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Document 61979CC0015

Conclusioni dell'avvocato generale Capotorti del 27 settembre 1979.
P.B. Groenveld BV contro Produktschap voor Vee en Vlees.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: College van Beroep voor het Bedrijfsleven - Paesi Bassi.
Carne equina.
Causa 15/79.

Raccolta della Giurisprudenza 1979 -03409

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1979:218

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

FRANCESCO CAPOTORTI

DEL 27 SETTEMBRE 1979

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

Nella presente controversia pregiudiziale si tratta ancora una volta di precisare — in relazione all'ipotesi di un divieto nazionale di produrre una determinata merce — l'ampiezza della nozione di «misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative» (all'esportazione o all'importazione) che figura negli articoli 30 e 34 del Trattato CEE.

La società P. B. Groenveld, attrice nel procedimento principale, si occupa nei Paesi Bassi della importazione di carni equine e della preparazione di carni di cavallo affumicate. Il 9 febbraio 1978, essa richiese all'organismo nazionale che sovrintende alla produzione delle carni (Produktschap voor Vee en Vlees) l'autorizzazione a fabbricare salumi ed altri preparati a base di carne equina, diversi dalla carne affumicata. Tale richiesta venne respinta, in applicazione del decreto sulla lavorazione e la trasformazione delle carni emesso dalla direzione del Produktschap voor Vee en Vlees il 5 dicembre 1973; decreto che, all'articolo 3, paragrafo 1, vieta espressamente ai fabbricanti di salumi di detenere in magazzino e di lavorare le carni di cavallo e i prodotti i quali contengano proteine derivanti da tali carni.

La società Groenveld impugnò il provvedimento di rifiuto dell'autorizzazione innanzi al College van Beroep voor het Bedrijfsleven. Con ordinanza del 26 gennaio 1979, quest'organo giurisdizionale ha chiesto in via pregiudiziale alla nostra Corte di stabilire «se l'articolo 34 del Trattato che istituisce la Comunità economica europea, eventualmente in collegamento con qualsiasi altra disposizione del Trattato e/o con qualunque principio fondamentale di quest'ultimo, debba essere interpretato nel senso della incompatibilità con essi del divieto, enunciato dall'articolo 3, paragrafo 1, del decreto (su citato), … tenuto conto anche dello scopo e della portata di tale divieto …».

2. 

Mi sembra opportuno chiarire anzitutto ciò che dispone la legislazione vigente nei Paesi Bassi in materia di preparati a base di carni equine. Il divieto imposto dal citato articolo 3, paragrafo 1, del decreto 5 dicembre 1973 ai fabbricanti di salumi è temperato da una eccezione a favore delle «boucheries chevalines»: risulta infatti dall'articolo 5 del menzionato decreto che tali «boucheries» possono confezionare salumi di carni equine, purché li vendano direttamente ai consumatori e non ad intermediari. D'altra parte, l'importazione e l'esportazione dei salumi equini non sono di per sé vietate, cosicché gli operatori economici hanno la possibilità sia di far entrare nei Paesi Bassi questo tipo di prodotto (importato da paesi comunitari o da paesi terzi) sia di riesportarlo, senza incontrare specifiche limitazioni, all'interno e all'esterno dell'area comunitaria.

Il quesito, che il giudice di merito ha sottoposto a questa Corte, concerne dunque la compatibilità con l'articolo 34 del Trattato CEE del solo divieto di produzione su larga scala (su scala industriale, vorrei dire) della merce anzidetta.

Circa la formulazione di tale quesito, devo rilevare che esso, benché testualmente si riferisca alla normativa interna di un paese membro, pone tuttavia un problema di indole generale: se cioè disposizioni del tipo di quelle descritte, in vigore nei Paesi Bassi, siano compatibili con le norme del Trattato CEE. È questo il problema che verrà qui esaminato: compito della nostra Corte è infatti stabilire la portata di norme comunitarie e non già valutare la legittimità di norme interne alla stregua del diritto della Comunità.

3. 

Non mi sembra contestabile che una normativa interna la quale abbia il contenuto indicato costituisca in realtà un notevole intralcio agli scambi intracomunitari dei prodotti in questione. L'impossibilità di fabbricare insaccati di carni equine, in cui vengono a trovarsi le imprese che non procedano direttamente all'abbattimento dei capi (che non siano, cioè, qualificabili come «boucheries»), e che vogliano collocare il prodotto sul mercato tramite intermediari (grossisti o dettaglianti), rappresenta infatti un ostacolo, indiretto ma pressoché totale, alle esportazioni. Le sole esportazioni lecite di insaccati equini rimangono, in una tale situazione, quelle riguardanti prodotti fabbricati all'estero — in un altro paese comunitario o in un paese terzo — e importati nel paese membro dove vige il divieto, nonché quelle relative a salumi confezionati a livello artigianale dalle «boucheries chevalines» (ma quest'ultima ipotesi non mi sembra presenti una dimensione economica apprezzabile). Come a ragione osserva la Commissione, una normativa del tipo di quella olandese è di ostacolo, sempre per via indiretta, anche alle importazioni: nel senso che una così severa limitazione della possibilità di produrre salumi equini finisce con l'influire riduttivamente anche sull'importazione delle carni equine limitandone l'utilizzazione. Il presente caso, quindi, va inquadrato non solo nell'ambito dell'articolo 34 del Trattato CEE, relativo alle esportazioni, ma anche in quello dell'articolo 30, concernente le importazioni nei rapporti fra gli Stati membri.

A me sembra chiaro che una normativa del tipo descritto è incompatibile con entrambi gli articoli citati. È noto, infatti, che l'espressione «misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative» comprende, secondo la consolidata giurisprudenza della nostra Corte, «ogni regolamentazione commerciale degli Stati membri suscettibile di ostacolare direttamente o indirettamente, attualmente o potenzialmente, il commercio intracomunitario» (cfr., da ultimo, la sentenza 13 marzo 1979 nella causa 119/78, SA des Grandes Distilleries Peureux c/ Services Fiscaux de la Haute-Saòne et du Territoire de Belfort, punto 22 della motivazione). Perciò un ostacolo attuale, anche se indiretto, come quello costituito dalla normativa olandese del caso di specie, rientra sicuramente nell'ambito dei divieti di cui agli articoli 30 e 34.

4. 

È noto che, malgrado tale divieto, gli Stati membri non sono interamente privi della facoltà di emanare — quando ricorrano determinati presupposti — disposizioni che frappongono un ostacolo, diretto o indiretto, al commercio intracomunitario. Questa Corte, in una decisione recente (sentenza del 20 febbraio 1979 nella causa 120/78, Rewe c/ Bundesmonopolverwaltung fiir Branntwein, specialmente punti 8-15 della motivazione), ha affermato in proposito che gli Stati membri conservano il potere di introdurre quelle restrizioni che siano «necessarie per rispondere ad esigenze imperative attinenti, in particolare, ai fini fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà dei negozi commerciali e alla difesa dei consumatori». Questa elencazione, che solo in parte si aggancia all'articolo 36 del Trattato CEE, riconosce più largamente la legittimità di norme nazionali in deroga agli articoli 30 e 34 quando esse «perseguono uno scopo d'interesse generale atto a prevalere sulle esigenze della libera circolazione delle merci, che costituisce uno dei princìpi fondamentali della Comunità» (punto 14 della motivazione della sentenza 20 febbraio 1978, su citata).

Non mi sembra tuttavia che nella specie i Paesi Bassi — la cui situazione concreta permette di chiarire la portata delle norme comunitarie in questione — avessero giustificazioni valide del tipo indicato per adottare, come hanno fatto, misure interne equivalenti a restrizioni quantitative.

L'ente olandese che sovrintende alla produzione delle carni, nelle difese scritte presentate a questa Corte, sostiene che le norme restrittive erano da considerarsi legittime perché avevano lo scopo di rendere possibile l'esportazione di carni insaccate non equine verso quei paesi (come il Regno Unito), nei quali i consumatori provano avversione per la carne di cavallo, o nei quali la importazione di prodotti derivati da tale carne è addirittura vietata (è questo il caso della Repubblica federale). Secondo l'ente olandese, sarebbe tecnicamente molto difficile e costoso accertare la presenza di carne equina in una preparazione di carni trattate a temperatura elevata; di qui la conseguenza che di fatto riesce impossibile servirsi, nei paesi importatori, di controlli tecnici per individuare la natura, equina o non, delle carni presenti nel prodotto importato. Perciò, il solo rimedio per assicurare l'esportazione dei preparati olandesi a base di carne verso i paesi sopra menzionati sarebbe quello, radicale, di vietare, all'interno dei Paesi Bassi, la fabbricazione di salumi contenenti carni equine, rafforzando questa misura con il divieto fatto, alle imprese produttrici, di detenere in magazzino carni equine.

Questa argomentazione non è a mio avviso convincente.

Osservo in primo luogo che le misure restrittive adottate non possono dirsi necessarie per tutelare la lealtà dei rapporti commerciali e la posizione dei consumatori; interessi, questi, che, come la Corte ha riconosciuto nella citata sentenza del 20 febbraio 1979, hanno indubbiamente un rilievo generale e possono in certe circostanze prevalere sul principio della libera circolazione delle merci. Gli acquirenti e i consumatori ben possono, infatti, come ha esattamente osservato la difesa della Commissione, essere tutelati mediante regole sulla etichettatura dei prodotti. Una soluzione di questo tipo è stata ipotizzata proprio nella sentenza già richiamata del 20 febbraio 1979: si trattava in quel caso di stabilire se la normativa comunitaria lasciasse uno Stato membro libero di fissare, ad un livello superiore rispetto allo standard comunitario, il contenuto minimo in alcool di bevande commercializzate sul suo territorio e la Corte ritenne che non si potesse «considerare la fissazione imperativa del contenuto minimo di alcool come una garanzia sostanziale della lealtà dei negozi commerciali, dal momento che era facile garantire l'adeguata informazione dell'acquirente rendendo obbligatoria l'indicazione della provenienza e della gradazione alcoolica sull'imballo dei prodotti» (punto 13 della motivazione).

Anche a proposito della presunta necessità di tutelare la produzione nazionale di preparati a base di carni, è agevole rilevare che l'obbligo di indicare la presenza di carni equine sull'involucro esterno dei prodotti dovrebbe essere sufficiente a vincere la diffidenza dei consumatori dei paesi importatori. D'altra parte non credo che la protezione della produzione nazionale rientri nel numero di quegli interessi d'indole generale, la cui tutela può, secondo la giurisprudenza di questa Corte, giustificare una deroga alla libera circolazione intracomunitaria delle merci. Osservo infine che è discutibile che il divieto di fabbricazione di salumi equini serva effettivamente a tutelare le esportazioni: la Commissione ha infatti osservato che altri paesi (come ad esempio la Danimarca), i quali non hanno nel loro ordinamento un analogo divieto, esportano prodotti a base di carne verso quegli stessi mercati in cui tradizionalmente trovano sbocco le esportazioni dei Paesi Bassi.

Abbiamo visto che uno degli argomenti prospettati dall'ente olandese fa leva sul fatto che la Repubblica federale ha vietato la importazione di carni equine; ciò avrebbe costretto i Paesi Bassi ad adottare le note misure restrittive affinché non fossero pregiudicate le proprie esportazioni sul mercato tedesco. Evidentemente è fuori luogo, in questa sede, discutere circa la legittimità comunitaria delle suddette norme restrittive tedesche, sulle quali sono state fornite solo generiche indicazioni; basterà comunque ripetere che il rimedio adeguato per far fronte alle pretese difficoltà delle imprese olandesi era sempre quello di fornire, attraverso la etichettatura, chiare informazioni al consumatore sulla natura della merce. E invece sicuramente sproporzionato allo scopo un rimedio come quello adottato nei Paesi Bassi, consistente nel vietare, in modo assoluto, la produzione degli insaccati equini.

Non mi sembra, infine, che per giustificare misure restrittive come quelle olandesi possa seriamente invocarsi la necessità di proteggere la salute pubblica. È vero che, per tutelare questo bene, è lecito agli Stati membri, alla stregua dell'articolo 36 del Trattato CEE, limitare la libera circolazione delle merci; ma è altrettanto indiscutibile che, per nozione di comune esperienza, la carne di cavallo non presenta maggiori rischi per la salute che le carni di altre specie animali destinate all'alimentazione umana. È significativo a tal riguardo che la direttiva del Consiglio del 21 dicembre 1976, relativa a problemi sanitari in materia di scambi intracomunitari di prodotti a base di carne, riferendosi per la nozione di «carni» anche all'articolo 1 della direttiva 64/433 include in tal modo le carni fresche di «solipedi domestici». Ciò conferma, se mai ve ne fosse bisogno, che le carni equine non sono state considerate nocive alla salute, ma hanno ricevuto il medesimo trattamento sanitario di ogni specie di carne commestibile.

5. 

In conclusione, quindi, sono d'avviso che il quesito formulato dal College Van Beroep voor Het Bedrijfsleven di Rijswijk, con l'ordinanza del 26 gennaio 1979, meriti la seguente risposta della Corte:

«Rientra nella nozione di “misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative”, di cui agli articoli 30 e 34 del Trattato CEE, il divieto di produrre preparati a base di carne equina, che sia imposto ai fabbricanti di salumi dalle norme interne di uno Stato membro».

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