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Document 61976CC0074

Conclusioni riunite dell'avvocato generale Warner del 10 febbraio 1977.
Iannelli & Volpi SpA contro Ditta Paolo Meroni.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Pretura di Milano - Italia.
Causa 74/76.
Steinike & Weinlig contro Repubblica federale di Germania.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Verwaltungsgericht Frankfurt am Main - Germania.
Causa 78/76.

Raccolta della Giurisprudenza 1977 -00557

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1977:23

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE JEAN-PIERRE WARNER

DEL 10 FEBBRAIO 1977 ( 1 )

Signor presidente,

signori giudici,

le presenti cause sono state originate, l'una — la causa 74/76, che chiamerò per comodità «causa italiana» — da una domanda di pronunzia pregiudiziale presentata, in forza dell'art. 177 del trattato CEE, dalla pretura di Milano, l'altra — la causa 78/76, che chiamerò «causa tedesca» — da un'analoga domanda formulata dal Verwaltungsgericht di Francoforte sul Meno.

Per dirla in breve, entrambe le cause vertono su taluni oneri imposti dal diritto nazionale su talune merci importate a favore di enti le cui risorse finanziarie sono destinate ad incrementare determinati settori dell'economia dello Stato membro interessato. Sia l'una che l'altra sollevano problemi relativi all'interpretazione delle norme del trattato CEE — e alle relazioni fra queste esistenti — concernenti gli aiuti concessi dagli Stati membri (artt. 92 e 93), gli oneri fiscali interni (art. 95) nonché, nella causa italiana, le misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione (art. 30) e, nella causa tedesca, le tasse di effetto equivalente a dazi doganali (artt. 9, n. 1, 12 e 13, n. 2). Per di più, in quest'ultima causa è stata sollevata una questione vertente sull'interpretazione dello stesso art. 177.

Ritengo opportuno occuparmi innanzitutto della causa tedesca.

La normativa nazionale di cui trattasi è costituita dalla Absatzfondsgesetz del 26 giugno 1969 (BGBl. I, pag 635) — modificata con legge 5 agosto 1970 (BGBl. I, pag. 1177) — nonché da un regolamento emanato il 29 aprile 1970 in forza di questa (BGBl. I, pag. 443), e concerne un Fondo Centrale (Absatzförderungsfonds) istituito al fine di incrementare l'agricoltura, l'industria alimentare e la silvicoltura nella Repubblica federale di Germania. A norma dell'art. 10 della Absatzfondsgesetz, tale fondo è alimentato in parte da interessi su capitali amministrati dalla Landwirtschaftliche Rentenbank, in parte da somme stanziate dal governo federale (il cui ammontare tuttavia, a quanto pare, è in diminuzione) e in parte da contributi a carico delle aziende che operano nei settori dell'agricoltura, dell'industria alimentare e della silvicoltura. A quanto risulta, questi contributi gravano sia sui prodotti nazionali, sia su quelli importati ma, per quanto concerne questi ultimi, solo qualora essi vengano trasformati. Risulta inoltre che i suddetti mezzi finanziari non vengono impiegati direttamente dal fondo, ma sono messi a disposizione di un ente creato in forza del § 2, n. 2, della Absatzfondsgesetz, la «Centrale Marketing-Gesellschaft der Deutschen Agrarwirtschaft mbH» (in prosieguo CMA) e da questo utilizzati per svolgere ricerche di mercato e attività pubblicitarie sia in Germania, sia all'estero. Tali attività vanno a vantaggio, tra l'altro, dei prodotti alimentari tedeschi ottenuti da materie prime nazionali o importate.

L'11 marzo 1969, vale a dire quando la Absatzfondsgesetz era ancora allo stato di disegno di legge, il governo federale, in conformità all'art. 93, n. 3, del trattato, informava la Commissione circa la sua intenzione di proporne l'emanazione. La Commissione non riteneva tale legge «incompatibile con il mercato comune in relazione all'art. 92»: questa pertanto, per quanto concerne gli artt. 92 e 93, entrava legittimamente in vigore. Alla Corte non è stato precisato se la Commissione fosse stata, del pari, informata in anticipo circa la modifica apportatavi nell'agosto 1970; tuttavia, poiché si trattava di una modifica di scarsa importanza, concernente soltanto il calcolo dei contributi a carico dei prodotti di serra, tale questione è irrilevante ai fini della presente causa.

L'attrice nella causa pendente dinanzi al Verwaltungsgericht — la ditta Steinike und Weinlig — importa dall'Italia e da paesi terzi succo concentrato di agrumi che trasforma per ottenere, secondo la definizione del Verwaltungsgericht, «prodotti intermedi destinati all'industria delle bevande rinfrescanti»; essa smercia detti prodotti unicamente sul mercato tedesco. Con provvedimento 20 agosto 1974, le veniva ingiunto di pagare un contributo di 20000 DM per il periodo 1o gennaio 1970 - 30 settembre 1971. Il provvedimento era fondato sull'art. 10, n. 8, lett. e), della Absatzfondsgesetz, che assoggettava al contributo le imprese che trasformano prodotti ortofrutticoli acquistati allo stato grezzo, lavorati o semilavorati, ed inoltre contemplava una deroga che qui non c'interessa. Come potete constatare, presupposti del contributo — secondo tale norma — sono «l'acquisto» e la trasformazione dei prodotti; l'importazione in sé e per sé non è menzionata.

A quanto pare, in forza di una modifica apportata nel marzo 1972 alla Absatzfondsgesetz, i prodotti di specie contemplate da tale legge, ma che non crescono spontaneamente nelle condizioni climatiche esistenti in Germania sono esenti dal contributo. Poiché, come è ammesso concordemente dalle parti, gli agrumi non crescono spontaneamente in Germania, ne deriva che i succhi concentrati importati dall'attrice non sono più soggetti a contributi.

L'attrice, tuttavia, è del parere che anche prima che la legge venisse modificata in tal senso i contributi impostile erano illegittimi sia dal punto di vista del diritto tedesco — che questa Corte non è competente ad esaminare — sia sotto il profilo del diritto comunitario. Per questa ragione essa ha convenuto dinanzi al Verwaltungsgericht la Repubblica federale di Germania, impugnando il provvedimento con cui le è stato ingiunto il versamento del contributo.

Con la prima questione si chiede alla Corte se «l'art. 93 del trattato CEE osti a che un giudice nazionale chieda una pronunzia pregiudiziale vertente sull'art. 92 dello stesso trattato e quindi decida sull'applicazione di questa disposizione». Come risulta chiaramente dalla formulazione dell'ordinanza di rinvio, il Verwaltungsgericht invita in realtà la Corte a riesaminare la questione del se l'art. 92 possa avere efficacia diretta e cioè attribuire ai singoli diritti che questi possono far valere ai giudici nazionali. Nelle sentenze 15. 7. 1974 (causa 6/64, Costa/Enel; Racc. 1964, pag. 1127), 19. 6. 1973 (causa 77/72, Capolongo/Maya; Racc. 1973, pag. 611) e 11. 12. 1973 (causa 120/73, Lorenz/Germania; ibidem, pag. 1471), la Corte ha sancito il principio secondo cui, mentre il divieto — stabilito dall'art. 93, n. 3 — di istituire nuove sovvenzioni o modificare quelle esistenti, senza che la Commissione ne venga informata e lo autorizzi, ha efficacia diretta nel senso sopra indicato, l'art. 92, n. 1, ha tale efficacia solo «qualora si sia concretato in atti di carattere generale, ai sensi dell'art. 94, ovvero in decisioni, nei casi particolari contemplati dall'art. 93, n. 2» (Racc. 1973, pag. 621). Il giudice a quo esprime il timore di dover eventualmente accettare la validità di una normativa che, a suo avviso, è incompatibile con l'art 92 del trattato CEE e suggerisce che, poiché nella sentenza 16 gennaio 1974 (causa 166/73, Rheinmühlen-Düsseldorf/Einfuhr- und Vorratsstelle för Getreide und Futtermittel; Racc. 1974, pag. 33) la Corte ha affermato che i giudici nazionali godono della più ampia facoltà di adirla in via pregiudiziale, nonostante l'efficacia vincolante di norme di diritto interno, lo stesso principio dovrebbe valere per quanto concerne i rapporti fra la Commissione ed i giudici nazionali.

Signori, con tutto il rispetto per il Verwaltungsgericht di Francoforte, non posso condividere il suo punto di vista. Il motivo per il quale e stato affermato che l'art. 92 non ha efficacia diretta non è di natura processuale: esso risiede nel fatto che tale norma non stabilisce un divieto chiaro ed assoluto relativamente agli aiuti statali. Il divieto ivi sancito trova un limite nella facoltà della Commisisone di tener conto di considerazioni di carattere economico, sociale e politico, nonché nei poteri conferiti al Consiglio dagli artt. 92, n. 3, lett. d) e 93, n. 2. Può così accadere che un aiuto venga considerato dalla Commissione o dal Consiglio «compatibile con il mercato comune» anche se un giudice nazionale sia convinto che esso violi l'art. 92.

A mio avviso, pertanto, dovreste confermare il punto di vista già ribadito dalla Corte in materia. Secondo l'attrice, al contrario, la Corte dovrebbe scostarsi dalla sua giurisprudenza e, più precisamente, affermare che l'art. 92, pur essendo privo di efficacia diretta e quindi inidoneo ad attribuire ai singoli diritti che possano essere fatti valere dinanzi ai giudici nazionali, contiene quanto meno un complesso di disposizioni il cui rispetto tali giudici possono garantire d'ufficio. È questa una strana tesi giacché in sostanza implica il conferimento, al giudice nazionale, del potere di sollevare, per conto di una parte, una questione che questa non è autorizzata a sollevare. Comunque, l'obiezione fondamentale contro cui cozza la tesi suddetta è che essa si risolverebbe nel trasferire ai giudici nazionali poteri e facoltà conferiti dal trattato al Consiglio ed alla Commissione.

La ricorrente si è inoltre richiamata all'art. 12 del regolamento (CEE) del Consiglio 28 giugno 1968, n. 865 (GU n. L 153 del 1o. 7. 1968), che istituisce l'organizzazione comune dei mercati dei «prodotti trasformati a base di ortofrutticoli». Tali prodotti sono elencati nell'art. 1 del regolamento e comprendono i succhi di agrumi. L'art. 12 recita:

«Salvo contrarie disposizioni del presente regolamento, alla produzione ed al commercio dei prodotti di cui all'art. 1 si applicano gli articoli 92, 93 e 94 del trattato».

A mio parere, come ho detto nell'ambito della causa 31/74, Galli (Racc. 1975, pag. 70), il fatto che una norma di un determinato regolamento sia «direttamente applicabile» (in forza dell'art. 189) non significa necessariamente che essa abbia efficacia diretta. A tale scopo è necessario che essa possieda i ben noti requisiti precisati dalla Corte, e cioè che sia chiara, non sia sottoposta a condizioni e non richieda ulteriori provvedimenti di attuazione. Vi sono numerosi regolamenti del Consiglio che conferiscono alla Commissione poteri il cui esercizio può riuscire a vantaggio di singoli amministrati, ma che di per sé non attribuiscono a questi diritti che essi possano far valere dinanzi ai giudici nazionali. Si pensi, ad esempio, ad un regolamento del Consiglio che conferisca alla Commissione il potere di fissare restituzioni all'esportazione: solo quando la Commissione ha esercitato tale potere l'esportatore acquista il diritto di reclamare in giudizio la restituzione spettantegli. Nel presente caso difficilmente può affermarsi che l'art. 12 ha «concretato» il divieto sancito dall'art. 92, n. 1. Il suo unico effetto e la sua esclusiva funzione consistevano nel rimuovere l'ostacolo frapposto dall'art. 42 del trattato all'applicazione degli artt. 92-94 alla produzione ed al commercio dei prodotti contemplati dal regolamento. Osservo incidentalmente che, come è espressamente dichiarato nel preambolo, tale regolamento è stato emanato «visto il trattato che istituisce la Comunità economica europea e in particolare gli artt. 42 e 43», mentre non vi è alcuna menzione dell'art. 94.

Da quanto sopra non discende, naturalmente, che ai giudici nazionali sia vietato sottoporre a questa Corte, in forza dell'art. 177, questioni vertenti sull'interpretazione dell'art. 92. Può infatti accadere che ciò risulti indispensabile qualora, ad esempio, sia sostenuto dinanzi ad essi che determinati provvedimenti emanati da uno Stato membro senza che la Commissione sia stata preventivamente consultata equivalgono alla concessione di un aiuto che rientra nella sfera d'applicazione dell'art. 92, n. 1, e quindi sono incompatibili con l'art. 93, n. 3: in una simile ipotesi è comprensibile che il giudice nazionale ritenga necessario, al fine di stabilire se i provvedimenti di cui trattasi costituiscano o meno aiuti ai sensi dell'art. 92, n. 1, che la Corte si pronunzi sull'interpretazione di tale norma. Ciò è cosa diversa dal decidere se siffatti provvedimenti, qualora costituiscano aiuti, siano compatibili con il mercato comune. Si possono inoltre ipotizzare casi in cui la pronunzia della Corte si renda necessaria per aiutare il giudice nazionale ad interpretare determinati atti comunitari aventi efficacia diretta — come ad esempio un regolamento emanato a norma dell'art. 94 — o determinati provvedimenti nazionali, quali quelli emanati in conformità ad una decisione emessa dalla Commissione in forza dell'art. 93, n. 2.

Suggerisco pertanto che la prima questione formulata dal Verwaltungsgericht di Francoforte venga risolta nel senso che l'art. 93 non osta a che un giudice nazionale sottoponga alla Corte di giustizia una questione vertente sull'interpretazione dell'art. 92 qualora ritenga che la soluzione di tale questione sia necessaria ai fini della decisione della controversia dinanzi ad esso pendente; tuttavia, il giudice nazionale non è competente a statuire in merito all'applicazione di tale norma a provvedimenti emanati da uno Stato membro in conformità all'art. 93, n. 3.

Il Verwaltungsgericht chiede inoltre alla Corte di pronunziarsi su un certo numero di questioni, di cui alle lettere b)-e), relative all'interpretazione dell'art. 92. Tali questioni sono così formulate:

«b)

Se, coi termini “imprese o … produzioni” nel senso di cui all'art. 92 del trattato CEE vada intesa soltanto un'attività privata ovvero anche un'azienda di diritto pubblico senza scopo di lucro.

c)

Se la nozione di “aiuti concessi dagli Stati” comprenda pure l'ipotesi in cui lo stesso ufficio pubblico ottiene aiuti attraverso lo Stato ovvero imprese private.

d)

Se il concetto di aiuto come assegnazione di un vantaggio gratuito comprenda pure l'ipotesi in cui il beneficiario dell'aiuto stesso non è l'impresa privata, ma l'ufficio pubblico e se la gratuità sussista pure nell'ipotesi in cui il contributo della singola impresa è irrilevante rispetto alla somma complessiva.

e)

Se sussista alterazione della concorrenza e pregiudizio per gli scambi tra Stati membri nell'ipotesi in cui la ricerca di mercato e l'attività pubblicitaria svolta da un ufficio pubblico siano esercitate all'interno e all'estero anche da parte di analoghe istituzioni in altri paesi della Comunità.»

Tali questioni si fondano manifestamente sul presupposto che il giudice di rinvio sia, nel presente caso, competente a decidere in merito all'applicazione dell'art. 92 agli aiuti istituiti dalla Absatzfondsgesetz. Se convenite con me nell'escludere che esso abbia una siffatta competenza, la soluzione delle suddette questioni risulta superflua: infatti, sebbene sia pacifico che, a norma dell'art. 177, il giudice nazionale è competente a valutare la pertinenza delle questioni da sottoporre alla Corte, è altrettanto pacifico che, qualora la soluzione fornita dalla Corte a una o più delle questioni sottopostele renda superfluo l'esame di altre eventuali questioni, la Corte non è tenuta a risolvere queste ultime. Si vedano ad esempio le sentenze 19 giugno 1973 (causa 77/71, Capolongo/Maya — già citata — punto 15 della motivazione), 23 gennaio 1975 (causa 31/74, Galli — già citata — punto 36 della motivazione), nonché la più recente sentenza 1o febbraio 1977 (causa 47/76, De Norre/Concordia, Racc. 1977, pag. 65, punti 38 e 39 della motivazione). Mi limiterò pertanto, per quanto concerne le questioni di cui trattasi, ad osservare brevemente quanto segue.

In primo luogo, la posizione delle imprese pubbliche, in relazione agli artt. 92-94, è disciplinata in via principale dall'art. 90. Fatte salve le disposizioni di tale norma, l'art. 92 non fa alcuna distinzione tra imprese pubbliche e imprese private, né fra le imprese a carattere lucrativo e quelle che non perseguono fini di lucro, né infine, fra le merci prodotte rispettivamente dalle suddette categorie di imprese.

In secondo luogo, è errato, a mio avviso, considerare il Fondo centrale o il CMA come beneficiari dell'aiuto di cui trattasi. Il termine «aiuto» di cui all'art. 92 ha un significato molto più ampio del termine «sovvenzione», giacché si riferisce all'assistenza «sotto qualsiasi forma» che favorisca «talune imprese o talune produzioni». Nella fattispecie l'aiuto è rappresentato dalle ricerche di mercato e dalle attività pubblicitarie svolte dal CMA e le imprese così agevolate sono quelle operanti in Germania nei settori agricolo, alimentare e forestale, che traggono vantaggio dalle suddette attività. I contributi versati da tali imprese e le sovvenzioni concesse dal governo federale al Fondo costituiscono «risorse» destinate a finanziare l'aiuto.

Infine, qualora il Consiglio ometta di avvalersi dei poteri conferitigli dagli artt. 92, n. 3, lett. d), o 93, n. 2, la compatibilità di un aiuto con il mercato comune non può dipendere dall'esistenza in altri Stati membri di aiuti analoghi.

Le due ultime questioni sottoposte alla Corte dal Verwaltungsgericht sono le seguenti:

«f)

Se si abbia una tassa d'effetto equivalente ex artt. 9, n. 1, 12 e 13, n. 2, del trattato CEE, nell'ipotesi in cui la tassa non venga applicata sui prodotti importati, bensì sulla trasformazione di questi.

g)

Se sussista discriminazione ai sensi dell'art. 95 del trattato nell'ipotesi in cui “ai prodotti di altri Stati membri” non si applicano tasse all'importazione ma solo al momento della trasformazione».

Nel risolvere tali questioni, è opportuno — ritengo — tenere presenti taluni principi di carattere generale stabiliti dalla Corte.

Il primo è che la nozione di «tassa di effetto equivalente a un dazio doganale» (di cui agli artt. 9, n. 1, 12 e 13, n. 2) e quella di «imposizione interna», di cui all'art. 95, si escludono a vicenda: un onere fiscale non può costituire al tempo stesso una tassa di effetto equivalente a un dazio doganale e un tributo interno. Si vedano ad esempio, le sentenze 8. 7. 1975 (causa 10/65, Deutschmann/Germania; Racc1965, pag. 539), 16. 6. 1966 (causa 57/65, Lütticke/Hauptzollamt Saarlouis; Racc. 1966, pag. 219), 4. 6. 1968 (causa 27/67, Fink-Frucht/Hauptzollamt München; Racc. 1968, pag. 297) e 18. 6. 1975 (causa 94/74, IGAV/ENCC; Race. 1975, pag. 699).

La differenza fondamentale tra questi due tipi di oneri è che il primo è riscosso esclusivamente sui prodotti importati, mentre il secondo grava sia su tali prodotti, sia su quelli nazionali. In casi eccezionali, tuttavia, può accadere che un onere il quale, in base al suddetto criterio, risulti a prima vista classificabile fra i tributi interni costituisca in realtà una tassa di effetto equivalente a un dazio doganale: è questo il caso degli oneri pecuniari il cui gettito sia destinato esclusivamente a finanziare attività che giovano in modo specifico ai prodotti nazionali tassati (cfr. cause Capolongo/Maya e IGAV/ENCC, già citate). Come ha spiegato l'avvocato generale Trabucchi nell'ambito della causa IGAV/ENCC (vedi Racc. 1975, pag. 718), in tale ipotesi, l'incidenza del tributo sul prodotto nazionale è compensata dal vantaggio specifico che tale prodotto ne trae, in modo che questo è assoggettato solo apparentemente al tributo. In realtà, dal punto di vista economico, l'onere fiscale grava unicamente sulla merce importata.

Nel nostro caso, pertanto, è necessario in primo luogo accertare se i contributi riscossi in forza della Absatzfondsgesetz vadano classificati nella categoria delle tasse di effetto equivalente a dazi doganali oppure in quella dei tributi interni. Naturalmente tale compito spetta al Verwaltungsgericht, non a questa Corte; tuttavia, se — come ho capito — l'Absatzfondsgesetz pone detti contributi a carico sia della merce importata, sia di quella di produzione nazionale, e se le ricerche di mercato e le attività pubblicitarie finanziate mediante tali oneri giovano ai prodotti dell'industria alimentare tedesca — ottenuti da materie prime nazionali o importate — non ritengo che essi possano essere annoverati fra le tasse di effetto equivalente a dazi doganali.

Come risulta dall'ordinanza di rinvio, i dubbi che il Verwaltungsgericht di Francoforte nutre a questo proposito sono motivati dal fatto che in Germania non si producono agrumi e quindi «il tributo non può gravare, secondo gli stessi criteri, tanto sui prodotti nazionali quanto sui prodotti importati». Per risolvere tale problema, è opportuno, a mio avviso, tener presente che — come ha chiarito la Corte nella sentenza 4. 6. 1968(Fink-Frucht), già citata — l'art. 95 contempla tre ipotesi. La prima, considerata nel primo comma, è che esistano prodotti nazionali «similari» ai «prodotti degli altri Stati membri»: in tal caso, l'art. 95 vieta di assoggettare questi ultimi a tributi superiori a quelli gravanti sui primi. La seconda ipotesi, contemplata nel 2o comma dell'articolo, è che in un determinato Stato membro esistano «altri» prodotti concorrenti con «i prodotti degli altri Stati membri»: in questo caso, le merci importate non possono essere colpite da «imposizioni interne intese a proteggere indirettamente» i prodotti nazionali. La terza ipotesi è che nello Stato membro interessato non esistano prodotti simili ai prodotti importati o con questi concorrenti; in tale ipotesi, l'art. 95 non vieta la riscossione di un tributo sul prodotto importato, quando tale onere abbia lo scopo di «porre in una situazione fiscale comparabile — sul territorio nazionale — tutte le categorie di prodotti, qualunque ne sia l'origine» (cfr. Racc. 1968, pag. 309). In tale contesto, quindi, la nozione di «tassa di effetto equivalente a un dazio doganale» può applicarsi solo ai tributi gravanti specificamente su prodotti importati che non siano simili ad una merce di produzione nazionale né con questa concorrenti (cfr. sentenza 1. 7. 1969, cause riunite 2 e 3/69, Diamantarbeiders/Brachfeld; Racc. 1969, pag. 211). Nel caso presente, avrei considerato — sebbene tocchi, naturalmente, al giudice a quo decidere in merito a tale questione — che esistono prodotti ottenuti da frutta coltivata in Germania (ad esempio, il succo di mela) i quali, pur non essendo «similari» ai succhi di agrumi, si trovano comunque in concorrenza con questi e sarei giunto alla conclusione che, per tale motivo, l'art. 95 andava applicato nella fattispecie e non era neppure necessario prendere in considerazione la terza ipotesi delineata nella sentenza Fink-Frucht. Ricordo, incidentalmente, che, nella sentenza 15 luglio 1963 (causa 34/62, Germania/Commissione, Racc. 1963, pag. 266), la Corte, anche se in relazione ad altre norme del trattato, ha ammesso che arance, mele e pere potevano essere considerate prodotti fra loro concorrenti.

Ritornando alle questioni formulate sub f) e g) dal Verwaltungsgericht di Francoforte, deve constatarsi che si tratta in effetti di quesiti paralleli, giacché il primo mira ad accertare se i contributi di cui trattasi costituiscano «tasse d'effetto equivalente a dazi doganali», e il secondo è inteso a stabilire se essi siano invece «imposizioni interne». In entrambi i casi, il giudice di rinvio chiede se le relative norme del trattato possano applicarsi tenuto conto del fatto che detti contributi vengono riscossi non già all'importazione, bensì all'atto della trasformazione del prodotto.

La soluzione non può essere, a mio parere, che affermativa: nell'uno come nell'altro caso, le norme del trattato tengono conto non già della fase in cui un determinato tributo è riscosso, bensì dei suoi effetti (cfr. sentenza 18. 6. 1975 — causa IGAV/ENCC — punto 11 della motivazione).

Occupiamoci adesso della causa italiana.

La normativa nazionale di cui trattasi in questa causa — concernente l'Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta (in prosieguo ENCC) — è già stata esaminata dalla Corte nell'ambito delle cause Capolongo/Maya e IGAV/ENCC.

Come ricorderete, l'ENCC venne istituito con legge 13 giugno 1935, n. 1453; successivamente, la legge 13 giugno 1940, n. 868 — modificata dalla legge 28 marzo 1956, n. 168 — istituiva un contributo destinato a finanziare le attività dell'ente.

Tali attività erano, e sono, di svariata natura; tuttavia, come risulta dall'ordinanza di rinvio della pretura di Milano e dagli argomenti svolti dalle parti, in questa sede dobbiamo occuparci unicamente del regime di sovvenzioni all'acquisto di carta da giornale da parte degli editori italiani, gestito dall'ENCC. In effetti, a quanto pare, tali sovvenzioni assorbono la maggior parte — e cioè, come ci è stato riferito, il 70 % — delle risorse dell'ente.

Per quanto concerne il suddetto regime, occorre distinguere due periodi: fino al 1o gennaio 1974 esso consentiva agli editori di giornali di acquistare carta, fabbricata in Italia o importata dallo stesso ENCC, ad un prezzo inferiore al prezzo di mercato; la differenza veniva versata dall'ENCC («integrazione di prezzo»); dopo il 1o gennaio 1974, a seguitò di un procedimento aperto dalla Commissione in forza degli artt. 92 e 93, tale discriminazione era soppressa e la sovvenzione veniva estesa alla carta da giornale importata in Italia senza il tramite dell'ENCC.

Per quanto concerne le particolarità del sistema di contributi destinati al finanziamento dell'ENCC, è necessario distinguere fra il periodo anteriore e quello posteriore al 26 giugno 1976, data di emanazione del decreto ministeriale che ha sostituito il D.M. 3 luglio 1940, il quale disciplinava in precedenza tale materia. Si è molto discusso, particolarmente nel corso della fase orale, circa gli effetti di questo cambiamento di disciplina e non può negarsi che tale discussione — suscitata principalmente da un quesito rivolto dalla Corte alla Commissione — sia stata istruttiva. Tuttavia, poiché gli antefatti della causa pendente dinanzi alla pretura di Milano risalgono ad un'epoca anteriore al 1976, mi limiterò a descrivere la situazione normativa così come si presentava prima della modifica.

In forza del combinato disposto delle leggi del 1940 e del 1956, e del D.M. 3 luglio 1940, erano tenuti al versamento di un contributo del 3 % i fabbricanti italiani e gli importatori di carta e cartone nonché di prodotti cartotecnici, quali articoli di cancelleria, carte da parati, scatole di cartone e simili, ad esclusione, tuttavia, della carta da giornale la quale era espressamente esentata dal contributo. Coloro che avevano versato il contributo avevano il diritto, all'atto della rivendita dei prodotti di cui trattasi, di rivalersi sull'acquirente nella misura del 2,5 %. Per quanto concerne la carta e il cartone venduti dalle cartiere italiane o importati in Italia, il contributo era calcolato sul 100 % del valore della merce. I prodotti successivamente ottenuti mediante trasformazione di carta o cartone ne erano esenti. Tuttavia, nel caso in cui la carta o il cartone prodotti da un'industria integrata italiana non fossero venduti, ma impiegati dalla stessa industria per la fabbricazione di un prodotto più elaborato, oppure quando un siffatto prodotto veniva importato, il contributo era calcolato, di regola, sul 70 % del valore della merce: tale quota, infatti, si presumeva rappresentasse il valore della carta o del cartone ivi contenuto. Ho detto «di regola», giacché l'art. 9 del decreto ministeriale del 1940 conferiva al ministro competente la facoltà di ridurre, su proposta dell'ENCC, la base imponibile qualora fosse stato dimostrato che la carta o il cartone contenuto in un determinato prodotto rappresentava meno del 70 % del valore di questo.

A prima vista, potrebbe sembrare che tale sistema non implicasse alcuna discriminazione fra i prodotti fabbricati in Italia e quelli importati. Questo punto, tuttavia, è controverso, in relazione alle modalità di imposizione dei prodotti nazionali e, rispettivamente, di quelli importati. Ritengo che sia forse più opportuno approfondire tale problema quando affronterò l'esame delle questioni sottoposte alla Corte dal pretore di Milano relative all'art. 95. Comunque, per completare la descrizione della normativa di cui trattasi, ricordo che — come ci è stato riferito — esiste in Italia, oltre ai contributi riscossi dall'ENCC, un tributo sulla cellulosa, sia di produzione nazionale sia di importazione. Tale tributo, naturalmente, è a carico delle cartiere italiane ma non concerne né la carta e il cartone, né i prodotti cartotecnici importati.

Rispetto alla normativa sopra descritta, gli antefatti della causa italiana sono semplici. Nell'agosto 1971, la Iannelli & Volpi S.p.A. — attrice nella causa principale — importava dalla Francia due rotoli di carta da parati e versava all'ENCC, in occasione di tale importazione, un contributo di 9433 lire, pari al 3 % del 70 % del valore della merce. Nel dicembre 1974, essa vendeva la carta da parati alla ditta «Paolo Meroni» — convenuta nella causa principale — addebitandole, in via di rivalsa, oltre al prezzo della merce, la somma di 7875 lire, cioè il 2,5 % recuperabile in forza della normativa ENCC. La convenuta si rifiutava di pagare questa somma sostenendo che la pretesa dell'attrice era incompatibile con il diritto comunitario. Il 23 aprile 1976, l'attrice adiva la pretura di Milano. Il 7 maggio seguente, il pretore disponeva l'intervento in causa dell'ENCC e, il 25 giugno 1976, sentito quest'ultimo nonché l'attrice e la convenuta, emanava l'ordinanza di rinvio.

Nell'ambito di questa causa, nessuno ha sostenuto che l'art. 92 abbia efficacia diretta o che i contributi dovuti all'ENCC costituiscano tasse di effetto equivalente a dazi doganali: in altre parole, su questi punti la portata delle precedenti pronunzie della Corte è pacifica.

Il primo argomento dedotto dalla convenuta è — per dirla in breve — che le sovvenzioni concesse alla stampa italiana dall'ENCC costituivano, prima che il sistema venisse modificato nel 1974, misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative alle importazioni da altri Stati membri, giacché scoraggiavano l'importazione di carta da giornale da tali paesi; tali sovvenzioni erano pertanto incompatibili con l'art. 30 del trattato e quindi la riscossione di contributi destinati a finanziarle era anch'essa illegittima; di conseguenza, l'attrice avrebbe dovuto agire in giudizio contro l'ENCC per la ripetizione del contributo versato e non già contro la convenuta in forza della normativa concernente l'ENCC.

Le prime tre questioni presentate alla Corte dal pretore di Milano rispecchiano tale punto di vista. Nel formulare la prima di esse, il pretore ha sorvolato sul fatto che la carta da giornale importata dallo stesso ENCC fruiva anch'essa della sovvenzione; tuttavia, tale circostanza è, a mio avviso, irrilevante. Le suddette questioni sono così formulate:

«1)

Se costituisca una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione vietata dagli artt. 30 e segg. del trattato CEE un sistema di sovvenzioni, ruotante intorno ad un ente di diritto pubblico e basato su una normativa interna, che (con riferimento al periodo di cui è causa) consenta agli editori nazionali di ricevere a prezzo agevolato la carta da giornale prodotta dalle sole cartiere nazionali, mentre la carta da giornale importata dai paesi membri può essere acquistata soltanto a prezzo pieno, non beneficiando essa di alcuna sovvenzione.

2)

Se l'evenutale illegittimità, ai sensi dell'art. 30 o di altra norma del trattato (specie direttiva 70/50 del 31. 12. 1969) CEE, del sistema di sovvenzioni di cui sopra, tenuto conto del fatto che tale sistema è finanziato con contributi parafiscali applicati sui prodotti cartacei importati dagli altri Stati membri, renda a sua volta illegittimi tali contributi — limitatamente a quelli percepiti sui prodotti comunitari importati — in quanto il gettito relativo risulta destinato a finanziare un'attività contraria alle disposizioni del trattato e quindi illecita.

3)

In caso di risposta affermativa ai quesiti di cui sopra, se la normativa degli articoli 30 e segg. del trattato CEE sia direttamente applicabile e comporti pure un diritto soggettivo degli importatori di prodotti comunitari a chiedere la restituzione dei contributi corrisposti (indicando da quale termine iniziale il diritto debba decorrere).»

Dico subito che, secondo me, la prima questione va risolta in senso negativo e quindi la soluzione delle altre due risulta superflua.

A mio parere, ritenere che l'art. 30 possa applicarsi ad un sistema di aiuti risulta, tutto sommato, più difficile che attribuire all'art. 92 efficacia diretta. Sin dalla fine del periodo di transizione, l'art. 30, fatte salve solo le limitate eccezioni contemplate dall'art. 36, vieta in modo assoluto ed incondizionato qualsiasi misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione tra Stati membri. Esso non conferisce, a differenza degli artt. 92 e 93, alcun potere discrezionale alla Commissione e al Consiglio, né contempla, in favore degli Stati membri, alcuna facoltà paragonabile alla possibilità — prevista dall'art. 93, n. 2 — di modificare un aiuto anziché abolirlo. Pertanto, sostenere che l'art. 30 si applica a tale materia equivarrebbe in realtà a svuotare di contenuto gli artt. 92 e 93, almeno per quanto concerne gli aiuti consistenti in sovvenzioni ai prodotti nazionali; in altre parole, sarebbe come pretendere di adoperare uno strumento inservibile al posto dello strumento di precisione che gli autori del trattato hanno elaborato per la materia di cui trattasi.

La Commissione, pur esprimendo il parere che la prima questione debba indubitabilmente essere risolta in senso negativo, ha sostenuto che talvolta è possibile isolare in un sistema di aiuti un elemento nel quale può ravvisarsi una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa all'importazione, e che l'art. 30, benché non si applichi al sistema di aiuti nel suo complesso, può avere per effetto di rendere illegittimo un siffatto elemento. Tuttavia, allo scopo di illustrare tale asserzione, la Commissione si è richiamata al fatto che, proprio nel presente caso, l'Italia ha eliminato l'elemento discriminatorio dal regime di aiuti di cui trattasi, estendendo la sovvenzione alla carta da giornale importata da altri Stati membri senza il tramite dell'ENCC. Questo risultato, comunque, è stato ottenuto mediante l'esercizio, da parte della Commissione, dei poteri conferitile dagli artt. 92 e 93, ed è appunto il genere di risultato per conseguire il quale il procedimento contemplato dalle suddette norme è stato istituito.

A mio avviso, la Commissione ha agito più opportunamente quando, nell'art. 2, n. 2 della direttiva 22 dicembre 1969 (70/50/CEE), «relativa all'abolizione di misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative alle importazioni» (alla quale il giudice di rinvio si richiama incidentalmente nella seconda questione), ha chiaramente escluso che tale norma si applichi agli aiuti.

Pertanto, ritengo non solo che dobbiate risolvere la prima questione sottopostavi dal pretore di Milano in senso negativo, ma che tale soluzione non debba essere accompagnata da alcuna riserva.

È forse opportuno precisare che non ho dimenticato quanto affermato dalla Corte nella sentenza 18 giugno 1975 (causa IGAV/ENCC; punto 30 della motivazione) e cioè che il sistema di sovvenzioni gestito dall'ENCC può essere incompatibile con l'art. 30. Tuttavia, tale affermazione aveva manifestamente carattere incidentale e si riferiva, ritengo, unicamente all'eventualità che tale questione potesse essere esaminata nell'ambito di una causa futura. Né invero può escludersi che sia stata proprio questa affermazione a suggerire alla convenuta di sollevare il suddetto problema nella presente causa.

Il secondo argomento dedotto dalla convenuta dinanzi al giudice a quo è simile al primo, ma si fonda sull'art. 95 del trattato invece che sull'art. 30.

L'applicazione dell'art. 95 ad un caso quale quello in esame non cozza contro le stesse obiezioni che si oppongono all'applicazione dell'art. 30, giacché l'art. 95 non può, per natura, applicarsi agli aiuti veri e propri che rientrano esclusivamente nella sfera d'applicazione degli artt. 92-94. L'art. 95 può applicarsi, semmai, solo alle modalità di finanziamento degli aiuti. Per quanto concerne in particolare il presente caso, l'art. 95 non può applicarsi alle sovvenzioni concesse dall'ENCC alla stampa italiana, ma, eventualmente, solo ai contributi riscossi da tale ente per finanziare dette sovvenzioni. Come la Corte ha ammesso, anzi affermato, nella sentenza 27 giugno 1970 (causa 47/69, Francia/Commissione; Racc. 1970, vol. I, pag. 487 — cfr. in particolare il punto 14 della motivazione), è inevitabile che gli artt. 92 e 93 da una parte e l'art. 95 dall'altra si sovrappongano in certa misura. A mio parere, si possono configurare tre diverse situazioni:

(1)

l'aiuto può essere finanziato attraverso il sistema fiscale generale, in modo che non vi sia alcun nesso fra l'aiuto e il modo di finanziamento: in tal caso si possono applicare i soli artt. 92 e 93;

(2)

l'aiuto può essere finanziato mediante un tributo di per sé compatibile con l'art. 95, ma la cui incidenza sia tale da rendere l'aiuto stesso «incompatibile con il mercato comune»: anche in questo caso possono trovare applicazione solo gli artt. 92 e 93 (è questa la situazione oggetto della causa 47/69 sopra citata);

(3)

l'aiuto può essere finanziato attraverso un tributo che, considerato indipendentemente dall'aiuto stesso, sia incompatibile con l'art 95: tale situazione rientra nella sfera di applicazione non solo degli artt. 92 e 93, ma anche — per quanto concerne il tributo — dell'art. 95. (Una soluzione diversa equivarrebbe a sostenere che un tributo può essere sottratto alla sfera d'applicazione dell'art. 95 per il fatto che il suo gettito è destinato a finanziare un aiuto, mentre sarebbe soggetto all'applicazione di tale norma se fosse destinato ad uno scopo diverso).

Passiamo quindi all'esame delle questioni che si riferiscono all'art. 95. La prima, che non presenta alcuna difficoltà, è la seguente:

«(4)

… se il divieto di opperare discriminazioni fiscali introdotto dall'art. 95 del trattato concerna pure la materia di contributi speciali che gravano sia le merci nazionali sia quelle importate, ed il cui gettito sia destinato ad enti pubblici minori diversi dallo Stato».

A mio avviso, la soluzione deve essere affermativa. In effetti la Corte, nell'ambito della causa IGA V/ENCC, ha risolta in tal senso un'analoga questione in materia di tasse di effetto equivalente a dazi doganali (cfr. il punto 11 della sentenza) e non vedo alcun motivo che possa giustificare una soluzione diversa per quanto concerne i tributi interni.

La quinta questione sottopostavi dal pretore di Milano è così formulata:

«Se sussista una discriminazione vietata dall'art. 95 del trattato CEE nell'ipotesi in cui l'applicabilità dei contributi di cui sopra sul prodotto nazionale (nella specie: carta da parati) avvenga in relazione ad una base imponibile costituita dal prezzo della sola carta considerata come materia prima, mentre la base imponibile per l'applicazione del contributo sul corrispondente prodotto importato risulti dal suo valore complessivo: intendendosi per valore complessivo del prodotto importato il costo del prodotto finito indicato in fattura (composto quindi dal costo della materia prima all'origine più il valore aggiunto) aumentato delle “spese di carico o di imbarco, di commissione, di assicurazione, di trasporto, ecc. fino al confine, anche se dette spese non sono comprese in tutto o in parte nella fattura del venditore”.»

Come ho già detto prima, le parti controvertono sul se il sistema in forza del quale, nel periodo che qui ci interessa, il contributo veniva riscosso dall'ENCC, comportasse una discriminazione a danno delle importazioni, tenuto conto delle modalità di imposizione dei prodotti nazionali e, rispettivamente, di quelli importati.

A quanto pare, è pacifico che non vi era discriminazione per quanto concerne l'importazione di carta e cartone non trasformati. Ciò può essere esatto, anche se la determinazione del valore dei prodotti importati e, rispettivamente, di quelli nazionali era disciplinata da disposizioni diverse del decreto del 1940, e precisamente dall'art 3 per quanto concerne le merci di produzione nazionale e dall'art. 7 per quanto riguarda quelle importate; anche il testo di tali disposizioni era differente (un brano dell'art. 7 è riportato nella questione sopra citata). Comunque, è stato dichiarato — fra gli altri, anche dalla Commissione — che in realtà le suddette disposizioni avevano il medesimo effetto. Non è necessario che mi soffermi ulteriormente su questo punto, non solo perché si tratta di una questione di interpretazione della normativa italiana, ma anche perché nel caso presente dobbiamo occuparci non già dell'importazione di carta o di cartone, bensì dell'importazione di un prodotto più elaborato, vale a dire la carta da parati.

La convenuta sostiene che i fabbricanti italiani di carta da parati (e più precisamente le industrie non integrate che non fabbricano carta da parati trasformando carta da esse stesse prodotta) erano tenuti al pagamento del contributo in relazione al solo valore della carta acquistata mentre, per quanto concerne l'analogo prodotto importato, il contributo era calcolato sul 70 % del valore della merce. In tal modo, poteva accadere che la carta da parati importata fosse gravata in misura maggiore dell'analogo prodotto nazionale.

Contro questa asserzione, l'ENCC formula, a quanto ho capito, due obiezioni. La prima è che la situazione degli importatori di carta da parati va paragonata non già a quella dei produttori italiani che fabbricavano tale prodotto trasformando carta acquistata, bensì con la situazione delle industrie italiane integrate che pagavano anch'esse un contributo calcolato sul 70 % del valore del prodotto finito da esse fabbricato. La seconda è che gli importatori, qualora avessero ritenuto che il valore del quantitativo di carta contenuto nel prodotto importato fosse inferiore al 70 % del valore totale di questo, avevano la facoltà di chiedere una riduzione in forza dell'art. 9.

La convenuta (al pari della Commissione) ribatte, se ho ben capito, che la situazione della carta da parati prodotta da un'impresa francese non integrata non si può porre sullo stesso piano di quella dell'analogo prodotto fabbricato da un'industria italiana integrata. Per quanto concerne l'art. 9, la convenuta e la Commissione sostengono innanzitutto che tale norma non si applicava alle importazioni e, in secondo luogo, che essa, anche se avesse riguardato le importazioni, era incompatibile con l'art. 95 in quanto subordinava l'esercizio dei diritti attribuiti ai singoli da questo articolo al potere discrezionale di un ministro.

Signori, non ritengo opportuno soffermarmi ulteriormente sull'art. 9: innanzitutto, infatti, è pacifico che nella fattispecie non è stata presentata alcuna domanda in forza di tale norma; in secondo luogo, il giudice di rinvio non ha presentato alcuna questione in merito ad essa; infine, la compatibilità di detta norma con l'art. 95 del trattato — o piuttosto la compatibilità con questo dell'art. 5 del DM.26 giugno 1976, che l'ha sostituita — è, come ha dichiarato la Commissione nel corso della fase orale, ancora oggetto di discussione fra la Commissione ed il governo italiano nell'ambito dell'art. 169 del trattato. Mi limiterò ad osservare, per amore di imparzialità, che l'ENCC ha prodotto talune prove relative all'applicazione dell'art. 9 a merci importate (e precisamente a vari tipi di contenitori in cartone impermeabile per latte) nel 1965, 1966 e 1968 (allegati 4, 5 e 6 alle osservazioni dell'ENCC).

In realtà, ignoriamo se la carta da parati importata dall'attrice sia stata fabbricata da un'industria francese integrata oppure non integrata, anzi non è nemmeno certo che sia stata fabbricata in Francia: può anche darsi che essa sia stata importata in tale paese e successivamente esportata in Italia. Ritengo pertanto che la soluzione della questione in esame richieda una certa cautela.

Supponendo, comunque, che la carta da parati di cui trattasi sia stata fabbricata in Francia da un'industria integrata, mi sembra chiaro (prescindendo da qualsiasi problema relativo all'applicazione dell'art. 9) che il fatto che essa sia stata assoggettata a contributo in base agli stessi criteri vigenti per l'analogo prodotto fabbricato anch'esso da un'industria integrata in Italia non comporta alcuna discriminazione. Solo se si fosse trattato di carta da parati fabbricata in Francia da un'industria non integrata, avrebbe potuto esservi discriminazione.

A questo proposito, la Corte ha più volte ribadito che l'art. 95 non solo vieta agli Stati membri di riscuotere sui prodotti di altri Stati membri tributi di aliquota superiore a quella applicata ai prodotti nazionali, ma inoltre osta a che la base imponibile sulla quale viene calcolato un determinato tributo gravante sui prodotti di altri Stati membri sia diversa da quella su cui detto onere è calcolato in relazione agli analoghi prodotti nazionali, in modo tale che i primi possano essere gravati in misura maggiore di questi ultimi: si vedano, ad esempio, le sentenze 5. 5. 1970 (causa 77/69, Commissione/Belgio; Racc. 1970, vol. I, pag. 237), 20. 2. 1973 (causa 54/72, FOR/VKS; Racc. 1973, vol. I, pag. 193), 17. 2. 1976 (causa 45/75, Rewe/Hauptzollamt Landau; Race. 1976, pag. 181) e 22. 6. 1976 (causa 127/75, Bobie/Hauptzollamt Aachen-Nord; ibidem, pag. 1079). Fra queste, mi sembra che la sentenza Bobie sia particolarmente pertinente al nostro caso giacché da essa risulta che, qualora ai fini della determinazione della base imponibile per il calcolo di un determinato tributo si tenga conto, nel caso dei prodotti nazionali, di una determinata caratteristica dell'impresa produttrice, si deve procedere in modo analogo per quanto concerne i prodotti similari importati da altri Stati membri. In quel caso il prodotto era la birra e la caratteristica presa in considerazione era rappresentata dal volume della produzione annuale di ciascuna birreria. Ritengo che lo stesso principio debba applicarsi nel nostro caso, in cui il prodotto è costituito dalla carta da parati e l'elemento rilevante per la determinazione dell'imponibile è rappresentato dal carattere integrato o meno dell'industria produttrice. Solo in tal modo si può garantire la parità di trattamento, in base alla normativa italiana, a tutti i fabbricanti di carta da parati, qualunque sia lo Stato membro in cui essi hanno sede.

Suggerisco pertanto che la questione in esame sia risolta nel senso che l'art. 95 osta a che uno Stato membro calcoli un determinato tributo interno, nel caso di prodotti importati da altri Stati membri, in relazione ad una base imponibile diversa da quella sulla quale viene calcolato lo stesso tributo per quanto concerne i prodotti nazionali consimili, qualora da tale diverso criterio d'imposizione possa derivare per i prodotti importati un maggiore onere fiscale; nel caso in cui, per determinare la base imponibile ai fini della tassazione di una determinata merce prodotta nello Stato membro interessato, si tenga conto di una determinata caratteristica dell'impresa produttrice, si deve tener conto in egual misura delle caratteristiche delle imprese che fabbricano la stessa merce in altri Stati membri.

L'ultima questione formulata dal pretore di Milano è la seguente:

«(6)

Qualora dalla soluzione del quesito di cui sopra al punto n. (5) dovesse risultare come vietata l'applicazione di un contributo in modo discriminatorio a causa della più elevata base imponibile sulla quale è calcolato per i soli prodotti importati, se l'art. 95 del trattato faccia sorgere in capo agli importatori di prodotti provenienti da paesi comunitari il diritto soggettivo a chiedere la restituzione della parte di detto contributo pagato in eccedenza a partire dall' 1. 1. 1962, data di inizio della seconda tappa».

Signori, ritengo che per la soluzione di tale questione sia sufficiente osservare quanto segue: in primo luogo, la Corte ha dichiarato in varie sentenze, così numerose che è inutile citarle, che l'art. 95 ha efficacia diretta sin dal 1o gennaio 1962. In secondo luogo, i rimedi giurisdizionali esperibili, in virtù di tale efficacia diretta, da parte di un importatore dal quale uno Stato membro abbia riscosso un tributo di importo superiore a quanto consentito dall'art. 95 sono determinati dal diritto del suddetto Stato: si vedano le sentenze 15. 12. 1976 (causa 33/76, Rewe/Landwirtschaftskammer, für das Saarland) e 16. 12. 1976 (causa 45/76, Comet/Produktschap voor Siegerwassen), non ancora pubblicate. Infine, da quanto sopra deriva che la questione del se, in una simile ipotesi, l'importatore abbia diritto al rimborso totale del tributo versato oppure unicamente alla restituzione della parte di questo riscossa in eccesso va del pari risolta in base al diritto dello Stato interessato: cfr. sentenze 3. 4. 1968 (causa 28/67, Molkerei-Zentrale Westfalen/Hauptzollamt Paderborn; Racc. 1968, pag. 191) e 4. 4. 1968 (causa 34/67 Lück/Hauptzollamt Köln-Rheinau; ibidem, pag. 325).


( 1 ) Traduzione dall'inglese.

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