALE, PROPOSTA DAL PRETORE DI MILANO. - LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI - PASTE ALIMENTARI - OBBLIGO DI USARE ESCLUSIVAMENTE GRANO DURO.

raccolta della giurisprudenza 1988 pagina 04233
edizione speciale svedese pagina 00567
edizione speciale finlandese pagina 00577


Conclusioni dell avvocato generale


++++

Signor Presidente,

signori Giudici,

1 . Con ordinanza 31 ottobre 1985 e nell' ambito di un giudizio promosso dall' impresa tedesca "Drei Glocken GmbH" e dalla signora Gertraud Kritzinger contro la provincia autonoma di Bolzano che le aveva accusate di aver trasgredito alcune norme italiane sul commercio delle paste alimentari, il pretore di Bolzano vi pose ai sensi dell' articolo 177, 2° comma, trattato CEE, i seguenti quesiti :

a ) Se il divieto (...) di cui all' articolo 30 trattato CEE vada interpretato nel senso di escludere, in caso di importazione di pasta alimentare, l' applicazione delle disposizioni italiane (...) che vietano l' impiego di farina di grano tenero nella produzione della pasta alimentare, ove la medesima pasta sia stata lecitamente prodotta e messa in commercio in un altro Stato membro (...).

b ) Se comunque il divieto di arbitrarie discriminazioni o di restrizioni travisate nel commercio tra Stati membri, di cui all' articolo 36 (...), vada interpretato nel senso di escludere l' applicazione delle suddette disposizioni nazionali .

Il 19 marzo 1986 chiamato a decidere su un' identica violazione contestata al signor Giorgio Zoni, il pretore di Milano sollevò un problema analogo, ma formulandolo in termini opposti . Egli vuol infatti sapere :

Se l' articolo 30 e l' articolo 36 del trattato CEE vadano interpretati nel senso di far ritenere legittimo l' obbligo imposto dalla legge di uno Stato membro di impiegare esclusivamente grano duro nella fabbricazione di pasta alimentare secca destinata ad essere commercializzata all' interno del territorio dello Stato membro medesimo qualora venga accertato e provato che tale obbligo :

a ) è stato imposto unicamente per tutelare le superiori qualità della pasta alimentare fabbricata con solo grano duro;

b ) non comporta alcuna discriminazione ai danni dei prodotti aventi le stesse caratteristiche, provenienti dagli altri paesi membri come pure nei confronti degli imprenditori comunitari degli stessi prodotti, in quanto anche gli imprenditori nazionali sono assoggettati alle stesse limitazioni;

c ) non è stato introdotto per perseguire scopi protezionistici in favore del prodotto nazionale e ai danni del prodotto comunitario avente le stesse caratteristiche .

Nel corso dei procedimenti davanti alla nostra Corte ( 407/85 e 90/86 ) hanno presentato osservazioni scritte : i ricorrenti nelle cause principali ( Drei Glocken, Kritzinger e Zoni ); la provincia autonoma di Bolzano, convenuta nella causa pendente davanti al primo pretore; le parti civili costituitesi in giudizio innanzi al secondo pretore e cioè nove imprese italiane produttrici di pasta, quattro associazioni di industriali pastai, di cui una internazionale ( il Durum Club ) con la Fratelli Barilla SpA ( in seguito : "Unipi e altri "), le Confederazioni nazionali dei coltivatori diretti, dei coltivatori e dell' agricoltura; i governi francese, italiano e olandese; la Commissione delle Comunità europee . All' udienza, insieme ai soggetti appena citati, è intervenuto il governo ellenico, mentre non si è presentata la provincia autonoma di Bolzano .

2 . L' identità delle questioni che i due giudici sollevano m' induce ad esaminarle congiuntamente . A tale indagine, tuttavia, ritengo opportuno premettere alcune considerazioni dirette insieme a liberare la controversia sottopostavi dall' immagine banalizzante che alcuni osservatori ne danno e a identificare le realtà economiche e politiche su cui la vostra pronuncia è destinata ad incidere .

Di quale immagine io parli è presto detto . La sorte ha voluto che la normativa italiana sulle paste alimentari affrontasse a Bolzano l' esame di compatibilità con l' articolo 30 del trattato di Roma in un momento assai poco propizio : e cioè mentre i media erano pieni delle proteste con cui i birrai e i consumatori tedeschi reagivano alla "sfida" che la Commissione aveva osato lanciare contro la superiore qualità della birra nazionale attaccando dinanzi a voi regole di purezza risalenti all' epoca di Martin Lutero . E inutile ricordarvi come finì quello scontro . La pronuncia 12 marzo 1987, causa 178/84 ( Racc . 1987, pag . 1193 ) statuì, in applicazione di una giurisprudenza considerata ormai tradizionale, che, "vietando lo smercio di birre legalmente prodotte e distribuite sul mercato di un altro Stato membro, (( ma )) (...) non (...) conformi (( alle norme del Biersteuergesetz sulla fabbricazione e denominazione di tale prodotto ))", la Repubblica federale si era resa inadempiente agli obblighi impostile dal trattato .

L' operazione a cui ho alluso scaturisce da queste circostanze . Sul piano degli interessi in giuoco e dei due immaginari collettivi - pensarono in molti - la birra sta alla Germania come gli spaghetti stanno all' Italia; tanto è vero che nelle proteste con cui gli italiani hanno accolto l' ordinanza del pretore di Bolzano è sembrato udir l' eco di quelle tedesche . L' affaire des pâtes è dunque la replica dell' affaire de la bière e, una volta trasferita dall' àmbito giudiziario nazionale a Lussemburgo, non può dare che lo stesso risultato . Ora, che tra i due casi vi siano analogie non è dubbio . Vi sono però anche differenze, e a me non pare che le prime prevalgano sulle seconde .

Osservo anzitutto che ci troviamo qui in sede di rinvio pregiudiziale per l' interpretazione di una norma comunitaria; ossia - è superfluo dirlo - nell' ambito di un procedimento diverso da quello della causa 178/84 soprattutto per quanto riguarda il profilo probatorio e gli effetti che nell' uno e nell' altro caso produce la cosa giudicata . Eppure, è certo che, anche quando opera sulla base dell' articolo 177, la Corte deve sapere di che cosa sta decidendo . L' applicazione che il giudice del rinvio farà della norma da essa interpretata può infatti avere, e spesso ha, una profonda influenza riformatrice non solo sul sistema nazionale interessato, ma anche, come potrebbe essere nella specie, su quello di altri Stati membri e persino sull' ordine giuridico comunitario .

Di solito, a illustrare per la Corte il contesto dei problemi giuridici e metagiuridici rispetto al quale essa dovrà apprezzare la compatibilità comunitaria della disposizione nazionale controversa è la Commissione nell' adempimento di un compito che è stato definito di amicus curiae . Orbene, nel nostro caso questo compito è rimasto sostanzialmente inadempiuto . Per la verità, ancora alcune settimane orsono, l' Esecutivo ha fatto sapere di non aver "attaqué l' Italie devant la Cour tout en expliquant à la Cour elle-même, dans une affaire préjudicielle," che, a suo avviso, il divieto italiano d' importare paste di grano tenero costituisce "une restriction incompatible avec l' article 30 CEE" ( Agence Europe, 19 marzo 1988, n . 4747, pag . 11 ). Ma le cose non sono andate così . Dispiace dire che, oltre a tacerci i motivi per cui non ha voluto battere come nell' affaire de la bière la via regia dell' articolo 169, la Commissione è stata un cattivo amicus curiae . Alle sue spiegazioni si addicono infatti tre aggettivi : contraddittorie, inesatte, lacunose .

3 . Cominciamo con le contraddizioni . Intervenendo in causa 407/85, la Commissione afferma che una "completa delegificazione" della materia "in Italia, Francia e Grecia avrebbe come conseguenza una certa sostituzione di grano tenero al grano duro nella fabbricazione di pasta alimentare in questi paesi" e, da qui, "un aumento delle spese a carico del bilancio comunitario"; essa è pertanto nettamente contraria "a un abbandono totale delle regolamentazioni di cui si tratta" e auspica che gli Stati interessati non prendano "in considerazione una misura così radicale" ( il corsivo è mio ). In causa 90/86, d' altra parte, l' Esecutivo vi propone di statuire che "l' articolo 30 (...) non consente a uno Stato membro di estendere ai prodotti legalmente fabbricati e commercializzati in un altro Stato membro l' obbligo (...) di utilizzare esclusivamente grano duro nella fabbricazione della pasta alimentare secca destinata ad esser commercializzata all' interno del detto Stato ".

Ora, delle due l' una . Italia, Francia e Grecia s' inchinano a una vostra eventuale pronuncia d' incompatibilità, ma, attenendosi all' auspicio della Commissione, lasciano sopravvivere l' obbligo di usare solo grano duro nei confronti dei fabbricanti nazionali, e in tal caso è ovvio che questi ultimi saranno discriminati rispetto ai produttori stranieri o ai produttori-importatori paralleli di paste di grano tenero, con la conseguenza di subire, impotenti, la concorrenza di tali paste . Oppure, per evitare un effetto così iniquo, i medesimi Stati sopprimono il detto vincolo rispetto a tutti i fabbricanti e allora assisteremo a quella "certa sostituzione" progressiva del grano tenero al grano duro che la Commissione prevede - o, per dir meglio, esorcizza - nel primo dei rilievi citati .

Passiamo alle inesattezze . Nelle osservazioni in causa 407/85, la Commissione dichiara che tra il giugno del 1969 e il febbraio del 1970 il Comitato economico e sociale e il Parlamento respinsero una sua proposta di direttiva per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali in materia di paste alimentari . La realtà è diversa . Pur suggerendo alcune modifiche e in particolare la previsione di un regime transitorio, il Comitato approvò il progetto, anche - sottolineò - perché "le varietà di grano duro attualmente note consentono di ottenere (...) paste le cui qualità tecniche e organolettiche sono riconosciute superiori" ( Parere del 25 giugno 1969, GU C 100, pag . 11, 2° considerando ). Negativamente, per contro, si espresse il Parlamento : ma - ed è ciò che conta - con un giudizio limitato alla "forma attuale" del progetto e con l' "insistente" richiesta di un testo migliore ( Risoluzione del 2 febbraio 1970, GU C 25, pag . 14 ). La responsabilità per la mancanza di una direttiva, che avrebbe eliminato il problema di cui ci stiamo occupando, non può dunque imputarsi ad altri organi, mentre va riconosciuto, come vedremo più avanti ( n . 10 ), che ad abbandonare l' impresa fu ad un certo punto la Commissione .

Ancora . In un diverso passaggio delle stesse osservazioni, l' Esecutivo ci dice che i suoi servizi stanno riesaminando la "possibilità di introdurre una (( nuova )) proposta di normativa comunitaria", tenuto conto dell' autosufficienza a cui, nel settore del grano duro, la Comunità è pervenuta con l' adesione di Spagna e Portogallo . In realtà, dalle relazioni della Commissione sullo stato dell' agricoltura europea emerge che rispetto al grano duro la Comunità divenne autosufficiente già nel 1980-1981 . Aggiungo che nell' annata 1985-1986 ( l' ultima per cui si possiedono statistiche ), il grado di autoapprovvigionamento per il nostro prodotto ammontò al 122% dopo aver toccato nel 1984-1985 ( e dunque in epoca precedente l' adesione dei due Stati iberici ) la punta massima del 133 %.

E veniamo infine alle lacune . Alla Corte l' istituzione non ha fornito alcun dato statistico vuoi sulla produzione e sul commercio comunitario, vuoi sulle esportazioni verso paesi terzi delle paste alimentari preparate rispettivamente con grano duro, grano tenero o una miscela di entrambi; sarebbe stato utile, invece, sapere se la produzione comunitaria delle paste di grano tenero sia in crescita o in diminuzione, quali Stati producano tale alimento e se essi lo destinino al solo consumo interno o anche agli scambi intracomunitari . Ma v' è di più . La Commissione non ci ha ricordato che il 7 agosto 1987 - cioè tre mesi prima dell' udienza avanti alla Corte - il Consiglio approvò la cosiddetta intesa CEE-USA sulle esportazioni di paste alimentari comunitarie in America e così mise fine alla guerra commerciale che gli Stati Uniti ci avevano dichiarato nel giugno 1985 ponendo l' embargo su tali prodotti .

Questa reticenza è particolarmente grave ove si consideri che oggetto dell' intesa erano le paste prodotte solo con grano duro : stabilito, infatti, che l' indiscriminata liberalizzazione del commercio intracomunitario delle paste di grano tenero determinerebbe una "certa sostituzione" di quest' ultimo prodotto al grano duro, v' è da chiedersi se tale conseguenza possa metter in pericolo il rispetto degli obblighi internazionali che la CEE ha assunto nei confronti del suo più importante partner commerciale . V' è da chiederselo, in particolare, nell' ambito di una causa che ha per oggetto la legge italiana di purezza . L' Italia, infatti - e anche a questo importante dettaglio la Commissione non ha ritenuto opportuno accennare -, soddisfa al 99,9% ( 1987 ) la domanda americana di paste europee .

Una quarta e non meno cruciale omissione inficia l' analisi che la Commissione dedica alla più recente politica comunitaria in tema di grano duro . Per comprenderne la portata, è tuttavia necessaria una premessa di ordine generale, che, del resto, ci sarà utile anche in prosieguo .

La relazione 1987 traccia dell' agricoltura europea un quadro addirittura catastrofico . Negli ultimi dodici anni - si afferma - le spese del FEAOG-garanzia si sono accresciute del 122%, mentre l' aumento della produzione agricola è stato solo del 22 %. Contemporaneamente, la pressione che l' accumulo delle eccedenze esercita sui prezzi alla produzione ha fatto diminuire il valore aggiunto netto globale del settore, così impedendo che l' effetto positivo dei trasferimenti finanziari e della sempre maggiore produttività sia proporzionale al loro incremento nel tempo; lungi dall' avvantaggiare gli agricoltori, infatti, una percentuale crescente delle risorse erogate all' agricoltura si trasferisce ai consumatori, alle industrie di trasformazione e, in forma di restituzioni, ai paesi terzi importatori . L' impatto congiunto di questi fattori - conclude il brano da cui sto citando - "ha portato l' importo globale dei fondi pubblici versati a favore dell' agricoltura (...), a raggiungere un livello, che (...) è ormai praticamente equivalente al reddito netto del settore" ( pag . 15 ).

Ora, la situazione così descritta indusse la Comunità ad adottare un "nuovo approccio" nei confronti dell' agricoltura che, tra i suoi cardini, ha "una politica rigorosa in materia di prezzi ". Sul nostro piano - ci dice la Commissione - tale politica si è tradotta, da un lato, nella proposta che essa fece di avvicinare, per la campagna 1986-87, i prezzi d' intervento del grano duro e del grano tenero riducendo il primo del 4%, dall' altro, nella positiva accoglienza che a tale suggerimento riservò il Consiglio ( Relazione 1987, pag . 15 e 16 ). Così, mentre il prezzo del grano tenero rimase fermo intorno ai 180 ecu per tonnellata, quello del duro fu abbassato a 299,60 ecu ( regolamento 23 maggio 1986, n . 1584/86, GU L 139, pag . 42 ) e poi ulteriormente ridotto a 291,59 ecu ( regolamento 2 luglio 1987, n . 1901/87, GU L 182, pag . 42 ).

Ma - ed è su questo punto che la Commissione tace - il Consiglio fece molto più che realizzare un migliore rapporto di prezzo tra i due tipi di frumento . Compreso che le relative misure avrebbero determinato problemi gravi ed urgenti ( in concreto, una riduzione del reddito ) per alcune categorie di produttori o per certe regioni, esso decise di renderle accettabili con un provvedimento di segno opposto e ancora più ingente . Il grano duro, come tutti sanno, è oggetto di un aiuto comunitario, la cui finalità sta attualmente nel "garantire un equo tenore di vita agli agricoltori delle regioni (...) in cui tale (( coltura )) costituisce una parte tradizionale e cospicua della produzione agricola" ( regolamento 23 maggio 1986, n . 1586/86, GU L 139, pag . 45 ); ebbene, il legislatore della Comunità aumentò l' aiuto di circa il 20%, portandolo da 101,31 ecu per ettaro nel 1985 ( decisione 28 giugno 1985, 85/329, GU L 169, pag . 94 ) a 121,80 ecu nel 1987 ( regolamento 2 luglio 1987, n . 1904/87, GU L 182, pag . 47 ).

Che cosa dire dopo tutto ciò? A me sembra di avere conseguito un primo risultato . L' affaire des pâtes è molto più complessa di quanto la si sia fatta apparire a forza di paragoni corrivi, di imprecisioni grossolane e di enigmatici silenzi . Dico di più : essa differisce da ogn' altra precedente causa in materia di libera circolazione delle merci perché la legislazione nazionale controversa è il fondamento sul quale la Comunità edifica da un ventennio un aspetto importante della sua politica agricola e giuoca una partita di grande rilievo nel quadro della sua azione commerciale esterna . Elementi del genere, com' è ovvio, non bastano a rendere quella normativa compatibile con l' articolo 30 del trattato, ma è egualmente certo che a un giudizio d' incompatibilità non potrà giungersi senza avere valutato con attenzione tutte le conseguenze di ordine interno ( nel duplice senso di nazionale e di endocomunitario ) ed internazionale a cui esso metterebbe capo .

4 . Fatte queste considerazioni generali, è tempo di prendere in esame la detta normativa, pur senza entrare - a questo provvedono egregiamente le relazioni d' udienza - nei suoi molti e intricati dettagli . Dirò allora che la legge 4 luglio 1967, n . 580, non è affatto, come l' ha definita in udienza la Commissione, una semplice "legge-ricetta", ma un ampio ed organico provvedimento in cui è contenuta l' intera disciplina relativa alla "lavorazione e (( al )) commercio dei cereali, degli sfarinati, del pane e delle paste alimentari ". In particolare, le paste sono regolate da norme che figurano nel Titolo IV, articoli da 28 a 36, e da alcune disposizioni transitorie : l' articolo 50, il cui 2° comma contiene il divieto su cui v' interrogano i pretori di Bolzano e di Milano, e l' articolo 51 .

Ai sensi dell' articolo 28, si denominano "pasta di semola (...) di grano duro" i prodotti ottenuti dalla "trafilazione, laminazione e conseguente essiccamento di impasti preparati (...) esclusivamente (...) con semola di grano duro e acqua ". Gli alimenti di cui così si determina la composizione e la denominazione obbligatoria sono le paste "secche" che definirò standard; esse non esauriscono pertanto la gamma della paste lecitamente producibili . In particolare, è consentita la fabbricazione di : a ) "paste speciali contenenti vari ingredienti" ( articolo 30 ); b ) "paste con l' impiego di uova" ( articolo 31 ); c ) "paste dietetiche" ( articolo 32 ); d ) "paste alimentari fresche" ( articolo 33 ).

Di tali prodotti i primi due sono egualmente secchi : almeno per quanto riguarda la produzione interna, devono infatti essere preparati solo con semola di grano duro e vanno messi in commercio con le denominazioni "pasta di semola di grano duro", seguìta dall' elenco degli ingredienti aggiunti ( ad esempio, spinaci o carciofi : articolo 30, 2° comma ), e "pasta all' uovo" ( articolo 31, 2° comma ). Per la preparazione degli altri tipi è invece lecito usare farine di grano tenero ( articolo 33, 3° comma ), e sui motivi di questa singolare eccezione il governo italiano ci ha fornito chiarimenti di vario genere . Il più valido, a mio avviso, è quello che si fonda sulla molteplicità dei luoghi in cui è preparata la pasta fresca e sulla conseguente difficoltà di accertare se essa contenga grano tenero . Invero, quando fu emanata la legge 580, l' industria delle paste secche e la corrispondente rete di distribuzione erano ancora limitate . Nelle famiglie, nelle trattorie di campagna e persino nei ristoranti cittadini la pasta - da consumarsi in giornata - veniva prevalentemente "fatta in casa", e per queste produzioni domestiche o artigianali s' impiegava la farina disponibile nei mercati che, specie al Nord, non era sempre tratta dal grano duro .

Pasta, tipi di pasta, paste : tutte parole, dirà chi non conosce a fondo l' Italia e la sua lingua, che si riferiscono alla medesima cosa . E invece non è così . Secondo il dizionario enciclopedico "Treccani", per "pasta" s' intende non solo "l' impasto di farina, opportunamente rimestato sino a renderlo sodo e compatto", ma anche l' impasto di "farina di frumento oppure di semolino, non fermentato, che, lavorato in forme diverse ed essiccato, costituisce i vari tipi di paste alimentari ". Pasta "al singolare - precisa tuttavia quest' autorevole fonte - ha in genere valore collettivo, mentre al plurale (( paste )) si adopera, nell' uso commerciale, quasi soltanto per indicare un complesso di vari tipi o forme di pasta ".

Armati di queste spiegazioni, rileggiamo allora i testi delle norme più sopra citate . Ci renderemo conto che la "pasta" dell' articolo 28 è una denominazione commerciale generica, mentre i "prodotti" di cui parla lo stesso disposto imponendone la preparazione con sola "semola di grano duro" e le "paste" degli articoli da 30 a 33 sono denominazioni dei tipi di pasta, cioè della materia o delle materie con cui essa è preparata . Aggiungo che la prima è obbligatoria su ogni confezione del nostro alimento e va sempre seguìta dalle seconde . Ai sensi dell' articolo 35, infatti, "gli imballaggi o involucri devono recare, in lingua italiana (...) la denominazione ed il tipo della pasta (...) con caratteri indelebili e ben leggibili ". Tali denominazioni, a loro volta, devono essere quelle previste dagli articoli 28, 29, 30, 31, 32 e 33, sono da apporre consecutivamente e non possono essere accompagnate da altre qualificazioni o da raffigurazioni capaci d' ingannare l' acquirente .

Resta a questo punto da stabilire, per quanto riguarda in particolare le paste secche, quale significato tecnico possiedano parole a cui la legge non fa cenno come "spaghetti", "vermicelli", "bucatini", "maccheroni", "rigatoni", "fusilli", "penne", "linguine", "orecchiette", "malloreddus", ecc . A mio avviso, esse sono alcune tra le innumerevoli denominazioni specifiche delle forme che può assumere la pasta; la legge le ignora appunto perché - almeno in Italia ( ma non in altri paesi, come vedremo a suo tempo ) - il loro numero è illimitato o limitabile solo dall' esaurirsi della fantasia dei pastai . Imporre a questi ultimi di precisare, per ogni forma di pasta, la materia di cui essa è fatta era insomma impossibile o, tenendo conto della confusione che una simile disciplina avrebbe ingenerato nei consumatori, addirittura pericoloso . Meglio allora, ragionò il legislatore, offrire agli acquirenti un' informazione generica sulla natura di ciascun prodotto vincolando i fabbricanti ad usare la sola denominazione-tipo che sia comune a tutte le forme di pasta alimentare secca : quella dell' articolo 28 e cioè "pasta di semola di grano duro ".

Ancora due parole a proposito degli obiettivi che la legge ha di mira . Il primo, su cui nessuno degli intervenuti ha sollevato dubbi, sta nel garantire la qualità della pasta e, con essa, l' interesse del consumatore : è noto, infatti, che solo la pasta preparata con grano duro non si rivela collosa in cottura e giunge nelle scodelle così come gli italiani la preferiscono : "al dente" ( e pertanto - scriveva André Gide in Journal, 22 giugno 1942 - "glissant des deux côtés de la fourchette "). La seconda finalità è di ordine sociale . Il legislatore del 1967 volle incoraggiare la coltura del grano duro, che in certe zone del Mezzogiorno costituisce l' unica produzione possibile . In altre parole, obbligando i pastifici a servirsi solo di quel tipo di frumento si intese assicurare a chi lo coltiva un costante sbocco commerciale e, per ciò stesso, un reddito sicuro . A questo riguardo va segnalato che il grano duro è inutilizzabile per l' alimentazione animale e, salvo che per un' esigua produzione di cuscus, viene destinato unicamente all' industria della pasta .

5 . Così messi in luce gli aspetti principali e gli obiettivi della normativa italiana, ritengo utile esaminare l' impatto da essa avuto sul mercato europeo e, più in generale, l' andamento che negli ultimi anni ha caratterizzato la produzione e il commercio intracomunitari delle paste di grano duro . A tal fine, mi servirò dei documenti presentati dall' Unipi ( allegati, nn . 5, 10, 17 ) e dei volumi pubblicati annualmente dall' Istituto centrale di statistica italiano ( Istat ).

Tre ordini di dati mi sembrano particolarmente interessanti . Il primo si riferisce al solo 1985 . In tale anno : a ) la produzione comunitaria di pasta ( in genere ) ammontò a 2 316 OOO tonnellate di cui il 71% ( 1 650 OOO tonnellate ) fabbricate in Italia; b ) tra gli Stati membri che non possiedono leggi di purezza analoghe all' italiana, la Germania produsse 209 000 tonnellate, l' Olanda 32 000 tonnellate, il Belgio e il Lussemburgo 22 000 t; c ) gli stessi quattro paesi importarono dalla penisola rispettivamente 278 692, 37 441 e 75 758 quintali di pasta di grano duro . Il secondo gruppo di dati riguarda il periodo 1967-1987 : se nella sua prima metà, e cioè fino al 1976, le esportazioni annuali del nostro tipo di pasta dall' Italia verso il resto del mercato comune passarono da 102 182 a 684 808 quintali, nella seconda esse hanno raggiunto quota 1 680 686 . In altri termini, durante il primo ventennio di applicazione della legge n . 580, la quantità di pasta di semola che l' Italia ha esportato nella CEE è cresciuta del 1 645 %.

Consideriamo infine il quadro delle esportazioni in quintali di pasta dall' Italia verso i quattro Stati membri di cui ho detto negli anni 1981 e 1987 :

Paste Paste non conte - Paste non

contenenti nenti farina o nominate

uova semolino di gra -

no tenero

Voce della

Tariffa ( 1902/19.00 ) ( 1902/19.10 ) ( 1902/19.90 )

doganale

comune

Belgio-Lux 1981 7 650,66 78 308,61 4 361,80

1987 12 411,85 109 021,63 11 849,29

Paesi Bassi 1981 984,70 26 368,28 7 194,52

1987 9 361,28 43 440,32 40 110,54

RF 1981 210 408,60 236 001,89 28 833,09

di Germania

1987 179 435,28 372 712,28 30 623,37

Totale 1981 219 043,96 340 678,78 40 389,41

1987 201 208,41 525 174,23 82 583,20

Come si osserverà, mentre le esportazioni di pasta all' uovo ( per la cui produzione non è possibile sapere se sia stato utilizzato anche grano tenero ) registrano un regresso, dovuto soprattutto alla Germania, quelle di pasta di grano duro aumentano ovunque e in misura cospicua . Perché questo fenomeno? Tra le parti intervenute, le associazioni dei pastai italiani lo spiegano con la superiore qualità del nostro alimento; il governo dell' Aia risponde loro che, almeno entro certi limiti, la qualità è "una nozione soggettiva su cui possono esistere, e (( di fatto )) esistono, concezioni diverse" in ogni Stato membro . Le preferenze del consumatore "nordico", ad esempio, vanno notoriamente alla pasta prodotta con grano tenero .

Fondata com' è su un' esperienza millenaria - de gustibus non est disputandum - l' osservazione dell' Olanda coglie nel segno . Le cifre che ho riprodotto, tuttavia, dimostrano che i gusti ( anche a livello di massa e, in particolare, della massa dei consumatori olandesi ) possono cambiare . E insomma incontestabile che le paste di grano duro si stanno imponendo in tutta Europa; di ciò il legislatore comunitario ha preso atto, emanando norme che mettono in rilievo se non proprio la migliore qualità, certo la sostanziale diversità di dette paste rispetto a quelle di grano tenero . Alludo ai criteri che la Commissione ha stabilito per il pagamento dell' aiuto in favore del grano duro e per la fissazione del prezzo d' intervento rispetto all' altro tipo di grano .

Più precisamente, si dispone, da un lato, che, per fruire dell' aiuto comunitario, il durum deve "presentare caratteristiche qualitative e tecnologiche comprovanti che la pasta ottenuta dalla sua trasformazione (( ha )) carattere non colloso alla cottura " ( regolamento 19 merzo 1977, n . 2835/77, GU L 327, pag . 9 ), dall' altro, che l' intervento ha luogo solo se "la pasta ottenuta (( dal )) frumento (( tenero )) non è collosa nella lavorazione meccanica " ( regolamento 23 maggio 1986, n . 1580/86, GU L 139, pag . 34 ).

Si tratta, mi pare, di norme assai significative . Sul piano del grano duro, infatti, la concessione dell' aiuto è subordinata ad un requisito "gastronomico", che si collega direttamente alla scelta fatta dal consumatore : tra materia prima e carattere del prodotto finito viene così ad istituirsi un rapporto strettissimo, che permette di distinguere le paste di grano duro non solo dalle paste di grano tenero, ma anche dalle ibride o, perche no?, da quelle fatte con durum e ciò nonostante collose in cottura ( penso al frumento duro coltivato in zone, come quelle dell' Europa centrale, non favorevoli per ragioni climatiche allo sviluppo di tale cereale ). Al contrario, nel caso del grano tenero, il requisito della non-collosità attiene ad una fase industriale del prodotto e non ha dunque alcun rapporto col consumo umano .

6 . I riferimenti che ho appena fatto all' aiuto e al prezzo d' intervento per il frumento duro e tenero mi riportano al tema della politica comunitaria e alle norme sulla organizzazione comune dei mercati nel settore dei cereali . In sintesi, e tenuto conto di ciò che al riguardo già dicono le relazioni d' udienza, l' attuale situazione del grano duro nella Comunità può essere descritta come segue :

a ) L' approvvigionamento è autosufficiente da qualche anno e circa il 75% della produzione si concentra nell' Italia centro-meridionale .

b ) I quantitativi venduti all' intervento sono elevati ed in continuo aumento ( da 588 000 tonnellate nel 1985-1986 a 668 000 nel 1986-1987; ma per completezza ricordo che in quest' ultima annata le corrispondenti tonnellate di grano tenero furono 1 690 000 ).

c ) Benché l' offerta di grano duro sia eccedentaria, il cereale viene importato, e in misura crescente, da paesi terzi tra cui soprattutto gli Stati Uniti . Secondo la Commissione, responsabili di tale fenomeno sono, da un lato, gli Stati comunitari del centro-nord, dall' altro, i pastai italiani . I primi, che notoriamente non producono durum o ne producono assai poco, preferiscono rifornirsene sui mercati extraeuropei, i secondi lo acquistano non per mancanza di materia prima, ma unicamente per ragioni di qualità . Sembra infatti che, miscelato col grano duro europeo, il prodotto americano conferisca alle paste "certe caratteristiche di presentazione ( specialmente per quanto riguarda il colore ) richieste dai consumatori (...) (( e non ottenibili )) con l' aggiunta di additivi o coloranti vietati dalla legge" ( risposta della Commissione a una domanda della Corte, pag . 4 ).

A queste notizie - devo aggiungere - si accompagnano un rilievo e un' omissione che suscitano nuove perplessità sul modo in cui il nostro amicus curiae interpreta il proprio ruolo . La Commissione, infatti, mostra di temere che le importazioni dei pastai italiani mettano a repentaglio gli interessi degli agricoltori occupati nel settore, laddove è ovvio che, rispondendo a un bisogno "unicamente" estetico, la loro capacità di far concorrenza alla produzione comunitaria è inesistente . Al contrario, essa non spende una parola sui motivi che inducono i paesi nordici ad importare grano duro fuori d' Europa né ci spiega perché la Comunità non adotti misure atte a limitare o, quanto meno, a porre sotto controllo tali flussi commerciali .

d ) Le decisioni di ridurre progressivamente la forbice tra i prezzi d' intervento dei due tipi di grano e di rendere più rigidi i criteri per la concessione dell' aiuto al durum ( non collosità in cottura ) appaiono soprattutto dirette ad evitare "un' estensione delle superfici coltivate (( con grano duro verso )) il Nord (( della Comunità )) (...), a detrimento del grano tenero" ( osservazioni della Commissione in causa 407/85 ). Sappiamo però che il Consiglio ha anche disposto un aumento dell' aiuto; è evidente che, intervenendo in una situazione di mercato caratterizzata da un' abbondante offerta del relativo prodotto, tale misura fu imposta unicamente da ragioni di ordine sociale . Detto altrimenti, l' aiuto, che fu istituito per incentivare una produzione cronicamente in deficit, soddisfa oggi un' esigenza insieme eterogenea e prioritaria rispetto a tutti gli imperativi che governano l' azione della Comunità nel settore : garantire comunque agli agricoltori dell' Europa meridionale un adeguato livello di vita . Ciò implica tuttavia che, nonostante la formidabile crescita commerciale registrata negli ultimi vent' anni, l' industria della pasta alimentare non costituisce ancora per quegli agricoltori uno sbocco economico sufficientemente stabile e remunerativo .

Alla luce di questi dati, esaminiamo le conseguenze che, secondo la Commissione, un' eventuale revisione delle leggi nazionali di purezza avrebbe sul rapporto durum-pasta e sul bilancio della Comunità . L' istituzione ammette in primo luogo che il divieto di commercializzare paste contenenti grano tenero riveste una certa importanza sia per lo smercio della produzione di grano duro ( e dunque per i produttori ), sia e soprattutto per le spese gravanti sull' organizzazione comune dei cereali . Invero - essa afferma - "se la diminuzione del consumo di grano duro non avviene a scapito delle importazioni, la quota della produzione comunitaria non utilizzata dovrebbe essere esportata verso i paesi terzi (( o )) attraverso le scorte d' intervento (( o )) direttamente dal mercato . Bisogna però considerare che le possibilità di smercio sul mercato mondiale sono molto limitate . In caso di vendita su detto mercato, i relativi costi di bilancio calcolati in base ai costi d' intervento e d' esportazione per il bilancio 1985 possono essere stimati in circa 39 milioni di ecu (( se )) si ammettesse il 10% di grano tenero nella pasta e a circa 195 milioni di ecu nell' ipotesi di un' incorporazione di 50% di grano tenero" ( osservazioni ulteriormente citate, pag . 9 ).

Sono, mi sembra, cifre che allarmerebbero anche il ministro del tesoro del paese di Bengodi . Dimenticando i propositi di risanamento espressi nella relazione 1987 ( supra, n . 3 ), il nostro Esecutivo si affretta invece ad osservare che dal venir meno del divieto controverso i produttori di grano duro non hanno nulla da temere perché ad essi provvederà comunque l' organizzazione comune mediante l' aiuto e perché i suoi uffici hanno allo studio proposte legislative e misure strutturali nuove . E un fatto - si aggiunge tuttavia - che queste ultime non vedranno la luce in tempi brevi, onde sarà opportuno che, in attesa della loro emanazione, gli Stati interessati continuino ad esigere dai pastai nazionali il rispetto delle norme di purezza .

Ho già detto quale contraddizione si annidi in questo modo di ragionare . Aggiungo ora che esso rivela un' ingenuità sconcertante : pur consapevole dei guai che rischia di attirarsi, la Commissione invoca l' applicazione dell' articolo 30 e poi spera che qualche santo - un pronto consenso del Consiglio e la benevolenza degli Stati membri - intervenga a cavarle le castagne dal fuoco . Ma le cose del mondo vanno altrimenti . Quel che conta nei casi come il nostro non sono le buone intenzioni, sono le leggi del mercato e della concorrenza, soprattutto quando il prodotto che s' intende liberalizzare è di largo consumo quotidiano ed ha una composizione sulla cui effettiva natura l' acquirente può essere facilmente ingannato .

Cerchiamo, dunque, di non nascondere la testa nella sabbia . Se il commercio comunitario delle paste fosse liberalizzato, avremmo, da un lato, vistosi fenomeni di eccedenza e perciò spese molto più cospicue per i fondi comunitari, dall' altro, nelle regioni meridionali che producono la maggior parte del durum europeo, la scomparsa dell' unico sbocco commerciale su cui possono contare i coltivatori di tale frumento . Decisivo sarebbe quest' ultimo effetto : la politica comunitaria del grano duro, costruita e sviluppata dal Consiglio sulla base della stretta interdipendenza economica che qualifica il rapporto durum-pasta, ne resterebbe sconvolta come a seguito di un terremoto improvviso e devastante .

Ora, io non nego affatto che una decisione di tale portata - idonea, ripeto, a mettere sossopra il funzionamento di un settore agricolo-commerciale comune, un settore, per di più, che, negli anni della convivenza tra le leggi nazionali di purezza e le norme comunitarie, ha visto la CEE trasformarsi da importatrice in esportatrice netta di grano duro - sia giustificabile a stregua di valori più alti . Dico però che essa non può, come vorrebbe la Commissione, venir solo "seguita" o "accompagnata" da disposizioni di adattamento o di sostegno . Una decisione del genere va preceduta da - o inquadrata in - una riforma legislativa di grande respiro che contemperi tutti gli interessi presenti nel mercato del grano . Vedremo più avanti in quali modi e con quali contenuti .

7 . Della politica e della normativa comunitaria in tema di grano duro fa parte anche il recente accordo concluso tra CEE e Stati Uniti sulle esportazioni comunitarie di pasta verso tale paese . La vicenda ebbe inizio nel 1985 . Per motivi che è superfluo indagare in questa sede, gli americani decisero, in violazione degli impegni assunti nell' ambito del Gatt, di applicare dazi aggiuntivi all' importazione di paste europee, e, "considerando che dette misure danneggiano (( notevolmente )) i produttori comunitari interessati" ( cioè i coltivatori di grano duro e i pastifici ), il Consiglio reagì aumentando i dazi sulle esportazioni americane di agrumi e di noci ( regolamento 27 giugno 1985, n . 3068/85, GU L 292, pag . 1 ). I negoziati durarono più d' un anno e furono molto difficili . Finalmente, nell' intento di por termine a un conflitto dannoso per tutti e allo scopo di "evitare una nuova vertenza (...) in un momento particolarmente critico per il commercio mondiale", le parti stipularono l' intesa del 15 settembre 1987 ( GU L 275 del 29 settembre 1987, pag . 38 ).

In sintesi, l' accordo prevede che la Comunità esporti verso gli Stati Uniti il 50% della pasta nel quadro del cosiddetto regime di "perfezionamento attivo" ( regolamento 16 luglio 1985, n . 1999/85, GU L 188, pag . 1 ) e senza pagare restituzioni; in compenso, un quantitativo proporzionale di grano duro americano è ammesso in Europa esente da dazi . Il residuo 50% viene esportato oltre Atlantico con una restituzione ridotta di una percentuale ( il 27,5 ) che le parti s' impegnano a riesaminare in funzione dei risultati ottenuti dalle clausole sul perfezionamento attivo ( articoli da 1 a 5 ). Infine, "qualora una delle parti prenda misure tali da pregiudicare gli effetti o il funzionamento dell' intesa o non adotti le disposizioni necessarie alla sua (( corretta )) esecuzione, l' altra parte avrà il diritto di denunziare l' intesa stessa" ( articolo 11 ).

Ora, io non posso sapere se nella liberalizzazione indiscriminata del commercio comunitario della pasta i nostri partners americani vedrebbero una misura atta a "pregiudicare gli effetti o il funzionamento" dell' accordo . Il senso comune, tuttavia, m' induce a ritenere che, costretti ad affrontare nei rispettivi paesi la concorrenza di paste contenenti grano tenero e circolanti alle sole condizioni previste dalla direttiva sull' etichettatura, i produttori europei di pasta di grano duro non resterebbero fermi; né mi sembra irragionevole supporre che la loro prima reazione consisterebbe nel ridurre i costi di produzione eliminando o diminuendo l' impiego del durum americano, cioè di un ingrediente il cui unico scopo è dare alla pasta un certo colore . D' altra parte, essi non cesserebbero certo di esportare verso gli Stati Uniti; a questo punto, modificatisi i termini del sinallagma che è al centro dell' intesa, la Comunità si vedrebbe probabilmente contestare l' inosservanza dei suoi impegni internazionali .

Un ultimo e, come ho detto sub n . 3 , non trascurabile rilievo . Nel 1986 e nel 1987 le esportazioni comunitarie di pasta verso gli Stati Uniti ammontarono rispettivamente a 534 680 e a 602 770 quintali; di essi 526 992 e 600 021 erano made in Italy .

8 . Ho appena citato la direttiva 79/112 del Consiglio, del 18 dicembre 1978, riguardante il ravvicinamento delle legislazioni nazionali sull' etichettatura dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale ( GU L 33, pag . 1 ), e mi propongo ora di esaminarne alcuni aspetti . Dico subito che il tema è di grande importanza . Le regole con cui la fonte garantisce agli acquirenti la possibilità di conoscere la natura e la composizione dei detti prodotti si sono infatti dimostrate determinanti sotto un duplice profilo : da un lato, è a loro stregua che la Corte ha risolto tutti i casi recenti di compatibilità comunitaria delle leggi nazionali sulla denominazione degli alimenti che ostacolavano la circolazione di prodotti analoghi e legalmente smerciati in altri Stati membri; d' altro lato, quelle regole hanno consentito alla Commissione di affermare che, essendone i consumatori protetti a sufficienza, un' armonizzazione delle normative interne in materia di composizione e di fabbricazione degli alimenti non è più necessaria, salvo che per motivi di tutela della salute . Superflua, in particolare, sarebbe una nuova disciplina relativa alle paste, se è vero che la nostra direttiva impone già d' informare il consumatore sulla natura delle materie prime usate per la fabbricazione del prodotto elencandole nell' etichetta ( Comunicazione al Consiglio del 19 marzo 1979, COM(79)128 def .).

Ebbene, quest' ultima veduta non mi persuade . Ricordo che, nelle intenzioni del legislatore, l' atto in esame mira solo a porre "le norme comunitarie di carattere generale ed orizzontale applicabili a tutti i prodotti alimentari in commercio"; al contrario, "le norme di carattere specifico e verticale riguardanti (...) determinati prodotti alimentari (( dovranno )) essere stabilite nell' ambito delle disposizioni che disciplinano tali prodotti" ( considerando nn . 3 e 4 ). In relazione all' obiettivo così precisato, la regola generale comune è che "l' etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono essere tali da indurre in errore l' acquirente, specialmente (...) per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare e in particolare la natura, l' identità, le qualità, la composizione (...) (( e )) il modo di fabbricazione" ( articolo 2 ). Gli stessi limiti, inoltre, valgono "per la presentazione dei prodotti alimentari, in particolare la forma o l' aspetto conferito agli stessi o al rispettivo imballaggio, il materiale utilizzato per l' imballaggio, il modo in cui sono disposti e l' ambiente nel quale sono esposti" ( miei corsivi ).

Tra le indicazioni che l' etichetta deve contenere, figurano anzitutto la denominazione di vendita e l' elenco degli ingredienti ( articolo 3 ). La denominazione di un prodotto alimentare è quella "prevista dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative ad esso applicabili (...) o una descrizione di esso (...), sufficientemente precisa per consentire all' acquirente di conoscerne la natura effettiva e di distinguerlo dai prodotti con i quali potrebbe essere confuso" ( articolo 5, paragrafo 1 ). Dal canto loro, gli ingredienti vanno enumerati uno per uno "in ordine di peso decrescente al momento della loro utilizzazione" (( articolo 6, paragrafo 5, lett . a ) )). Quest' obbligo - si precisa tuttavia al paragrafo 2, lett . c ) - non sussiste ove il prodotto sia costituito "da un solo ingrediente ".

Ecco un primo dato che depone contro la tesi proposta dall' Esecutivo nella Comunicazione del 1979 . Il paragrafo 2, infatti, è applicabile a ogni sorta di spaghetti, siano preparati con grano duro, con grano tenero o con soia; e, se le cose stanno così, almeno per quanto riguarda certi tipi di paste, la direttiva è ben lungi dal tutelare il consumatore . Tutto all' opposto, essa rischia di lasciarlo nell' incertezza o addirittura di esporlo a frodi sulla natura e sull' identità del prodotto . Si pensi, per esempio, al signor van Dijk che, come ci ha spiegato il governo dell' Aia, predilige la pasta fatta con grano tenero : una confezione di pasta italiana prodotta con solo grano duro e recante sul lato principale dell' imballaggio la denominazione di vendita "spaghetti" o "vermicelli", senz' altre indicazioni, sarebbe conforme alla disciplina comunitaria, ma, a meno che van Dijk sia un esperto, tradirebbe le sue aspettative .

E forse questa la ragione per cui il paragrafo 6 dello stesso articolo 6 prescrive che "le disposizioni comunitarie e, in loro mancanza, (( quelle )) nazionali possono prevedere (( relativamente a )) taluni prodotti alimentari che la denominazione di vendita sia accompagnata dall' indicazione di uno o più ingredienti determinati" ( mio corsivo ). Resta il fatto, tuttavia, che una facoltà (" possono ") non è un obbligo; e invece è di obblighi - dunque di una specifica e rigida normativa comunitaria sulle denominazioni - che il nostro settore ha bisogno se si vuole che prodotti simili e insieme differenti come sono le paste di grano duro e di grano tenero circolino liberamente nel mercato comune senza vulnerare gli interessi dei consumatori o altre esigenze imperative di carattere interno e internazionale . Del resto, in settori diversi e a cospetto di problemi analoghi una normativa del genere è stata già emanata . Penso, in particolare, a un prodotto europeo noto quanto gli spaghetti italiani : lo champagne francese .

9 . In materia di champagne esiste infatti un atto comunitario - il regolamento del Consiglio 18 novembre 1985, n . 3309/85 ( GU L 320, pag . 9 ) - che permette al consumatore di non confondere questo vino con gli spumanti prodotti applicando lo stesso metodo, ma in zone della Comunità diverse dall' omonima regione di Francia . Gli esperti compresero che, per quanto riguarda le designazioni di tali bevande, bisognava distinguere "tra le indicazioni obbligatorie necessarie per l' identificazione di un vino spumante (...) e le indicazioni facoltative, intese piuttosto (...) a individuarlo sufficientemente rispetto agli altri prodotti della stessa categoria che entrano in concorrenza sul mercato" ( considerando n . 3 ); e a detto fine i produttori che non operano in Champagne si videro imporre un divieto di riferirsi direttamente o indirettamente alla tecnica di elaborazione nota come "méthode champenoise", sebbene tale dicitura venga usata da tempo e sia persino disciplinata in alcuni Stati membri ( Italia, Repubblica federale ). Aggiungo che, proprio per quest' ultima ragione, il divieto fu reso operativo con decorrenza dal 1994 e cioè a seguito di un periodo corrispondente ad "otto campagne vinicole" ( articolo 6, n . 5, 3° comma ).

Circa un mese dopo l' emanazione del regolamento, la norma che ho appena citato venne impugnata in quanto "discriminatoria" da un' impresa tedesca di spumanti ( causa 26/86, Deutz / Consiglio, decisa con pronuncia 24 febbraio 1987, Racc . 1987, pag . 941 ); e la Commissione, intervenuta in giudizio a fianco del Consiglio, cercò di difenderla affermando che "il aurait été difficile de s' accorder pour laisser un grand nombre de producteurs de vin mousseux de la Communauté utiliser (( la mention )) 'méthode champenoise' (...) Ainsi, même si (...) l' utilisation de (( cette )) expression (...) n' avait juridiquement pas présenté d' inconvénients jusqu' à présent, des raisons d' intérêt général suffisantes militent en faveur de l' entrée en vigueur de l' interdiction à partir de 1994" ( memoria d' intervento, pag . 9, mio corsivo ).

Si tratta di espressioni ambigue nella misura in cui non lasciano comprendere se ai "motivi d' interesse generale" si alluda per giustificare il divieto di far riferimento alla "méthode champenoise" o per spiegare il rinvio della sua efficacia al termine di un lungo periodo transitorio . Dirò io, allora, che tale dilazione rispose alla duplice esigenza di consentire lo smercio degli spumanti già etichettati con le indicazioni messe al bando e di abituare gli acquirenti alle nuove designazioni . Quanto al divieto, poi, le ragioni che ne consigliarono l' imposizione furono tre : impedire, come ho già detto, che i consumatori siano tratti in inganno, proteggere i vignaioli dello Champagne e - vedasi il considerando n . 9 - assicurare il rispetto delle "obbligazioni internazionali della Comunità e degli Stati membri in materia di protezione delle denominazioni d' origine o di indicazioni di provenienza geografica dei vini ".

Purtroppo, in causa 26/86 il Consiglio e la Commissione non precisarono il contenuto di tali "obbligazioni", né io sono riuscito a trovarne traccia nella legislazione vigente . Ma ai nostri fini quel contenuto non interessa; interessa invece che la Comunità invochi i suoi impegni internazionali per andar oltre le generiche regole di una direttiva "orizzontale", com' è l' atto del 18 dicembre 1979, ed emanare una disciplina fondata su una specifica e molto incisiva proibizione . Sappiamo infatti che obblighi simili esistono anche nel nostro settore; se è vero che essi non riguardano almeno direttamente la designazione delle paste, non meno vero è che la loro presenza e i motivi per cui furono assunti dovrebbero indurre il legislatore di Bruxelles a compiere, mutatis mutandis, un analogo salto di qualità .

Il perché è evidente . Ho già detto che, essendo capace di modificare in notevole misura l' attuale rapporto di concorrenza tra paste di grano duro e paste di grano tenero, un' eventuale abrogazione delle leggi di purezza potrebbe avere effetti negativi sugli scambi comunitari ( in concreto, italiani ) da e verso gli Stati Uniti, con l' ulteriore conseguenza di far saltare - o quanto meno, avrebbe detto Foster Dulles, di esporre ad un "agonizing reappraisal" - un accordo che la CEE ha imposto agli americani per difendere i produttori di grano duro e di pasta . Ebbene, come evitare una simile iattura se non disciplinando l' intero settore delle paste, dalla materia prima al prodotto finito, mediante regole che contemperino la tutela degli operatori interessati e dei consumatori con la libertà di circolazione delle merci?

Si obietterà che un' analogia tra paste e spumanti o tra le relative problematiche in fatto di designazione non è proponibile . "Méthode champenoise", sostenne la Commissione in causa 26/86, è una denominazione di provenienza geografica, mentre "spaghetti" non lo è . Di più : "spaghetti", essa ha spiegato intervenendo in causa Zoni, è una parola di uso corrente nella lingua tedesca e quindi non evoca l' idea di un prodotto di origine italiana . E facile replicare : a ) che, ai sensi del regolamento n . 3309/85, "méthode champenoise" non è una denominazione d' origine, ma una "dicitura relativa a un metodo di elaborazione" degli spumanti; b ) che "spaghetti", parola italianissima, è stata fatta propria dal lessico tedesco e da quello di ogn' altra lingua comunitaria semplicemente perché, come "champagne", esprime una realtà intraducibile . D' altra parte, sono convinto che, leggendola su una qualunque confezione di pasta, i signori Schmidt e van Dijk non la associno all' immagine di una Bierstube o di un mulino a vento, ma piuttosto al chiasso di una trattoria romana o al suono di una chitarra col Vesuvio sullo sfondo .

Non intendo comunque dilungarmi su una questione opinabile e di poco momento . Per concludere sul punto, mi preme invece sottolineare due circostanze : a ) rispetto alla designazione dei vini spumanti il Consiglio si sostituì agli Stati membri decidendo, anche in considerazione degli obblighi internazionali contratti dalla CEE, di chiudere definitivamente il mercato comune agli spumanti prodotti con la "méthode champenoise" e pertanto d' interdire l' uso di tale dicitura ai numerosi fabbricanti comunitari che tradizionalmente vi ricorrono; b ) nel prendere tale decisione, esso ritenne indispensabile concedere ai legislatori nazionali un lungo lasso di tempo per modificare le loro norme in materia .

Ora, nel caso in esame la Commissione si propone di ottenere subito il risultato opposto . Più precisamente, essa vuole liberalizzare due attività economiche ( la produzione e il commercio della pasta ) condizionate da norme nazionali di purezza che la Comunità accetta da vent' anni e, quel che più conta, pretende di farlo senza adottare le contromisure necessarie : a ) a proteggere i consumatori, i coltivatori di grano duro e i pastifici che impiegano solo tale genere di cereale; b ) a evitare che le risorse finanziarie della Comunità siano dissanguate dai contraccolpi della riforma; c ) a garantire l' esecuzione degli impegni che la Comunità ha assunto nei confronti degli Stati Uniti . Quali che ne siano i motivi, è difficile immaginare una linea più di questa lontana dalla politica che fu seguita nella vicenda degli spumanti .

10 . Prima di raccogliere le fila del discorso che ho svolto fin qui, resta da affrontare un argomento strettamente connesso con quello di cui si è appena trattato : i contenuti e la sorte della proposta di direttiva in materia di paste alimentari che la Commissione presentò il 7 novembre 1968 ( GU C 136, pag . 16 ).

Alla base dell' iniziativa, ricordo, vi fu una sola e ben precisa ragione : le differenze tra le leggi nazionali in tema di composizione, denominazione, etichettatura ed imballaggio delle paste che - affermò l' Esecutivo nel considerando n . 2 - "ostacolano la libera circolazione (( di detti prodotti, in quanto )) creano (( sul mercato )) condizioni di concorrenza diseguali ". Era dunque necessario armonizzarle; e a questo scopo furono fissati due criteri - "la natura e la qualità dei semolini" e "la scelta di denominazioni distinte in funzione della composizione delle paste" - sulla cui scorta la Commissione propose di garantire libertà di movimento alle sole paste prodotte con grano duro riservando loro cinque diciture (" paste alimentari di qualità superiore", "paste alimentari", ecc .). Le altre paste, per contro, potevano essere prodotte e messe in commercio, ma solo all' interno degli Stati membri interessati .

Come ho messo in rilievo sub n . 3, la proposta fu approvata dal Comitato economico e sociale - che peraltro suggerì alla Commissione di istituire un regime transitorio comprendente "norme di denominazione ed etichettatura tali da assicurare la corretta informazione del consumatore" - e venne respinta dal Parlamento . L' Assemblea giustificò la sua decisione osservando che il progetto non teneva conto né di un dato essenziale com' è la tutela degli acquirenti, né dei gusti delle popolazioni che consumano paste ottenute con solo grano tenero; e la sua commissione giuridica rincarò la dose affermando che dal testo sottopostole non risultava chiaramente se, oltre alle cinque di cui ho detto, fossero tutelate "le denominazioni di uso corrente nel commercio come spaghetti, maccheroni, paste da minestra, ecc .". All' Esecutivo essa raccomandò pertanto di chiarire tale punto "ed eventualmente di modificare la (( sua )) formulazione ".

A questa bocciatura e a quella conseguente del Consiglio ( novembre 1970 ) seguirono nove anni di silenzio, da cui la Commissione uscì ( marzo 1979 ) per ritirare la proposta, constatando "che era improbabile poter giungere a una soluzione, (( specie )) per quanto (( riguarda )) la scelta delle materie prime" ( osservazioni in causa 407/85, pag . 6 ). Nella sua comunicazione, l' istituzione precisò inoltre che "il settore delle paste è (( comunque )) disciplinato dalle nuove norme relative all' etichettatura delle derrate alimentari in generale . In base ad esse, le paste (...) destinate al consumatore finale dovranno (...) recare un elenco degli ingredienti che consentirà all' acquirente di conoscere il tipo di materie prime utilizzate ". Ora, tale argomento ci è noto ed io ne ho già posto in evidenza la fragilità . Qui, tuttavia, giova aggiungere che, nell' avanzarlo, l' Esecutivo dimenticò non solo l' articolo 6, paragrafo 2, della direttiva 79/112 ( per cui - si ricorderà - l' indicazione degli ingredienti non è obbligatoria quando i prodotti sono "costituiti da un (( unico )) ingrediente "), ma anche la critica mossale dalla commissione giuridica del Parlamento rispetto alle "denominazioni d' uso corrente delle paste" e addirittura il testo del suo vecchio progetto .

Si legga, infatti, l' articolo 5 di quest' ultimo . Gli Stati membri - recita il paragrafo 1 - "prendono tutte le disposizioni del caso affinché i prodotti elencati in allegato possano essere commercializzati solo se sul relativo imballaggio figurano le seguenti indicazioni, ben visibili, chiaramente leggibili ed indelebili : a ) la denominazione riservata ai prodotti in questione (( così "paste alimentari di qualità superiore", fatte ovviamente di solo grano duro )), seguita o meno dall' indicazione del formato (( per esempio, spaghetti o vermicelli )), ad esclusione di qualsiasi altra, in caratteri di dimensioni per lo meno uguali alle altre indicazioni ". I medesimi Stati - continua il paragrafo 2 - "possono vietare il commercio dei prodotti elencati in allegato qualora le indicazioni obbligatorie previste al paragrafo 1, lettera a ), non figurino nelle rispettive lingue nazionali su uno dei lati principali dell' imballaggio" ( miei corsivi ).

Come si vede, la Commissione del '68 aveva capito, almeno in nuce, che il commercio intracomunitario delle paste comporta un' esigenza irrinunciabile : sulle confezioni la denominazione generica "pasta di qualità superiore" ( che indica la materia prima, il grano duro ) e quella specifica "spaghetti" o "vermicelli" ( che si riferisce al formato della pasta ) devono figurare contestualmente . Ancora . Essa aveva preteso che tali indicazioni obbligatorie fossero apposte sulla banda più appariscente dell' imballaggio, abilitando le autorità nazionali a vietare l' ingresso di prodotti rispondenti ai requisiti comunitari in tema di composizione, ma non presentati nel modo anzidetto . Tutto questo, al contrario, non è stato compreso o è stato scordato dalla Commissione dell' 87 . Eppure - ce ne renderemo conto tra poco - il punto è cruciale e su di esso, più che su di ogn' altro, dovrà far perno la vostra risposta ai due giudici del rinvio .

11 . Una premessa all' esame del merito . Le domande sottopostevi traggono origine dal fatto che a Bolzano e Milano le autorità di vigilanza trovarono nel negozio della signora Kritzinger e presso il signor Zoni paste importate dalla Repubblica federale di Germania, ma prodotte con una miscela di grano tenero e di durum e perciò non smerciabili in Italia a stregua della legge n . 580 . Dai fascicoli delle due cause risulta che la pasta della "Drei Glocken" ( causa 407/85 ) è contenuta in sacchetti di materiale trasparente e incolore . Sul lato anteriore figura una scritta bilingue che dice "Nudelmeister' s Nudeln aus Weichweizen + Hartweizen / Pasta di grano tenero + grano duro"; sono indicati inoltre il peso netto, il tempo di cottura, il nome e la sede del produttore . Sul retro è riportato l' elenco degli ingredienti . Secondo le ricorrenti nella causa principale, questa presentazione soddisfa le regole della direttiva 79/112 .

L' etichetta esaminata dal pretore di Milano ( causa 90/86 ) è invece redatta solo in tedesco e vi si possono leggere le parole "Attraktiv und Preiswert . Frischei-Teigwaren . Spaghetti mit hohem Eigehalt" ( Interessante e conveniente . Pasta alimentare alle uova fresche . Spaghetti ad elevato contenuto di uova ). La Commissione ritiene che tale confezione non sia conforme alla direttiva 79/112 : la lingua in cui è scritta l' etichetta, infatti, non viene "facilmente compresa dagli acquirenti di Milano" e "l' elenco degli ingredienti, che si limita a 'sfarinati e uova fresche' , potrebbe essere considerato insufficiente a informare il consumatore sulla natura del prodotto in un paese in cui la pasta alimentare secca è fabbricata esclusivamente con grano duro ". Non è dato sapere, tuttavia, se la dicitura "pasta con uova fresche" - e sottolineo "fresche" - si adegui alle norme tedesche sulla denominazione delle paste alimentari .

12 . Siamo così giunti al merito . Dico subito che Gertraud Kritzinger, la Drei Glocken, Giorgio Zoni, il governo olandese e la Commissione vi propongono di rispondere come segue ai quesiti dei due pretori : in forza dell' articolo 30 trattato CEE uno Stato membro non può imporre l' obbligo di usare solo grano duro nella preparazione delle paste alimentari secche destinate ad essere messe in commercio all' interno di detto Stato e ciò anche se tale obbligo è introdotto all' unico fine di tutelare la superiore qualità delle paste di grano duro, non comporta discriminazioni e non persegue scopi protezionistici . In senso contrario si esprimono la provincia autonoma di Bolzano, le parti civili costituitesi davanti al pretore di Milano, i governi italiano, francese ed ellenico . A loro avviso, le esigenze di tutela dei consumatori e di lealtà dei negozi commerciali inducono ad escludere l' incompatibilità dell' obbligo anzidetto con l' articolo 30 .

Io credo che entrambe le conclusioni si urtino contro ostacoli insuperabili . La prima si fonda sul convincimento che l' esigenza di tutela del consumatore è già soddisfatta dalle norme della direttiva 79/112 : all' acquirente italiano, invero, esse fornirebbero tutti i ragguagli che gli sono necessari, senza intralciare, come fa invece la legge n . 580, la circolazione delle paste legalmente prodotte in altri Stati con ricette diverse da quella prescritta in Italia . Ma è fondato quest' assunto?

Il nocciolo del problema - sappiamo - sta nell' accertare quali siano le denominazioni di cui il consumatore ha bisogno per riconoscere facilmente l' identità e la natura delle paste reperibili sul mercato; e in tale prospettiva non è inutile ricordare la sentenza 10 dicembre 1980, causa 27/80, Fietje, Racc . 1980, pag . 3839 : "Ove - essa afferma - una normativa nazionale concernente un determinato prodotto stabilisca l' obbligo di usare una denominazione sufficientemente precisa per consentire all' acquirente di conoscere la natura del prodotto e di distinguerlo dai prodotti coi quali potrebbe (( venire )) confuso, può (...) essere necessario, (( per )) fornire ai consumatori una tutela efficace, estendere quest' obbligo (...) ai prodotti importati, anche se ciò (( implichi )) la modifica delle etichette originarie di taluni di (( essi )) (...). Tuttavia, la necessità di (...) siffatta tutela non esiste più qualora le indicazioni figuranti sull' etichetta originaria del prodotto importato abbiano un contenuto informativo quanto alla (( sua )) natura (...), che comprenda almeno le stesse informazioni fornite dalla denominazione prescritta dalla normativa dello Stato importatore e sia altrettanto comprensibile (( ai )) consumatori di questo Stato" ( mio corsivo ).

Ora, proprio qui è il punto . Per esprimerci con le parole testé citate, la difficoltà del caso in esame sta nell' accertare quel che gli avversari della legge n . 580 danno per scontato : se cioè la direttiva 79/112 garantisca effettivamente al consumatore italiano e comunitario un "contenuto informativo" quanto alla natura e all' identità del prodotto che gli permetta di fare, rispetto a paste di composizione diversa, una scelta del tutto consapevole . Come emerge dai risultati a cui siamo giunti sub n . 8, e come meglio vedremo più avanti, la risposta non può essere che negativa .

Ai sostenitori delle norme italiane va poi imputato un errore ancora più grave : essere partiti dal presupposto che le paste di grano duro siano di qualità superiore e debbano pertanto essere tutelate anche sul piano comunitario col solo mezzo adeguato allo scopo, e cioè vietando l' uso di cereali diversi . Certo, sotto il profilo sociale ed economico, i livelli a cui è giunto il commercio mondiale delle paste di grano duro conferiscono alla tesi in esame un incontestabile colore di verità . Ma il giudice lavora sulle norme; e, ai suoi occhi, fin quando il diritto comunitario non avrà sancito la superiorità di tali paste, anche le altre godranno del diritto di cittadinanza e di circolazione .

Se questi rilievi sono esatti, esporre gli argomenti avanzati per dimostrare la compatibilità comunitaria della legge n . 580 mi sembra superfluo . La sentenza sulla birra tedesca li ha infatti resi obsoleti o, meglio, li ha obliterati tutti meno uno : quello che salva la detta legge configurandola come essenziale alla politica comune del grano duro . Il divieto di usare altri cereali - si dice - risponde a una perentoria esigenza di carattere comunitario; la sua abrogazione polverizzerebbe tutti i progressi che la Comunità ha compiuto nell' ultimo ventennio sia rispetto alla produzione del durum, sia a favore degli agricoltori che lo coltivano . Sul piano finanziario, poi, l' eclisse di un sicuro sbocco commerciale per il nostro tipo di frumento comporterebbe un forte accumulo di eccedenze i cui costi di riassorbimento inciderebbero pesantemente sulle risorse della Comunità .

Sono, come abbiamo visto, considerazioni sacrosante e per di più condivise dagli esperti della Commissione; è da escludere, tuttavia, che esse bastino a rendere l' obbligo di purezza compatibile col principio dell' articolo 30 . A proposito delle eccedenze, in particolare, può ricordarsi quel che la Corte affermò rispondendo a un analogo mezzo sollevato dal governo francese in materia di succedanei del latte : "(...) les produits laitiers sont soumis à une organisation commune de marché, destinée à stabiliser le marché laitier notamment par le recours à des mesures d' intervention . Il ressort d' une jurisprudence constante (...) que, dès lors que la Communauté a établi une (( telle )) organisation (...) dans un secteur déterminé, les Etats membres sont tenus de s' abstenir de toute mesure unilatérale qui rentre de ce chef dans la compétence de la Communauté . Il incombe donc à la Communauté et non à un Etat membre de rechercher une solution à ce problème dans le cadre de la politique agricole commune" ( sentenza 23 febbraio 1988, in causa 216/84, Commissione / Francia, Racc . 1988, pag . 793, punto 18, il corsivo è mio ).

Insufficiente allo scopo per cui fu addotto, l' argomento che fa leva sulla superiorità delle paste preparate con durum può tuttavia servire ad un altro fine; può mettere cioè in evidenza che, se intende davvero liberalizzare il commercio delle paste, la Comunità deve porre le condizioni giuridiche di un regime atto a proteggere la designazione e la presentazione di tali prodotti . Solo a stregua di simili norme, infatti, i consumatori comunitari potranno continuare a preferire le paste di grano duro; tutti i consumatori, e quindi anche quelli del Nord che, pur avendo dimostrato di orientarsi in misura sempre più alta verso di esse, sono per ovvie ragioni i meno attrezzati a riconoscerle .

13 . Ho detto or ora della pronuncia sulla birra; da essa, non foss' altro perché costituisce una sintesi magistrale della vostra giurisprudenza in questa materia, intendo avviare il discorso che mi condurrà a suggerirvi come rispondere ai quesiti dei giudici a quibus . Il governo tedesco - si ricorderà - aveva sostenuto che l' obbligo di purezza imposto dall' articolo 10 del Biersteuergesetz è indispensabile alla tutela del consumatore nazionale perché, nella mente di costui, la denominazione "Bier" è indissociabile dall' immagine di una bevanda prodotta coi soli ingredienti prescritti dalla legge; la Corte gli replicò con parole che vale la pena riprodurre per intero .

"Innanzitutto - essa osservò - le idee dei consumatori, che possono variare da uno Stato all' altro, possono del pari mutare nel tempo (( all' interno )) dello stesso Stato membro . L' istituzione del mercato comune costituisce del resto uno dei fattori essenziali (( di )) (...) tale cambiamento . Mentre la normativa che difende i consumatori dalle frodi permette di tener conto di questi mutamenti, una disciplina del tipo (...) del Biersteuergesetz impedisce che ciò avvenga . Come la Corte ha già avuto occasione di sottolineare (...), la legislazione di uno Stato membro non deve servire 'a cristallizzare determinate abitudini di consumo allo scopo di rendere stabili i vantaggi acquisiti dalle industrie nazionali che si dedicano al loro soddisfacimento' .

In secondo luogo, negli altri Stati membri (...) le denominazioni corrispondenti a quella tedesca "Bier" ( birra ) indicano genericamente una bevanda fermentata prodotta con malto d' orzo, da solo o unitamente a riso o granoturco . Altrettanto accade nel diritto comunitario, come si desume dalla voce 22.03 della tariffa doganale comune (...)

La denominazione tedesca "Bier" (...) e le denominazioni corrispondenti nelle lingue degli altri Stati membri (...) non possono pertanto essere riservate alle birre prodotte secondo le norme in vigore nella Repubblica federale di Germania .

E certamente legittimo (...) voler dare ai consumatori che attribuiscono proprietà particolari alle birre fabbricate con determinate materie prime la possibilità di effettuare la loro scelta in considerazione di tale elemento . Tuttavia, come (( la Corte ha )) già sottolineato (...), tale possibilità può essere garantita con mezzi che non ostacolino l' importazione di merci legalmente prodotte e smerciate in altri Stati membri, e in particolare 'con l' obbligo di apporre un' etichetta appropriata, che specifichi le caratteristiche del prodotto venduto' . Indicando le materie prime usate nella produzione della birra, detto procedimento 'permetterebbe al consumatore di operare la propria scelta in piena cognizione di causa e garantirebbe la trasparenza delle operazioni commerciali e delle offerte al pubblico' .

(( A differenza di )) quanto (( sostiene il )) governo tedesco, (( tale )) sistema d' informazione è in grado di funzionare perfettamente anche per un prodotto che, come la birra, non viene (( sempre )) offerto ai consumatori in bottiglie o in lattine su cui possono (( esser )) apposte le opportune indicazioni . Ne costituisce (...) conferma la stessa normativa tedesca (( che )) (...) stabilisce un sistema d' informazione del consumatore per talune birre, anche se servite alla spina . Le necessarie informazioni devono in tal caso figurare sui fusti o sui sifoni" ( punti da 32 a 36, il corsivo è mio ).

Due mi sembrano in questo passaggio gli elementi che meritano di esser posti in rilievo . Per la Corte, anzitutto, la denominazione tedesca "Bier" e le diciture corrispondenti nelle altre lingue comunitarie sono generiche e non possono quindi riservarsi a un dato tipo di birra . Inoltre, prima di render libero il mercato tedesco della birra, i giudici hanno voluto verificare fin nei dettagli se le informazioni fornite al consumatore fossero effettivamente adeguate . Ebbene, può dirsi che le stesse conclusioni - che "pasta", cioè, costituisce una denominazione generica e che l' acquirente è efficacemente protetto - si applicano al caso di specie? La Commissione ritiene di sì; perché i consumatori non siano tratti in inganno - l' abbiamo sentita affermare - è sufficiente che il prodotto porti indicati sull' imballaggio la propria identità "pasta" e gli ingredienti con cui è preparato ( grano duro, grano tenero o altri ). Io, invece, dico di no . Dico, cioè, che tutto questo è senza dubbio conforme alla direttiva 79/112, ma non è ancora sufficiente a tutelare il consumatore .

Vediamo perché . Occorre in primo luogo ripetere che la pasta di grano duro e le paste con grano tenero sono prodotti diversi . Lo sono, con ogni evidenza, sul piano naturale, ma lo sono anche commercialmente se è vero che : a ) la tariffa doganale comune le classifica in sottovoci distinte; b ) nell' ambito del rapporto materia prima - prodotto finito, l' una è la base del criterio ( non collosità in cottura ) a cui stregua è concesso un aiuto e le altre rappresentano il fondamento del requisito ( non collosità alla lavorazione meccanica ) posto per la fissazione di un prezzo d' intervento; c ) nei rapporti commerciali tra CEE e Stati Uniti oggetto di tutela è solo la pasta di grano duro .

Ciò premesso, torniamo, riassumendole in tre punti, alle linee maestre del sistema italiano : a ) "pasta di semola di grano duro" è una denominazione obbligatoria, riservata agli alimenti prodotti con detto cereale e generica; essa deve inoltre figurare sull' imballaggio qualunque siano le forme della pasta contenutavi; b ) l' etichettatura così prescritta garantisce la necessaria chiarezza sull' identità ( pasta ) e sulla natura ( semola di grano duro ) del prodotto, ma lascia liberi i fabbricanti di indicare coi nomi più vari ( spaghetti, vermicelli ecc .) il formato della pasta che mettono in commercio; c ) di questa libertà i pastai godono per il timore delle confusioni a cui avrebbe dato luogo l' obbligo di specificare rispetto ad ogni formato gli ingredienti usati nel prepararlo ( ad esempio, Spaghetti di semola di grano duro, Spaghetti all' uovo, Spaghetti di semola di grano duro con spinaci ecc .). "Spaghetti", "vermicelli" ecc . sono dunque menzioni specifiche e distinte dalla menzione "pasta di semola di grano duro", che indicano la forma della pasta e non alludono in alcun modo alla sua natura .

Orbene, questa netta separazione tra la denominazione "pasta" e le diciture dei suoi cento o mille formati esiste, per quanto io sappia, solo in Italia . Nel resto del mondo, se "pasta" rimane una denominazione generica, "spaghetti" non è più una denominazione specifica; al contrario, come rileva il governo olandese ( osservazioni in causa Zoni, pag . 5 ), tale parola - e con essa, forse, "maccheroni" - ha finito col trasformarsi in un sinonimo di pasta o, meglio ancora, con l' acquistare il significato di pasta per antonomasia . Ne viene, mi sembra, che "spaghetti" ( o "maccheroni ") non può essere messo sul piano di denominazioni sicuramente specifiche come yogurt o, per citare due prodotti di cui la Corte dovrà occuparsi tra breve, salsiccia ed "Edam ". "Edam", infatti, non è sinonimo di formaggio, neppure nella sua piccola città d' origine o sul famoso mercato di Alkmaar .

Fate una prova : chiedete al consumatore comunitario medio che cos' è il formaggio; potete scommettere che non vi sentirete rispondere "Edam ". Subito dopo domandategli che cos' è la pasta : le probabilità che egli replichi "spaghetti" sono altissime ( laddove, ripeto, a Napoli o a Milano l' uomo della strada vi snocciolerebbe almeno una dozzina di nomi ). D' altra parte, la voce 1902 della tariffa doganale comune è da sempre così concepita : "Paste alimentari (...) quali spaghetti, maccheroni, tagliatelle, lasagne, gnocchi, ravioli, cannelloni"; e non mi si dica che è solo un accidente se le prime paste menzionate in quest' elenco sono proprio gli spaghetti e i maccheroni!

In definitiva, possiamo dire che, diversamente da "birra", "pasta" è una denominazione sì generica, ma non dotata dello stesso generico significato in tutti gli Stati della Comunità . In Italia, essa indica soprattutto il composto da cui si ottengono, mediante un tradizionale procedimento, le diverse paste; fuori d' Italia, essa è questo e, allo stesso tempo, un alimento lungo, sottile e non bucato ( spaghetti ) o, talvolta, fatto a cannelli vuoti di varia lunghezza e grossezza ( maccheroni ). Viceversa, mentre "spaghetti" o "maccheroni" sono in Italia menzioni specifiche che indicano due dei tanti modi in cui viene presentata la pasta, fuori d' Italia essi costituiscono denominazioni generiche di uso corrente .

14 . Tenendo presenti questi dati, immaginiamo ora di trovarci nel reparto "paste alimentari" di un supermercato a Lussemburgo ( dove, sia detto per inciso e metaforicamente, ci avrebbe dovuto condurre la Commissione; ma ormai sappiamo che nel nostro procedimento la Commissione, come il pescatore Santiago in Il vecchio e il mare di Hemingway, si è spesso "addormentata sognando i leoni "). Davanti a noi campeggiano quattro confezioni di pasta il cui lato in vista si presenta come segue ( 1 ):

I quattro pacchi sono stati prodotti, nell' ordine, in Italia, Belgio, Germania, Svizzera e, come osserverete, portano tutti, chiaramente leggibile, la menzione "Spaghetti ". Ebbene, di che son fatti questi spaghetti? Il solo lato anteriore che al riguardo ci dica qualcosa di concreto e lo dica in tre lingue, di cui due parlate nel Granducato, è l' ultimo : le materie prime del prodotto contenuto nel sacco sono grano "completo" ( un aggettivo, peraltro, di scarsa intelligibilità ) e soia . Gli altri - salvo il primo in cui sta scritto, ma solo in italiano, "pasta di semola di grano duro" - sono muti . Per saperne di più, occorre leggere le indicazioni che appaiono, in lettere microscopiche, sul retro; apprenderemo allora che il secondo pacco è preparato con grano duro e il terzo con una miscela di grano duro e grano tenero più 150 grammi di uova - beninteso "fresche" - per chilogrammo .

Ora, a stregua di quanto s' è detto sub n . 8, le presentazioni così analizzate rispondono tutte ai requisiti della direttiva orizzontale 79/112; leggendole con attenzione, dunque, il consumatore lussemburghese ( e v' è da compiangerlo ) dovrebbe poter scegliere la pasta, o piuttosto gli spaghetti, che predilige . Ma - ecco la difficoltà - lo potrebbero gli acquirenti italiani, francesi ed ellenici? No, ha risposto la Commissione in causa Zoni . Dal momento che in Italia, Francia e Grecia la pasta secca è fabbricata unicamente con farina di grano duro, etichette come quelle del secondo e del terzo pacco sarebbero sicuramente "insufficienti" a informare il consumatore sugli ingredienti e sulla natura dei rispettivi prodotti ( supra, n . 11 ).

E insomma facile dire : un' etichetta appropriata, ça suffit . All' atto pratico, come si è appena messo in rilievo,il commercio quotidiano delle paste pone problemi che le etichette prescritte dalla direttiva non sono assolutamente in grado di risolvere . Torna così alla mente il rilievo della commissione giuridica del Parlamento che agli esperti di Bruxelles suggerì di disciplinare anche le "denominazioni di uso corrente nel commercio, come spaghetti o maccheroni ". Ma torna soprattutto d' attualità l' articolo 5, n . 2, della proposta di direttiva sulle paste alimentari . Ne ricorderete il testo : "qualora - vi si legge - le indicazioni obbligatorie (( cioè le denominazioni riservate e le diciture dei formati della pasta )) non figurino nelle (...) lingue nazionali", gli Stati membri "possono vietare il commercio dei prodotti" a cui esse si riferiscono .

15 . Obietterà qualcuno che i detti problemi sono risolubili anche senza costringere il Consiglio a varare una grande riforma : più precisamente, per proteggere i suoi consumatori meglio di quanto faccia la direttiva 79/112, il legislatore italiano, abrogato l' attuale obbligo di purezza che impedisce le importazioni di pasta di grano tenero, potrebbe imporre ai fabbricanti comunitari di spaghetti l' obbligo di stampare sul lato principale dell' imballaggio la denominazione "pasta di farina di grano tenero ". Io dubito, tuttavia, che un simile espediente basti, come esige la sentenza sulla birra, a porre in essere un "sistema d' informazione" capace di "funzionare perfettamente ".

Ancora una volta, la difficoltà sta nell' uso della denominazione "spaghetti ". Per chi acquista e consuma da anni ( ma nel Mezzogiorno da sempre ) solo spaghetti di grano duro la scritta "pasta di grano tenero" non può ritenersi sufficientemente informativa fin quando sopra di essa si stagli, a caratteri cubitali, la parola "spaghetti ". Certamente più informato di quanto egli sarebbe nella situazione ipotizzata è oggi il consumatore abituale di champagne a cui sia offerta una bottiglia di "vin mousseux - méthode champenoise"; eppure sappiamo che la Comunità lo ha protetto fino a vietare l' impiego di tale dicitura . Senza tema di cadere in esagerazioni, è insomma possibile dire che concedere ai pastai non italiani la facoltà di usare la stessa denominazione specifica ( spaghetti ) per prodotti preparati con farine diverse, significherebbe esporre gli acquirenti nazionali ad un vero e proprio inganno e i fabbricanti di casa a una forma non lieve di concorrenza sleale .

E allora? Allora, io credo, al legislatore italiano ( o francese o ellenico ) che intendesse istituire un sistema informativo davvero perfetto non resterebbe aperta che una strada : imporre ai produttori stranieri l' uso della denominazione "spaghetti di grano tenero" ( o "vermicelli di grano tenero", ecc .) da stampare sempre e solo sul lato principale dell' imballaggio . Ma sarebbe lecita una norma del genere? Anche qui la mia risposta è negativa . Se la prima soluzione è troppo debole, questa seconda è troppo forte; tanto forte, temo, da configurare una misura di effetto equivalente .

Mi spiego con un esempio . Supponiamo che un pastificio olandese produca solo pasta di grano tenero . Poiché "spaghetti" è parola comprensibile in tutta la Comunità, l' impresa avrà un ovvio interesse a far apparire sul lato anteriore dell' imballaggio unicamente tale dicitura e riservare il retro all' elenco degli ingredienti, espressi nelle varie lingue; così operando, infatti, essa impiegherà per il suo commercio comunitario, con forti economie sulle spese, un solo tipo di confezione . A stregua della norma che ho prospettato, tuttavia, una simile presentazione non sarebbe sufficiente e il nostro pastificio dovrebbe modificarla per le spedizioni verso l' Italia, la Francia e la Grecia, aggiungendovi le scritte "spaghetti di grano tenero", "spaghetti de blé tendre", "spagéta apó malakó sitári ".

Ciò detto, leggiamo il punto 15 della citata sentenza Fietje : l' estensione - vi si dice - di una norma nazionale "che vieti la vendita di determinate bevande alcooliche sotto una denominazione diversa da quella prescritta dalle leggi nazionali, alle bevande importate da altri Stati membri" e così renda "necessaria la modifica dell' etichetta sotto la quale la bevanda importata è legalmente distribuita nello Stato membro esportatore, va considerata (...) misura d' effetto equivalente (...), qualora le indicazioni che si trovano sull' etichetta originale abbiano per i consumatori, (( quanto alla )) natura del prodotto, un contenuto informativo equivalente a quello della denominazione legalmente prescritta" ( il corsivo è mio ). Ora, nel mio esempio, il contenuto dell' informazione leggibile sul retro dell' imballaggio equivale senza dubbio a quello che prescrivono le norme italiane, francesi o elleniche sulla presentazione della pasta . Se fosse obbligato a modificare la sua etichetta "spaghetti" in "spaghetti di grano tenero", il produttore olandese avrebbe dunque tutto il diritto di invocare l' articolo 30 del trattato .

16 . Giunti a questo punto, una conclusione mi sembra evidente : scorciatoie nazionali non sono proponibili e rischiano addirittura di essere perniciose . In effetti, liberalizzare il commercio comunitario delle paste per poi lasciarlo nelle mani degli Stati membri non metterebbe solo i loro organi legislativi nell' impossibilità di escogitare misure che tutelino in modo congruo gli interessi dei produttori e dei consumatori . Una manovra così monca farebbe di peggio : incentiverebbe i diversi pastai, consapevoli di poter contare su regole di designazione e di presentazione inadeguate, a impadronirsi di nuovi mercati fabbricando prodotti sempre meno costosi, ma sempre più equivoci per identità e per natura .

In una prospettiva siffatta la sola via d' uscita che a me paia praticabile è stata indicata dalla sentenza 23 febbraio 1988 : cercare una soluzione compete "à la Communauté et non à un État membre ". Detto altrimenti, se vuole attuare la libera circolazione di tutte le paste prodotte nei vari Stati evitando al contempo gli inconvenienti di cui s' è detto, la Comunità deve intervenire in prima persona e deve farlo con lo strumento forse non più semplice o più rapido, ma certo più adeguato al nostro fine che il trattato ponga a sua disposizione : la direttiva . Una direttiva, del resto, proprio nel settore delle paste e per risolvere problemi non lontanissimi da quelli in esame le suggerì di emanare anche la Corte . Si veda la sentenza 17 dicembre 1981, cause riunite da 197 a 200, 243, 245 e 247/80, Ludwigshafener Walzmuehle Erling KG e altri / Consiglio e Commissione, Racc . 1981, pag . 3211 : "solo l' armonizzazione delle legislazioni nazionali - afferma il punto 54 - potrebbe porre rimedio alla difficoltà segnalata ".

Quale contenuto dovrebbe avere un simile atto? Volgiamoci all' esperienza americana . In virtù del Federal Food, Drug and Cosmetic Act, la Food and Drug Administration adottò nel 1964 una serie di norme in tema di "macaroni and noodle products ". Dopo aver stabilito alla lettera a ) che i "Macaroni products ( cioè la pasta ) are the class of food each of which is prepared by drying formed units of dough made from semolina, durum flour, farina, flour or any combination of two or more of these, with water and with or without one or more of the optional ingredients (...)", la sezione 16.1 indica nelle lettere b ), c ) e d ) le denominazioni e i criteri di identità di alcuni formati tipici : "The name of each food for which a definition and standard of identity is prescribed - si dispone alla lettera e ) - is 'Macaroni Product' or alternatively the name is 'Macaroni' , 'Spaghetti' or 'Vermicelli' , as the case may be ". Infine, le sezioni da 16.2 a 16.5 disciplinano nell' ordine i "Milk macaroni", i "Whole wheat macaroni", i "Wheat and soy macaroni" e i "Vegetable macaroni ". A seconda del formato e della materia prima impiegata nella preparazione, ciascuno di questi prodotti ha una denominazione obbligatoria quale "Whole wheat spaghetti", "Wheat and soy spaghetti", "Spinach spaghetti" ecc .

Si tratta, com' è palese, di una normativa attentissima agli interessi degli acquirenti; il legislatore comunitario farebbe bene a modellarvisi . Io mi riterrei soddisfatto, tuttavia, se egli si limitasse a regolare le denominazioni; naturalmente, tenendo conto non solo delle condizioni in cui versano i singoli mercati nazionali e delle leggi che li regolano, ma anche dei tanti fattori - politica agricola, politica commerciale, tutela dei consumatori e dei coltivatori di grano duro - su cui mi sono soffermato nelle pagine che precedono . Sarei soddisfatto di una soluzione del genere per numerose ragioni e tra queste non ultima - o, in una sede come la nostra, prima - la possibilità che essa offrirebbe di stabilire se una legge come la n . 580 sia o no compatibile con l' articolo 30 del trattato .

17 . Oggi come oggi, infatti, la domanda che vi pongono i giudici a quibus non è suscettibile di una risposta netta o lo è solo agli occhi di chi sia disposto a convivere con una situazione comunque insoddisfacente . Guardiamo in faccia le conseguenze delle alternative che ci si pongono . Un giudizio di compatibilità comprometterebbe in modo forse definitivo la circolazione delle paste legalmente prodotte in otto dei dodici Stati membri e per ciò stesso minaccerebbe la "tenuta" di uno dei pilastri su cui poggia la costruzione comunitaria . D' altra parte, una pronuncia d' incompatibilità : a ) lascerebbe senza difese adeguate non solo il consumatore italiano di pasta di grano duro, ma anche l' acquirente comunitario di spaghetti composti nei modi più vari; b ) premierebbe e incoraggerebbe l' inerzia del legislatore di Bruxelles coonestando la sua pretesa di aver per sempre risolto il problema con le norme orizzontali e generiche della direttiva 79/112; c ) altererebbe di fatto, ma irreparabilmente, le condizioni su cui è fondata la politica comunitaria del grano duro e l' intesa tra CEE e Stati Uniti sulla produzione e sul commercio delle paste preparate con questo cereale .

Che fare, allora? La linea che a me sembra preferibile si concreta in un compromesso e, come la celebre ordinanza 29 maggio 1974 della Corte costituzionale tedesca, si fonda su un avverbio di tempo : "fin quando ". Alla sua base è un' ovvia considerazione : se da un ventennio a questa parte la pasta di grano duro esportata dall' Italia nel Nord della Comunità è passata da 1O2 000 a 1 680 000 quintali per anno, non può negarsi che, pur potendo scegliere tra paste di diversa natura e composizione, i consumatori belgi, lussemburghesi, olandesi, tedeschi e poi britannici, irlandesi e danesi si sono orientati in misura sempre più alta verso quel tipo di alimento . E dunque soprattutto ad essi che dobbiamo garantire, per ripetere ancora le parole della sentenza sulla birra, un "sistema d' informazione (...) in grado di funzionare perfettamente ". Ora, lasciando in vita - ma solo a titolo provvisorio - l' attuale situazione di mercato, permetteremo agli acquirenti nord-europei di continuare a scegliere le paste che più gradiscono, mentre gli italiani, i greci e i francesi non correranno - per le imprecise e insufficienti notizie fornite dall' etichetta dei prodotti importati - il rischio di fare acquisti non conformi alle loro preferenze .

Last but not least, conservare lo "status quo" giuridico ed economico assicurerà la permanenza delle condizioni sulla cui base il Consiglio ha deciso di rivedere la sua politica in materia di cereali e ha potuto concludere con gli Stati Uniti un accordo commerciale a tutela delle paste di grano duro . Not least, ripeto . Si tenga presente, infatti, che, secondo l' articolo 39, paragrafo 2, del trattato CEE, "nell' elaborazione della politica agricola comune (...) si dovrà considerare : (...) b ) la necessità di operare gradatamente gli opportuni adattamenti; c ) il fatto che, negli Stati membri, l' agricoltura costituisce un settore intimamente connesso all' insieme dell' economia" ( i corsivi sono miei ); non ci si dimentichi che quest' obbligo vincola il giudice non meno del legislatore .

18 . Alla luce delle considerazioni che precedono vi suggerisco di rispondere come segue ai quesiti postivi dai pretori di Bolzano e di Milano con ordinanze 31 ottobre 1985 e 19 marzo 1986 :

Fino a quando la Comunità non avrà emanato una disciplina sulla produzione e/o sulla designazione delle paste alimentari che tenga conto in particolare della esigenza di proteggere gli interessi dei consumatori, l' articolo 30 del trattato CEE non si opporrà all' applicazione della legge di uno Stato membro che imponga l' obbligo di utilizzare esclusivamente il grano duro per la fabbricazione delle paste alimentari destinate ad essere messe in commercio all' interno di detto Stato .

( 1 ) Nel testo roneografato delle conclusioni figurava a questo punto una foto delle quattro confezioni che, per motivi tecnici, non è possibile riprodurre a stampa .

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