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Document 61980CC0096

    Conclusioni dell'avvocato generale Warner del 28 gennaio 1981.
    J.P. Jenkins contro Kingsgate (Clothing Productions) Ltd.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Employment Appeal Tribunal - Regno Unito.
    Parità di retribuzione.
    Causa 96/80.

    Raccolta della Giurisprudenza 1981 -00911

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1981:21

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

    JEAN-PIERRE WARNER

    DEL 28 GENNAIO 1981 ( 1 )

    Signor Presidente,

    signori Giudici,

    La presente causa vi è stata sottoposta in via pregiudiziale dall'Employment Appeal Tribunal di Londra. Essa implica problemi interpretativi circa l'art. 119 del Trattato CEE per quel che riguarda i diritti dei lavoratori a orario ridotto. Sotto un determinato aspetto, la causa fa insorgere inoltre, sempre per quel che riguarda i diritti di detti lavoratori, problemi interpretativi circa la direttiva del Consiglio n. 75/117/CEE, detta «direttiva sulla parità di retribuzione».

    L'appellante nel procedimento dinanzi al-l'Employment Appeal Tribunal è la sig.ra Jeanette Pauline Jenkins. L'appellata è la Kingsgate (Clothing Productions) Limited, suo datore di lavoro.

    L'appellata ha stabilimenti ad Harlow, nell'Essex, e a Milton Constable, nel Norfolk, e produce capi d'abbigliamento per signora. La Jenkins lavora nello stabilimento di Harlow come operatrice ad orario ridotto e presta circa 30 ore lavorative settimanali. Essa è un'operaia specializzata, in grado di manovrare, e di fatto li manovra, svariati tipi di macchine, come le asolatrici, le imbastitrici e così via.

    Esula dalla presente fattispecie la situazione dello stabilimento dell'appellata a Milton Constable, dove, a quanto ci risulta, nessun dipendente lavora ad orario ridotto.

    Nello stabilimento di Harlow l'appellata occupa circa 90 persone. Secondo i particolari forniti dall'appellata all'Industriai Tribunal, dal quale la controversia è stata esaminata in primo grado, a quel tempo e in quel determinato stabilimento erano occupati 83 dipendenti a tempo pieno, 34 dei quali erano uomini e 49 donne. Il loro normale orario di lavoro settimanale era di 40 ore. C'erano anche 6 dipendenti a orario ridotto, cinque dei quali (tra i quali la Jenkins) erano donne ed uno era un uomo, un certo Kreitzmann. Quest'ultimo costituiva un'eccezione: poco dopo esser stato collocato a riposo per raggiunti limiti di età, in via straordinaria era stato riassunto in servizio. Egli era un operaio specializzato molto abile, in grado di svolgere quasi tutti i lavori in fabbrica. In via sperimentale il datore di lavoro ed il lavoratore concordarono un orario di 16 ore settimanali. Non sappiamo quale sia stato il risultato di questo periodo di prova.

    Fino al novembre 1975 l'appellata aveva retribuito secondo tariffe diverse il personale maschile e femminile, senza però fare alcuna differenza tra la paga oraria dei lavoratori a tempo pieno e quella dei lavoratori a orario ridotto, maschi o femmine. La normativa britannica in materia di parità di trattamento dei dipendenti maschi e femmine (che è costituita essenzialmente dall'Equal Pay Act 1970, emendato, e da parte del Sex Discrimination Act 1975) è entrata in vigore il 29 dicembre 1975. Nel novembre precedente, l'appellata, previe trattative con i rappresentanti dei suoi dipendenti e con il sindacato del settore, la National Union of Tailors and Garment Workers, adottava nuove tariffe retributive, secondo le quali i lavoratori a tempo pieno di entrambi i sessi percepivano la stessa paga oraria, mentre una tariffa diversa vigeva per i lavoratori ad orario ridotto di entrambi i sessi. I lavoratori ad orario ridotto — cioè quelli che prestavano meno di 40 ore settimanali — percepivano, secondo la nuova tariffa oraria, il 10 % di meno rispetto ai lavoratori a tempo pieno. La tariffa oraria inferiore valeva inoltre anche per tutti i dipendenti che, pur se assunti come lavoratori a tempo pieno, prestavano frequentemente servizio meno di 40 ore settimanali. Il sabato mattina tutti i lavoratori, a orario ridotto e a tempo, pieno, potevano prestare ore straordinarie a tariffa speciale.

    In definitiva, dal novembre 1975 tutti i dipendenti dell'appellata, uomini o donne, percepivano la stessa paga oraria, tuttavia i lavoratori ad orario ridotto erano pagati ad una tariffa oraria inferiore del 10 %. Questo principio valeva per la Jenkins e per le altre dipendenti ad orario ridotto dello stabilimento di Harlow, nonché per il Kreitzmann.

    È stata prodotta una ricca documentazione per dimostrare che, nel complesso della Comunità, circa il 90 % dei lavoratori ad orario ridotto sono donne, per lo più sposate e con oneri di famiglia. Questa documentazione consiste essenzialmente in un parere del Comitato economico e sociale del 1ogiugno 1978 sull'impiego ad orario ridotto ed i suoi effetti (GU n. C 269 del 13. 11. 1978, pag. 56), un articolo sull'impiego ad orario ridotto nella Comunità europea pubblicato dall'Organizzazione internazionale del lavoro nella Rivista internazionale del lavoro del maggio-giugno 1979 (Voi. 118, n. 3, pag. 299), un articolo sul lavoro ad orario ridotto in Gran Bretagna, pubblicato nella Gazzetta dell'Ufficio britannico dell'occupazione, del luglio 1979 (pag. 671), ed una comunicazione della Commissione al Comitato permanente per l'occupazione, in data 17 luglio 1980, intitolata «Lavoro volontario ad orario ridotto» (COM (80) 405 finale). La percentuale di donne tra i lavoratori ad orario ridotto varia da Stato membro o Stato membro. Ad esempio, prendendo i dati risultanti dall'Indagine per campione sulle forze di lavoro del 1977 (Tabella 3 allegata alla comunicazione della Commissione) la percentuale massima si aveva in Germania e nel Regno Unito (93 %), mentre si riscontrava una percentuale aggirantesi sulla media in Danimarca ed in Belgio (91 % e 88 %), inferiore in Francia e in Olanda (81%) e decisamente più bassa in Irlanda ed Italia (68 % e 67 %). Non ci sono dati per il Lussemburgo. Le basse percentuali dell'Italia e dell'Irlanda pare siano dovute al fatto che il lavoro ad orario ridotto è meno diffuso nei paesi in cui vi è una bassa percentuale di personale femminile (vedi la comunicazione della Commissione a pagg. 3-4). La percentuale varia inoltre da un'attività all'altra e pare che la più bassa si registri nell'agricoltura e la più alta nel settore dei servizi. In generale, i maschi che sono impiegati ad orario ridotto sono per lo più studenti, persone anziane oppure colpite da invalidità parziale.

    Alla fine della fase scritta, la Corte ha rivolto alla Commissione un quesito inteso ad accertare se qualche Stato membro avesse una disciplina che imponesse che la retribuzione dei lavoratori a tempo ridotto fosse proporzionale a quella dei lavoratori a tempo pieno. La risposta della Commissione, fondata su informazioni raccolte presso i Governi, organizzazioni di datori di lavoro e sindacati degli Stati membri, ha mostrato che nessuno Stato membro aveva discipline di questo tipo, pur se il Governo francese nel settembre 1980 aveva approvato un progetto di legge in tal senso. Tuttavia, in molti Stati membri trattative collettive avevano in generale raggiunto questo risultato. In Italia, in alcuni casi, era addirittura stata concordata una retribuzione per l'orario ridotto proporzionalmente superiore alla retribuzione per il tempo pieno. Solo nel Regno Unito si ammetteva che non era cosa insolita retribuire il lavoro ad orario ridotto con tariffe orarie inferiori.

    La causa che è all'origine del presente procedimento pregiudiziale è stata promossa dalla Jenkins con domanda presentata all'Industriai Tribunal il 3 ottobre 1978.

    In quella fase del giudizio non pare sia stato fatto cenno al diritto comunitario durante tutto il corso del procedimento. La Jenkins ha invocato, a sostegno della sua domanda, solo la normativa britannica. Essa ha sostenuto di esser stata assunta per svolgere un lavoro uguale a quello svolto da un operatore maschio impiegato a tempo pieno ed inquadrato nello stesso grado, e il fatto che essa non fosse retribuita secondo la stessa tariffa oraria di base era in contrasto con detta normativa. La società appellata ha ammesso che la Jenkins svolgeva mansioni uguali a quelle del dipendente maschio. Essa ha fondato la sua difesa su una disposizione della legislazione britannica, cioè la «section 1 (3)»dell'Equal Pay Act 1970, nella versione emendata dal Sex Discrimination Act 1975, in virtù della quale non rientra nella sfera di applicazione di detta legge «una diversità tra il contratto di lavoro della donna e il contratto di lavoro dell'uomo, se il datore di lavoro dimostra che la diversità corrisponde effettivamente ad una differenza sostanziale (diversa dalla differenza di sesso) tra i due casi». L'appellata ha dedotto che il motivo per cui i lavoratori ad orario ridotto erano retribuiti secondo tariffe inferiori a quelle dei lavoratori a tempo pieno non aveva nulla a che vedere con il loro sesso, ma era costituito dall'intento di scoraggiare l'assenteismo nel suo stabilimento e stimolare tutti i dipendenti (ivi compresa la Jenkins a prestare 40 ore lavorative settimanali, cosicché gli impianti potessero venir sfruttati quotidianamente al massimo delle possibilità.

    L'Industriai Tribunal, dopo aver ascoltato vari testimoni, ha accolto gli argomenti svolti dall'appellata e si è pronunciato in senso ad essa favorevole. Il Tribunal ha osservato che, poiché la Jenkins limitava le sue ore di servizio al 75 % del totale auspicato dal datore di lavoro, non vi era solo una differenza di sesso, bensì vi era una differenza sostanziale di altro genere rispetto al suo collega di sesso maschile e quindi era logico che l'interessata venisse retribuita in misura inferiore. Il Tribunal comunque ha osservato che, nonostante sotto il profilo giuridico questa conclusione fosse naturale, cioè risultane lecito applicare diverse tariffe di stipendio ai lavoratori ad orario ridotto ed ai lavoratori a tempo pieno, ciò aveva di per sé «un certo sentore di discriminazione tra i sessi, in quanto, per forza di cose, la maggioranza dei lavoratori ad orario ridotto è necessariamente costituita da donne».

    La Jenkins ha impugnato questa sentenza dinanzi all'Employment Appeal Tribunal.

    Dinanzi all'Employment Appeal Tribunal il patrono della Jenkins ha ammesso che, tenuto conto di quanto aveva accertato l'Industriai Tribunal nonché di precedenti sentenze dell'Employment Appeal Tribunal stesso, era improbabile che venisse accolta una domanda fondata sul solo diritto britannico. Egli ha quindi svolto argomenti fondati sull'art. 119 del Trattato e sull'art. 1 della direttiva sulla parità di retribuzione.

    Questo è lo sfondo sul quale vanno viste le questioni sottoposte dall'Employment Appeal Tribunal in via pregiudiziale che sono le seguenti:

    «1.

    Se il principio della parità di retribuzione, sancito dall'art. 119 del Trattato CEE e dall'art. 1 della direttiva del Consiglio 10 febbraio 1975 prescriva che la retribuzione su base oraria debba essere identica, indipendentemente:

    a)

    dal numero di ore lavorative settimanali prestate,

    b)

    dall'interesse commerciale che il datore di lavoro può avere a stimolare il personale a prestare il massimo di ore lavorative settimanali e quindi a retribuire con una tariffa superiore i lavoratori che prestano servizio per 40 ore settimanali rispetto a quelli che lavorano con orario più ridotto.

    2.

    Se i punti a) e b) del n. 1 sono risolti negativamente, quali criteri si debbano seguire per determinare se il principio della parità di retribuzione si applichi o meno qualora vi sia una differenza nella tariffa oraria a seconda del numero di ore lavorative complessive prestate settimanalmente.

    3.

    Se la soluzione dei punti a) o b) sarebbe diversa (ed eventualmente in che senso) qualora si dimostrasse che una percentuale notevolmente inferiore di operaie, rispetto alla percentuale di operai, è in grado di prestare il massimo di ore lavorative settimanali prescritto per poter fruire della tariffa superiore di stipendio prevista per il tempo pieno.

    4.

    Se le disposizioni relative dell'art. 119 del Trattato CEE o dell'art. 1 della direttiva in questione, a seconda dei casi, siano direttamente applicabili negli Stati membri in ipotesi come quella descritta in precedenza.»

    L'appellata non ha svolto alcun argomento dinanzi a questa Corte. Le sue relazioni ed i suoi rendiconti sulla gestione conclusasi il 30 novembre 1978 ci sono noti e da essi risulta che la società è relativamente modesta e la sua posizione finanziaria non è brillante. Questa situazione è probabilmente tipica di molte industrie del settore dell'abbigliamento. Essa ha sostenuto che solo con il patrocinio gratuito sarebbe stata in grado di comparire in giudizio dinanzi a questa Corte; tuttavia, la sua domanda in questo senso è stata respinta dalla prima Sezione.

    La Jenkins, al contrario, in ogni fase processuale ha avuto l'appoggio del suo sindacato, la National Union of Tailors and Garment Workers, nonché del-l'Equal Opportunities Commission, che, come saprete è un ente pubblico istituito in Gran Bretagna dal Sex Discrimination Act 1975, e che, tra l'altro, è autorizzato a fornire assistenza legale a tutti coloro che esperiscono azioni miranti all'eliminazione della discriminazione tra i sessi. L'appellante ha quindi avuto agio di svolgere i propri argomenti dinanzi a voi.

    Peraltro il Governo belga e il Governo britannico hanno presentato solo osservazioni scritte e la Commissione ha presentato osservazioni scritte e orali. Le osservazioni del Governo belga sono state molto brevi e limitate all'esposizione della situazione giuridica dei lavoratori ad orario ridotto in Belgio. Le osservazioni del Governo britannico sono state in linea molto generale favorevoli all'appellata, mentre le osservazioni della Commissione erano orientate a favore del punto di vista della Jenkins.

    Propongo di cominciare, come hanno fatto i partecipanti a questo procedimento, esaminando le questioni dell'Em-ployment Appeal Tribunal relative all'art. 119 del Trattato, mentre mi riservo di analizzare in seguito l'eventuale rilevanza dell'art. 1 della direttiva sulla parità di retribuzione.

    La prima questione dell'Employment Appeal Tribunal riflette quello che io definirei un argomento a doppio effetto, sul quale ha particolarmente insistito la Jenkins e che ha trovato appoggio presso la Commissione. L'argomento mira a dimostrare in primo luogo che lo stesso tenore dell'art. 119 esige che la retribuzione per il lavoro pagato a tempo debba essere la stessa, indipendentemente dal numero di ore prestate settimanalmente. In secondo luogo si vuole sottolineare che, secondo l'art. 119, qualsiasi vantaggio commerciale che un datore di lavoro possa trarre stimolando il personale a prestare servizio a tempo pieno mediante retribuzioni superiori è irrilevante.

    La prima parte dell'argomento è, se non erro, fondata sul tenore del terzo comma dell'art. 119 che recita:

    «La parità di retribuzione, senza discriminazione fondata sul sesso, implica:

    a)

    che la retribuzione accordata per uno stesso lavoro pagato a cottimo sia fissata in base a una stessa unità di misura,

    b)

    che la retribuzione corrisposta per un lavoro pagato a tempo sia uguale per un posto di lavoro uguale.»

    L'argomento si fonda sul presupposto che l'espressione «posto di lavoro uguale» di cui alla lett. b) significhi che un lavoro rimane identico, tanto se prestato a orario ridotto quanto se svolto a tempo pieno. Questo assunto equivale però, a mio avviso, a considerare l'espressione «posto di lavoro uguale» di cui alla lettera suddetta come avente lo stesso senso dell'espressione «stesso lavoro» di cui al primo comma dell'art. 119 e alla lett. a) del terzo comma.

    È fuori dubbio che la Jenkins svolgesse lo «stesso lavoro» svolto dai colleghi del suo grado che lavoravano a tempo pieno. Se così non fosse stato, non vi sarebbe stato motivo di iniziare la causa. Stando così le cose, sostenere che, pur se essi erano impiegati a tempo pieno mentre la Jenkins lavorava solo ad orario ridotto, i loro «posti di lavoro» erano gli stessi mi pare implichi che «stesso lavoro» e «posto di lavoro uguale» nell'art. 119 abbiano lo stesso senso.

    A mio parere è irrilevante il fatto che, nel testo inglese, al primo comma dell'art. 119 si usi il termine «equal work», mentre alla lett. a) del terzo comma si usi il termine «the same work», in quanto questa diversità esiste solo nelle versioni inglese e irlandese del Trattato. Al contrario, in tutte le versioni del Trattato vi sono due diverse espressioni equivalenti a «equal (o “the same”) work» e, rispettivamente, «the same job», il che mi fa pensare che questa sfumatura sia stata inserita deliberatamente. Sarà utile ricordare tali equivalenti nelle altre lingue, che sono:

    Danese:«samme arbejde» e «samme slags arbejde»;

    Tedesco:«gleiche Arbeit» e «gleicher Arbeitsplatz»;

    Greco:«omoia ergasia» e «omoia thesi»;

    Francese:«même travail» e «même poste de travail»;

    Irlandese:«obair chomhionann» e «ceann oibre céanna»;

    Italiano:«stesso lavoro» e «posto di lavoro uguale»;

    Olandese:«gelijke arbeid» e «zelfde functie».

    Penso quindi che non sia possibile sostenere che la lettera dell'art. 119 porti necessariamente alla conclusione esposta dalla Jenkins e dalla Commissione. Detta lettera è perlomeno coerente con il punto di vista secondo cui un lavoratore ad orario ridotto ed un lavoratore a tempo pieno non occupano un «posto di lavoro uguale», anche se possono svolgere «lo stesso lavoro».

    Le considerazioni esposte dalla Jenkins e dalla Commissione a sostegno della seconda parte dell'argomento sono diverse tra loro.

    Il patrono della Jenkins si è richiamato a quella che egli ha difinito la «soluzione Clay Cross», riferendosi alla sentenza della Corte d'Appello dell'Inghilterra e del Galles nella causa Clay Cross (Quarry Services) Ltd. c/Fletcher (ICR 1979, pag. 1). In questa controversia una donna addetta alle vendite rivendicava la parità di retribuzione nei confronti di un dipendente assunto dopo di lei per svolgere lo stesso lavoro. In effetti il nuovo assunto aveva dovuto effettuare un periodo di addestramento con lei. Egli era retribuito con una paga settimanale superiore a quella della collega in quanto era risultato essere l'unico candiato indoneo ad occupare il posto vacante ed aveva preteso una retribuzione pari a quella percepita nel posto che egli occupava in precedenza. Il datore di lavoro pensava che il posto avrebbe potuto venir occupato indifferentemente da un uomo o da una donna ed invocava la «section 1 (3)» del- l'Equal Pay Act 1970, nella versione modificata, per sostenere che la differenza tra le condizioni del rapporto d'impiego dei due dipendenti rispecchiava una differenza sostanziale, diversa alla differenza di sesso, tra la situazione dei due interessati. La Corte d'Appello respinse questo argomento per motivi che in sostanza Lord Denning ha definito come segue:

    «Il datore di lavoro può anche non avere l'intenzione di compiere discriminazioni ai danni del personale femminile retribuendolo meno: se però il risultato del suo comportamento è una discriminazione a danno del personale femminile, la sua condotta risulta illegittima, prescindendo dalle sue intenzioni.

    Un datore di lavoro non può sottrarsi agli obblighi che gli derivano dalla legge sostenendo che ha retribuito di più un determinato dipendente in quanto tali erano le sue pretese, oppure ha retribuito di meno una dipendente in quanto essa ha volontariamente accettato questa condizione. Il riconoscere giustificazioni di questo genere vorrebbe dire porre in non cale la lettera della legge. In sostanza queste erano le vere ragioni della differenza di retribuzione prima dell'adozionę della legge. Ed è proprio per queste situazioni che si è inteso introdurre questa legge.»

    Queste considerazioni, a mio parere, hanno valore sia nell'ambito dell'art. 119 del Trattato che nel contesto della disciplina britannica cui si riferiva Lord Denning. Però nella giurisprudenza Clay Cross non ravvisa alcun sostegno per l'ampia conclusione, che ne ha tratto il patrono della Jenkins, cioè che è irrilevante qualsiasi vantaggio commerciale che un datore di lavoro può trarre operando differenziazioni tra categorie di lavoratrici. A mio parere è fuori luogo richiamarsi alla sentenza Clay Cross, le cui considerazioni vanno interpretate alla luce della situazione cui si riferivano. Diverso sarebbe il caso se si potesse dedurre che il vero motivo per cui l'appellata ha retribuito i suoi dipendenti ad orario ridotto secondo una tariffa oraria inferiore, rispetto ai dipendenti a tempo pieno, era il fatto che i lavoratori ad orario ridotto erano in maggioranza donne, più sfavorite degli uomini nel discutere le loro condizioni d'assuzione, oppure che questa disparità di trattamento era un residuo della disciplina vigente allorché l'appellata retribuiva tutto il suo personale femminile secondo tariffe inferiori a quelle praticate per il personale maschile. Però, tenuto conto di quanto ha accertato l'Industriai Tribunal, questa conclusione va esclusa.

    Non mi hanno convinto nemmeno le considerazioni della Commissione svolte a sostegno della seconda parte di questo argomento, sia perché erano di contenuto più politico che giuridico, sia perché mi parevano fondate sul presupposto che la discriminazione fra i lavoratori a tempo pieno e i lavoratori ad orario ridotto deve sempre venir fatta coincidere con la discriminazione tra uomini e donne, indipendentemente dalla situazione del caso specifico. In fondo, potrebbero darsi casi in cui, in ragione delle caratteristiche di una particolare attività produttiva, i lavoratori ad orario ridotto siano prevalentemente o esclusivamente uomini e lo siano pure i lavoratori a tempo pieno. Una eventuale discriminazione tra di essi difficilmente potrebbe essere considerata «fondata sul sesso».

    A mio parere ciò che hanno dimenticato la Jenkins e la Commissione esaminando la prima questione è che l'art. 119 si riferisce, esclusivamente, alla discriminazione «fondata sul sesso». Esso non riguarda le discriminazioni fondate su qualsiasi altro criterio. Il fatto è che l'appellata, nel periodo in esame, aveva alle sue dipendenze nello stabilimento di Harlow più dipendenti femmine che lavoravano a tempo pieno che non dipendenti maschi e che i dipendenti a tempo pieno dell'uno e dell'altro sesso erano retribuiti secondo la stessa tariffa. Per di più l'Industriai Tribunal ha accertato, in base alle testimonianze ascoltate, che la convenuta aveva valide ragioni per retribuire i suoi dipendenti ad orario ridotto in base a tariffe orarie inferiori rispetto ai dipendenti a tempo pieno, indipendentemente dal sesso.

    Nella cause 129/79, Macarthys Ltd. e/ Smith (Race. 1980, pag. 1275) la Corte ha dichiarato quanto segue:

    «Si deve tuttavia ammettere, ... che non si può escludere che la differenza di retribuzione fra due lavoratori occupanti lo stesso posto di lavoro, ma in periodi diversi, si spieghi con l'intervento di fattori estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso. Si tratta in tal caso di una questione di fatto che spetta al giudice valutare.» (punto n. 12 della motivazione).

    A mio parere, lo stesso vale per quanto concerne il caso di differenza di tariffa oraria di retribuzione tra due lavoratori che svolgono lo stesso lavoro per un diverso numero di ore settimanali.

    Vediamo ora la seconda e la terza questione sottoposte dall'Employment Appeal Tribunal, che ritengo opportuno esaminare congiuntamente.

    Dette questioni, specialmente la terza, riflettono un argomento svolto in subordine dalla Jenkins per l'eventualità che la Corte disattenda il suo primo argomento. Essa ha sostenuto che, se fosse dimostrato che una determinata condizione per essere retribuiti in modo identico per lo stesso lavoro, come il prestare servizio per un minimo di ore settimanali, ha conseguenze eccessivamente negative per i lavoratori di un determinato sesso, l'applicazione di detta condizione sarebbe contraria al principio della parità di stipendio, a meno che non sia dimostrato che la condizione è «chiaramente connessa con il tipo di servizio in questione». In udienza il patrono della Jenkins ha spiegato che il significato di detto argomento, «in parole povere», era che se, come è evidente, le donne possono meno facilmente lavorare 40 ore settimanali che non gli uomini, dati i loro oneri familiari, la condizione di un orario settimanale di 40 ore, onde venir retribuiti secondo la tariffa piena, si ripercuote negativamente in modo sproporzionato più sulle donne che sugli uomini. Ciò non implica necessariamente una discriminazione, però significa che, evidentemente, in pratica si verifica una discriminazione che deve essere «appositamente giustificata dal datore di lavoro». L'avvocato ha definito questa la «soluzione Griggs», riferendosi alla sentenza della Suprema Corte degli Stati Uniti nella causa Griggs c/Duke Power Company (1971, 401 US 424).

    La Commissione ha decisamente respinto questa soluzione, che essa ha difinito un «rimedio a metà» e la cui adozione, ha sostenuto, porterebbe ad un sistema che può senz'altro essere difficile da controllare in pratica.

    Ciononostante, ritengo che sia la soluzione esatta. Essa è l'unica che permette di tener conto dell'esigenza di impedire discriminazioni nei confronti delle donne, mascherate come differenziazioni tra lavoratori a tempo pieno e ad orario ridotto, e dell'esigenza di risparmiare ingiustizie a danno di un datore di lavoro che opera la differenza tra lavoratori a tempo pieno e lavoratori ad orario ridotto per valide ragioni che nulla hanno a che vedere con il sesso. Mi lascia pure indifferente l'argomento secondo cui questa soluzione apre la porta ad un sistema che sarebbe difficile da controllare. Spetta ai giudici nazionali effettuare tale sindacato ed essi mi pare siano i più qualificati per questo compito.

    Come è stato osservato più di una volta, la Suprema Corte degli Stati Uniti e questa Corte devono sovente risolvere problemi analoghi. Pur se, naturalmente, le disposizioni dello United States Civil Rights Act del 1964 sulle quali verteva la causa Griggs erano redatte diversamente dall'art. 119 del Trattato, il loro scopo fondamentale era lo stesso, salvo che, nelle disposizioni specifiche su cui verteva la causa Griggs, si parlava di discriminazione razziale e non in base al sesso. D'altro canto, nella causa Dothard c/Rawlinson (1977, 433 US 321), la Corte Suprema ha applicato le stesse considerazioni alla discriminazione in base al sesso. Mi dà molta fiducia il fatto che la mia conclusione coincide con le conclusioni della Corte americana in quelle controversie.

    La mia fiducia si consolida ancor più in quanto detta conclusione concorda con un ben noto orientamento della vostra giurisprudenza; causa 152/73, Sotgiu c/ Deutsche Bundespost (Race. 1974, pag. 153), causa 61/77, Commissione e/ Irlanda (Race. 1978, pag. 417) e causa 237/78, CRAM c/Toia (Racc. 1979, pag. 2645). Queste cause naturalmente vertevano su, discriminazioni in base alla cittadinanza e non al sesso. Le sentenze stabiliscono che una norma che apparentemente opera una differenziazione tra i singoli in base ad un criterio diverso da quello della nazionalità è ciononostante incompatibile con le disposizioni del diritto comunitario che vietano detta discriminazione se la sua applicazione porta in effetti allo stesso risultato, a meno che la differenziazione possa giustificarsi per ragioni «oggettive». Non vedo perché si dovrebbe seguire una linea diversa nel caso della discriminazione a motivo del sesso.

    Vista sotto questa prospettiva, la quarta questione dell'Empoyment Appeal Tribunal si risolve nel chiedere se l'art. 119 del Trattato abbia efficacia diretta negli Stati membri, nel senso che un datore di lavoro, se applica tariffe retributive orarie diverse ai lavoratori a tempo pieno e ai lavoratori ad orario ridotto deve, in forza di dette disposizioni, dimostrare che la differenziazione non si risolve in una discriminazione tra uomini e donne, ma è giustificata da motivi oggettivi.

    A mio giudizio la risposta al quesito è ovviamente «sì». Ho già ricordato che, a mio parere, i giudici nazionali sono l'organo meglio qualificato a svolgere l'indagine di volta in volta. E nemmeno è necessaria una disciplina ulteriore, comunitaria o nazionale, per conferire loro la relativa competenza. L'indagine non presenta difficoltà. Basta esaminare i fatti inerenti alla singola fattispecie.

    Tuttavia, una difficoltà a questo proposito sorge per effetto di alcune affermazioni della Corte nella causa 43/74, seconda causa Defrenne (Race. 1976, pag. 455) e nella causa Macarthys Ltd. e/ Smith (già citata). Ho parlato di tale difficoltà nelle conclusioni per la causa 69/80 Worringham e/ Lloyds Bank Ltd., ancora in corso. Dette affermazioni potrebbero venir interpretate nel senso che si è voluto dichiarare che l'indagine per determinare se vi sia discriminazione «dissimulata», nel senso in cui tale termine è usato nelle sentenze Sotgiu, Commissione e/ Irlanda e Toia, è la stessa indagine in base alla quale si identifica il tipo di discriminazione nei cui confronti l'art. 119 non ha efficacia immediata. A mio parere le due indagini non sono identiche e dubito che la Corte abbia voluto affermare questa identità. L'avvocato della Jenkins ci ha detto in udienza, rispondendo ad una mia interrogazione, che pensava che il problema fosse d'indole prettamente terminologica e penso che avesse ragione. La confusione è sorta in gran parte a causa della versione inglese delle suddette sentenze della Corte, dove in particolare i termini «overt», da una parte e «disguised» dell'altra, sono ciascuno usato, in rapporto alla discriminazione, per definire quelle che a mio avviso sono due nozioni diverse. Se si esamina la versione francese delle stesse sentenze si vedrà che la Corte ha coerentemente usato i vocaboli «ostensibles» e «dissimulées» per definire la dicotomia nelle cause Sotgiu, Commissione e/ Irlanda e Toia, mentre nella seconda causa Defrenne e nella causa Macarthys e/ Smith ha usato le espressioni contrapposte «directes et ouvertes» e «indirectes et déguisées». Tuttavia, se permettete, non mi pare che quest'ultima frase, comunque la si traduca in inglese, sia idonea a definire quei tipi di discriminazione nei cui confronti l'art. 119 non ha efficacia diretta. L'art. 119, a mio parere, si definisce con maggior precisione dicendo che non ha efficacia diretta qualora un giudice non possa applicare le sue disposizioni facendo richiamo ai semplici criteri che quelle stesse disposizioni stabiliscono e qualora, di conseguenza, sia necessaria una disciplina di attuazione, comunitaria o nazionale, per definire i criteri da applicarsi. Mi permetto di dire che sarebbe opportuno, nella sentenza emenanda nella fattispecie o magari in quella che sarà pronunziata nella causa Worringham e/ Lloyds Bank, definire questo punto.

    Vediamo infine l'art. 1 della direttiva sulla parità di retribuzione. Sarò breve; il primo comma di detto articolo stabilisce che:

    «Il principio della parità delle retribuzioni tra i lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile, previsto dall'articolo 110 del Trattato, denominato in appresso “principio della parità delle retribuzioni”, implica, per uno stesso lavoro o per un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, l'eliminazione di qualsiasi discriminazione basata sul sesso in tutti gli elementi e le condizioni delle retribuzioni.»

    Mi pare che questa disposizione, almeno per quanto riguarda la presente fattispecie, non aggiunga alcunché a quanto stabilisce l'art. 119. Il secondo comma riguarda la classificazione professionale e non entra in linea di conto nella presente fattispecie.

    In definitiva ritengo che, per risolvere le questioni sottoposte alla Corte dall'Employment Appeal Tribunal, dovreste pronunciarvi in questo senso:

    1.

    Né l'art. 119 del Trattato CEE né l'art. 1 della direttiva sulla parità di retribuzione prescrivono che la retribuzione per il lavoro a tempo deve essere la stessa, indipendentemente dal numero di ore settimanali prestate e da qualsiasi vantaggio che il datore di lavoro può trarre dall'incentivare il lavoro a tempo pieno;

    2.

    qualora vi sia una differenza nelle tariffe retributive orarie, in funzione del numero totale di ore settimanali lavorative prestate, l'art. 119 del Trattato esige che il datore di lavoro dimostri che la differenza è giustificata da ragioni obiettive, che nulla hanno a che vedere con una discriminazione in base al sesso;

    3.

    nei limiti in cui pone questa condizione, l'art. 119 ha efficacia diretta negli Stati membri nel senso che conferisce ai singoli diritti che i giudici nazionali devono salvaguardare;

    4.

    l'art. 1 della direttiva sulla parità di retribuzione non pregiudica l'efficacia dell'art. 119 sotto questo profilo.


    ( 1 ) Traduzione dall'inglese.

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