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Document 61974CC0041

Conclusioni dell'avvocato generale Mayras del 13 novembre 1974.
Yvonne van Duyn contro Home Office.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: High Court of Justice, Chancery Division - Regno Unito.
Ordine pubblico.
Causa 41-74.

Raccolta della Giurisprudenza 1974 -01337

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1974:123

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE HENRI MAYRAS

DEL 13 NOVEMBRE 1974 ( 1 )

Signor Presidente,

Signori Giudici,

Introduzione

Il presente procedimento pregiudiziale riveste, sotto un duplice aspetto, un particolare interesse.

Per la prima volta un tribunale del Regno Unito, la High Court of Justice di Londra, vi sottopone, in forza dell'art. 177 del trattato di Roma, una domanda d'interpretazione di norme comunitarie.

Per la prima volta, inoltre, voi siete chiamati a pronunciarvi sull'eccezione, relativa alle limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, contemplata, in merito alla libera circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, dall'art. 48 del trattato.

Dovrete quindi esaminare, in proposito, entro quali limiti il potere discrezionale degli Stati in merito agli imperativi d'ordine pubblico interno, possa conciliarsi con l'applicazione uniforme del diritto comunitario ed, in particolare, del principio della parità di trattamento tra lavoratori migranti e nazionali.

Voi dovrete altresì pronunciarvi sul se una direttiva del Consiglio, o almeno una determinata disposizione di essa, possa essere o meno direttamente efficace. Le vostre sentenze, tuttavia, contengono già taluni elementi per la soluzione di siffatta questione.

I — Gli antefatti

I fatti all'origine della controversia sono semplici.

La sig.na Yvonne van Duyn, cittadina olandese, il 9 marzo 1973 giungeva all' aereoporto di Gatwick in Inghilterra. Essa dichiarava di essere venuta nel Regno Unito per essere assunta in qualità di segretaria, posto che le sarebbe stato previamente offerto dalla Chiesa scientista di California, avente sede a Saint Hill Manor, East Grinstead, nella contea del Sussex.

A seguito delle domande rivoltele dal funzionario dell'ufficio immigrazione, essa veniva costretta, lo stesso giorno, a ritornare nei Paesi Bassi.

La motivazione del rifiuto del permesso d'entrata nel Regno Unito veniva a chiari termini espressa nel documento consegnato dal funzionario del servizio:

«Lei ha chiesto di entrare nel Regno Unito per lavorare presso la Chiesa scientista. Il Ministero competente ritiene inopportuno concedere il permesso d'entrata a persone operanti nell'interesse o alle dipendenze della predetta organizzazione».

Questa decisione è stata adottata in conformità alla posizione definita nel 1968, dal governo del Regno Unito, che considerava — e considera tutt'ora — le attività della Chiesa scientista come dannose alla società (socially harmful).

Tuttavia ritornerò sulla motivazione del rimpatrio della sig.na van Duyn quando prenderò in esame la questione del se la decisione dell'ufficio immigrazione sia fondata sul «comportamento personale» dell'attrice, ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva del Consiglio n. 64/221, che si dovrà interpretare.

La sig.na van Duyn, avendo citato in giudizio l'Home Office, davanti alla Chancery Division della High Court, invocava in effetti l'art. 48 del trattato e la disposizione della direttiva n. 64/221 adottata al fine di coordinare i provvedimenti speciali relativi al trasferimento ed al soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica.

Dopo aver esaminato le domande dell'attrice ed inteso il rappresentante dell'Home Office, parte convenuta, il Vice-Chancellor, giudice della High Court, decideva di sospendere il procedimento e di sottoporvi tre questioni in via pregiudiziale.

La prima verte sulla diretta efficacia dell' art. 48 del trattato.

Con la seconda si pone il quesito del se la direttiva del Consiglio n. 64/221 sia, del pari, direttamente efficace così da attribuire ai singoli diritti soggettivi che i giudici nazionali devono tutelare.

La terza questione riguarda l'interpretazione dell'art. 48 e dell'art. 3 della direttiva. La High Court vi chiede se, allorquando la competente autorità di uno Stato membro decide, per motivi di ordine pubblico, di non concedere il permesso d'entrata nel territorio nazionale ad un cittadino comunitario fondandosi esclusivamente sulla condotta personale dell'interessato, essa possa ritenere elementi costitutivi della medesima:

a)

la precedente od attuale partecipazione a gruppi o ad organizzazioni che lo Stato membro considera antisociali, pur senza vietarli a norma di legge;

b)

l'intenzione di lavorare nello Stato membro alle dipendenze dei predetti gruppi od organizzazioni, tenuto conto del fatto che nessuna restrizione viene adottata nei confronti di cittadini britannici che manifestino lo stesso proposito.

Tali questioni sono poste in termini chiari e secondo un ordine logico.

II — Discussione

1. Efficacia diretta dell'art. 48 del trattato della Comunità economica europea

Sulla prima non mi dilungherò molto.

I canoni desunti, secondo una prassi ormai consolidata, dalle sentenze di questa Corte, per determinare se una disposizione di diritto comunitario, ed in particolare una norma enunciata dal trattato di Roma, abbia efficacia diretta nel senso di conferire ai singoli diritti soggettivi che i giudici nazionali devono tutelare, sono chiaramente fissati:

la disposizione deve imporre agli Stati membri un obbligo chiaro e preciso;

essa dev'essere incondizionata, cioè non deve contemplare alcuna deroga; qualora tuttavia ammetta determinate eccezioni, queste devono essere precisamente definite e delimitate;

infine, l'applicazione della norma comunitaria non dev'essere subordinata ad alcuna normativa ulteriore, né delle istituzioni comunitarie, né degli Stati membri, di guisa che, in particolare, questi ultimi non possano disporre di un vero e proprio potere discrezionale quanto all'applicazione della norma di cui trattasi.

Tali canoni, che nel 1966 l'avvocato generale Gand aveva dettato nelle sue conclusioni nella causa Liitticke (causa 57-65, Racc. 1966, pag. 230) e che voi avete richiamati in numerose sentenze, sono stati confermati e perfezionati, particolarmente dalle sentenze 12 settembre 1972 (cause 21 — 24-72, Racc. 1972, pag. 1227), 24 ottobre 1973 (causa 9-73, Schluter, Racc. 1973, pag. 1158) e, ancora più di recente, dalla sentenza 21 giugno 1974 (causa 2-74, Reyners, Racc. 1974, pag. 631), in merito all'art. 52, relativo al diritto di stabilimento.

Il fatto poi, che le disposizioni dell'art. 48, che sono tra le più importanti del trattato, in quanto fissano i canoni relativi alla libertà di circolazione dei lavoratori all'interno della Comunità, rispondano a tali cirteri, non può comunque dar luogo ad ulteriori dubbi dopo la sentenza, del pari recente, 4 aprile 1974causa 167-73, Commissione / Francia, Racc. 1974, pag. 371).

Con tale sentenza è stato affermato in chiari termini che «le disposizioni dell' art. 48 del trattato e del regolamento del Consiglio n. 1612/68, relativo all'impiego dei lavoratori migranti, sono direttamente efficaci nell'ordinamento giuridico di ciascuno Stato membro e … attribuiscono agli interessati dei diritti che le autorità nazionali devono rispettare e tutelare».

Se l'alto collegio del Regno Unito, al momento in cui ha deciso di sottoporvi la presente domanda di pronunzia pregiudiziale, avesse avuto conoscenza di tale sentenza, probabilmente non vi avrebbe sottoposto la prima questione. Si comprende che esso abbia ritenuto necessario di farlo in quanto ha adottato la decisione di rinvio in data 1o marzo u.s., quindi prima della vostra pronunzia sulla diretta efficacia dell'art. 48.

Comunque stiano le cose, il problema è stato ormai risolto, e vi basterà confermare, su questo punto, la sentenza 4 aprile u.s..

2. Diretta efficacia della direttiva del Consiglio n. 64/221

Meno semplice si presenta la soluzione della seconda questione che, come si è visto, riguarda la diretta efficacia della direttiva del Consiglio 25 febbraio 1964.

L'art. 189 del trattato pone infatti la differenza tra i regolamenti, non soltanto obbligatori, ma direttamente efficaci negli Stati membri, e le direttive, aventi del pari, certamente, forza vincolante per gli Stati, ma che non sono, in linea di principio, direttamente efficaci nei limiti in cui esse lasciano agli Stati la facoltà di optare i mezzi per la loro applicazione.

Tuttavia, andando al di là dei formalismi giuridici, nelle sentenze 6 e 21 ottobre 1970 (causa 9-70, Grad — causa 20-70, Lesage — causa 13-70, Haselhorst, Racc. 1970, pagg. 838, 874 e 893) avete affermato che, a prescindere dai regolamenti, altri atti comunitari contemplati all'art. 189 possono essere direttamente efficaci, in particolare nei casi in cui le autorità comunitarie abbiano vincolato gli Stati membri ad adottare un determinato comportamento; la portata di tali atti sarebbe ristretta se i singoli non potessero, in tali ipotesi, far valere in giudizio i diritti loro conferiti da siffatti provvedimenti, pur se essi non siano stati adottati nella forma di regolamento.

Con precisione ancora maggiore viene affermato nella sentenza 17 dicembre 1970 (causa 33-70, SACE, Racc. 1970, pag. 1223) che una direttiva,«il cui scopo è d'impartire ad uno Stato membro una data limite per l'adempimento di un obbligo comunitario, non riguarda solo i rapporti fra la Commissione e detto Stato, ma implica conseguenze giuridiche che possono esser fatte valere, in particolare, dai singoli qualora, per sua natura, la disposizione che sancisce detto obbligo sia direttamente efficace».

In presenza di una direttiva, si deve quindi vagliare caso per caso, se i termini, la natura e l'economia delle disposizioni in causa possano produrre direttamente effetti nei rapporti tra gli Stati membri destinatari ed i loro cittadini.

Cosa c'è da dire circa la direttiva del Consiglio n. 64/221?

Tale atto si propone l'obiettivo di coordinare, negli Stati membri, i provvedimenti applicabili agli stranieri in materia di trasferimento e di soggiorno, giustificati da motivi d'ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica.

Essa è stata adottata in forza, tanto dell' art. 48 — e contempla espressamente peraltro il regolamento allora vigente per la libera circolazione dei lavoratori — quanto dell'art. 56, relativo al diritto di stabilimento.

Essa è diretta a limitare i poteri che gli Stati hanno incontestabilmente mantenuto, nel campo di loro competenza, in fatto di tutela dell'ordine pubblico, ed in particolare della pubblica sicurezza nell'ambito del loro territorio.

L'art. 3, n. 1, di tale direttiva, dispone, come si sa, che: «i provvedimenti di ordine pubblico o di pubblica sicurezza devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell'individuo nei riguardi del quale essi sono applicati».

Per risolvere nel giusto senso la questione deferita, non è affatto necessario accertare se l'insieme delle norme contenute nella direttiva sia o meno direttamente efficace.

Nella presente causa soltanto l'art. 3, n. 1, è in questione. Tuttavia, per esprimere un giudizio circa la sua diretta efficacia, occorre passare all'esame della sua interpretazione e sconfinare quindi di un poco nell'ambito della terza questione pregiudiziale.

Quanto al campo di applicazione dell' art. 3, n. 1, non vi è dubbio ch'esso riguarda sia i lavoratori dipendenti, di cui all'art. 48, sia i singoli che esercitano attività autonoma, di cui all'art. 52 e seguenti.

Nei confronti dei dipendenti migranti, il Consiglio avrebbe potuto adottare un regolamento, secondo quanto ad esso consente l'art. 48, ed è ciò che ha fatto del resto per quanto riguarda le condizioni del loro impiego in uno Stato membro.

Per i lavoratori autonomi, in forza dell' art. 56, n. 2, era possibile solo il ricorso alla direttiva. Senza dubbio, il Consiglio ha ritenuto che fosse auspicabile unificare, nello stesso atto giuridico, il regime di libera circolazione dei lavoratori dipendenti ed il diritto di stabilimento di quelli autonomi, per quanto attiene almeno ai provvedimenti relativi all'ordine pubblico negli Stati.

Tuttavia, il ricorso a tale procedimento non impedisce affatto che l'art. 3 della direttiva possa essere direttamente efficace.

Ci si domanda a qual fine il Consiglio abbia adottato tale disposizione, se non per limitare il potere discrezionale degli Stati membri e subordinare le limitazioni alla libertà di circolazione, quali il divieto di entrata, il rimpatrio o l'espulsione, alla condizione che tali misure siano fondate in via esclusiva sul comportamento personale degli interessati.

Appare evidente che esso ha voluto, con ciò stesso, impedire agli Stati di adottare provvedimenti generali comprendenti intere categorie die persone ed, in particolare, vietare i rimpatri o le espulsioni collettivi.

Esso ha posto, comunque, a carico degli Stati un obbligo chiaro e preciso. La prima condizione per la diretta efficacia è soddisfatta.

La seconda lo è altrettanto. La norma stabilita è autosufficiente. Essa non è neppure subordinata all'intervento di ulteriori atti, né delle autorità comunitarie, né degli Stati. Il fatto che questi ultimi abbiano, conformemente al principio vigente in materia di direttive, la scelta dei mezzi e dei procedimenti in forza del loro diritto nazionale, non implica affatto che la norma comunitaria non sia direttamente efficace. Essa è, invece, così intimamente connessa all'applicazione dell'art. 48, in relazione ai lavoratori dipendenti, che risulta da essa indissolubile e partecipa della natura di questa disposizione del trattato.

Infine, è sintomatico che, benché gli Stati abbiano conservato la loro competenza in materia di pubblica sicurezza, l'art. 3, n. 1, della direttiva implichi indubbiamente una limitazione precisa di tale competenza, di cui essi non possono fare un uso discrezionale nei confronti dei cittadini comunitari.

Queste considerazioni m'inducono a concludere che la disposizione in oggetto attribuisce, a vantaggio di questi ultimi, diritti che gli interessati possono far valere in giudizio e che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare.

3. Pubblica sicurezza e concetto di comportamento personale

Passo ora alla terza questione. Che cosa si deve intendere per «comportamento personale» atto a giustificare il divieto di entrata nel territorio di uno Stato membro? Come va definita tale nozione?

Al di là dell'esegesi del testo, la soluzione mi sembra imperniarsi su due riflessioni sostanziali:

In primo luogo, la libertà di circolazione dei lavoratori costituisce uno dei principi fondamentali del trattato e l'abolizione di qualsiasi discriminazione, basata sulla nazionalità, tra lavoratori degli Stati membri, non patisce alcun'altra eccezione oltre a quelle limitativamente previste al n. 3 dell'art. 48 e relative all'ordine pubblico, alla pubblica sicurezza ed alla sanità pubblica (sentenza 15 ottobre 1969 — causa 15-69, Ugliola, Racc. 1969, pag. 368).

In secondo luogo, se esiste un «ordine pubblico comunitario» nei settori in cui il trattato ha per oggetto o per effetto di trasferire direttamente alle istituzioni comunitarie poteri una volta esercitati dagli Stati membri, può trattarsi solo di un ordine pubblico economico, relativo, a mo' d'esempio, alle organizzazioni comuni del mercato agricolo, agli scambi commerciali, alla tariffa doganale comune o al regime della concorrenza.

Per converso, allo stato attuale delle cose e del diritto, gli Stati, con le eccezioni richiamate proprio da determinate disposizioni comunitarie quali la direttiva n. 64/221, hanno il potere esclusivo di adottare i provvedimenti necessari per la tutela della pubblica sicurezza nel loro territorio e di valutare in quali casi questa sicurezza possa essere minacciata.

In altri termini, benché l'eccezione generale relativa all'ordine pubblico, contemplata all'art. 48 e all'art. 56, costituisca un'eccezione limitata e da interpretarsi in senso restrittivo ai principi del trattato in materia di libera circolazione e di libertà di stabilimento, non ritengo, in contrasto con quanto sostenuto dalla Commissione, che si possa definire una nozione comunitaria della pubblica sicurezza. Tale nozione resta, almeno per il momento, nazionale e ciò è conforme alla realtà delle cose nei limiti in cui le esigenze della pubblica sicurezza variano, nel tempo e nello spazio, da uno Stato all'altro.

È alla luce di tali riflessioni che, a mio avviso, va risolta la terza questione.

In primo luogo, entro quali limiti la nozione di «comportamento personale» può applicarsi ai fatti presi in esame dal giudice a quo, e cioè l'iscrizione di un cittadino comunitario ad un'organizzazione le cui attività sono considerate dannose per l'ordine pubblico senza tuttavia esser vietate, e l'intenzione di essere assunti presso siffatta organizzazione mentre i cittadini non sono soggetti, nelle stesse circostanze, ad alcuna restrizione?

Invero, la questione formulata in questi termini mi ha indotto a ricercare nel fa-scicolo della High Court gli elementi che consentono di comprendere con precisione i fatti che hanno motivato il diniego opposto all'attrice nella causa principale.

Se ne desume che non soltanto quest'ultima metteva piede sul territorio con la reale intenzione di occupare il posto di segretaria presso la Chiesa scientista, ma aveva già lavorato nei sei mesi precedenti presso la stessa organizzazione nei Paesi Bassi, che essa aveva studiato e praticato lo Scientismo.

È indubbiamente l'insieme di queste circostanze, sulla cui veridicità non siamo tenuti a sindacare, che ha indotto l'ufficio immigrazione britannico a negarle l'autorizzazione ad entrare nel territorio nazionale.

Si desume altresì dal fascicolo che nel 1968 il Ministro della sanità del Regno Unito, in un'interrogazione al Parlamento, aveva espresso il parere che «Lo Scientismo è un culto pseudo filosofico», i cui principi o le cui pratiche costituiscono, secondo il parere del governo britannico, una minaccia tanto per la sicurezza pubblica, quanto per la salute di chi vi si sottopone.

Il ministro si rendeva portavoce della decisione del governo di opporsi, nei limiti dei suoi poteri, all'attività di tale organizzazione. Dato che la legislazione nazionale in vigore non prescriveva un divieto di praticare lo Scientismo, il governo poteva almeno rifiutare agli stranieri, che si proponevano di venire a lavorare presso la sede della Chiesa scientista in Inghilterra, l'autorizzazione ad entrare nel territorio.

È proprio, a quanto sembra, in forza di tale politica che alla sig.na van Duyn è stata negata l'autorizzazione ad entrare nel Regno Unito, in considerazione dei rapporti ch'essa aveva già in passato instaurato nei Paesi Bassi con la suddetta «Chiesa» e del fatto ch'essa personalmente praticava lo Scientismo ed infine in considerazione della sua intenzione di lavorare a St. Hill Manor.

Sulla base di tali dati, non sussiste dubbio, a mio avviso, che tale insieme di circostanze rientra nella nozione di «comportamento personale» ai sensi dell'art. 3, n. 1, della direttiva e che l'iscrizione di per sé, sia pure attraverso un contratto di lavoro, alla Chiesa scientista, costituisce un elemento del comportamento individuale.

Così pure, com'è stato già detto, la disposizione in oggetto è stata sostanzialmente dettata dal desiderio delle istituzioni comunitarie di vietare agli Stati di adottare, nei confronti dei cittadini comunitari, provvedimenti di polizia collettivi. Essa esige l'esame individuale della situazione di ogni singola persona cui può essere diretto un provvedimento relativo alla tutela dell'ordine pubblico; essa implica, senza alcun dubbio, il controllo giurisdizionale della motivazione di un siffatto provvedimento da parte dei giudici nazionali i quali, come nel presente caso, hanno facoltà — o talvolta anche l'obbligo — di sottoporvi le questioni relative all'interpretazione del diritto comunitario da applicarsi.

È su questo punto — e soltanto su questo punto — che la competenza degli Stati in questo settore si trova ad essere indubbiamente limitata dalla direttiva.

In ultimo, si deve accertare se, non permettendo l'entrata nel paese di un cittadino comunitario per le ragioni sovraccennate, il governo del Regno Unito abbia violato il principio di non discriminazione, di parità di trattamento con i cittadini nazionali, che costituisce il corollario necessario della libertà di circolazione delle perone e che, trovando il suo fondamento principale nell'art. 7 del trattato, va espressamente applicato ai lavoratori dipendenti in forza dell'art. 48. È pacifico infatti che, benché la Chiesa scientista sia, agli occhi del governo britannico, socialmente dannosa e, conseguentemente, le sue attività siano considerate contrarie all'ordine pubblico, è un fatto che esse non sono vietate sul territorio del Regno Unito e che i cittadini britannici sono liberi di studiare e praticare lo Scientismo, come pure di esplicare un'attività lavorativa presso la sede dell'organizzazione.

Prima facie, sussiste quindi una discriminazione nel trattamento riservato ai cittadini d'altri Stati della Comunità, nel divieto loro imposto di entrare nel territorio britannico con la sola motivazione che essi vi entrerebbero per praticare lo Scientismo a Saint Hill Manor ed esplicarvi un'attività lavorativa.

Non ritengo tuttavia che tale discriminazione sia incompatibile col trattato.

Come ho già detto, l'eccezione relativa all'ordine pubblico, ed in ispecie alla pubblica sicurezza, consegue l'effetto di lasciare agli Stati la loro competenza in tale settore, fatto salvo l'obbligo di motivare i provvedimenti di pubblica sicurezza col comportamento individuale degli interessati.

Tuttavia gli Stati conservano, sia per quanto riguarda la valutazione della mi-naccia alla loro sicurezza, sia per quanto riguarda l'opportunità dei provvedimenti da adottare per farvi fronte, un potere il cui esercizio non scalfisce il principio della parità di trattamento, a meno che, indubbiamente, essi non sviino tale potere dai fini in vista dei quali deve venir esercitato, a mo' d'esempio impiegandolo per uno scopo di protezione economica.

Secondo le dichiarazioni del governo britannico, la legislazione interna non ha consentito e non consente di adottare, nei confronti dello Scientismo, dei provvedimenti di divieto. Ciò è una conseguenza del regime particolarmente liberale. Indubbiamente le cose andrebbero diversamente in altri Stati membri in cui i governi considerassero le attività della suddetta comunità come contrarie all'ordine pubblico. Tuttavia, nei limiti in cui il governo del Regno Unito dispone dei mezzi legali che gli consentono di opporsi a che stranieri, pur nell'ipotesi di cittadini comunitari, vengano ad incrementare, nel proprio territorio, la coorte degli adepti allo Scientismo, ritengo che esso possa agire nel senso in cui ha operato, senza determinare una discriminazione ai sensi dell'art. 48 del trattato. Esso agisce, quindi, nell'ambito dei poteri statali che l'eccezione relativa all'ordine pubblico, di cui allo stesso articolo, riconosce a ciascuno Stato membro.

In definitiva, concludo proponendovi che voi vi pronunciate nel senso che:

1.

tanto le disposizioni dell'art. 48 del trattato, quanto quelle dell'art. 3, n. 1, della direttiva del Consiglio n. 64/221 sono direttamente efficaci nell'ordinamento giuridico di ogni Stato membro ed attribuiscono ai singoli interessati diritti soggettivi che i giudici nazionali devono tutelare;

2.

è insito nella nozione di «comportamento personale», in quanto atta a giustificare un provvedimento di ordine pubblico o di pubblica sicurezza, ai sensi della disposizione sovraccennata della direttiva 64/221, il fatto di essere stato o di essere iscritto ad un'organizzazione, le cui attività sono considerate da uno Stato membro come contrarie all'ordine pubblico, anche se tali attività, nell'ambito del territorio dello Stato, non sono vietate dalle leggi nazionali;

3.

è del pari insito nella nozione di «comportamento personale» il fatto di entrare nel territorio dello Stato membro interessato al fine di lavorare presso un'organizzazione le cui attività sono considerate contrarie all'ordine pubblico ed alla pubblica sicurezza, anche qualora non valga alcuna limitazione per i cittadini di tale Stato che desiderano occupare un posto presso la stessa organizzazione.


( 1 ) Traduzione dal francese.

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