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Document 61975CC0048

Conclusioni dell'avvocato generale Mayras del 10 marzo 1976.
Jean Noël Royer.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Tribunal de première instance de Liège - Belgio.
Diritto di dimora e ordine pubblico.
Causa 48-75.

Raccolta della Giurisprudenza 1976 -00497

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1976:40

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE HENRI MAYRAS

DEL 10 MARZO 1976 ( 1 )

Signor Presidente,

signori Giudici,

Ai due principi fondamentali della libera circolazione delle persone nell'ambito della Comunità e del divieto di qualsiasi discriminazione fondata sulla nazionalità derogano, sia dall'art. 48, n. 3, del trattato CEE, con riferimento alla circolazione ed all'impiego dei lavoratori subordinati, sia l'art. 56, n. 1, con riferimento al diritto di stabilimento dei lavoratori indipendenti. La deroga di cui sopra, fondata su considerazioni d'ordine pubblico in senso lato, autorizza i singoli Stati membri ad adottare nei confronti degli stranieri, cittadini d'un altro Stato membro, provvedimenti limitativi del diritto d'accesso e di soggiorno nel loro territorio.

Occorre tuttavia precisare che la suddetta deroga va interpretata in senso restrittivo e che la sua portata non può essere fissata unilateralmente dai singoli Stati membri, senza il controllo delle autorità comunitarie. Al riguardo, assume particolare rilievo il sindacato giurisdizionale attribuito alla Corte di giustizia.

Se è vero che le autorità nazionali hanno conservato, per quanto riguarda l'utilizzazione della riserva dell'ordine pubblico, un certo potere discrezionale, è del pari innegabile che un simile potere non può venire esercitato al di là dei limiti fissati dal diritto comunitario e dalla vostra giurisprudenza.

Abbiamo voluto ricordare i principi essenziali della sentenza da voi emessa, circa un anno fa, nella causa Van Duyn per un motivo ben preciso: la soluzione delle questioni sottopostevi in via pregiudiziale dal Tribunal de première instance di Liegi, con una sentenza recentemente confermata in appello il 22 dicembre dello scorso anno, dipende dalle medesime considerazioni.

Le questioni sulle quali siete ora chiamati a pronunciarvi, sono state sollevate nel corso di un procedimento penale instaurato contro un cittadino francese cui si fa carico d'essere entrato e d'aver soggiornato nel Belgio senza esservi stato autorizzato dal ministro della giustizia nelle forme contemplate dal regio decreto 21 dicembre 1965, relativo alle condizioni di ingresso, di soggiorno e di stabilimento degli stranieri in territorio belga.

Come risulta dal fascicolo del processo in corso dinanzi ai giudici nazionali, l'imputato subì, tempo fa, in Francia una condanna per sfruttamento della prostituzione. Egli fu pure sospettato di aver compiuto rapine a mano armata, sebbene le indagini svolte dalla polizia non abbiano permesso, a quanto sembra, di giungere ad una incriminazione nei suoi confronti.

La presenza di Jean Royer veniva accertata per la prima volta nella zona di Liegi — e precisamente a Grâce-Hollogne, località in cui la moglie del medesimo gestiva un «café-dancing» — il 18 gennaio 1972, durante alcune operazioni di controllo effettuate in conformità alle istruzioni emanate dal procuratore generale di Liegi ai fini (citiamo) «della lotta contro il banditismo e dell adozione di provvedimenti contro i malfattori internazionali». Il Royer era entrato nel Belgio nel novembre 1971 e non s'era curato di farsi iscrivere sui registri della popolazione residente, come richiesto dalla legge belga.

Accusato di soggiorno illegale, l'interessato si vedeva notificare un provvedimento amministrativo di «espulsione dal territorio belga» con divieto di rientrarvi. Ottemperando all'ordine d'espulsione, egli si trasferiva in Gemania.

Qualche settimana più tardi, tuttavia, il Royer rientrava a Grâce-Hollogne. Ben presto scoperto, egli veniva bloccato dalla gendarmeria il 17 aprile 1972 ed arrestato. Rimesso in libertà il 10 maggio dalla Chambre des mises en accusation (sezione istruttoria) del tribunale di Liegi, che confermava un precedente provvedimento di concessione della libertà provvisoria, egli si vedeva notificare, prima d'uscire dal carcere, un decreto ministeriale d'espulsione, emanato in forza dell'art. 3, 3o comma, della legge 28 marzo 1952 sulla polizia degli stranieri. Nella motivazione del suddetto decreto si faceva riferimento al «pericolo rappresentato per l'ordine pubblico dal comportamento personale dell'interessato» ed alla «mancata osservanza delle norme che regolano il soggiorno degli stranieri, nochè al mancato possesso d'un permesso di stabilimento nel territorio del Regno».

Non è superfluo rilevare che, come risulta dal provvedimento di rinvio, un'indagine effettuata qualche mese prima sul comportamento del Royer nel Belgio non aveva accertato nulla di riprovevole. Sembra perciò che la polizia belga si sia fondata esclusivamente sui precedenti penali del Royer nel valutare il pericolo che la sua presenza poteva costituire per l'ordine pubblico.

In ogni caso, il procedimento penale che ha dato luogo alla domanda di pronunzia pregiudiziale è stato promosso in base ad una sola imputazione, quella di soggiorno illegale, reato contemplato e punito dall'art. 12, n. 1, della legge sulla polizia degli stranieri. A norma del predetto articolo:

«è punito con l'arresto da un mese ad un anno e con un'ammenda da 100 a 1000 franchi:

1.

lo straniero che, senza la necessaria autorizzazione, entri o soggiorni nel paese o che, senza il necessario permesso, si stabilisca, anche temporanemente, nel Regno».

In seguito a questo decreto d'espulsione il Royer abbandonava effettivamente, a quanto sembra, il territorio belga. Il processo per l'entrata ed il soggiorno illegali seguiva il suo corso dinanzi al Tribunal de première instance. Il pubblico ministero impugnava il provvedimento di rinvio alla Corte di giustizia, ma la Corte d'appello di Liegi, con sentenza del 22 dicembre 1975, si limitava a confermare, senza alcuna modifica, le questioni pregiudiziali sottopostevi dal giudice di primo grado.

Ecco, signori, a grandi linee, i fatti per cui il tribunale penale di Liegi ha ritenuto necessario chiedervi di interpretare varie norme di diritto comunitario concernenti, sia la libera circolazione dei lavoratori, sia il diritto di stabilimento.

Quali che siano i fatti addebitati al Royer — e, sotto questo aspetto, la sua personalità ed i suoi precedenti penali in Francia non predispongono certo ad un giudizio positivo nei suoi confronti — la Corte deve solamente cercare di individuare oggettivamente nel diritto comunitario quegli elementi che possono consentire al giudice nazionale di decidere la controversia.

In realtà, non è chiaro a quale titolo il Royer invochi un diritto a soggiornare nel Belgio. Il provvedimento di rinvio non fornisce al riguardo indicazioni precise: il difensore del Royer ha prodotto in giudizio, dinanzi al giudice nazionale, un contratto di lavoro stipulato fra la moglie dell'imputato e l'impresa proprietaria del locale da essa gestito; il contratto prevede che la gerente si faccia assistere dai membri della propria famiglia. Soltanto il giudice nazionale è competente a stabilire se, in base a quanto sopra, il Royer abbia diritto alla qualifica di lavoratore subordinato ovvero di coniuge di un lavoratore subordinato. Le questioni sottopostevi dal tribunale di Liegi non permettono d'altronde neppure di escludere che l'interessato possa richiamarsi agli artt. 52 e segg. del trattato, concernenti il diritto di stabilimento. D'accordo con la Commissione, noi riteniamo tuttavia che i problemi di cui si discute vadano risolti nello stesso modo, sia che riguardino la libera circolazione dei lavoratori subordinati, sia che riguardino il diritto di stabilimento.

Siamo inoltre d'accordo con la Commissione sulla necessità di raggruppare, per poterle esaminare con ordine, le numerose e dettagliate questioni che vi sono state sottoposte.

I —

1.

In base alle norme comunitarie di cui il giudice proponente sollecita l'interpretazione si possono formulare due ipotesi: la situazione dell'interessato può essere disciplinata dal capitolo del trattato relativo ai lavoratori subordinati, ed in particolare dall'art. 48, che ha trovato attuazione nel regolamento del Consiglio n. 1612/68 e nella direttiva del Consiglio nr. 68/360, oppure dai capitoli relativi al diritto di stabilimento ed alle prestazioni di servizi, ed in particolare dagli artt. 52, 53, 56, 62 e 66, che hanno trovato attuazione nella direttiva del Consiglio n. 73/148.

In entrambe le ipotesi, è anzitutto necessario stabilire su che cosa si fondi il diritto di soggiorno in uno Stato membro spettante ai cittadini di altri Stati membri, titolari del diritto di libera circolazione o di stabilimento.

Deriva il suddetto diritto immediatamente dal trattato e, se del caso, dalle norme comunitarie d'attuazione oppure è conferito soltanto dal documento di soggiorno che rilasciano le autorità dello Stato ospite?

La risposta a questo primo quesito è obbligata, se si conosce la vostra giurisprudenza. Voi avete infatti affermato, in particolare nelle sentenze 4 dicembre 1974, Van Duyn, e 4 luglio 1974, Reyners, che alla scadenza del periodo transitorio tanto l'art. 48 quanto l'art. 52 sono divenuti direttamente efficaci.

Essi creano dei diritti soggettivi che i singoli possono far valere in giudizio e che i giudici nazionali devono tutelare.

Il primo dei suddetti articoli attribuisce espressamente ai lavoratori subordinati il diritto di spostarsi liberamente nel territorio degli Stati membri e di prendervi dimora al fine d'esercitarvi un attività di lavoro.

Il diritto di stabilimento, che consente l'accesso alle attività indipendenti e ne permette l'esercizio alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato interessato, implica senza dubbio, anche se ciò non è detto espressamente, il diritto di ingresso e di soggiorno in tale Stato.

Nell'un caso come nell'altro, l'esistenza di questi diritti trova conferma nelle direttive emanate dal Consiglio, a norma degli artt. 49, 54 e 63, per la soppressione delle restrizioni all'ingresso ed al soggiorno, sia che si tratti di lavoratori subordinati, sia che si tratti di lavoratori indipendenti. L'art. 10 del regolamento n. 1612/68, l'art. 1 della direttiva n. 68/360 e l'art. 1 della direttiva n. 73/148 estendono, in termini praticamente identici, l'applicazione delle norme comunitarie in materia di ingresso e di soggiorno negli Stati membri ai coniugi di tutti coloro cui si applica detta normativa.

I testi summenzionati precisano che gli Stati membri riconoscono agli interessati il diritto di entrare nel loro territorio dietro semplice presentazione di una carta d'identità o di un passaporto validi; essi riconoscono pure un diritto di soggiorno permanente comprovato dal rilascio d'un documento amministrativo.

Così l'art. 1 del regolamento n. 1612/68 dispone che ogni cittadino d'uno Stato membro, qualunque sia il suo luogo di residenza, ha «il diritto di accedere ad un'attività subordinata e di esercirtarla sul territorio di un altro Stato membro», mentre l'art. 10 estende il «diritto di stabilirsi» ai membri della sua famiglia.

L'art. 4 della direttiva n. 68/360 dispone che gli Stati membri riconoscono alle persone cui tale direttiva si riferisce «il diritto di soggiorno sul loro territorio», diritto comprovato dal rilascio d'uno speciale documento di soggiorno. Nel preambolo della direttiva n. 73/148 si constata che la libertà di stabilimento può essere pienamente realizzata soltanto «se ai beneficiari è riconosciuto un diritto di soggiorno permanente» e che la libera prestazione di servizi implica che al prestatore e al destinatario sia garantito «un diritto di soggiorno corrispondente alla durata della prestazione».

Ne consegue che il diritto di soggiorno, attribuito dalle norme stesse del trattato, è un diritto soggettivo, collegato alla persona del cittadino comunitario, lavoratore subordinato o indipendente. Tale diritto non è in alcun modo condizionato al rilascio, da parte delle autorità nazionali, d'un documento di soggiorno, che serve esclusivamente a comprovare un diritto preesistente e non ha rispetto a quest'ultimo alcun effetto costitutivo. La riserva dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza, contemplata dagli artt. 48, n. 3, e 56, n. 1, non rappresenta una condizione da cui dipenda l'acquisto del diritto d'entrata e di soggiorno, ma consente invece di limitare, in singoli casi e per ben determinati motivi, l'esercizio d'un diritto che trova la sua fonte nel trattato stesso.

Ciò premesso, le norme nazionali non possono, quando debbano venire applicate ai cittadini comunitari, proporsi altro scopo che quello di controllare la presenza nel territorio dello Stato della suddetta categoria di stranieri privilegiati e di verificare, in occasione del periodico rinnovo del documento di soggiorno, la loro qualità di cittadini d'un altro Stato membro.

In che posizione si trova, da questo punto di vista, la legislazione belga in tema di polizia degli stranieri?

Consideriamo innanzitutto le norme relative all'ingresso ed al soggiorno degli stranieri in territorio belga.

Il testo fondamentale è rappresentato al riguardo dalla legge 28 marzo 1952, con le novelle del 30 aprile 1964 e del 1o aprile 1969.

Nell'art. 2, paragrafo A, essa enuncia il principio secondo cui un cittadino straniero può entrare e soggiornare nel Belgio soltanto se vi è stato autorizzato dal ministro della giustizia, nelle forme previste da un decreto reale, o se possiede certi requisiti fissati specialmente da convenzioni internazionali.

Allo stesso modo, in forza del paragrafo C, nessuno straniero può stabilirsi nel Regno senza la prescritta autorizzazione del ministro della giustizia.

Siamo quindi in presenza d'un sistema di previa autorizzazione. Occorre però ricordare che il regio decreto 21 dicembre 1965 modificato nel 1969, contiene, al capitolo III, disposizioni speciali concernenti i cittadini degli altri Stati membri della Comunità e che queste disposizioni tengono conto del diritto comunitario.

In effetti, a norma dell'art. 33 del succitato decreto, i cittadini comunitari possono entrare nel Belgio dietro semplice presentazione d'un passaporto o d'una carta d'identità rilasciati dalle autorità del loro Stato d'appartenenza.

Circa lo stabilimento nel Belgio, l'art. 39 riconosce ai cittadini comunitari un diritto ad ottenere il «permesso di stabilimento» contemplato dalla legge 28 marzo 1952, con la conseguenza che il rilascio del suddetto documento serve soltanto a comprovare il preesistente diritto di soggiorno, già attribuito dalle norme comunitarie.

L'art. 38 dispone, innegabilmente, che un certificato di registrazione venga rilasciato ai cittadini comunitari per i primi tre mesi del loro soggiorno nel Belgio, purché essi siano entrati legalmente nel paese. Il certificato viene rilasciato dall'amministrazione comunale al momento della dichiarazione d'arrivo e può essere rinnovato una sola volta per altri tre mesi.

Benché non previsto dalle direttive comunitarie, l'obbligo di richiedere detto documento non appare inconciliabile con ciò che esse dispongono. Esso trova giustificazione nella necessità pratica di disciplinare il lasso di tempo necessario per il rilascio del permesso di soggiorno, ma non subordina ad alcuna condizione preliminare l'esercizio del diritto di soggiorno attribuito dall'ordinamento comunitario ai cittadini di un altro Stato membro che si stabiliscano nel Belgio per esercitarvi una delle attività di cui agli artt. 48 o 52 del trattato.

Ogni straniero deve farsi iscrivere sui registri della popolazione del comune di soggiorno entro otto giorni dal suo ingresso nel Belgio, se egli intende rimanere più a lungo nel paese. Detto obbligo, contemplato dall'art. 15 del già ricordato decreto, trova il suo fondamento nella legge 2 giugno 1856 sui censimenti e sui registri della popolazione. Esso non costituisce, nei confronti dei cittadini comunitari, una condizione da cui dipenda il diritto di soggiorno. Per di più l'inosservanza della predetta legge è punita semplicemente con le pene previste per le contravvenzioni.

Sulla base di quanto s'è detto, il fatto che un cittadino comunitario abbia trascurato di ottemperare a quest'obbligo o non possieda, vuoi il certificato di registrazione, vuoi il permesso di stabilimento, non basta a privarlo del diritto soggettivo di soggiorno che gli è attribuito del trattato stesso.

Il diritto comunitario non vieta certo agli Stati membri di garantire, mediante adeguate sanzioni in caso d'inosservanza, il rispetto delle norme sulla polizia degli stranieri. Tuttavia, se si tiene conto del principio di non discriminazione enunciato dagli artt. 7 e 48 del trattato, tali sanzioni non dovrebbero essere più gravi di quelle comminate ai cittadini dello Stato interessato che non rispettino le formalità amministrative connesse ad un cambio di residenza. In particolare, provvedimenti come l'arresto, la detenzione in attesa d'espulsione e l'espulsione dal territorio nazionale appaiono sproporzionati ad una mancanza così lieve; con essi non si può legittimamente colpire una persona che, se da una parte ha trascurato di ottemperare alle formalità concernenti il controllo degli stranieri, dall'altra non ha fatto che entrare e soggiornare nel territorio d'uno Stato membro in base ad un preciso diritto attribuitole dal trattato CEE.

Benché la convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non sia un testo comunitario e non sia quindi direttamente applicabile dai giudici nazionali, sotto il vostro controllo, si può ricordarde che il suo art. 5, n. 1, lett. f), rafforzerebbe, se ce ne fosse bisogno, le conclusioni cui riteniamo di dover giungere.

2.

Cionondimeno, occorre ancora accertare se l'essersi sottratto ad un obbligo di registrazione imposto dalla legge interna possa costituire per l'interessato un «comportamento personale» tale da giustificare un provvedimento d'espulsione per motivi d'ordine pubblico.

Va anzitutto ricordato che, a norma dell'art. 3, n. 1, della direttiva n. 64/221, direttiva riferentesi tanto ai lavoratori subordinati quanto agli indipendenti, provvedimenti di questo genere debbono trovare la loro giustificazione esclusivamente nel comportamento personale dell'interessato. Il n. 2 del suddetto articolo precisa che «la sola esistenza di condanne penali non può automaticamente giustificare l'adozione di tali provvedimenti». Nelle sentenze Bonsignore e Rutili, voi avete affermato che non è compatibile con l'art. 3 della direttiva n. 64/221 un motivo di «prevenzione generale»: l'espulsione d'uno straniero, cittadino comunitario, non può essere giustificata con la necessità di dissuadere altri stranieri dal compiere reati analoghi a quello di cui s'è resa colpevole la persona in questione.

Non si può negare che numerosi precedenti penali collezionati sia nello Stato di soggiorno, sia nello Stato d'origine o in un altro Stato, costituiscano un importante elemento di valutazione, tant'è vero che l'art. 5, n. 2, della direttiva consente in proposito di richiedere informazioni alle competenti autorità degli altri Stati membri e dispone che tali informazioni vanno fornite nel termine di due mesi. Simili richieste di informazioni non devono però avere carattere sistematico e, soprattutto, gli eventuali precedenti penali devono aggiungersi a un'ampia serie di fattori da prendere in considerazione prima di disporre l'espulsione o di negare il permesso d'entrata: detti provvedimenti devono colpire un comportamento asociale ed un turbamento grave ed attuale dell'ordine pubblico. Le misure adottate nei confronti degli stranieri per motivi d'ordine pubblico devono fondarsi esclusivamente sul comportamento individuale dell'interessato; in altre parole, esse devono essere personalizzate.

In considerazione di quanto s'è già detto, il mancato rispetto delle norme relative al controllo degli stranieri non può, nemmeno in presenza di precedenti penali dell'interessato, turbare l'ordine pubblico e la pubblica sicurezza in modo così grave da giustificare un provvedimento d'espulsione, quando per di più lo straniero abbia tenuto nello Stato di soggiorno un comportamento irreprensibile.

Nello stesso ordine d'idee, a norma dell'art. 3, n. 3, della direttiva, un provvedimento d'espulsione non può basarsi semplicemente sul fatto che il documento nazionale d'identità, che ha consentito l'ingresso ed il soggiorno ovvero lo stabilimento, sia scaduto. Lo Stato che ha rilasciato il documento in questione si impegna infatti a riammettere, senza formalità, l'interessato nel suo territorio, anche se in seguito potrà essere contestata la nazionalità del titolare del documento (art. 3, n. 4). Ciò conferma il carattere accessorio o derivato del documento di soggiorno.

La funzione svolta dai documenti amministrativi nazionali con riferimento ai diritti attribuiti dal trattato può essere paragonata a quella svolta dalle licenze o dai certificati rilasciati dalle autorità nazionali nel settore della circolazione delle merci.

Già il 13 ottobre 1970 il Bundesfinanzhof aveva riconosciuto al certificato di circolazione delle merci il carattere non già d'un atto costitutivo di diritti, bensì d'una semplice dichiarazione rilasciata dalle autorità dello Stato membro d'esportazione per attestare l'esattezza di certe indicazioni fornite dall'esportatore e tali da giustificare un trattamento preferenziale. Prima ancora, il Finanzgericht dell'Assia aveva affermato, il 12 agosto 1968, che le norme relative al certificato di circolazione delle merci avevano natura puramente formale e non esercitavano perciò alcuna influenza sullo svolgimento delle operazioni commerciali comunitarie.

Da parte vostra, voi avete precisato in una sentenza del 6 giugno 1972 (causa94-71, Schlüter e Maack; Racc. 1972, pag. 307) che la dichiarazione prescritta all'importatore — in particolare la consegna del certificato d'uscita — costitutisce una manifestazione adeguata della volontà dell' esportatore di fruire della restituzione e soddisfa le esigenze della disciplina comunitaria. Anche se gli Stati membri possono, per motivi attinenti all'organizzazione dei loro servizi, imporre agli esportatori di presentare ugualmente una domanda redatta nelle forme prescritte dal diritto nazionale, essi non possono tuttavia sanzionare con la decadenza dal diritto alla restituzione l'inosservanza del predetto obbligo.

Del pari, voi avete affermato in una sentenza del 1o febbraio 1972 (causa 49-71, Hagen; Racc. 1972, pag. 23) che un'offerta per intervento, originariamente incompleta, può essere completata in seguito.

II —

Con la quarta questione il giudice belga vi chiede se, in base all'art. 4, nn. 1 e 2, della direttiva n. 68/360, gli Stati membri siano obbligati a riconoscere l'esistenza d'un diritto attribuito dal trattato, quando l'interessato sia in grado di esibire le prove all'uopo richieste, e debbano, prima di far ricorso a misure restrittive della libertà personale, utilizzare altri mezzi per indurre il cittadino d'un altro Stato membro, che non abbia osservato sul loro territorio le norme di polizia degli stranieri, a regolarizzare volontariamente la sua posizione.

Abbiamo già ricordato che, ai sensi dell'art. 4, nn. 1 e 2 della direttiva, gli Stati membri «riconoscono» il diritto di soggiorno nel loro territorio alle persone che siano in grado di esibire i documenti contemplati dalla direttiva stessa e «comprovano» il' predetto diritto con il rilascio ai cittadini comunitari d'una speciale carta di soggiorno.

La citata disposizione non si propone quindi di creare un diritto in capo ai cittadini comunitari, bensì di regolare l'esercizio d'un diritto già conferito dal trattato. Il diritto di soggiorno va riconosciuto a chiunqe rientri nelle categorie di persone indicate nell'art. 1 e sia in grado di provare, esibendo i documenti menzionati nel n. 3 del predetto articolo, la propria appartenenza ad una di tali categorie.

Tuttavia, non ci sembra che la norma in questione obblighi le autorità nazionali ad usare particolari riguardi nei confronti d'una persona colta in posizione irregolare, quando, d'altra parte, ci sia fondato motivo di ritenere che la presenza della suddetta persona nel territorio dello Stato possa turbare l'ordine pubblico o la pubblica sicurezza.

Qualora il comportamento dello straniero lasci a desiderare da questo punto di vista e, pur senza costituire di per sé reato, sia però tale da giustificare in definitiva, agli occhi delle autorità nazionali, un provvedimento d'espulsione, ci sembra giusto che l'interessato sia avvertito in modo chiaro e formale del rischio d'espulsione che egli corre ove non provveda a modificare il suo atteggiamento.

III —

Con la quinta questione il giudice belga vi chiede se un provvedimento d'espulsione o di rifiuto del permesso di soggiorno o di stabilimento possa, alla luce del diritto comunitario, avere effetto immediato oppure non diventi esecutivo che dopo l'esperimento di tutti i possibili ricorsi spettanti all'interessato dinanzi ai giudici nazionali.

Come voi avete ricordato nella sentenza Rutili del 28 ottobre 1975, a norma dell'art. 8 della direttiva n. 64/221, ogni persona colpita da un provvedimento d'espulsione ha diritto ad esperire contro tale provvedimento i ricorsi che spettano ai cittadini dello Stato interessato contro gli atti amministrativi; in mancanza dei predetti ricorsi gli deve perlomeno essere consentito, in forza dell'art. 9 della stessa direttiva, di impugnare il provvedimento limitativo della libertà personale dinanzi ad una autorità competente diversa da quella che lo ha emanato; infine, il ricorso dinanzi all'autorità competente deve, salvo casi d'urgenza, precedere l'esecuzione del provvedimento d'espulsione.

Così, salvo casi di provata urgenza, quando si può presentare un ricorso giurisdizionale ai sensi dell'art. 8, il provvedimento d'espulsione non deve avere effetto prima che l'interessato abbia potuto proporre ricorso. La stessa conclusione si impone per il caso in cui il ricorso sia ammesso, ma non abbia effetto sospensivo: l'interessato deve poter impugnare il provvedimento limitativo della sua libertà personale dinanzi ad un'autorità diversa da quella che lo ha emanato ed il provvedimento non può essere eseguito, se non in caso di provata urgenza, prima che la suddetta autorità si sia pronunciata in proposito.

Da ultimo, a norma dell'art. 7 della direttiva, il periodo di tempo concesso all'interessato per lasciare il paese non può, se non in casi d'urgenza, essere inferiore ad un mese od a 15 giorni calcolati a partire dalla notifica del provvedimento definitivo. Il primo periodo vale per coloro che già possiedono il permesso di soggiorno, il secondo per coloro che invece ne sono sprovvisti.

IV —

Con la sesta, la settima e l'ottava questione, il giudice belga vi chiede se gli artt. 53 e 62 del trattato consentano ad uno Stato membro di emanare norme o di seguire procedure meno liberali di quelle applicate prima che entrasse in vigore il trattato CEE.

Gli artt. 53 e 62 vietano agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione di servizi effettivamente raggiunte al momento dell'entrata in vigore del trattato. Per quanto riguarda invece i provvedimenti di liberalizzazione, tali articoli non possono evidentemente considerare obbligatori che quelli contemplati dal trattato.

La direttiva n. 64/221 ha apportato diverse limitazioni alla libertà d'apprezzamento degli Stati membri in materia di tutela dell ordine pubblico, della pubblica sicurezza e della sanità pubblica. Essa ha pure precisato gli obblighi che incombono agli Stati membri nei predetti settori. Con tutto ciò, essa lascia intatta la competenza degli Stati membri a scegliere le forme e gli strumenti più idonei a conseguire il risultato voluto.

Di conseguenza, se uno Stato membro ha adottato norme o seguito procedure più liberali di quanto la disciplina comunitaria non gli imponesse, è da escludere che tale circostanza possa attribuire ai cittadini comunitari diritti più estesi di quelli loro spettanti in forza degli artt. 53 e 62 e delle relative disposizioni d'attuazione, fra cui si distingue la direttiva n. 64/221. Nulla vieta perciò al Belgio di ritornare ad un sistema meno liberale, purché detto sistema rispetti il diritto comunitario e — dobbiamo aggiungere — gli impegni internazionali dello Stato belga.

In definitiva, vi proponiamo quindi di affermare per diritto quanto segue:

1.

a)

Il diritto di entrare e di soggiornare nel territorio d'uno Stato membro spetta ai cittadini di un altro Stato membro direttamente in virtù degli artt. 48, 52 e 59 del trattato e delle norme comunitarie emanate per la loro attuazione, senza che sia affatto necessario il rilascio d'un documento di soggiorno da parte dello Stato ospite.

b)

La circostanza che il cittadino d'uno Stato membro abbia trascurato di ottemperare alle formalità concernenti il controllo degli stranieri non costituisce una minaccia per l'ordine pubblico e la pubblica sicurezza e non può quindi, isolatamente considerata, legittimare un provvedimento d'espulsione o di privazione della libertà personale.

2.

In base all'art. 4 della direttiva n. 68/360, gli Stati membri hanno l'obbligo di rilasciare il permesso di soggiorno a chiunque abbia dimostrato, esibendo i necessari documenti, di appartenere ad una delle categorie contemplate dall'art. 1 della direttiva stessa.

3.

Fatti salvi i casi di provata urgenza, un provvedimento d'espulsione non può avere effetto prima che l'interessato abbia potuto esperire i ricorsi di cui agli artt. 8 e 9 della direttiva n. 64/221.

4.

Gli artt. 53 e 62 del trattato vietano agli Stati membri di introdurre nuove restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione di servizi effettivamente raggiunte al momento dell'entrata in vigore del trattato. Un ritorno a norme o procedure meno liberali non è consentito quando le precedenti misure di liberalizzazione siano state emanate in esecuzione di obblighi sanciti dal trattato.


( 1 ) Traduzione dal francese.

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