This document is an excerpt from the EUR-Lex website
Document 61981CC0053
Opinion of Mr Advocate General Sir Gordon Slynn delivered on 20 January 1982. # D.M. Levin v Staatssecretaris van Justitie. # Reference for a preliminary ruling: Raad van State - Netherlands. # Right of residence. # Case 53/81.
Conclusioni dell'avvocato generale Sir Gordon Slynn del 20 gennaio 1982.
D.M. Levin contro Segretario di Stato per la giustizia.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Raad van State - Paesi Bassi.
Diritto di soggiorno.
Causa 53/81.
Conclusioni dell'avvocato generale Sir Gordon Slynn del 20 gennaio 1982.
D.M. Levin contro Segretario di Stato per la giustizia.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Raad van State - Paesi Bassi.
Diritto di soggiorno.
Causa 53/81.
Raccolta della Giurisprudenza 1982 -01035
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1982:10
CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
SIR GORDON SLYNN
DEL 20 GENNAIO 1982 ( 1 )
Signor Presidente,
signori Giudici,
Il Raad van State (Consiglio di Stato) olandese, sezione giurisdizionale, ha sottoposto alla Corte di giustizia tre questioni pregiudiziali, a norma dell'art. 177 del Trattato CEE. Con dette questioni si chiede, fra l'altro, che la Corte chiarisca la portata dell'espressione «cittadino CEE privilegiato» ai sensi dell'art. 91, 1o comma, leu. a), del regio decreto olandese sugli stranieri (Vreemdelingenbesluit). Così come è formulata, tale questione esula indiscutibilmente dalla competenza del giudice comunitario e va risolta dal giudice nazionale. Sostanzialmente, le questioni sottopostevi implicano certo problemi di diritto comunitario che tutti i partecipanti al presente procedimento ritengono importanti.
In sostanza, le questioni possono essere concepite nel seguente modo:
1. |
Se al cittadino di uno Stato membro il quale presti, in un altro Stato membro, lavoro subordinato o autonomo, o servizi, in misura così limitata da ricavarne un reddito inferiore a quello che, in quest'ultimo Stato membro, viene considerato come il minimo necessario per provvedere alle spese di sussistenza, si applichi la disciplina comunitaria in materia di libera circolazione dei lavoratori, contenuta nell'art. 48 del Trattato CEE, nel regolamento 15 ottobre 1968, n. 1612, e nelle direttive 25 febbraio 1964, n. 64/221, e 15 ottobre 1968, n. 68/360. |
2. |
Se la soluzione della questione sub 1 sia diversa qualora l'interessato disponga di altri redditi che, in aggiunta a quelli di lavoro, gli consentano di disporre di quanto, nello Stato membro, viene considerato come il minimo necessario per provvedere alle spese di sussistenza o decida di adeguare il suo tenore di vita al suo reddito effettivo, inferiore a quello considerato minimo vitale nello Stato membro. |
3. |
Nell'ipotesi in cui la questione sub 1 venga risolta in senso affermativo, se il diritto di un siffatto lavoratore di entrare liberamente e di stabilirsi nello Stato membro in cui presta o intende prestare lavoro o servizi possa essere fatto valere anche qualora sia provato, o presumibile, che, stabilendosi in detto Stato membro, egli persegue principalmente scopi diversi dalla — limitata — prestazione di lavoro o di servizi. |
Il Governo olandese e il Governo danese sostengono che la prima questione va risolta negativamente. Per la soluzione affermativa sono invece la Levin, i Governi francese ed italiano e la Commissione. La Levin sostiene che i redditi diversi da quelli di lavoro possono venir presi in considerazione se i diritti di cui trattasi sono subordinati alla percezione del minimo necessario per provvedere alle spese di sussistenza; gli altri partecipanti ritengono che tali redditi non vanno presi in considerazione. Con maggiore o minore convinzione, i partecipanti sembrano ammettere che chi, sotto altri aspetti, soddisfa le condizioni poste dalla legge non può venir privato dei diritti spettantigli soltanto perché ha ulteriori ed accessori motivi per voler entrare in un particolare Stato membro.
I problemi sollevati sono dunque importanti per il singolo, specie in un periodo di grande disoccupazione e di sempre maggior necessità di accettare lavoro ad orario ridotto; altrettanto importanti sono per lo Stato membro, il quale desidera impedire che i diritti conferiti ai lavoratori vengano sfruttati abusivamente da chi lavoratore non può definirsi in senso vero e proprio.
II provvedimento di rinvio e le osservazioni scritte non hanno fornito una chiara immagine dei fatti. Durante l'udienza, senza incontrare contestazioni, il patrono della Levin ha dato ulteriori chiarimenti, sui quali mi par giusto fondarsi per risolvere le questioni. Naturalmente, spetta al giudice nazionale, nel valutare la portata della pronunzia della Corte, stabilire quali siano in realtà i fatti. Per quel che ci riguarda, direi che la situazione si presenta così:
La sig.ra Levin è suddito britannico e, a quanto risulta, cittadina del Regno Unito: il marito è cittadino sudafricano. Nell'ottobre 1977, poco dopo il loro matrimonio, essi si stabilivano, nei Paesi Bassi, dove entrambi avevano vissuto saltuariamente in passato. Il 13 gennaio 1978, la Levin chiedeva un permesso di soggiorno, che le veniva negato dal capo della polizia di Amsterdam il 20 marzo 1979 in quanto «dall'inizio del 1978 la richiedente non esercita più “alcuna attività” lavorativa e di conseguenza non può essere più considerata “cittadino CEE privilegiato”, ai sensi del decreto sugli stranieri». Si osservava pure che il suo alloggio non rispondeva ad esigenze ragionevoli. Il patrono della Levin ha affermato che in realtà la sua cliente, dal suo arrivo nei Paesi Bassi fino al 6 aprile 1979, aveva lavorato regolarmente come cameriera in vari alberghi di Amsterdam.
Il 9 aprile 1979 l'interessata rivolgeva un'istanza al Segretario di Stato per la giustizia, convenuto nella presente causa, per la revisione del suddetto provvedimento, osservando che il fatto di non aver avuto ulteriori occupazioni dall'inizio del 1978 fino al 6 aprile 1979 non poteva giustificare il rifiuto oppostole, giacché lei stessa ed il marito disponevano di risorse sufficienti al loro sostentamento anche senza lavorare. Essa aggiungeva che, ad ogni buon conto, dal 9 aprile 1979 aveva tuttavia esercitato un'attività retribuita e contestava gli apprezzamenti sulla sua abitazione.
Il suo patrono ha dichiarato alla Corte che, dal 9 aprile, essa ha cominciato a svolgere lavoro ad orario ridotto come cameriera in un albergo, prestando servizio mezza giornata, ossia circa 20 ore settimanali, con una retribuzione netta settimanale di 130 fiorini.
In mancanza di risposta, la sua istanza del 9 aprile 1979 veniva considerata respinta. L'interessata proponeva quindi ricorso al Consiglio di Stato, allegando che — al momento dell'emanazione del provvedimento impugnato — essa era cittadina di un altro Stato membro, lavoratrice dipendente, e che, pur se il suo reddito di lavoro non era sufficiente a garantirle la sussistenza, essa lo integrava con altri introiti. Il convenuto obiettava che la sua occupazione non le offriva un reddito sufficiente a sostentarsi — vale a dire corrispondente alla retribuzione minima contemplata dalla legge olandese —, cosicché l'interessata non poteva sostenere di essere un «cittadino CEE privilegiato». Per di più si osservava che essa non era giunta nei Paesi Bassi «al fine di» svolgere un'attività lavorativa, bensì per consentire al marito di stabilirsi nello stesso paese come coniuge di un cittadino di uno Stato membro, avvalendosi dell'art. 91 (i) (e) del decreto sugli stranieri, che dovrebbe essere la norma di attuazione dell'art. 10 del regolamento del Consiglio n. 1612/68.
In un certo senso, la documentazione sottoposta alla Corte va oltre i limiti del problema prospettato, ad esempio per quel che riguarda una persona che cerca lavoro rispetto a chi ha già trovato un'occupazione o effettivamente svolge un'attività. Per di più, la prima questione solleva a sua volta un problema che non sembra presentarsi in base ai fatti da cui trae origine la controversia, cioè quello relativo alla situazione del lavoratore autonomo. Mi sembra opportuno limitare le mie conclusioni all'ipotesi del cittadino di uno Stato membro che svolge un lavoro dipendente retribuito o che dovrebbe essere retribuito, trascurando le altre ipotesi che potranno prospettarsi in futuro. Per questo motivo, ed anche perché non sono convinto che se ne debba in ogni caso tener conto, non penso sia necessario prendere in considerazione — ai fini del presente procedimento — la dichiarazione interpretativa riportata nei verbali del Consiglio e sulla quale è stata richiamata l'attenzione della Corte (dichiarazione secondo cui è stato ammesso che una persona possa rimanere nel territorio di uno Stato membro alla ricerca di un posto di lavoro per la durata di tre mesi, a condizione che non debba far ricorso alla pubblica assistenza). La presente causa si limita al problema se possa venir prescritto un reddito minimo e un minimo di ore lavorative.
Pur se le norme di diritto comunitario cui si richiama la prima questione sono ben note alla Corte, mi pare utile riassumere le disposizioni specifiche che riguardano le questioni sottopostevi.
U Capo I del Titolo III («Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali») del Trattato CEE contrappone i «lavoratori» a coloro che svolgono «attività non salariate» o che costituiscono o gestiscono imprese, nonché a coloro che provvedono alla prestazione di servizi, categorie di persone per le quali vale rispettivamente la disciplina dei Capi II e III. Secondo l'art. 48, «la libera circolazione ... è assicurata», e questa libertà implica l'abolizione di qualsiasi discriminazione basata sulla nazionalità per quel che riguarda la retribuzione e le altre condizioni di lavoro o d'impiego.
I diritti conferiti dall'art. 48, n. 3, sono a) quello di accettare le offerte di lavoro effettive; b) quello di spostarsi liberamente «a tal fine» (cioè, a mio avviso, per accettare le offerte effettive e per prestare effettivamente il lavoro) nel territorio degli Stati membri; e) di stabilirsi in uno Stato membro al fine di svolgervi un'attività lavorativa, conformemente alle disposizioni ivi vigenti per i lavoratori nazionali; d) di rimanere in uno Stato membro, dopo aver lavorato nello stesso, alle condizioni che la Commissione dovrà determinare. A prima vista, questi diritti sono soggetti unicamente alle limitazioni imposte per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.
Queste disposizioni vanno intese nel contesto degli am. 2 e 3 del Trattato. L'art. 3 annovera fra le attività della Comunità «l'eliminazione fra gli Stati membri degli ostacoli alla libera circolazione delle persone». Queste attività devono servire al perseguimento degli scopi enunciati all'art. 2, tra i quali sono compresi il ravvicinamento delle politiche economiche e un miglioramento sempre più rapido del tenore di vita.
Il preambolo del regolamento del Consiglio n. 1612/68 sottolinea che la libertà di circolazione rappresenta un diritto fondamentale dei lavoratori o delle loro famiglie e che la mobilità del lavoro deve essere uno dei mezzi con cui al lavoratore è garantita la possibilità di migliorare le sue condizioni di vita e di lavoro. Vi si afferma il diritto di «tutti i lavoratori» degli Stati membri «di esercitare l'attività di loro scelta», diritto che «deve essere riconosciuto indistintamente ai lavoratori permanenti, stagionali e frontalieri». L'art. 1 stabilisce che ogni cittadino di uno Stato membro ha il diritto «di accedere a un'attività subordinata e di esercitarla» in un altro Stato membro alle stesse condizioni vigenti per i cittadini di questo Stato membro; in particolare il cittadino di uno Stato membro deve avere il diritto di godere «della stessa precedenza riservata ai cittadini di detto Stato per l'accesso agli impieghi disponibili». In base all'art. 3, le disposizioni e le pratiche amministrative nazionali non si applicano se «limitano o subordinano a condizioni non previste per i nazionali la domanda e l'offerta d'impiego, l'accesso all'impiego e il suo esercizio da parte degli stranieri».
La direttiva del Consiglio n. 68/360 prescrive l'abolizione delle restrizioni al trasferimento e al soggiorno dei cittadini degli Stati membri e delle loro famiglie cui si applica il regolamento n. 1612/68. Nel titolo della direttiva si parla di «lavoratori degli Stati membri e ... loro famiglie». In forza dell'art. 4, al lavoratore va riconosciuto il diritto di soggiorno e rilasciato il relativo permesso su semplice presentazione: a) del «documento in forza del quale egli è entrato nel ... territorio» e b) di una «dichiarazione di assunzione del datore di lavoro o un attestato di lavoro». Detto permesso di soggiorno deve avere durata almeno quinquennale, salvoché il lavoratore «occupi un impiego» di durata superiore a tre mesi ed inferiore a un anno, nel qual caso un permesso di soggiorno temporaneo può venir rilasciato per la prevista durata dell'occupazione (art. 6). Il diritto di soggiorno va riconosciuto senza rilascio di un permesso di soggiorno al lavoratore «che esercita un'attività subordinata», qualora detta attività prevedibilmente non debba superare il periodo di tre mesi.
Il termine «lavoratore» non è definito espressamente in alcuna di queste disposizioni. Il Governo olandese e quello danese osservano che l'art. 48 e le disposizioni d'attuazione sanciscono la libertà di circolazione solo per i lavoratori la cui attività ha importanza per la vita economica degli Stati membri o che contribuiscono, con la loro attività economica, allo sviluppo della Comunità, e non a favore dei cittadini degli Stati membri in generale, o di coloro che non svolgono alcuna attività economica o la cui attività economica è insignificante.
Gli artt. 2 e 3 del Trattato corroborano indiscutibilmente l'argomento secóndo cui un «lavoratore» deve svolgere attività di natura economica. La Corte ha seguito questo orientamento nella causa 118/75 (Watson e/ Beimann, Race. 1975, pag. 1185) e nella causa 13/76 (Dona e/ Maniero, Race. 1976, pag. 1333). In questa seconda causa la Corte ha affermato (pag. 1340) che — tenuto conto degli obiettivi della Comunità — «la pratica dello sport è disciplinata dal diritto comunitario se è configurabile come attività economica ai sensi dell'art. 2 del Trattato».
Gli argomenti svolti dai due Governi, comunque, non sono di grande ausilio per la soluzione dei problemi che si pongono nell'ambito della presente causa.
Quello che sostengono in pratica i due Governi di cui sopra è che una persona può far valere l'art. 48 soltanto se la sua retribuzione è pari a quello che si considera il minimo vitale nello Stato in cui essa è occupata, oppure se presta un numero di ore lavorative considerato o prescritto come normale per un lavoro a tempo pieno nel settore economico di cui trattasi. Poiché il diritto comunitario non definisce la nozione di «lavoratore», si può far ricorso ai criteri vigenti nei singoli Stati per stabilire l'entità della retribuzione minima e il minimo di ore lavorative. E stato osservato che solo così è possibile delimitare la categoria dei lavoratori, escludendone studenti e pensionati, anche se questi prestano occasionalmente lavoro retribuito per qualche ora la settimana.
Nell'interpretare l'art. 48 e le disposizioni complementari, mi paiono fuori discussione due principi. Anzitutto la nozione di «lavoratore» va definita secondo il diritto comunitario e, se non vi sono gravi ragioni in senso contrario, essa dovrebbe definirsi in modo da evitare, per quanto possibile, discrepanze fra gli Stati membri. Questo principio trova conferma nelle affermazioni della Corte nella causa 75/63, Hoekstra (Unger) e/ Bestuur der Bedrijfsvereniging voor Detailbanden en Ambachten (Race. 1964, pag. 364):
«Il Trattato, istituendo'con gli articoli da 48 a 51 la “libera circolazione dei lavoratori”, ha attribuito a questo termine un significato comunitario. Se invece il significato del termine dovesse ricavarsi dal diritto interno, ciascuno Stato potrebbe modificare la portata della nozione di “lavoratore migrante” ed escludere a suo piacimento determinate categorie di persone dalle garanzie offerte dal Trattato. Negli articoli da 48 a 51 del Trattato non vi è del resto nulla che induca a ritenere che la definizione di “lavoratore” sia stata rimessa al legislatore nazionale».
La causa riguardava i diritti in materia previdenziale conferiti ai lavoratori migranti dall'allora vigente regolamento n. 3; quanto allora affermato mi pare valido anche per la presente fattispecie. Se una persona può definirsi «lavoratore» solo se presta il minimo di ore lavorative o percepisce la retribuzione minima stabilita dalla legge dello Stato in cui lavora, il suo status e i suoi diritti possono variare da uno Stato membro all'altro.
In secondo luogo, dove non sono stati posti limiti espressi, la Corte dovrebbe esser cauta nel fare precisazioni che restringano il senso comune e naturale del termine «lavoratore». In svariate occasioni, la Corte ha sottolineato che l'art. 48 stabilisce uno degli elementi fondamentali della Comunità, sicché ogni deroga va interpretata restrittivamente (cfr., ad esempio, causa 152/73, Sotgiu e/ Bundespost, Race. 1974, pagg. 153 e, in particolare, 162; causa 36/75, Rutili e/ Ministero dell'interno, Race. 1975, pagg. 1219 e, in particolare, 1229 e 1231). Ciò vale per quel che riguarda le precisazioni; a fortiori non si dovrebbero introdurre condizioni, se queste non sono espressamente contemplate, a meno che costituiscano parte integrante della definizione di lavoratore. Questo modo di vedere mi pare concordi con il fatto che l'art. 4, n. 3, della direttiva del Consiglio n. 68/360 prescrive che gli Stati membri devono rilasciare il permesso di soggiorno a chiunque sia in grado di produrre un attestato di lavoro e un documento in forza del quale egli è entrato nel territorio. Secondo la suddetta direttiva, l'unico elemento che può incidere sul permesso di soggiorno è la durata del periodo di occupazione. Nulla si dice circa il tipo di lavoro, il numero di ore lavorative prestate o l'entità della retribuzione, che dovrebbero essere provati onde ottenere un permesso di soggiorno. Esso è pure conforme, se non erro, alla direttiva del Consiglio n. 64/221, che disciplina le limitazioni della libertà di circolazione e di stabilimento per motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica. Queste ipotesi sono ben delimitate e l'art. 2, n. 2, di detta direttiva stabilisce espressamente che tali motivi non possono essere invocati per salvaguardare finalità economiche. Per di più, il regolamento del Consiglio n. 1612/68 sottolinea il diritto di tutti i lavoratori di esercitare l'attività che meglio credono, ed in particolare menziona i lavoratori permanenti, stagionali e frontalieri.
È quindi possibile sostenere che «lavoratore», ai sensi delle norme vigenti, può essere solo chi percepisce una retribuzione non inferiore ad un certo livello o chi presta un minimo di ore lavorative?
Mi pare troppo restrittivo interpretare il termine «lavoratore» come riferentesi unicamente a chi lavora a tempo pieno. Non posso accettare l'argomento secondo cui un lavoratore a orario ridotto non è, in quanto tale, un lavoratore ai sensi dell'art. 48. Questa conclusione, nel nostro caso, escluderebbe un vasto numero di persone — destinato probabilmente ad aumentare — dal godimento dei diritti conferiti dall'art. 48, nonché dai regolamenti e dalle direttive cui si è fatto richiamo. La categoria in questione comprende non solo le donne, i più anziani e gl'inabili che — per motivi personali — preferiscono lavorare solo a orario ridotto, ma anche uomini e donne che vorrebbero lavorare a tempo pieno, ma devono accontentarsi di occupazioni a orario ridotto. In mancanza di chiare disposizioni che escludano i lavoratori a orario ridotto dal godimento di questi diritti, non credo che la volontà del legislatore sia stata quella di privarli di detti diritti.
Se gli Stati membri fossero liberi di operare discriminazioni a favore dei loro cittadini per quel che riguarda il lavoro a orario ridotto, escludendone i cittadini degli altri Stati membri e se, in particolare, la legge nazionale dovesse stabilire che cosa si intende per lavoro a tempo pieno in quel determinato Stato, potrebbero conseguirne notevoli restrizioni, che il Trattato mira a sopprimere, alla mobilità del lavoro.
In subordine è stato sostenuto che, sotto il profilo interpretativo, se una persona deve prestare un minimo di ore o deve percepire una retribuzione minima, onde potersi definire «lavoratore», questi minimi dovrebbero venir fissati o precisati dalla Corte e dovrebbero valere per tutta la Comunità. Non sono stati proposti criteri generali quanto al numero di ore o all'entità della retribuzione che dovrebbero servire da parametro per distinguere nettamente i veri e propri lavoratori a orario ridotto da chi, col pretesto di un lavoro di poche ore settimanali, tenta di fruire dei diritti conferiti ai lavoratori, e io non riesco a discernere nella normativa alcuna condizione relativa a minimi prestabiliti.
Mi pare che la persona cui viene offerto un posto di lavoro e lo accetta sia un lavoratore ai sensi delle norme vigenti, anche şe guadagna meno della retribuzione considerata come minimo vitale nello Stato membro in questione. Sulla prima questione, mi pare che il rappresentante del Governo francese e quello della Commissione abbiano dedotto argomenti solidi e convincenti e — come loro — risolverei affermativamente tale questione. Condivido quindi la loro tesi secondo cui l'esistenza di altri redditi che consentano agli interessati di integrare i redditi da lavoro fino a raggiungere il minimo vitale è un elemento irrilevante.
Il Governo olandese osserva che, se la prima questione viene risolta affermativamente, il lavoratore deve dimostrare, per poter invocare le disposizioni in questione, che l'attività lavorativa costituisce il suo scopo principale o la sua intenzione predominante. Nell'art. 48, n. 3, lett. b), del Trattato è espressamente sancito che il diritto di spostarsi liberamente nel territorio di uno Stato membro è subordinato al fine di rispondere ad offerte di lavoro effettive (o di svolgere l'attività lavorativa). Il diritto di soggiorno è conferito solo al fine dell'attività lavorativa. L'art. 1 della direttiva n. 64/221 vale solo per il cittadino che soggiorna o si trasferisce in uno Stato membro «allo scopo di esercitare un'attività salariata». Il preambolo del regolamento n. 1612/68 menziona il diritto dei lavoratori di spostarsi liberamente nella Comunità «per esercitare un'attività subordinata». L'art. 2 della direttiva n. 68/360 impone agli Stati membri il dovere di consentire ai lavoratori di lasciare il loro territorio «per accedere a un'attività subordinata».
Mi pare che queste formule dimostrino chiaramente che il lavoratore deve provare la sua intenzione di entrare e di soggiornare nello Stato per ragioni di lavoro. Questa intenzione deve essere sincera e reale. Il fatto che il numero di ore lavorative prestate sia inferiore a quello corrispondente, in un determinato Stato membro, ad un lavoro a tempo pieno e che la retribuzione sia inferiore a quella ivi ritenuta corrispondente al minimo vitale non esclude, di per sé, che l'intenzione del lavoratore sia sincera e reale. Impegni personali o impedimenti fisici o l'età possono essere di ostacolo ad una maggiore attività; un'offerta di lavoro ad orario ridotto può consentire, all'interessato e alla sua famiglia, di migliorare il loro tenore di vita; può esservi la speranza che le ore lavorative e la retribuzione aumentino col tempo. D'altro canto, la persona che si trasferisce per ragioni di studio, o per trascorrere gli anni della pensione o per svolgere attività che oggettivamente non possono identificarsi con il lavoro subordinato, non può sostenere di trasferirsi per motivi di lavoro, neppure se si è servita dell'espediente di prestare alcune ore di lavoro settimanalmente o saltuariamente. Il fatto che le ore lavorative siano poche può aver rilievo nello stabilire se il lavoro è il vero e reale motivo della richiesta di un permesso di soggiorno. Meno numerose sono le ore lavorative, più è difficile comprovare che il lavoro costituisce la ragione del trasferimento. Del pari, la modesta entità del reddito, benché a mio avviso non possa costituire un motivo di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di pubblica sanità per imporre una limitazione a norma dell'art. 48, n. 3, del Trattato, può sempre essere un fattore di cui si deve tener conto, assieme ad altri, come il casellario giudiziario, che giustificano l'imposizione di limitazioni.
D'altro canto, pur se l'intenzione di lavorare deve essere sincera e reale, non penso si debba dimostrare ch'essa è il motivo principale e predominante. Ciò non è richiesto dalle norme vigenti ed in pratica sarebbe di difficile attuazione. Un individuo può desiderare di lavorare in un determinato paese soprattutto per esser vicino ai familiari della moglie, o perché preferisce che i figli frequentino una particolare scuola, o per motivi culturali o di salute. Il fatto che questo sia il motivo principale e determinante non esclude che l'intenzione di lavorare sia sincera e reale.
Propongo quindi di risolvere come segue le questioni in esame:
1) |
Il cittadino di uno Stato membro il quale presti, nel territorio di un altro Stato membro, lavoro retribuito in base ad un contratto di lavoro dipendente è un «lavoratore» ai sensi dell'art. 48 del Trattato CEE e delle relative norme di attuazione ed ha quindi diritto al rilascio di un permesso di soggiorno del tipo indicato nell'art. 4 della direttiva del Consiglio n. 68/360, pur se la sua attività lavorativa è di entità così ridotta da offrire un reddito inferiore a quello che in quel determinato Stato si considera il minimo vitale. |
2) |
... |
3) |
Il diritto del suddetto cittadino di entrare e di soggiornare nello Stato membro in questione, a norma dell'art. 48 e delle relative norme di attuazione, è subordinato alla prova della sincera e reale intenzione di lavorare in detto Stato membro, pur se per l'interessato tale intenzione non costituisce il motivo principale del trasferimento. |
( 1 ) Traduzione dall'inglese.