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Document 61963CC0026

Conclusioni dell'avvocato generale Roemer del 10 giugno 1964.
Piergiovanni Pistoj contro Commissione della Comunità economica europea.
Causa 26-63.

edizione speciale inglese 1964 00671

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1964:42

Conclusioni dell'avvocato generale

KARL ROEMER

10 giugno 1964

Traduzione dal tedesco

SOMMARIO

Pagina
 

Introduzione (antefatti e conclusioni delle parti)

 

Valutazione giuridica

 

I — Le conclusioni principali

 

1. La ricevibilità

 

2. Sulla fondatezza di censure già esaminate in altri processi

 

a) Violazione dell'art. 110 dello Statuto del personale

 

b) Violazione dell'art. 5 dello Statuto del personale, violazione di norme procedurali, difetto di motivazione

 

3. Sulla fondatezza di altre censure

 

a) Se il rapporto informativo sul ricorrente sia stato redatto sotto l'influsso di animosità nei suoi confronti

 

b) Se sia stata garantita la difesa del ricorrente

 

c) Se siano ravvisabili altri vizi di procedura

 

d) Se la Commissione di integrazione si sia basata su fatti non veri

 

4. Conclusione

 

II — Le conclusioni subordinate

 

III — Conclusioni

Signor Presidente, signori giudici,

Nella serie dei casi relativi all'integrazione ci troviamo oggi di fronte a un terzo processo che verte sul problema se la Commissione della C.E.E. abbia legittimamente negato il passaggio in ruolo ad un dipendente assunto in base a contratto.

Si tratta di un dipendente assunto al servizio della C.E.E. con decisione della Commissione del 4 diciembre 1958 ed assegnato alla Direzione generale «Mercato interno», quale direttore della divisione «Servizi». La sua retribuzione iniziale corrispondeva a quella del grado A /3-2)° della tabella delle retribuzioni regime C.E.C.A. Successivamente, la sua posizione fu migliorata con la collocazione nel grado A /3-5 ° con effetto dal 1o marzo 1960.

Come nelle cause 78 e 80/63, il procedimento di integrazione, di cui all'art. 102 dello Statuto, ebbe esito negativo per il ricorrente. Questo gli fu comunicato con lettera della Direzione generale «Amministrazione» del 14 marzo 1963.

Contemporaneamente gli fu offerta per iscritto la nomina in ruolo nel grado A /4-6 ° , con anzianità dal 1 giugno 1961, presso la Direzione generale «Amministrazione» servizio «Biblioteca e Documentazione». Il ricorrente ebbe 8 giorni di tempo, a decorrere dalla notificazione, per accettare la proposta.

In seguito egli tentò di ottenere una proroga del termine che però gli fu negata con lettera del direttore generale della Amministrazione del 22 marzo 1963 e — su reiterata richiesta del 25 marzo 1963 — con lettera del direttore della Divisione «Bilancio e Finanze» in data 11 aprile 1963.

Infine, il 6 maggio 1963, la Direzione generale «Amministrazione», comunicò per iscritto al ricorrente che il suo contratto d'impiego presso la Commissione doveva considerarsi risolto al termine del preavviso di 3 mesi.

Questi gli antefatti del processo.

Nel ricorso, che fu presentato alla Corte in seguito a tali avvenimenti, furono formulate le seguenti conclusioni: piaccia alla Corte

1)

Annullare il procedimento di integrazione e il parere della Commissione di integrazione del 19 luglio 1962.

2)

Annullare la decisione di licenziamento del 6 maggio 1963.

3)

Dichiarare la Commissione tenuta a sottoporre nuovamente il ricorrente al procedimento di integrazione.

4)

Dichiarare che il ricorrente è ancora al servizio della Commissione.

5)

Dichiarare la Commissione della C.E.E. tenuta a continuare a corrispondere al ricorrente, dopo il decorso del periodo di preavviso, le retribuzioni mensili che egli prima percepiva, e dichiarare che il ricorrente ha diritto agli altri vantaggi connessi alla posizione giuridica che egli aveva prima del suo licenziamento.

In via subordinata :

1)

Dichiarare che la decisione di licenziamento è abusiva e viziata.

2)

Condannare la C.E.E. e la Commissione della C.E.E. al pagamento dei danni.

Valutazione giuridica

Nell'esame di questa fattispecie mi soccorre la circostanza che le conclusioni e i mezzi d'impugnazione corrispondono, almeno in parte, a quelli delle cause 78 e 80/63.

Pertanto approfondirò solo quei punti che non furono trattati nelle cause citate o che nell'attuale processo appaiono in una luce diversa a causa di certe particolarità di fatto, mentre per il resto mi limiterò ad un semplice rinvio.

I — Le conclusioni principali

1.

Per quanto riguarda l'ammissibilità delle conclusioni principali che è stata contestata dalla Commissione, salvo che per il 2o capo della domanda, posso già valermi di un rinvio; a mio avviso, come ho già detto nelle cause 78 e 80/83, non v'è motivo di respingere esplicitamente, nel dispositivo della sentenza, una parte delle conclusioni del ricorrente perché inammissibili.

2.

Anche per quanto riguarda la loro fondatezza, la soluzione di tutta una serie di problemi è già indicata nella causa 78/63.

a)

Ciò vale anzitutto per la censura relativa alla violazione dell'art. 110 dello Statuto del personale.

Gli argomenti ulteriori che il difensore del ricorrente ha addotto nella discussione orale a sostegno della sua tesi, non offrono un motivo per rivedere la mia opinione. Pertanto, secondo me, non si può trarre dall'uso della parola «personale» nell'art 110, la deduzione che tale norma valga anche per l'unica applicazione delle disposizioni transitorie ai dipendenti non ancora di ruolo. Se colà si parla semplicemente di «personale» e non soltanto di funzionari, ciò significa che le norme di attuazione dello Statuto devono essere portate a conoscenza di tutti i dipendenti, anche se sono destinate ai soli funzionari, per esempio affinché i dipendenti in base a contratto si possano tutelare contro un ingiustificato vantaggio concesso ai dipendenti di ruolo. Del pari è irrilevante il richiamo all'art. 102 del regime applicabile ai dipendenti non di ruolo. Anche in questo campo, secondo una retta concezione, le disposizioni generali di esecuzione non possono consistere in norme che si esauriscono nell'applicazione a un'unica fattispecie. A ciò non contrasta il fatto che simili rapporti di impiego sono sempre limitati nel tempo. Le norme generali di attuazione valgono per tutti quei rapporti di impiego che devono essere giudicati durante il loro periodo di validità, mentre la caratteristica dell'art. 102 dello Statuto consiste in ciò, che vi è interessato solo un numero determinato di dipendenti che si trovano al servizio della Commissione al momento dell'entrata in vigore dello Statuto. Infine, mi sembra irrilevante anche la circostanza che nell'art. 102 dello Statuto si parli di rapporti sulla competenza, sul rendimento e sul comportamento in servizio, ricorrendo alla stessa formula usata nell'art. 43, il quale rinvia espressamente alle condizioni dell'art. 110 per quanto riguarda le modalità di tali rapporti. La differenza essenziale tra le due norme consiste nel fatto che i rapporti di cui all'art. 102 sono destinati a un'unica applicazione, mentre l'art. 43 si riferisce a un sistema permanente.

b)

Sulla censura tratta dalla violazione dell'art. 5 dello Statuto, sulla questione se la partecipazione ai lavori della Commissione d'integrazione di un membro del servizio giuridico sia criticabile in quanto esso non esplica funzioni direttive, sulla questione sorta dalla circostanza che alle sedute preparatorie della Commissione (non però, come risulta dai verbali, alla seduta conclusiva) ha preso parte un alto funzionario dell'Amministrazione che non era membro della Commissione ed infine, per quanto ha tratto al lamentato difetto di motivazione, posso sostanzialmente richiamarmi alle mie conclusioni nella causa 78/63.

La prima si riferisce all'art. 5 dello Statuto del personale. Secondo il ricorrente, procedere alla descrizione degli impieghi, prima dell'inizio del procedimento di integrazione, doveva ritenersi indispensabile, in quanto la Commissione di integrazione deve pronunciarsi non soltanto, come invece fanno i superiori gerarchici nei loro rapporti, sull'attività passata, ma anche sull'idoneità («aptitude»), ossia sulle possibilità future d'impiego di un dipendente. Dalla descrizione degli impieghi, compiuta più tardi, appare che nel grado 3 esistono non soltanto funzioni direttive, ma anche funzioni di studio. Poiché per quest'ultima il ricorrente sarebbe senza dubbio particolarmente qualificato, la Commissione di integrazione avrebbe potuto constatare la sua idoneità per esse, e raccomandare la sua assunzione in ruolo, qualora avesse potuto giudicare in base alla descrizione degli impieghi.

Io non credo che questa tesi sia esatta. Il tenore letterale dell'art. 102 mi sembra del tutto chiaro: si parla soltanto di attitudine ad esercitare le funzioni attribuite a un dipendente; e vi è una buona ragione per questo. L'introduzione dello Statuto del personale non doveva portare a una rivoluzione nell'organizzazione amministrativa e offrire lo spunto per un riordinamento dei servizi della Commissione. Si poteva sostanzialmente pensare che tutto sarebbe rimasto come prima; pertanto non avrebbe avuto alcun senso stabilire riguardo ad ogni dipendente gli altri compiti per i quali egli sarebbe stato utilizzabile. Ciò non esclude, naturalmente, che, in caso di esito negativo del procedimento di integrazione, l'autorità che ha il potere di nomina si preoccupi, in virtù di un certo dovere di assistenza, e che la Commissione di integrazione, in base alla sua conoscenza delle attitudini di ogni dipendente, faccia delle proposte al riguardo. La preventiva descrizione degli impieghi, di cui all'art. 5 non mi sembra però necessaria per adempiere a questo obbligo. È invece decisiva solo l'esistenza di un altro impiego utilizzabile, che si prospetti come alternativa.

Se, per quanto riguarda la partecipazione di un membro del servizio giuridico, ci si richiama all'esigenza di affidare il procedimento di integrazione esclusivamente a persone esperte nella direzione di un servizio amministrativo, potendo infatti essere necessario esaminare dei candidati sotto questo particolare profilo, si può peraltro fare egualmente richiamo all'art. 102. Secondo tale disposizione sono esclusi dal procedimento di integrazione proprio i dipendenti non di ruolo dei gradi A/1 e A/2, cioè dipendenti per i quali può aver importanza un esame sotto tale profilo. Per la valutazione della capacità dei dipendenti con funzioni subordinate è però sufficiente, a mio giudizio, che ci si affidi ad alti funzionari forniti di esperienza, conoscenza e autorità adeguate, senza pretendere che essi debbano aver acquisito particolare competenza nella direzione di un servizio amministrativo proprio alle dipendenze della Commissione.

Per quanto riguarda l'obbligo di motivare si deve ancora aggiungere, nel presente caso, che esso non richiede particolari chiarimenti sulle ragioni per le quali non si è fatto uso dei mezzi di prova indicati dal dipendente in questione. Si devono precisare soltanto i motivi che, secondo l'autorità decidente, giustificano il suo punto di vista.

3.

In base a tutto ciò, mi resta ancora da prendere posizione sulla procedura della Commissione di integrazione, ed eventualmente sulla censura tratta dalla circostanza che questa ultima avrebbe basato il suo giudizio su fatti non veri.

a)

Anzitutto si è anche qui affermato che il superiore gerarchico, nel redigere il rapporto, è stato influenzato da animosità nei confronti del ricorrente. Secondo il ricorrente, per evidenti motivi, il rapporto non avrebbe dovuto essere preso in considerazione nel procedimento di integrazione.

A questo proposito ho già sostenuto in altre cause che i rapporti dei superiori gerarchici, di cui all'art. 102, sono inderogabilmente prescritti. Nel caso del ricorrente, dunque, la Commissione di integrazione non poteva prescindere dal rapporto del superiore gerarchico diretto senza commettere una violazione dello Statuto. Del resto, in linea di principio, il procedimento di integrazione era congegnato in modo da poter eventualmente correggere,.con l'ausilio di altri mezzi di prova, la valutazione soggettiva dei superiori gerarchici. Anche nel caso Pistoj ci consta che la Commissione ha emesso il suo parere solo dopo l'esame di molteplici elementi di valutazione (audizione di testimoni, di vecchi superiori gerarchici del ricorrente, che hanno concordato sul giudizio negativo). Il parere sfavorevole, inoltre, è stato emesso all'unanimità.

In considerazione di questi fatti ritengo che la Corte può rinunziare ad indagare sulla pretesa animosità del superiore gerarchico del ricorrente.

b)

Molto più seria è invece, anche nel presente caso, la censura tratta dalla circostanza che, nel procedimento di integrazione, non sarebbe stata pienamente garantita la difesa del ricorrente. Quale è la mia posizione di principio su questo punto l'ho già esposto diffusamente nella causa 78/63. Basandoci su di essa dovremo ora chiederci se le pretese violazioni siano realmente avvenute e se sono così gravi la rendere necessaria una rinnovazione del procedimento di integrazione

Tre critiche, soprattutto, sono state formulate :

La prima si riferisce al fatto che la Commissione di integrazione ha sentito altri dipendenti senza dare al ricorrente conoscenza del contenuto delle loro testimonianze e senza dargli modo di presentare osservazioni.

Ciò non è contestato dalla Commissione. Essa sottolinea soltanto che due di questi testimoni erano stati indicati dal ricorrente stesso, dal che si dovrebbe dedurre che egli era a conoscenza delle loro dichiarazioni.

Se si applicano a questa censura i criteri della sentenza Leroy e delle conclusioni Huber, l'obiezione della Commissione appare infondata.

Per la Corte di Giustizia il punto decisivo è questo: potevano le dichiarazioni dei menzionati testimoni influire sulla formazione del parere della Commissione di integrazione? Dal momento che non conosciamo il contenuto delle dichiarazioni (che non sono riprodotte in alcun verbale) dobbiamo partire dal presupposto che esse erano atte a ciò. Per di più non si può escludere che le osservazioni del ricorrente sulle dichiarazioni di cui trattasi avrebbero potuto influire sul giudizio della Commissione di integrazione, e ciò indipendentemente dal fatto che nel procedimento d'integrazione il ricorrente ha presentato varie note e si è ampiamente difeso oralmente. Posto quindi che, sotto questo profilo, permangono dubbi di una certa rilevanza, non possiamo far altro che constatare la irregolarità del procedimento di integrazione.

Ciò vale anche per quanto attiene alle dichiarazioni dei testimoni indicati dal ricorrente, poiché non vi è alcuna certezza che esse fossero esclusivamente a suo favore e che egli ne fu adeguatamente informato. Il ricorrente rileva con ragione che una testimonianza può essere influenzata dalla circostanza che viene tenuta segreta. Chi deve tener presente che la sua dichiarazione verrà esaminata dall'interessato può eventualmente dare alla deposizione una forma diversa, sia pure nelle sfumature, di colui che invece non ha da temere tale raffronto. Infine, non si può scartare la possibilità che entrambi i testimoni indicati dal ricorrente non abbiano in effetti deposto soltanto a suo favore. Se ciò fosse dimostrato, il parere della Commissione di integrazione potrebbe apparire mal fondato, in quanto non contiene una motivata valutazione degli elementi negativi e positivi.

Egualmente grave è la censura tratta dalla circostanza che la Commissione di integrazione non avrebbe conosciuto ed esaminato tutte le note inviatele dal ricorrente ai fini del giudizio nei suoi confronti, in particolare non avrebbe visto la prima nota, quella del 12 aprile 1962.

Dai verbali delle riunioni della Commissione risulta che questa ha ricevuto ed esaminato una serie di scritti provenienti dal ricorrente. La nota del 12 aprile 1962 non è tra questi. Si tratta delle prime osservazioni del ricorrente relative al rapporto informativo del suo superiore gerarchico, nelle quali egli ha molto accuratamente discusso tutte le questioni sollevate e in particolare fornito tutta una serie di documenti atti a chiarire la situazione.

Non si può evidentemente sostenere che le note successivamente presentate alla Commissione fossero solo una riproduzione della prima. Le ultime, anzi, erano destinate a fornire ulteriori chiarimenti e a prendere posizione rispetto ad altri documenti utilizzati nel procedimento di integrazione nei confronti del ricorrente.

Se si dovesse, dunque, essere certi che la prima nota del ricorrente non è giunta a conoscenza della Commissione di integrazione, cosa di cui non si può dubitare data l'accurata redazione dei verbali della Commissione, sussisterebbe allora una violazione delle regole inderogabili del procedimento, poiché non si può escludere che nella Commissione si sarebbe formata una diversa opinione per effetto della prima ampia nota.

Una terza censura, sempre su questo punto, è tratta dalla circostanza che la Commissione di integrazione avrebbe utilizzato una nota del superiore gerarchico in data 17 febbraio 1961, senza dare al ricorrente la possibilità di presentare osservazioni in merito ad essa.

La Commissione respinge questa censura assumendo che la citata nota non ha avuto alcun rilievo nel procedimento di integrazione. In effetti non vi sono elementi (risultanti per esempio dai verbali) a favore dell'affermazione del ricorrente. Al contrario, se non erro, la Commissione ha prodotto in giudizio la nota del 17 febbraio 1961 per provare che il superiore gerarchico del ricorrente non aveva mostrato animosità verso quest'ultimo, ma anzi si era imparzialmente pronunciato nei suoi confronti.

Poiché il ricorrente si limita a supporre che si sia utilizzata tale nota (replica, pag. 24), ma non dà alcuna prova della sua affermazione, questa censura può essere senz'altro disattesa. Un ulteriore esame appare anche superfluo, in considerazione dei risultati dell'analisi sin qui svolta.

c)

Per lo stesso motivo posso permettermi di accennare solo di sfuggita a tutta una serie di altre pretese violazioni della procedura. Esse, in quanto si riferiscono a scorrettezze e non soltanto a piccoli errori di forma, non hanno secondo me peso sufficiente per far annullare il procedimento.

Ciò vale certamente per la censura tratta dalla circostanza che la Commissione di integrazione non avrebbe sentiti tutti i testimoni indicati dal ricorrente. La Commissione osserva giustamente a questo proposito che la Commissione di integrazione non ha tale obbligo, e che anzi, al pari di un Tribunale, essa è soltanto tenuta, a chiarire i fatti nei limiti che ritiene necessari. Se ritiene di avere elementi sufficienti per giudicare le attitudini di un candidato, essa può rinunciare a sentire ulteriori testimonianze. Si potrebbe infatti parlare di un vizio di procedura solo se ci constasse che i testimoni non uditi dovevano fare delle dichiarazioni molto importanti, ossia tali da poter influire sostanzialmente sul giudizio della Commissione. Ma le dichiarazioni del ricorrente, sia nella fase scritta sia in quella orale, non forniscono indizi in questo senso.

Vorrei anche ammettere che il ruolo svolto da un altro superiore gerarchico del ricorrente nel procedimento di integrazione non è tale da far annullare la decisione.

Questo funzionario era membro della Commissione di integrazione e perciò, secondo il ricorrente, avrebbe dovuto astenersi da tutte le riunioni in cui si trattava del suo caso o venivano sentiti testimoni sul suo conto; egli avrebbe dovuto in ispecie astenersi dal preparare e dal presentare alla Commissione un rapporto ad hoc sul ricorrente.

A me sembra però che con ciò si andrebbe al di là di quanto si può richiedere per un mero procedimento di esame. Se un superiore gerarchico ha il diritto e il dovere di esprimere nel rapporto informativo la propria opinione su un dipendente, non gli si può impedire di chiarire ancora per iscritto tale opinione nel corso del procedimento di integrazione, sempre presupponendo che l'interessato, come nel caso di specie, potesse presentare osservazioni in propòsito. Perché sia rispettato il dovere d'imparzialità dei membri della Commissione, dovrebbe, a mio avviso, bastare che un membro si astenga dal voto quando trattasi di un suo subordinato. In tale ipotesi non ritengo invece necessaria la completa astensione da tutto il procedimento.

d)

Resterebbe, infine, da esaminare la censura relativa all'erronea valutazione dei fatti. Con essa si assume che le indicazioni sulle assenze del ricorrente sarebbero errate; che negli atti relativi all'integrazione vi sarebbe una valutazione contradittoria della sua puntualità e inoltre inesatte valutazioni sulle sue relazioni con i subordinati e sulle sue capacità di soddisfare alle esigenze del nuovo servizio.

Alcune di queste censure si riferiscono a veri giudizi di. valore che non possono perciò essere sindacati in sede giurisdizionale: così, ad esempio, la questione della puntualità nel senso della attitudine a dirigere i servizi in modo ordinato e metodico, e il problèma della capacità a svolgere le funzioni attribuitegli nell'ambito della Commissione della C.E.E.

Tuttavia, in quanto si tratta dell'esame di fatti, controllabili, vorrei evitare come nelle altre cause, di accertarli in questa sede posto che, e se, accoglierete le mie proposte secondo me non mancherà l'opportunità di farlo nel nuovo procedimento di integrazione. Ciò però non significa che essi sarebbero stati privi di importanza per il parere della Commissione di integrazione.

4.

Pertanto il risultato cui giungo in esito all'esame delle conclusioni principali, è il seguente: Ravviso nel procedimento di integrazione, una serie di gravi violazioni di norme procedurali fondamentali. È perciò inevitabile l'annullamento del parere della Commissione di integrazione. Del pari, si deve annullare la decisione di licenziamento della Commissione, perché senza il parere negativo della Commissione di integrazione, il ricorrente sarebbe rimasto al servizio della Commissione. Ne deriva per quest'ultima l'obbligo di ripetere il procedimento di integrazione. Ne consegue pure che il ricorrente va considerato ancora al servizio della Commissione con tutti i diritti che derivano dalla sua vecchia posizione.

II — L'esame delle conclusioni subordinate del ricorrente e di tutti gli argomenti che si riferiscono alla risoluzione del suo contratto di impiego, diviene, in base a quanto ho detto, del tutto superfluo. Lo stesso vale per la domanda di risarcimento, per lo meno nei limiti in cui essa è stata riformulata — per il caso di annullamento del parere impugnato al fine di ottenere semplicemente il pagamento delle retribuzioni maturate.

III — Concludendo, devo affermare che il ricorso appare fondato e che di conseguenza le spese delle processo vanno poste a carico della Commissione.

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