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Document 61969CC0009

Conclusioni dell'avvocato generale Gand del 1 luglio 1969.
Claude Sayag e S.A. Zürich contro Jean-Pierre Leduc, Denise Thonnon e S.A. La Concorde.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Cour de cassation - Belgio.
Causa 9-69.

Raccolta della Giurisprudenza 1969 -00329

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1969:31

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE JOSEPH GAND

DEL 1O LUGLIO 1969 ( 1 )

Signor Presidente,

Signori giudici,

È la seconda volta che l'incidente stradale nel quale è stato coinvolto il sig. Sayag, ingegnere presso l'Euratom, provoca un rinvio pregiudiziale da parte della Corte di cassazione del Belgio, la quale chiede l'interpretazione di alcune disposizioni di diritto comunitario.

Di fronte al giudice penale belga, il Sayag aveva invocato l'immunità di cui godono, a norma dell'articolo 11 del protocollo sui privilegi e sulle immunità della CEEA del 17 aprile 1957, i dipendenti della stessa Comunità «per gli atti compiuti in veste ufficiale.» Il Sayag sosteneva di aver agito in veste ufficiale allorché, munito di regolare ordine di missione che contemplava l'uso della propria autovettura, iniziò il viaggio da Bruxelles a Mol, in compagnia di due rappresentanti di ditte private cui intendeva far visitare gli impianti del Centro comune di ricerche nucleari.

Interpellata dalla Corte di cassazione del Belgio circa la portata di tale disposizione del protocollo, la Corte si pronunciava l'11 luglio 1968 (Sayag, 5-68, Raccolta XIV-1968, pag. 521), affermando che l'immunità valeva solo per gli atti che, per loro natura, implicano una partecipazione del dipendente interessato all'esercizio dei compiti dell'istituzione dalla quale dipende. In particolare, avete aggiunto che la guida di un autoveicolo non può costituire un atto compiuto in veste ufficiale, a meno che tale attività non possa essere svolta se non sotto l'autorità della Comunità e dai suoi stessi dipendenti.

Era evidente che il problema non implicava solo la questione dell'immunità penale, ma anche quello della responsabilità civile, dibattuto fra l'autore e la vittima dell'incidente sostenuti dai loro rispettivi assicuratori.

Voi avete quindi completato la vostra pronunzia rilevando che la qualifica di un atto rispetto all'immunità, come pure l'eventuale decisione di togliere l'immunità stessa, non pregiudicano l'eventuale responsabilità della Comunità «la quale è retta da norme particolari aventi uno scopo distinto da quello del protocollo sui privilegi e sulle immunità».

La vostra sentenza ha indotto la Corte di cassazione a respingere il ricorso proposto contro l'azione pubblica; restavano però due motivi dedotti contro la sentenza relativa alle due azioni civili promosse contro l'autore dell'incidente e il suo assicuratore, la società Zurich. In essi era detto che, a norma del trattato CEEA, la Comunità è l'unica responsabile nei confronti dei terzi per i danni provocati dai propri dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni e che la vostra Corte era l'unica competente a conoscere delle azioni di risarcimento relative a tali danni. In subordine, se il dipendente fosse responsabile dei danni causati a terzi in tali condizioni, tale responsabilità dovrebbe valutarsi, come quella della Comunità, in base ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri e rientrerebbe parimenti nella vostra competenza.

Alla luce di quanto precede, con sentenza 17 febbraio 1969 la Corte di cassazione vi ha chiesto d'interpretare l'espressione «nell'esercizio delle sue funzioni», di cui all'articolo 188 del trattato CEEA. Essa inoltre vi chiede, nell'ipotesi in cui il dipendente abbia commesso il fatto dannoso nell'esercizio delle sue funzioni, ma senza agire in veste ufficiale, se tale fatto implichi la responsabilità personale del dipendente ovvero tale responsabilità sia assorbita da quella della Comunità.

Il giudice a quo vi chiede infine di precisare eventualmente quale diritto si debba applicare all'azione di risarcimento nei confronti del dipendente e del suo assicuratore e quale sia il giudice competente a conoscerne.

Quest'ultima questione, nel suo duplice aspetto, può eventualmente considerarsi subordinata. Penso tuttavia che la Corte di cassazione ve l'ha deferita a buon diritto, non solo in quanto essa deriva logicamente dalle prime, ma anche perché l'esame delle difficoltà che essa propone può illuminare in un certo senso la soluzione da darsi alle questioni principali. In questo campo la vostra giurisprudenza ha funzione creatrice e pur se a questo proposito non è né possibile né auspicabile la creazione di una teoria generale della responsabilità extracontrattuale della Comunità, si devono tenere presenti gli sviluppi che possono implicare le soluzioni che adotterete in quest'occasione.

I

La prima questione riguarda i due soli articoli del trattato CEEA che si riferiscono alla responsabilità extracontrattuale della Comunità e che trovano esatta corrispondenza nel trattato CEE.

1.

In primo luogo, l'articolo 188, 2o comma, stabilisce che, in materia di responsabilità extracontrattuale, la Comunità deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni provocati dalle istituzioni o dai loro dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni.

In secondo luogo, l'articolo 151 stabilisce la vostra competenza a conoscere delle controversie in materia di risarcimento dei danni nei casi previsti dall'articolo 188, 2o comma.

La determinazione del giudice competente e quella del diritto materiale da applicarsi sono state intimamente connesse dagli autori del trattato, giacché si giustificano nello stesso modo. I motivi per i quali, in linea generale, la Comunità è sottratta al diritto nazionale ed alla giurisdizione interna, sono evidenti: anzitutto si deve garantire la sua indipendenza. L'attività della Comunità non dev'essere frenata dall'obbligo di assoggettarsi al diritto di uno Stato, che può avere problemi di respiro meno ampio di quelli comunitari, ed il funzionamento della Comunità non dev'essere soggetto al sindacato dei giudici nazionali. Si tratta, d'altro canto, di garantire la certezza del diritto, grazie all'unità del diritto applicato. Si deve inoltre ricordare che, fatte salve le competenze a voi attribuite, le controversie della Comunità non sono sottratte alla competenza dei giudici nazionali; così pure, le attività comunitarie possono venire assoggettate al diritto interno se il trattato non stabilisce diversamente oppure se esigenze specifiche allo scopo e al buon funzionamento delle istituzioni non vi si oppongono. In un settore analogo, quello dei contratti, la vostra competenza dipende dall'inclusione di una clausola compromissoria (art. 153) e la responsabilità contrattuale della Comunità è disciplinata dalla legge da applicarsi al contratto, che può essere quella di uno Stato membro oppure quella di uno Stato terzo (art. 188, 1o comma).

Trattandosi di responsabilità extracontrattuale, il trattato stabilisce una duplice regola :

quanto alla portata, la responsabilità riguarda non solo i danni arrecati dalle istituzioni, ma quelli provocati «dai dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni». La domanda verte su quest'ultimo aspetto.

Per quanto riguarda i principi cui essa s'ispira, si deve far rinvio ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri.

2.

In che cosa consistono questi principi e fino a qual punto potete ad essi ispirarvi ?

Quando la commissione di diritto internazionale dell'Unione internazionale dei magistrati studiò a fondo la questione, l'avvocato generale Dumon ( 2 ) ricordò che la nozione, assai simile, di principi giuridici generali era ben nota nel diritto interno come nel diritto internazionale. Nel diritto nazionale, un principio generale è un'idea o un principio etico «che la legge e la giurisprudenza hanno applicato una o più volte e che ha comunque lo scopo di venire ancora applicato a fatti nuovi o diversi». In diritto internazionale, si ammette che il principio generale, anche se ricorre nei diritti di tutte la nazioni che formano la Comunità degli Stati, non sarà applicabile se non può venire accolto nell'ordinamento giuridico internazionale. Il Dumon riteneva analogamente che un principio generale, comune ai diritti degli Stati membri, debba rimanere estraneo all'ordinamento giuridico comunitario se una norma o un principio tipici di quest'ultimo, indipendente e differente da tali principi, disciplina la situazione.

In verità, se tutti sono d'accordo nell'ammettere che il richiamo del trattato non può evidentemente riguardare le soluzioni di diritto positivo, ma le idee cui s'ispirano tali soluzioni, si può dubitare della sua portata e della sua efficacia. Non si può intendere tale nozione come il maggior denominatore oppure come la sintesi dei principi fondamentali riconosciuti negli Stati membri. L'avvocato generale Lagrange faceva rilevare che il solo principio giuridico veramente comune è quello che oggigiorno in tutti gli Stati membri condanna la teoria della non responsabilità dello Stato e che per il resto i regimi talvolta differiscono sostanzialmente; egli ravvisava nell'articolo 188 una semplice formula diplomatica, come se ne trovano spesso nei trattati internazionali, che ha senso solo in quanto si riferisce a determinati principi di equità che vigono normalmente in uno Stato di diritto ( 3 ).

Se le cose stanno in questi termini, il compito principale spetta a voi: dovete stabilire i limiti della responsabilità extracontrattuale, raffrontando gli esempi forniti dai diritti nazionali con le caratteristiche e le esigenze proprie della Comunità.

A dire il vero, quando avete dovuto pronunciarvi su tale questione a proposito dell'attività di un'istituzione, non vi siete affatto richiamati ai principi generali comuni. La vostra sentenza Kampffmeyer del 14 luglio 1967 (5, 7, 13 - 24-66, Raccolta XIII-1967, pag. 288) ammette la responsabilità della CEE a causa dell'illecito commesso dalla Commissione mantenendo in vigore un provvedimento di salvaguardia adottato dal governo tedesco.

Avete ritenuto che tale comportamento costituisse una faute de service (il termine ricorre nella vostra sentenza anche se non compare negli articoli 215 del trattato CEE e 188 del trattato CEEA, mentre compare nell'articolo 40 del trattato CECA). Si trattava di un cattivo uso del proprio potere di decisione da parte della Commissione, di un atto giuridico, di quello che, nel diritto di taluni Stati membri, viene chiamato illecito «anonimo» della P.A., che non si può ricondurre all'attività di una persona determinata.

Nel nostro caso, invece, per la prima volta dall'istituzione della Corte di giustizia della CECA, si discute del comportamento materiale dannoso che può venire imputato senza possibilità di dubbio ad un determinato dipendente. L'articolo 188 prevede che la Comunità possa essere tenuta responsabile se il dipendente ha agito nell'esercizio delle proprie funzioni; resta però da vedere come si debba interpretare l'espressione e da studiare innanzitutto quali siano le soluzioni adottate nei diritti degli Stati membri.

A questo proposito la Commissione ha prodotto uno studio molto approfondito e sarà sufficiente considerare le conclusioni principali che se ne traggono.

Innanzitutto, il diritto della maggior parte degli Stati membri ammette in modo molto liberale che la responsabilità dell'atto dannoso del dipendente possa venire attribuita all'amministrazione dalla quale esso dipende, sia che si applichino ai pubblici poteri le norme di diritto privato, sia in forza di una teoria autonoma. Per sommi capi, nel diritto italiano la responsabilità è conseguenza di un atto che «può avere attinenza col servizio pubblico di cui il dipendente si occupa», anche se l'atto è doloso. Nei Paesi Bassi, l'atto che ha rapporto con la funzione in quanto è stato compiuto nell'esecuzione di uno dei compiti affidati al dipendente oppure grazie all'uso dei mezzi di cui lo stesso dipendente dispone. In Belgio, l'atto che il dipendente poteva o doveva compiere. In Francia, ove le soluzioni previste sono forse quelle di portata più ampia, l'atto in qualche modo connesso al servizio. La giurisprudenza tedesca è invece più restrittiva: l'atto dannoso di un dipendente rientra nell'esercizio delle proprie funzioni ed impegna la responsabilità dei pubblici poteri se tra l'attività e le funzioni vi è un nesso intrinseco («innerer Zusammenhang») che riveli un nesso indissolubile e necessario tra l'atto e l'esecuzione del compito; per determinare se esiste questo nesso intrinseco, si deve considerare se lo scopo cui mira l'atto abbia inerenza all'espletamento del compito e se lo scopo e l'attività da cui è scaturito il danno siano indissolubilmente connessi. Con questa limitazione, che è importante, i diritti nazionali, o per lo meno la loro applicazione, interpretano estensivamente la nozione di «esercizio delle funzioni». Probabilmente bisogna ravvisare in questa prassi la preoccupazione di garantire comunque il risarcimento del danno provocato, ponendolo a carico di una persona giuridica che, a differenza dell'autore dell'atto, sia solvibile per definizione.

La seconda osservazione che suggerisce il nostro esame — ed entriamo nel vivo della controversia che ha indotto la Corte di cassazione a deferirvi le questioni — è che gli incidenti del traffico costituiscono una parte notevole della giurisprudenza in materia di responsabilità dei pubblici poteri. Ciò è naturale, poiché l'amministrazione degli Stati membri ha diversi servizi esecutivi, civili o militari, che richiedono l'impiego di veicoli. Le pronunce dei tribunali riguardano però anzitutto gli incidenti provocati da veicoli dell'amministrazione o dell'esercito; ma ce ne sono altri, perché almeno nella giurisprudenza francese sono reperibili casi in cui la responsabilità dello Stato è stata ammessa per incidenti provocati dall'autoveicolo privato di un ufficiale che era stato autorizzato a servirsene per le esigenze del servizio (Bourrée, C.E., 26 luglio 1944, Rec. Lebon, pag. 217).

Il terzo rilievo, d'indole diversa, e il seguente: l'impiego sempre più diffuso di autoveicoli tende a far adottare legislazioni o regolamenti nuovi particolari a questo settore. Nulla è più significativo a questo proposito della legge francese 31 dicembre 1957 sulle azioni di risarcimento dei danni causati da autoveicoli, esperite contro gli enti pubblici. Ignorando volutamente tutti i principi del diritto amministrativo francese, la legge attribuisce competenza esclusiva ai giudici ordinari per conoscere di dette azioni, che verranno decise unicamente in base al diritto civile. Mentre si generalizza l'obbligo dell'assicurazione contro la responsabilità civile, la maggioranza degli Stati membri si preoccupa di evitare che la pubblica amministrazione sia obbligata a risarcire i danni provocati dall'uso in servizio di automezzi privati, e a questo scopo obbliga i dipendenti ad assicurarsi contro i rischi di responsabilità civile, ivi compresa la responsabilità dello Stato, nel senso che lo Stato va tenuto indenne da ogni pretesa di risarcimento. A questo proposito, che rivela semplicemente una tendenza, mi richiamo allo studio prodotto dalla Commissione in allegato alle proprie osservazioni.

3.

Data questa panoramica, torniamo all'articolo 188. In qual caso un dipendente della Comunità agisce «nell'esercizio delle sue funzioni» ? Più precisamente, vista la fattispecie da cui è scaturito il rinvio, come ci si deve comportare di fronte ad un incidente provocato da un dipendente che impiega l'autoveicolo privato per viaggi di servizio ?

La Commissione motiva il suo punto di vista seguendo un metodo tutto speciale: inizia con un'indagine della prassi seguita dalle istituzioni, e che le pare soddisfacente in quanto non contrasta né con la coscienza giuridica, né col senso d'equità tanto degli autori quanto delle vittime del danno, e verifica poi il fondamento giuridico delle soluzioni cui è giunta. Pur se la prassi non è un elemento trascurabile, ritengo che si debba percorrere il cammino contrario. La Commissione è responsabile degli atti dei propri dipendenti in base a quanto dispone il trattato e in considerazione degli scopi delle norme che esso contiene; altro parametro sono le caratteristiche della Comunità, e questi criteri sono gli stessi sui quali si deve commisurare il comportamento dei dipendenti per stabilire se agivano nell'esercizio delle loro funzioni.

Ho testé attenuato che la Comunità — e tra le sue istituzioni la Corte di giustizia — hauna competenza che, pur se estesa, rimane comunque una competenza «d'attribuzione». Le norme che la riguardano devono essere interpretate se non restrittivamente, almeno in modo da rispettare l'indipendenza e l'equilibrio della sfera comunitaria e della sfera degli Stati.

La vostra competenza e la responsabilità della Comunità secondo determinate norme si giustificano necessariamente nel caso in cui si debbano apprezzare le conseguenze dannose degli atti giuridici nei quali si concretano i suoi poteri. Per rifarci alla causa Kampffmeyer, non è concepibile che la CEE venga dichiarata responsabile o no secondo il diritto tedesco per i danni provocati ad importatori di questo paese dalla decisione irregolare della Commissione, né che un tribunale tedesco sia competente a valutare tali danni. Si tratta in effetti di atti che impegnano realmente la Comunità e possono essere valutati solo secondo il diritto comunitario,

La situazione può essere diversa in caso di atti materiali connessi al funzionamento dei suoi uffici. Trascuriamo gli eventuali danni causati dalle installazioni nucleari, pur se per l'Euratom potrebbero avere una grande importanza: i rischi nucleari sono stati disciplinati da convenzioni internazionali ancora imperfette e pongono problemi difficili sia per quanto riguarda il giudice competente, sia per quanto riguarda il diritto da applicarsi ( 4 ). Sul piano meno ambizioso del funzionamento degli uffici, gli atti dannosi dei dipendenti possono implicare la responsabilità della Comunità solo nei limiti in cui tali atti siano più o meno strettamente vincolati all'esercizio delle funzioni, come preciserò meglio in seguito.

Tenuto conto delle caratteristiche della Comunità, che ha soprattutto funzioni intellettuali di concetto, di direzione e di controllo, penso che sia opportuno valutare tali vincoli secondo criteri piuttosto stretti. Non ci si può accontentare di rapporti puramente esteriori di coincidenza o di concomitanza, non è sufficiente che l'atto dannoso si sia verificato durante il servizio o sul luogo del servizio, cioè sia occasionato dal servizio. Il legame tra l'atto e l'esercizio della funzione dev'essere intrinseco ed immediato.

Come si deve considerare quindi l'incidente provocato dal dipendente al volante della propria autovettura durante una trasferta o una missione? Pare che normalmente rimanga estranea la responsabilità della Comunità, poiché non vi è nesso immediato tra l'atto dannoso e la funzione. Il dipendente deve compiere la sua missione e recarsi nella località ove è comandato, se però vi si reca col proprio automezzo, lo fa scegliendo liberamente, per ragioni sue personali e che nulla hanno a vedere con le esigenze del servizio.

È assodato che un dipendente non può mai essere obbligato, salvo espressa disposizione, a servirsi dei propri mezzi per svolgere la sua missione; per recarsi nel luogo ove deve svolgersi la missione egli può ricorrere ai mezzi pubblici o agli automezzi di servizio. Sotto questo aspetto, mi pare giusta la tesi sostenuta dalla Commissione e che è pure sufficiente a risolvere il problema, senza doversi soffermare su altri argomenti dedotti in giudizio. Non terrò conto dell'articolo 12, n. 4, ultimo comma, dell'allegato VII dello statuto, a norma del quale il dipendente autorizzato a servirsi della propria autovettura rimane totalmente responsabile per i danni che potrebbe provocare a terzi, poiché un regolamento non può aggiungere nulla a ciò che già si desume dal testo del trattato o dall'interpretazione che riteniate opportuno dare di esso. Analogamente mi pare inconferente il fatto che l'impiego della propria autovettura sia ricordato ed autolizzato nell'ordine di missione, giacché l'autorizzazione ha soprattutto lo scopo di stabilire i criteri per il rimborso delle spese di viaggio da parte dell'amministrazione.

Si può tuttavia immaginare qualche caso d'impiego del proprio autoveicolo sufficientemente connesso con lo svolgimento delle proprie mansioni, tanto da implicare la responsabilità della Comu nità. Tipica è l'ipotesi in cui, contrariamente alle apparenze, la scelta non è libera, giacché non esistono altri mezzi per portare a termine la missione. La Commissione può affermare che il dipendente ha il diritto di rifiutarsi di compierla; il principio è teoricamente valido, ma nessun dipendente di buon senso avrà mai la pretesa di far applicare questo principio. È possibile — ipotesi lievemente diversa — che il dipendente, non di sua iniziativa, sia incaricato dai superiori di trasportare con la propria autovettura altri dipendenti della Comunità o persone che siano in rapporti con la stessa, nel qual caso egli potrebbe venire assimilato all'autista di servizio. Questi sono casi particolari, che possono implicare complessi problemi di prova che non spetta a me esaminare.

Ciò premesso, propongo che «l'esercizio delle funzioni» sia definito in maniera analoga all'atto «compiuto in veste ufficiale» di cui si è parlato lo scorso anno, e forse le due definizioni sono identiche. Avevo allora sostenuto che non vi è un parallelismo necessario tra le due nozioni; tuttavia uno studio più approfondito della questione induce a pensare che nella maggior parte dei casi tali nozioni coincidono, indipendentemente dagli scopi che esse perseguono. Una definizione è inevitabilmente schematica, e non è escluso che in determinati casi le due situazioni siano diverse.

II

Giungiamo quindi alla seconda questione deferita dalla Corte di cassazione.

Qualora un fatto dannoso sia stato commesso nell'esercizio delle funzioni, ma il dipendente non abbia agito in veste ufficiale, la responsabilità è addossata alla Comunità, ma la responsabilità personale dell'agente continua a sussistere in modo indipendente ovvero è assorbita da quella della Comunità ?

Sappiamo che la questione è stata risolta in modo diverso nei vari Stati membri, alcuni dei quali ammettono che il dipendente possa essere personalmente perseguito parallelamente all'amministrazione pubblica. Per motivi inerenti alle norme e all'opportunità giuridica e pratica, propongo di scartare in questo caso il cumulo delle responsabilità.

Vediamo anzitutto le norme. Mi pare che l'articolo 188, 2o comma, del trattato riguardi soltanto il risarcimento ad opera della Comunità dei danni provocati dai propri dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni; la responsabilità dei dipendenti, se fosse riconosciuta, potrebbe venire chiamata in causa solo dinanzi ai giudici nazionali, con le conseguenze che esporrò.

indubbiamente l'opinione contraria può fondarsi sul combinato disposto degli articoli 151 e 188. Il primo di detti articoli vi attribuisce infatti competenza a conoscere delle controversie in materia di risarcimento dei danni di cui all'articolo 188, 2o comma, che sono quelli arrecati dai dipendenti nell'esercizio delle loro funzioni, indipendentemente dalla persona fisica o giuridica nei confronti della quale si esperisce l'azione di risarcimento. Le versioni olandese e tedesca sembrano orientarsi secondo quest'interpretazione, che un'altra norma, a vero dire posteriore, m'indurrà tuttavia a scartare.

È noto che il 2o comma dell'articolo 40 del trattato CECA vi conferiva la competenza a condannare il dipendente a risarcire il danno causato ad un terzo a seguito di un illecito commesso nell'esercizio delle sue funzioni. Qualora la parte lesa non avesse potuto venire risarcita dal dipendente, potevate stabilire un'equa indennità a carico della Comunità. Nell'articolo 26 del trattato di fusione le disposizioni sono state modificate come segue : «essa (la Corte di giustizia) è parimenti competente a concedere un risarcimento a carico della Comunità in caso di danno causato da errore personale di un agente della medesima nell'esercizio delle sue funzioni. La responsabilità personale degli agenti nei confronti della Comunità è regolata dalle disposizioni che stabiliscono il loro statuto o il regime loro applicabile». Quindi, effettuando un allineamento con le soluzioni sostanziali dei trattati di Roma in materia di responsabilità nei confronti dei terzi e della Comunità, la norma sopprime la vostra competenza, espressamente contemplata dal trattato CECA, a conoscere della responsabilità personale dei dipendenti nei confronti di detti terzi. È difficile pensare che tale soluzione non sia anche quella che hanno desiderato gli autori del trattato CEEA.

L'azione del terzo leso nei confronti del dipendente potrebbe quindi venire esperita solo dinanzi al giudice nazionale; questa soluzione è però inaccettabile in considerazione della contraddittorietà che potrebbe caratterizzare le decisioni in un tale sistema. La vostra Corte, unica competente a conoscere dell'azione esperita contro la Comunità, ed il giudice nazionale, che si pronuncerebbe sull'azione esperita nei confronti del dipendente, applicherebbero entrambi il proprio diritto e potrebbero eventualmente valutare diversamente i fatti. È vero che la Francia ammette un dualismo di competenze, ma gli inconvenienti che ne scaturiscono sconsigliano dall'adottare il principio in sede comunitaria. La commissione di diritto internazionale dell'Unione internazionale dei magistrati si è pronunciata nettamente contro la responsabilità personale dei dipendenti di fronte ai giudici nazionali; spetterebbe a questi giudici chiedervi, se del caso, d'interpretare il trattato su questo punto, come prevede l'articolo 150 del trattato CEEA. La Corte di cassazione del Belgio ha seguito questa strada e propongo che le si risponda nel senso da me suggerito.

Prima di concludere su questo argomento, vorrei ribattere brevemente all'eventuale critica di questo sistema, cui si rimprovera di soffocare nei dipendenti il senso della responsabilità. Il pericolo mi pare allontanato, giacché ho pro posto d'interpretare in senso restrittivo l'espressione «esercizio delle funzioni»; d'altro canto, il dipendente rimane personalmente responsabile sotto il profilo penale e non si può invocare alcuna immunità se il dipendente non agisce in veste ufficiale.

Infine, l'articolo 22 dello statuto stabilisce che il dipendente può essere obbligato a risarcire il danno causato alla Comunità in caso di colpa grave e l'azione di regresso, intentata a conclusione di un procedimento disciplinare, va esperita dinanzi a voi.

Tutto ciò mi pare atto ad eliminare il rischio summenzionato.

III

Resta infine la terza questione, che si riferisce al regime giuridico da applicarsi all'azione esperita nei confronti del dipendente e del suo assicuratore, nonché al tribunale competente a conoscerne.

Tenendo presente quanto ho detto prima, il problema è subordinato al fatto che il dipendente abbia agito al di fuori dell'esercizio delle sue funzioni e poiché la questione ha carattere secondario è forse superflua una pronuncia. Comunque basterà sottolineare che in questo caso solo il giudice nazionale può essere competente ed applicherà il proprio diritto nazionale.

Tuttavia, nelle sue osservazioni il Sayag sostiene che i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri vanno applicati indipendentemente dal tribunale adito per il risarcimento. Rilevando alcune caratteristiche della giurisprudenza belga, relative soprattutto alla stima del danno causato dall'invalidità permanente e al risarcimento del danno morale, caratteristiche che si scostano dal diritto degli altri Stati membri, egli afferma che, malgrado la generalità dei termini della sentenza di rinvio, dovreste precisare su questi vari punti i principi da applicarsi, onde evitare che le parti tornino a sollecitare l'interpretazione del trattato.

Questa proposta riguarda indubbiamente l'ipotesi in cui si ammettesse il cumulo delle responsabilità; confesso tuttavia che non ho ben compreso gli argomenti svolti a questo proposito. L'articolo 188, 2o comma, si richiama ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri solo per quanto riguarda la responsabilità della Comunità in caso di danno causato da un dipendente nell'esercizio delle sue funzioni. Dovreste quindi pronunciarvi sull'eventuale portata di tali principi generali circa l'esatta entità e le modalità del risarcimento, circa i vari pregiudizi di cui si può tener conto, solo nel caso in cui venisse esperita un'azione contro la Comunità e per pronunciarvi nel merito della controversia. È un problema che rientra nell'applicazione del trattato, non già nella sfera dell'interpretazione in via pregiudiziale. Ritengo quindi che non sia necessario estendere maggiormente l'esame che vi si chiede.

Ho terminato l'esame delle questioni deferite. Le soluzioni che proporrò si prestano certo a critiche o riserve, ma offrono il vantaggio della semplicità. Scartando comunque il cumulo delle responsabilità, si evita il rischio di decisioni contrastanti. Se d'altro canto una concezione piuttosto rigida dell'esercizio delle funzioni si risolve nel riservare per lo più ai giudici nazionali la pronuncia, in base alla legge nazionale, sugli effetti degli incidenti causati dai dipendenti al volante del loro automezzo privato, tale soluzione non pare presenti in pratica inconvenienti, semmai sarà vero il contrario. Due incidenti hanno la caratteristica comune di essere stati provocati, rispettivamente a Ispra e a Mol, da due dipendenti dell'Euratom; ciò però non è un elemento sufficiente per farli valutare entrambi alla luce del diritto comunitario e dei principi generali comuni ai diritti dei sei Stati membri. La vittima dell'incidente chiede di essere risarcita in base al diritto nazionale.

In definitiva, ritengo che la soluzione delle questioni deferite dalla Corte di cassazione potrebbe basarsi sulle idee esposte qui appresso :

1.

Ai fini dell'articolo 188, 2o comma, del trattato CEEA, si può ritenere che il dipendente abbia agito nell'esercizio delle sue funzioni se esiste un nesso intrinseco e diretto tra l'attività dannosa a lui imputabile e le sue mansioni.

Un incidente provocato da un dipendente alla guida della propria autovettura durante un viaggio di servizio, salvo casi eccezionali, non può essere configurato sotto questo aspetto e non può implicare la responsabilità della Comunità.

2.

Se il danno è conseguenza di un atto compiuto nell'esercizio delle funzioni, solo la Comunità è tenuta a risarcire i terzi, salvo l'eventuale diritto di regresso nei confronti del dipendente, nei limiti e alle condizioni di cui all'articolo 22 dello statuto.

In caso contrario, il dipendente è l'unico responsabile e deve risponderne dinanzi al giudice nazionale competente.

3.

L'azione di risarcimento esperita dal danneggiato nei confronti del dipendente e del suo assicuratore esula totalmente dal diritto comunitario.


( 1 ) Traduzione dal francese.

( 2 ) La responsabilité extracontractuelle des Communautés européennes et de leurs agents, Cahiers de droit européen, 1969, pag. 37 e segg.

( 3 ) The non-contractual liability of the Community in the E.C.S.C, and in the E.E.C., Common Market Law Review, 1965-1966, pag. 32.

( 4 ) Terzo congresso della Federazione internazionale per il diritto europeo, Bulletin des juristes européens, n. 25-26

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