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Document 61958CC0020
Joined opinion of Mr Advocate General Lagrange delivered on 12 March 1959. # Phoenix-Rheinrohr AG v High Authority of the European Coal and Steel Community. # Case 20-58. # Felten und Guilleaume Carlswerk Eisen- und Stahl AG and Walzwerke AG v High Authority of the European Coal and Steel Community. # Case 21/58. # Bochumer Verein für Gußstahlfabrikation AG, Niederrheinische Hütte AG and Stahlwerke Südwestfalen AG v High Authority of the European Coal and Steel Community. # Case 22/58. # Mannesmann AG, Hoesch-Werke AG, Klöckner-Werke AG, Rheinische Stahlwerke AG and Aktiengesellschaft für Berg- und Hüttenbetriebe v High Authority of the European Coal and Steel Community. # Case 23/58.
Conclusioni riunite dell'avvocato generale Lagrange del 12 marzo 1959.
Phoenix-Rheinrohr AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 20-58.
Felten und Guilleaume Carlswerk Eisen- und Stahl AG e Walzwerke AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 21-58.
Bochumer Verein für Gußstahlfabrikation AG, Niederrheinische Hütte AG e Stahlwerke Südwestfalen AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 22-58.
Mannesmann AG, Hoesch-Werke AG, Klöckner-Werke AG, Rheinische Stahlwerke AG e Aktiengesellschaft für Berg- und Hüttenbetriebe contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 23-58.
Conclusioni riunite dell'avvocato generale Lagrange del 12 marzo 1959.
Phoenix-Rheinrohr AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 20-58.
Felten und Guilleaume Carlswerk Eisen- und Stahl AG e Walzwerke AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 21-58.
Bochumer Verein für Gußstahlfabrikation AG, Niederrheinische Hütte AG e Stahlwerke Südwestfalen AG contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 22-58.
Mannesmann AG, Hoesch-Werke AG, Klöckner-Werke AG, Rheinische Stahlwerke AG e Aktiengesellschaft für Berg- und Hüttenbetriebe contro l'Alta Autorità della Comunità europea del Carbone e dell'Acciaio.
Causa 23-58.
edizione speciale inglese 1959 00157
ECLI identifier: ECLI:EU:C:1959:5
Conclusioni dell'avvocato generale
MAURICE LAGRANGE
Traduzione dal francese
SOMMARIO
I — Gli antefatti e le conclusioni delle parti |
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II — Sulla ricevibilità |
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1. La lettera impugnata è una decisione? |
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2. È una decisione individuale riguardante ognuna delle ricorrenti? |
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III — Nel merito |
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1. Compatibilità della decisione impugnata con le decisioni di base |
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2. Legittimità delle decisioni di base |
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a) rottame lavorato per conto |
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b) integrazione dal punto di vista dell'ubicazione |
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c) ragione sociale unica |
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3. Considerazioni varie |
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a) retroattività |
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b) delega di poteri ed incompetenza |
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c) violazione di forme essenziali |
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IV — Conclusioni finali |
Signor Presidente, signori giudici,
Un elementare senso delle convenienze m'induce a non rifare davanti a Voi la cronistoria degli interventi dell'Alta Autorità in materia di rottame e di non addentrarmi in un esame particolareggiato delle varie decisioni adottate a questo proposito dall'esecutivo della C.E.C.A.
Mi limiterò a ricordare che il sistema di perequazione per il rottame importato da paesi terzi ha avuto all'inizio il solo scopo di consentire il regolare rifornimento di rottame nel mercato comune, evitando che i prezzi interni si allineassero sui prezzi, più elevati, del rottame d'importazione: ecco la decisione 33-53 che autorizza, a norma dell'art. 53 a, il sistema instaurato a tale scopo su base volontaria, indi la decisione 22-54 che lo rende obbligatorio, a norma dell'art. 53 b. In seguito, accanto a detto scopo — tuttavia perseguito — di perequare i prezzi del rottame d'importazione con quelli del rottame interno, ne appare un altro: ottenere in tutta la Comunità delle economie di rottame nella produzione di acciaio. Per quest'ultimo fine sono stati successivamente posti in opera due diversi procedimenti: il primo consisteva nell'assegnare, a carico della Cassa di perequazione, un premio in relazione alle economie di rottame ottenute mediante un maggiore impiego di ghisa — e, in un secondo tempo, di acciaio Thomas liquido — nei procedimenti in cui ciò è possibile: si tratta delle decisioni 14-55, 26-55 e 3-56. Il secondo, di carattere generale, consiste in una modulazione dell'onere della perequazione, il quale viene ripartito in modo da rappresentare un incentivo all'economia di rottame, senza tuttavia rendere più difficile la creazione di nuove capacità produttive di acciaio: si tratta della decisione 2-57.
In ogni modo, se i fini del sistema sono cambiati, o più esattamente, se lo scopo iniziale attinente alla perequazione fra i prezzi è stato completato mediante l'aggiunta di un secondo obiettivo riguardante l'economia di rottame, l'unità del sistema ha continuato a sussistere, come ho avuto occasione di osservare a proposito dei ricorsi diretti contro la decisione 2-57. In particolare non è mutata la definizione di quelli che potremmo chiamare i contribuenti, vale a dire coloro che sono soggetti al contributo: si tratta delle «imprese di cui all'art. 80 del Trattato,le quali consumano rottame». Per quanto riguarda l'imponibile di tale contributo, si rileva qualche differenza tra le varie redazioni: la decisione 22-54 dice (art. 3) che «l'importo dei contributi verrà calcolato in relazione alle quantità di rottame acquistate da ciascuna impresa durante il periodo di validità della presente decisione»; la decisione 14-55 (art. 3) dispone : «l'importo dei contributi verrà calcolato in relazione ai quantitativi di rottame d'acquisto ricevuti da ciascuna impresa durante il periodo di validità della presente decisione, dedotte le vendite». Infine, la decisione 2-57 introduce un sistema molto più complicato, che in sintesi è il seguente: l'imponibile è costituito dal «consumo di rottame d'acquisto», per calcolare il quale si stabilisce il consumo complessivo di rottame e se ne deducono le «risorse proprie», espressione che appare qui per la prima volta.
Le citate differenze di dizione corrispondono a modifiche sostanziali dell'imponibile del contributo? È ciò che mi propongo di stabilire. In ogni modo è certo fin d'ora che tutte le imprese consumatrici di rottame sono soggette al contributo di perequazione, che questo non grava su tutto il rottame impiegato e che occorre perciò fare una distinzione. Le controversie che siete chiamati a dirimere hanno tratto appunto a tale distinzione.
Infatti dei dubbi sono sorti fin dall'inizio a proposito del cosiddetto «rottame di gruppo» (Konzernschrott), vale a dire il rottame, impiegato per la produzione d'acciaio, proveniente da impianti che appartengono ad un'affiliata o comunque ad una società più o meno strettamente legata sul piano finanziario, ed anche dal punto di vista della gestione, alla società utilizzatrice. Detto rottame doveva essere considerato come «risorsa propria» esente da contributo, oppure come «rottame d'acquisto» soggetto a contributo? L'O. C. C. F. (Office commun des consommateurs de ferraille), incaricato — unitamente alla Cassa di perequazione per il rottame importato — di gestire il sistema di perequazione ha dovuto prendere posizione a tale proposito precisamente in seguito a verifiche effettuate per suo conto da una società fiduciaria svizzera, dalle quali è risultato che determinate società si erano astenute dal far figurare nelle loro dichiarazioni come «rottame d'acquisto» i quantitativi ricevuti da altre società con le quali esse avevano relazioni più o meno strette di dipendenza finanziaria.
I membri dell'O. C. C. F. hanno potuto raggiungere l'unanimità nel riconoscere la legittimità di tale linea di condotta in due casi particolari, l'uno riguardante il complesso Breda di Sesto S. Giovanni e l'altro il complesso Hoogovens-Breedband, ma l'unanimità non ha potuto essere ottenuta in merito all'adozione di un criterio giuridico di carattere generale, il quale consentisse un'interpretazione obbiettiva delle decisioni dell'Alta Autorità per quanto attiene al concetto di «risorse proprie». Di conseguenza, con lettera in data 30 ottobre 1957, l'O.C. C. F. chiese all'Alta Autorità «di decidere tale questione a norma dell'art. 15, 2o comma, della decisione 2-57». Detto articolo (che già figurava nelle precedenti decisioni) dispone infatti che «in mancanza di una delibera unanime dei Consigli dell'Ufficio comune o della Cassa, relativa ai provvedimenti previsti negli articoli da 3 ad 11, no 1, di cui sopra … la decisione è presa da quest'ultima» (l'Alta Autorità). Con lettera in data 18 dicembre 1957 l'Alta Autorità, a cura del suo Vicepresidente, rispose all'Ufficio comune che, a suo parere, «il problema era male impostato» e che non vi era motivo che essa adottasse una decisione in merito alla definizione delle «risorse proprie», dal momento che l'O. C. C. F. aveva sempre «implicitamente applicato in materia il concetto di “risorse proprie” secondo il significato etimologico del termine, il quale si basa sul principio della proprietà giuridica di tali risorse al momento del loro ricupero». «Ne consegue — proseguiva l'Alta Autorità — che un'impresa, la quale ad ogni effetto rimane contraddistinta dalla propria ragione sociale, può considerare come risorse proprie soltanto il rottame da essa medesima ricuperato negli stabilimenti che portano la sua stessa ragione sociale». Dopo aver detto che concedendo delle deroghe in «due casi particolari aventi carattere eccezionale», l'O.C.C. F. aveva confermato tale posizione di principio, la lettera aggiunge: «l'Alta Autorità ritiene necessario tener fermo il criterio della ragione sociale sopra enunciato e, per quanto riguarda le due deroghe sopracitate, essa scioglie le riserve formulate dal suo rappresentante permanente, in considerazione del carattere eccezionale delle situazioni di cui trattasi».
Appunto questa lettera è stata impugnata con i quattro ricorsi pendenti dinanzi a Voi.
Ricordo per completezza:
1o |
che l'Alta Autorità ha deciso di pubblicare la citata lettera nella Gazzetta Ufficiale della Comunità del 1o febbraio 1958, sotto la rubrica «Informazioni»; |
2o |
che il 4 febbraio il direttore della divisione del mercato presso l'Alta Autorità ha scritto all'Ufficio comune per precisare che le due deroghe concesse ed approvate dall'Alta Autorità non avevano carattere esclusivo e che lo stesso trattamento avrebbe dovuto essere all'occorrenza riservato ad altre imprese che si fossero trovate nelle stesse condizioni; |
3o |
che il 17 aprile 1958, perciò dopo la presentazione dei ricorsi (che sono stati registrati il 18 marzo), l'Alta Autorità ha inviato una nuova lettera all'Ufficio comune «in merito alla definizione del concetto di rottame di risorse proprie ai sensi delle decisioni 22-54, 14-55 e 2-57», lettera nella quale essa illustra — per la prima volta — i motivi che giustificano a suo parere la concessione delle deroghe già approvate e che giustificherebbero in futuro la concessione di nuove deroghe. Ritengo di dover sottoporre nuovamente alla Vostra attenzione i passi essenziali di questa lettera, la quale è molto importante poiché vi si scorgono abbastanza chiaramente i criteri applicati dall'Alta Autorità per distinguere le «risorse proprie» dal «rottame d'acquisto» ed i fondamenti della tesi che la induce a resistere alle domande delle ricorrenti: «Poiché sono state presentate all'O.C.C.F. nuove richieste di deroga, la presente lettera ha lo scopo di precisare, fra le varie circostanze particolari invocate dalla “Breda Siderurgica” e dalla “Hoogovens” a sostegno della loro richiesta, quelle che sono state ritenute atte a giustificare la concessione della deroga. Tali circostanze particolari vanno ravvisate nel fatto che i reparti di lavorazione delle dette due società sono integrati dal punto di vista dell'ubicazione con uno o più reparti, ad esse non appartenenti, nei quali viene ricuperato del rottame. Detta integrazione dal punto di vista dell'ubicazione deriva dal fatto che i reparti della “Breda Siderurgica” e quelli di determinate industrie trasformatrici dell'acciaio costituiscono a Sesto S. Giovanni un unico complesso industriale; lo stesso si dica per il complesso industriale di IJmuiden, del quale fanno parte tanto le officine della “Koninklijke Nederlandsche Hoogovens en Staalfabrieken N. V.” quanto quelle della “Breedband N. V.”. Le cadute di rottame prodotte nei citati complessi industriali possono essere considerate come “risorse proprie” delle ripetute due imprese produttrici di acciaio. Benché esistano fra le società proprietarie degli impianti di Sesto S. Giovanni e di IJmuiden dei legami organici, tuttavia solo l'integrazione dal punto di vista dell'ubicazione costituisce il criterio sul quale si basa la concessione della deroga. Nell'ambito della Comunità i legami organici fra le società produttrici d'acciaio ed altre società le quali ricuperano rottame di caduta sono numerosi e variano di natura ed ampiezza. L'integrazione dal punto di vista dell'ubicazione in un complesso industriale unico, nel quale il rottame di caduta circola nella stessa guisa che nell'ambito di una stessa impresa, costituisce — al contrario — una situazione definibile con criteri obbiettivi, alla quale si può riconoscere il carattere di un'eccezione alla regola contenuta nella citata lettera in data 18 dicembre 1957.» |
Signori, ciascuno dei quattro ricorsi pendenti dinanzi a Voi è stato presentato da una o più società che possiedono degli stabilimenti siderurgici nei quali viene impiegato del rottame. Una parte rilevante di detto rottame proviene da stabilimenti di società con le quali la o le società ricorrenti hanno legami più o meno stretti: partecipazione al capitale, che in qualche caso giunge al 100 %; unioni personali nelle persone dei membri dei consigli d'amministrazione; gestioni unificate in misura più o meno grande; direttive comuni; clausole contemplanti l'attribuzione degli utili e l'accollo delle perdite. 0 la società ricorrente controlla le società che le forniscono il rottame; o essa è al contrario l'affiliata di una di queste; oppure, infine, il complesso delle società produttrici e consumatrici di rottame è controllato da una società madre, una holding.
Inoltre in due ricorsi si rileva che a tale connessione finanziaria e di gestione si aggiunge, almeno in parte, una integrazione dal punto di -vista dell'ubicazione: è questo il caso, nella causa 20-58, di una miniera di carbone e di una cokeria appartenenti alla società Friedrich Thyssen, di cui la ricorrente possiede il 50 % delle quote sociali, come pure di certi stabilimenti che dipendono dalla società Felten und Guilleaume Carlswerk AG (causa 21-58). Comunque, l'Alta Autorità non ha ancora preso alcuna decisione in base al criterio dell'integrazione dal punto di vista dell'ubicazione, da essa accolto — come abbiamo visto. Inoltre, in ambedue i casi, la concessione della deroga contemplata nella decisione impugnata darebbe soddisfazione alle ricorrenti solo in parte, cosicché si deve ritenere che i ricorsi conserverebbero in ogni caso la loro ragion d'essere.
Le conclusioni dei quattro ricorsi tendono all'annullamento della decisione contenuta nella lettera dell'Alta Autorità in data 18 dicembre 1957. Tuttavia i ricorsi 22 e 23-58 contengono tale conclusione solo in via subordinata, nel caso che la lettera in data 18 dicembre debba essere considerata come una decisione; in via principale le ricorrenti sostengono che essa non ha tale natura. Donde' segue che se accoglierete dette conclusioni principali dovrete respingere i ricorsi, dal momento che l'esistenza di una decisione è evidentemente uno dei presupposti necessari alla ricevibilità di un ricorso d'annullamento basato sull'art. 33. La Corte di Giustizia della C.E.C.A. ha già avuto occasione di esaminare una situazione del genere nella causa «Usines à tubes de la Sarre» (sentenza 10 dicembre 1957, Raccolta della Giurisprudenza della Corte, vol. III, pag. 199).
Negli altri due ricorsi si ammette invece che la lettera in data 18 dicembre 1957 costituisce una decisione e non si formulano conclusioni subordinate.
È questo il primo punto che devo prendere in esame.
A mio avviso non vi è dubbio: la lettera in questione è certo una decisione e come tale è impugnabile. Le incertezze di fronte alle quali si trovavano gli organismi di Bruxelles riguardavano infatti il modo di calcolare i contributi dovuti da determinate imprese a norma degli artt. 3 e seguenti delle decisioni 22-54, 14-55 e 2-57. Spettava al consiglio d'amministrazione dell'O. C. C. F. eliminarle con una delibera la quale, tuttavia, doveva essere presa all'unanimità. Mancando l'unanimità (come avvenne), la decisione doveva essere presa dall'Alta Autorità: ciò risulta dalle precise disposizioni dell'art. 15 della decisione 2-57 che ho già citato. Non si tratta dunque — come nella causa 17-57, decisa dalla Vostra sentenza in data 4 febbraio 1959 — di una semplice presa di posizione teorica in merito ad un problema sottoposto all'attenzione dell'Alta Autorità, bensì dell'esercizio di una potestà, del ricorso ad un pubblico potere in applicazione di una procedura espressamente prevista da una decisione generale, emanata essa pure per attuare una norma del Trattato.
Senza dubbio, nella lettera in data 18 dicembre 1957 l'Alta Autorità sembra cerchi di sfuggire alle proprie responsabilità, rifiutando di adottare formalmente la decisione richiestale dall'O.C.C.F. in merito alla definizione delle risorse proprie. Ciononostante, come avete visto, alcuni passi successivi contengono un'esplicita presa di posizione a tale proposito, fondata sul criterio della ragione sociale, e l'ultimo periodo della lettera contiene l'ingiunzione, rivolta all'O. C. C. F., di chiedere alle imprese interessate il pagamento dei contributi ancora dovuti in base al criterio sopra enunciato. Cosa potrebbe essere-più «decisorio» di questo? La stessa Alta Autorità pare d'altronde se ne sia successivamente resa conto, dal momento che ha deciso di pubblicare la lettera nella Gazzetta Ufficiale della Comunità (sotto la rubrica «Informazioni» — è vero — ma la sentenza 8-55 ha ammesso la legittimità di tale modo di procedere, nonostante i suoi inconvenienti) ed ha riconosciuto — prima in una missiva (lettera del direttore della divisione del mercato, in data 19 febbraio, indirizzata alla Deutsche Schrottverbraucher-Gemeinschaft) e poi nelle comparse di risposta delle presenti cause — che la lettera impugnata aveva natura di provvedimento suscettibile d'impugnazione.
Ma — ed è il secondo problema da risolvere — ammesso che si tratti di una decisione, questa è «generale» ai sensi dell'art. 33, come l'Alta Autorità sostiene, oppure ha carattere di «decisione individuale riguardante» ciascuna delle ricorrenti, secondo la tesi di queste ultime?
Esse si basano soprattutto sulla sentenza 7 e 9-54 la quale ha stabilito che una decisione riguardante unicamente la particolare attività d'un pubblico ente nominativamente designato è una decisione individuale, senza che tale carattere ricorra necessariamente «nei confronti del ricorrente», sempre che, naturalmente, essa lo riguardi.
Mi sembra malagevole, come ha messo in evidenza nella sua arringa l'avvocato della convenuta, l'applicare senz'altro detto criterio al nostro caso, poiché è evidente che una decisione adottata dall'Alta Autorità in base all'art. 15 della decisione 2-57 non può aver carattere individuale per il solo fatto di essere, dal punto di vista formale, una lettera indirizzata all'Ufficio comune: l'attività dell'Ufficio comune non è una «particolare attività» — per usare i termini della Vostra sentenza 7 e 9-54 — dal momento che esso è competente per tutto quanto concerne il funzionamento del sistema di perequazione; riguardo a detto sistema la sua attività è, al contrario, generale. Ciononpertanto occorre por menteall'oggetto della decisione. Orbene, nella fattispecie, il provvedimento impugnato ha lo scopo di decidere un certo numero di casi controversi connessi al calcolo del contributo di perequazione dovuto da determinate imprese; senza dubbio, come spesso accade in simili casi, l'esame della questione può costringere l'autorità competente a prendere posizione su delle questioni di principio, ma oggetto del suo intervento è nondimeno la risoluzione del o dei casi concreti che le sono stati sottoposti. Ritengo quindi che si tratta di una decisione individuale, che essa riguarda ciascuna delle ricorrenti e che, di conseguenza, esse possono legittimamente far valere tutti i mezzi di cui all'art. 33.
Esse non mancano di valersi di tale ampia facoltà ed infatti in ciascuno dei quattro ricorsi vengono denunziati numerosi mezzi tratti dall'incompetenza, la violazione di forme essenziali, la violazione del Trattato e di norme giuridiche relative alla sua applicazione e lo sviamento di potere. I vari mezzi vengono tuttavia fatti valere in ogni causa in modo leggermente diverso e talvolta appare persino qualche divergenza fra i vari punti di vista. D'altro lato accade che la stessa censura venga formulata a più di un titolo, ad esempio per incompetenza e per vizio di forma. Infine risulta che la fondatezza di mezzi diversi è in più di un caso subordinata alla soluzione di una stessa questione di diritto o di fatto. Di conseguenza mi propongo — anziché esaminare detti mezzi l'uno dopo l'altro nell'ordine in cui si presentano o in qualunque altro ordine — di affrontare direttamente, e nel modo più sintetico, il nocciolo del problema, che è in sostanza costituito dalla compatibilità del criterio, accolto dalla decisione impugnata, con le decisioni di base dell'Alta Autorità: 22-54, 14-55 e 2-57.
Occorre fare una prima osservazione. La decisione impugnata si propone di dare una definizione delle «risorse proprie» di rottame,-esenti dal contributo di perequazione. È appunto il problema che l'O.C. C. F. aveva chiesto all'Alta Autorità di risolvere. Cionondimeno le ricorrenti a ragione fanno osservare che il vero problema era piut-tosto quello di sapere cosa si deve intendere per «rottame d'acquisto», ai sensi delle decisioni dell'Alta Autorità. Infatti il contributo grava su quest'ultimo e l'espressione «risorse proprie», la quale — come abbiamo visto — appare formalmente solo nella decisione 2-57, serve solo a determinare per esclusione cosa sia il «rottame d'acquisto».
Seconda osservazione: ritengo che non sia necessario nelle presenti cause abbandonarsi ad argomentazioni teoriche sul concetto giuridico d'impresa, cosa questa d'altronde particolarmente ardua e che non è affatto detto approderebbe a risultati generalmente accettabili.
Di fatto, come ho già osservato, occorre distinguere accuratamente; in questa materia che ha una singolare rassomiglianza con la materia fiscale, fra il contribuente e l'imponibile del contributo. Orbene, per quanto riguarda l'individuazione dei contribuenti, non sorge a mio parere alcuna difficoltà: il contributo di perequazione è dovuto dalle «imprese di cui all'art. 80 del Trattato, le quali consumano rottame». Ammettendo che il termine «impresa» possa venire interpretato in vari modi nell'ambito del Trattato, è certo che quando, come nella fattispecie, detto termine serve a designare un ente obbligato a contribuire, vale a dire con tutta esattezza un contribuente, si può trattare solo di una persona, fisica o giuridica, dotata di capacità giuridica. Le decisioni dell'Alta Autorità relative alla riscossione del prelievo partono precisamente da questo presupposto : «i prelievi sono dovuti da ogni impresa sul tonnellaggio della sua produzione imponibile…» (art. 4, no 1 della decisione 2-53) ed il no 3 dello stesso articolo precisa : «il versamento verrà effettuato da ogni impresa, per il complesso degli stabi-limenti da essa dipendenti, sui conti postali o bancari aperti a tal fine al nome dell'Alta Autorità, ecc…». Un versamento su un conto postale o bancario non viene effettuato da una «unità economica», bensì da una persona, fisica o giuridica, dotata di capacità giuridica.
Non vi è alcun motivo per argomentare diversamente nel caso del contributo di perequazione: le «imprese di cui all'art. 80 del Trattato, le quali consumano rottame» e «tenute al versamento dei contributi», sono quindi le persone fisiche o giuridiche che eserciscono degli stabilimenti nei quali si svolge una «attività produttiva nel settore dell'acciaio» e nei quali viene impiegato del rottame.
Il solo problema è dunque quello dell'imponibile, in altri termini della base dell'imposta. Questa riguarda il «rottame d'acquisto». Cosa dobbiamo intendere con ciò?
L'incertezza deriva, a quanto pare, dal fatto che si rischia di giungere a conclusioni diverse a seconda che si affronti il problema dal punto di vista del diritto civile, oppure dal punto di vista tecnico o da quello economico.
Sotto il profilo del diritto civile il rottame d'acquisto è evidentemente il rottame che è stato acquistato, cioè che è stato acquisito mediante compravendita. In tal caso è sufficiente stabilire, volta per volta, se il rottame impiegato in uno stabilimento industriale è stato acquisito mediante un atto avente il carattere giuridico di una compravendita, senza ulteriore indagine. Gli eventuali legami finanziari esistenti tra venditore ed acquirente, o fra ambedue ed una holding, non hanno alcuna importanza. L'interpretazione delle decisioni dell' Alta Autorità basata su considerazioni di questo genere avrebbe certo dalla sua la lettera dei provvedimenti.
Dal punto di vista tecnico vale la distinzione, nell'ambito di uno stesso complesso industriale, fra il rottame proveniente da quelle che vengono chiamate le «cadute proprie» — il quale viene immediatamente reimpiegato — ed il rottame proveniente dall'esterno. Secondo questa accezione le «risorse proprie» sarebbero le risorse di rottame provenienti dalle cadute proprie. Una simile interpretazione può a buon diritto invocare a sostegno il testo dell'Allegato II del Trattato, riguardante il rottame. In tema di applicazione al rottame dell'art. 59 sullo stato di penuria, l'Allegato dispone che «sono escluse dall'applicazione dell'art. 59: … il rottame di caduta reimpiegato direttamente dalle imprese; tuttavia — esso aggiunge — verrà tenuto conto, nello stabilire le basi di ripartizione del rottame di recupero, delle risorse rappresentate da tali cadute», vale a dire nella ripartizione del rottame d'acquisto. Le parole «risorse rappresentate da tali cadute» starebbero a dimostrare che nel campo del rottame l'espressione «risorse proprie» ha lo stesso significato di «cadute proprie». Interpretando in questo modo le decisioni dell'Alta Autorità si finirebbe per non tener conto dell'organizzazione sociale e finanziaria delle imprese. Il rottame d'acquisto sarebbe quello che proviene dall'esterno, non importa se da società affiliate, da società madri o da holdings. Un'altra conseguenza logica sarebbe la necessità di negare il carattere di «risorse proprie» al rottame proveniente da stabilimenti che portano la stessa ragione sociale dello stabilimento che consuma il rottame, nel caso che i primi siano distanti e non facciano perciò parte dello stesso complesso industriale. E viceversa, si dovrebbe considerare come risorse proprie il rottame che trova impiego nell'ambito di uno stesso complesso industriale, anche quando gl'impianti che producono le cadute non portano la stessa ragione sociale dell'impianto che le impiega: si legalizzerebbe in tal modo, in via generale, quella che l'Alta Autorità considera come una eccezione o una deroga, basata sul criterio dell'integrazione dal punto di vista dell'ubicazione.
Infine, il punto di vista economico. Di cosa stiamo trattando? Del funzionamento di un sistema di perequazione fra i prezzi, istituito a norma dell'art. 53 del Trattato. Non ho bisogno di ricordare le consir derazioni che ho avuto occasione di svolgere davanti alla Corte di Giustizia della C.E.C.A. a proposito dei ricorsi da 8 a 13-57 e che la Corte ha accolto nelle sentenze in data 21 giugno 1958. L'art. 53 contempla un procedimento indiretto di regolarizzazione del mercato soprattutto mediante un'azione sui prezzi. È necessario dunque che si tratti di prezzi di mercato, attraverso i quali si manifestano gli effetti della concorrenza. Perciò — sempre sotto il profilo economico — si può sostenere che, ogniqualvolta non ci troviamo di fronte a prezzi di mercato, il sistema di perequazione non soltanto perde la propria ragione d'essere, ma perde anche il proprio fondamento giuridico. Il sistema di perequazione per il rottame importato ha lo scopo di evitare che i prezzi del rottame interno si allineino sui prezzi, più elevati, del rottame d'importazione. Ciò riguarda soltanto il rottame acquistato sul mercato; quello che non si trova sul mercato non è compreso nel sistema.
Visto in questa prospettiva, il «rottame d'acquisto» sarebbe il rottame che si acquista sul mercato, quello proveniente dal commercio di detta merce, il che comporterebbe un concetto di «risorse proprie» considerevolmente più ampio di quello di «cadute proprie». Senza dubbio, ci si allontana in tal. guisa dalle indicazioni fornite dall'Allegato II, tuttavia è facile rispondere che l'Allegato II riguarda l'ipotesi della ripartizione in caso di penuria, cioè un'ipotesi in cui il gioco del mercato è completamente sospeso. In tale caso è comprensibile che si ripartiscano, in linea di principio, tutte le risorse disponibili e l'esclusione delle cadute proprie o, più precisamente, del «rottame di caduta» (secondo la dizione dell'Allegato II) — esclusione che si basa su motivi pratici evidenti — appare giustificata solo se si dà a tale espressione un'interpretazione restrittiva.
Mi sembra poi che — sempre sotto l'aspetto «economico» — si debba prevenire un'altra obiezione: precisamente quella che potrebbe essere fondata sul mutamento che si è prodotto — strada facendo, se mi è concessa l'espressione — negli scopi del sistema di perequazione, vale a dire l'aggiunta dell'obiettivo «economie di rottame» allo scopo originariamente unico della perequazione propriamente detta fra i prezzi d'importazione ed i prezzi interni. In realtà lo scopo originario non è scomparso — tutt'altro — né con l'introduzione della perequazione detta «ghisa-rottame», né con la decisione 2-57, ed il sistema si basa tuttora sopra un'azione nei confronti dei prezzi di mercato. A mio parere bisogna trarne la conseguenza che, qualunque sia l'interpretazione corretta dell'espressione «rottame d'acquisto», essa dev'essere la medesima per tutte e tre le decisioni di cui trattasi, 22-54, 14-55 e 2-57
Fin qui il punto di vista «economico».
Vi sarebbe poi, a dire il vero, la possibilità di prospettare un quarto punto di vista, ma da parte mia mi rifiuto energicamente di prenderlo in considerazione: sarebbe il punto di vista del diritto tributario. Non perché la materia non abbia carattere fiscale o parafiscale, al contrario — l'ho già rilevato — ma semplicemente perché non esiste nella Comunità una legislazione fiscale. Orbene, se si può discutere sull'autonomia del diritto tributario e sulla sua stessa esistenza, il fatto certo è che si tratta, in ogni caso, di un diritto speciale che può avere il proprio fondamento solo in leggi speciali. Si è spesso parlato della deformazione del diritto civile ad opera del diritto tributario, vuoi per deplorarla, vuoi per giustificarla, ma è ben certo che tali «deformazioni» o «deviazioni» — che sono in realtà molto spesso delle pure e semplici violazioni delle norme del diritto civile — sono quanto mai discutibili in tutti i casi in cui non si fondano sulla legge. Senza dubbio una teoria fiscale, quella della «Organschaft», di carattere autonomo era stata elaborata in Germania dalla giurisprudenza; cionondimeno la materia è attualmente disciplinata dalla legge. Si potrebbe osservare che in altri paesi della Comunità non esistono norme di tal genere o addirittura ve ne esistono di contrarie: ad esempio in Francia, prima della recente introduzione dell'imposta sul valore aggiunto, la tassa alla produzione, che era un'imposta sul fatturato, era applicabile in determinati casi alle consegne di prodotti, estratti o fabbricati da un dato produttore, al produttore stesso: ciò era possibile unicamente perché la legge disponeva in tal senso.
Nel nostro caso il legislatore è rappresentato dall'Alta Autorità la quale agisce a norma dell'art. 53 b, vale a dire mediante una décisione adottata su unanime parere conforme del Consiglio. Una decisione presa in questa forma avrebbe potuto senza dubbio tener conto, in tutto od in parte, delle argomentazioni avanzate dalle ricorrenti per attenuare o modificare i concetti di rottame d'acquisto e di risorse proprie, nella loro applicazione al rottame di gruppo, ma, dato che ciò non è avvenuto, occorre prendere le tre decisioni di base per quelle che sono.
Eliminato in tal modo il diritto tributario, sorge il seguente problema: a quale dei tre aspetti che ho tentato di delineare (diritto civile, profilo tecnico, profilo economico) conviene attenersi in tutti i casi nei quali essi si contraddicono? La questione mi sembra delicata e confesso apertamente di non essere pervenuto in questa causa ad una convinzione ben ferma.
L'aspetto che ho chiamato «economico» — e che d'altronde è anch'esso giuridico — mi sembra fondamentale, considerando lo scopo del sistema di perequazione e lo scopo del Trattato stesso, il quale è un complesso di norme economiche. Cionondimeno occorre evidentemente tener conto anche del tenore delle decisioni di base e cercare d'interpretarle alla luce delle norme del Trattato, verificandone ove occorra l'aderenza alle norme stesse.
Mi sembra si debba risolvere una prima questione, in un certo senso preliminare. Si tratta di sapere se le cessioni, diciamo — per evitare di usare un termine giuridico — gli spostamenti di rottame all'interno di un gruppo hanno, sotto il profilo del diritto civile, il carattere di una compravendita. Poiché nella negativa, vuoi in ogni caso, vuoi in un gran numero di casi, il criterio della ragione sociale accolto dalla decisione impugnata sarebbe o erroneo o troppo assoluto e perciò illegittimo in relazione alle decisioni di base, le quali sottopongono a contributo unicamente il «rottame d'acquisto».
La questione è stata molto discussa nella fase scritta ed ha dato luogo, come ricorderete, a delle domande in udienza. Dalla discussione e dal tenore delle risposte mi sembra risulti chiaramente che le cessioni di rottame tra le società appartenenti allo stesso gruppo avvengono, anche nei casi più spinti d'integrazione, in base agli usi commerciali. Esiste una contabilità distinta. L'impresa che cede, il rottame viene accreditata di un importo corrispondente al valore della merce e viene emessa fattura; vi è dunque giuridicamente un trasferimento di proprietà; vi è il pagamento di un prezzo. Il fatto che i regolamenti avvengano mediante compensazione bancaria — solo i saldi vengono periodicamente accreditati — non ha importanza. Così pure non ha importanza che non vi sia un formale atto di compravendita e che le consegne vengano effettuate sulla scorta di direttive generali impartite dalla società madre. Vi è dunque certamente una «compravendita» nel senso del diritto civile ed il prezzo non è un «prezzo di conto». È un prezzo di vendita.
Sorge di conseguenza la questione fondamentale: il rottame oggetto di detta cessione è «rottame d'acquisto» a norma delle decisioni 22-54, 14-55 e 2-57?
Per i motivi che ho esposto trattando dell'aspetto economico, ritengo che il criterio puramente «civilistico» sia nel nostro caso insoddisfacente e che non si possa prescindere dal concetto di mercato. Ma fin dove conviene spingersi in questa direzione? Dobbiamo considerare come rottame d'acquisto soltanto quello che viene comprato sul mercato, vale a dire sul libero mercato nel quale si suppone siano riuniti tutti i venditori e tutti gli acquirenti e dove i prezzi sono determinati dal solo gioco della domanda e dell'offerta? Sono propenso a ritenere che ciò significherebbe spingersi troppo lungi. Il mercato del rottame non è un mercato ideale più di quanto lo sia quello dell'acciaio ed il confine, dal punto di vista teorico, fra le transazioni avvenute al «prezzo di mercato» e le altre sarebbe conseguentemente molto impreciso, oltre che difficile da tracciare. A mio parere è sufficiente — ma necessario — che i prezzi di cessione del rottame di gruppo seguano, almeno approssimativamente, i prezzi del mercato in modo da essere influenzati da questo. Orbene, anche su questo punto le categoriche deduzioni dell'Alta Autorità in senso affermativo non sono state efficacemente confutate dalle ricorrenti e le risposte date alle domande poste in udienza confermano che, in via generale, le cose si svolgono nel modo sopra accennato. Ciò potrebbe non avvenire soltanto se i «Konzerne» riuscissero ad acquistare tale potenza dà fissare essi stessi i prezzi, di guisa che non esisterebbero più in tal caso i prezzi di mercato dal momento che il mercato stesso sarebbe scomparso. Il verificarsi di una simile situazione dimostrerebbe il venir meno dell'Alta Autorità ai' propri doveri circa l'applicazione dell'art. 66 sulle concentrazioni. Fino a che questo non si verifica, si deve ammettere che le concentrazioni regolarmente autorizzate o regolarmente dispensate dall'autorizzazione non impediscono la libera formazione dei prezzi, i quali sono prezzi di mercato.
Va da sé che tale interpretazione estensiva, giustificata a mio parere nei confronti dell'originario sistema di perequazione, lo è anche di più sotto il regime della perequazione ghisa-rottame e sotto il regime della decisione 2-57. Per quanto riguarda la perequazione ghisa-rottame, ricordo che i premi concessi in ragione dell'accresciuto impiego di ghisa nei forni Martin (decisione 26-55) erano a carico dei fondi della Cassa di perequazione (art. 2 della decisione) e gravavano quindi sul complesso delle imprese consumatrici di rottame, ivi comprese quelle che non potevano aspirare ai premi. Quanto alla decisione 2-57, Voi sapete che gli svantaggi in senso assoluto od in senso relativo che essa comporta, per il modo in cui l'onere è ripartito, vengono sopportati anche da quelli che si trovano nella tecnica impossibilità di sottrarvisi. Nel primo come nel secondo caso, il fatto trova giustificazione nel principio di solidarietà sul quale l'intero sistema si basa. Ora il principio stesso non può essere considerato del tutto estraneo alla presente controversia. Non bisogna dare l'impressione, per usare il linguaggio vena-torio di uno degli avvocati, che esista una specie di «riserva di caccia» per il rottame. Proprio perché si tratta di una merce rara sarebbe disdicevole che coloro i quali hanno avuto la precauzione, del tutto legittima d'altronde, di mettersi anticipatamente al riparo dalle difficoltà di rifornimento di detta merce possano trarne pretesto per sottrarsi allo sforzo comune. Questo non è evidentemente un argomento d'indole giuridica, tuttavia vale a sostenere l'interpretazione estensiva, la quale sembra in perfetta armonia con i principi del sistema.
Inoltre, non pare che di fatto il «rottame di gruppo» sia veramente e completamente separato, dal punto di vista industriale ed economico, dal rottame acquistato sul mercato libero. Ho osservato che, in tutte le quattro cause pendenti dinanzi a Voi, anche le imprese più integrate impiegano pure rottame acquistato all'esterno, dal momento che ne hanno fatto oggetto di dichiarazione. Esiste certamente una interpenetrazione almeno relativa fra le due categorie di rottame. Infine va da sé che l'incitamento ad economizzare rottame, sul quale si basa la decisione 2-57, richiede, per ottenere dei risultati soddisfacenti, che anche il rottame di gruppo sia sottoposto a contributo. È necessario, ad esempio, che i progressi tecnici che permettono di economizzare rottame vengano compiuti anche dai «Konzerne», poiché gli accordi fra società si fanno e si disfanno, ma gl'impianti restano.
Signori, se Voi accogliete queste varie argomentazioni, Voi ammetterete che la decisione impugnata col dichiarare «che un'impresa, la quale ad ogni effetto rimane contraddistinta dalla propria ragione sociale, può considerare come risorse proprie soltanto il rottame da essa medesima ricuperato negli stabilimenti che portano la sua stessa ragione sociale» non ha contraddetto le decisioni 22-54, 14-55 e 2-57, in quanto queste sottopongono a contributo il solo rottame d'acquisto.
Rimane ora da stabilire se il criterio adottato per definire il «rottame d'acquisto» non è esso stesso illegittimo per qualche motivo.
Innanzitutto viene dedotta una pretesa contraddizione fra la norma secondo la quale il contributo grava solo sul rottame d'acquisto ed il fatto di aver assoggettato al contributo il rottame lavorato per conto, il che proverebbe — a quanto si afferma — che il criterio della proprietà non è stato rispettato.
A questo proposito confesso di non aver ben afferrato l'utilità dell'argomento. Infatti la decisione 22-54 non parla di rottame lavorato per conto, donde segue che, vigendo detta decisione, le imprese consumatrici di rottame non erano tenute a versare il contributo per tale rottame — il quale non è in realtà rottame d'acquisto. D'altro lato, la decisione 14-55 contiene la seguente disposizione : «nei casi in cui le imprese lavorano il rottame per conto, verranno presi in considerazione i quantitativi di rottame ricevuti a tale titolo», il che significa evidentemente che detti quantitativi sono soggetti al contributo pur non essendo stati acquistati; la stesura non è molto felice, ma è chiara. Quanto alla decisione 2-57, essa non soltanto è chiara, ma è anche perfettamente corretta dal punto di vista giuridico : (art. 10) «Ai fini dell'applicazione della presente decisione, il rottame trasformato per conto in ghisa ed in acciaio è equiparato al rottame d'acquisto». Ecco un esempio tipico di norma fiscale che deroga al diritto civile, tuttavia nel modo più chiaro: non vedo perché dovrebbe essere considerata illecita. Essa pare inoltre perfettamente giustificata in fatto.
Di maggior peso sono le altre due censure — formulate nei confronti del sistema risultante dalle tre decisioni — le quali sono fondate sulla contraddizione, l'arbitrio e, naturalmente, la discriminazione.
La prima riguarda «l'eccezione» ammessa a favore della «Breda Siderurgica» e della «Hoogovens», eccezione o deroga basata sul criterio dell'integrazione dal punto di vista dell'ubicazione. Vi si ravvisa un disconoscimento del concetto di rottame d'acquisto, già accolto dalla stessa Alta Autorità. Si rimprovera a questa di aver sostituito, senza valido motivo, al criterio giuridico un criterio puramente geografico, privo di giustificazione economica, il quale si risolve in un esonero in casi nei quali le imprese interessate sono reciprocamente legate da vincoli finanziari molto meno stretti di quelli che uniscono le ricorrenti. Una simile deroga alle norme sull'imponibile del contributo comporterebbe in realtà una modifica delle decisioni di base, il che avrebbe resa necessaria una nuova decisione, adottata col rispetto delle forme previste dall'art. 53 è.
È certo che, né gli organismi di Bruxelles, né l'Alta Autorità nell'ambito dei suoi poteri di tutela hanno veste per modificare le decisioni normative riguardanti la peréquazione ed in ispecie le norme, concernenti l'imponibile del contributo, ivi contenute. Nemmeno si può ammettere che l'Alta Autorità abbia agito in forza di una specie di «facoltà di grazia», quale è quella — normalmente spettante all'amministrazione in matera fiscale — che le consente di concedere delle remissioni o degli sgravi d'imposte legalmente dovute. Di fatto, si tratta qui di un'imposta da ripartire, per cui ogni sgravio ha la conseguenza di aumentare il contributo di tutti gli altri obbligati. Non basta che l'eccezione sia fondata — come l'Alta Autorità afferma — su criteri obiettivi ed applicabili a tutti coloro che si trovano nella stessa situazione: è necessario ancora che essa sia giuridicamente giustificata.
Occorre quindi stabilire se si tratta realmente di una «eccezione» — la quale sarebbe illecita — o non piuttosto della semplice applicazione ad un caso particolare delle norme regolamentari esistenti, nella quale ipotesi si deve ammettere che l'amministrazione aveva diritto d'intervenire per precisare le modalità dell'applicazione stessa.
Da parte mia ritengo che non si tratti di un'eccezione in contrasto con le decisioni di base. Abbiamo visto infatti che la distinzione fra «rottame d'acquisto» e «risorse proprie» è fortemente influenzata dall'aspetto tecnico, dal momento che il concetto di «risorse proprie» viene spesso equiparato a quello di «risorse provenienti dalle cadute proprie». Senza dubbio mi sono rifiutato di considerare come decisivo l'argomento che l'Alta Autorità trae dalla dizione dell'Allegato II per restringere il concetto di «risorse proprie», ma ciò aveva lo scopo di dimostrare che, nell'applicare l'art. 53, era necessario tener conto dell'esistenza del mercato. Orbene, il rottame che circola nell'ambito di uno stesso complesso industriale generalmente sfugge ad ogni influenza del mercato. I motivi tecnici relativi alla collocazione degli impianti hanno in questo caso peso preponderante ed è naturale che il concetto di «rottame di caduta» prevalga. A mio parere è quindi ammissibile che in simili casi il rottame non sia stato considerato come rottame d'acquisto ai fini della disciplina di perequazione.
La seconda censura concerne l'esenzione del rottame che, al di fuori di ogni integrazione dal punto di vista dell'ubicazione, circola nell'ambito di stabilimenti diversi, ma aventi la stessa ragione sociale.
Ecco, o Signori, uno dei punti a mio parere più delicati della presente controversia. È lecito chiedersi infatti se la logica del sistema non avrebbe consigliato piuttosto di sottoporre a contributo il rottame ceduto da uno stabilimento ad un altro, anche se appartenenti ambedue alla stessa persona giuridica, ed a considerarlo come rottame d'acquisto.
Osservo anzitutto che non mi sembra nel nostro caso possibile giungere ad un risultato del genere attraverso la semplice interpretazione dell'espressione «rottame d'acquisto». In realtà, ciascuna delle decisioni 22-54, 14-55 e 2-57 dichiara di sottoporre a contributo il rottame d'acquisto di ogni impresa. Ora l'impresa a sensi di tali decisioni, come abbiamo visto, è una persona fisica o giuridica. È dunque impossibile equiparare qui l'impresa allo stabilimento. Il concetto di stabilimento, come abbiamo pure visto, è stato impiegato dall'Alta Autorità per determinare l'imponibile del prelievo. Lo si trova anche all'art. 5, 2o comma, in fine, della decisione 26-55, che è una di quelle concernenti la perequazione detta «ghisa-rottame» : «i premi — dice l'articolo — verranno calcolati, per determinate categorie di ghisa, facendo all'occorrenza una distinzione tra la ghisa di produzione propria e quella ricevuta da un altro stabilimento». Nel nostro caso, invece, non vi è nulla di simile: vi si parla soltanto d'imprese. Questo conferma che la decisione impugnata, nel considerare come risorse proprie di un'impresa «il rottame da essa medesima ricuperato negli stabilimenti che portano la sua stessa ragione sociale» non ha fatto che attenersi alle decisioni di base.
Ma allora queste ultime non saranno per questo viziate d'illegittimità — in quanto producono, senza valido motivo, effetti diversi in situazioni comparabili — e, conseguentemente, discriminatorie? È lecito nutrire dei dubbi in proposito.
È comunque certo che il sistema è abbastanza illogico e poco soddisfacente per quanto riguarda determinate conseguenze. Ad esempio — e le ricorrenti non hanno mancato di farlo osservare — è sufficiente che diverse imprese integrate dal punto di vista finanziario si fondano perché sia loro consentito — o, più precisamente, perché sia consentito alla nuova impresa unica — di sottrarsi ai contributi per il rottame interno.
Un'altra conseguenza singolare ha tratto all'applicazione della decisione 2-57 nel caso in cui una fusione o, per converso, uno scioglimento intervenisse tra il periodo di riferimento ed il periodo di conteggio sui quali si basa il calcolo del consumo di rottame d'acquisto: una circostanza del genere accennato renderebbe assolutamente impossibile il confronto. A tale proposito osservo che l'art. 6 della decisione 2-57 fa grandi sforzi per rendere possibile il confronto in materia d'impianti e procedimenti di fabbricazione, qualora vi siano stati dei mutamenti o delle innovazioni fra un periodo e l'altro, e tali sforzi sono ancora più evidenti nella nuova stesura di detto articolo, quale è contenuto nella decisione 14-58. Non ho visto niente di simile per il caso sopra accennato; forse che non si è mai presentato?
Occorre pertanto considerare il sistema delle tre decisioni 22-54, 14-55 e 2-57 come illegittimo, per il fatto di non aver sottoposto a contributo le cessioni effettuate da uno stabilimento ad un altro — al di fuori da ogni integrazione dal punto di vista dell'ubicazione — qualora detti stabilimenti dipendano dalla stessa impresa (nell'accezione giuridica corrente, vale a dire dalla stessa persona fisica o giuridica)?
Signori, esito a proporvelo. Si può affermare infatti che, nonostante l'analogia riscontrabile in determinate situazioni — almeno in casi limite — vi è pur sempre in generale una differenza fra delle imprese integrate ed una impresa che possiede vari stabilimenti. È certo che l'Alta Autorità avrebbe avuto diritto di tassare le cessioni da stabilimento a stabilimento; in tal caso avrebbe dovuto ottenere l'unanime parere conforme del Consiglio dei Ministri. Essa avrebbe potuto all'opposto — col rispetto delle medesime forme — considerare come un unico contribuente, ai fini della perequazione, le imprese che rispondessero a determinati criteri d'integrazione — come vorrebbero le ricorrenti: anche in questa seconda ipotesi e senza dubbio ancora più che nella prima avrebbe dovuto adottare una disciplina piuttosto particolareggiata. Dalla circostanza che l'Alta Autorità non ha voluto giungere fino a tal punto con le proprie norme e che di conseguenza queste difettano alquanto di logica — come abbiamo visto — deriva forse che tali norme sono illegittime? Esse sono semplici — forse troppo semplici — e, come in tutti i sistemi poco perfezionati, vi sono dei casi limite in cui l'applicazione della disciplina dà risultati poco soddisfacenti; tuttavia non mi pare che le rilevate imperfezioni siano tali da doversi ritenere violato uno fra i principi giuridici di cui Voi avete il compito di garantire l'osservanza, vale a dire l'uguaglianza fra i contribuenti.
Signori, nel corso della mia esposizione ritengo di aver risposto via via alla maggior parte dei mezzi fatti valere dalle quattro ricorrenti ed ai punti essenziali delle loro argomentazioni. Cionondimeno vale la pena di chiarire ancora qualche punto.
Vi è innanzitutto la questione della retroattività. Si fa carico alla decisione impugnata — in quanto avrebbe stabilito la tassazione di rottame fino a quel momento esente — di avere efficacia retroattiva, poiché prescrive agli organismi di Bruxelles di esigere il pagamento dei contributi dovuti, a partire dal 1o aprile 1954, per i quantitativi di rottame considerati a torto da determinate imprese come risorse proprie.
Signori, se voi accedete al mio punto di vista, ammetterete che la decisione impugnata non ha modificato le norme sull'imponibile del contributo, quali risultano dalle tre decisioni di base dell'Alta Autorità. Essa si è limitata ad interpretare tali decisioni per applicarle ad un caso particolare. Non vi è in ciò alcuna retroattività. A proposito di questa, il solo problema è di sapere se, ed entro quale termine, sia possibile procedere ad un'imposizione supplementare in conseguenza di omissioni rilevate nelle dichiarazioni. Le decisioni di base non prevedono alcun termine. L'art. 12 della decisione 2-57 dice soltanto che «la Cassa notifica alle imprese l'importo dei contributi da versare ed il termine per il versamento». I contributi così determinati si basano sulle dichiarazioni che le imprese sono tenute ad inviare entro un certo termine (art. 16). Infine l'art. 17 dispone, al 2o comma, che «per le dichiarazioni inesatte verranno applicate» determinate sanzioni.
Risulta da tale sistema che la Cassa (come pure l'Alta Autorità, la quale riceve comunicazione, «a scopo di controllo», dei dati trasmessi alla Cassa) deve controllare le dichiarazioni, indi commisurare il contributo e comunicare agli interessati l'ammontare dello stesso.
Dobbiamo concluderne che la Cassa, una volta notificato ad una impresa l'ammontare del contributo, perde ogni diritto di rilevare le eventuali omissioni od errori contenuti nelle dichiarazioni che sono servite di base alla commisurazione e persino gli errori od omissioni in cui essa medesima fosse incorsa nel calcolare il contributo? Ciò sarebbe contrario ai criteri seguiti in materia in tutti i paesi. È vero che generalmente la legge determina le condizioni ed i limiti di quelli che vengono chiamati «supplementi d'imposta», ma non è questo il nostro caso, il che si spiega senza dubbio con la relativa brevità del periodo d'applicazione del sistema di perequazione. Sarei perciò tentato di applicare il concetto di «limite di tempo ragionevole» che la Corte ha già accolto in un'altra causa, molto diversa — è vero (Algera ed altri, 12 luglio 1957, Raccolta della Giurisprudenza della Corte, vol. III, pag. III e seguenti: si trattava allora del termine entro il quale l'amministrazione, in materia di pubblico impiego, può revocare una decisione individuale illegittima, la quale ha fatto sorgere dei diritti). Nella fattispecie i supplementi d'imposta da esigere si riferiscono ai quantitativi ricevuti a partire dal 1o aprile 1954: il termine non sembra troppo ampio.
Una seconda questione, sollevata dal ricorso 20-58, ha tratto alla delega di poteri che l'Alta Autorità avrebbe indebitamente fatto agli organismi di Bruxelles, illecito questo chiaramente affermato nella sentenza Meroni. Detta questione è strettamente collegata ad un'altra, sollevata da tutti e quattro i ricorsi sotto il profilo dell'incompetenza: le decisioni 14-55 e 22-54, le quali parlavano soltanto di rottame d'acquisto, sarebbero state — a quanto si afferma — modificate dalla decisione 2-57 la quale, per la prima volta, ha introdotto il concetto di «risorse proprie». Una simile modifica poteva avvenire solo in virtù di una decisione dell'Alta Autorità adottata col rispetto delle forme di cui all'art. 53 b, vale a dire previo unanime parere conforme del Consiglio dei Ministri.
Signori, ho già ribattuto a questa censura là dove ho affermato che la decisione 2-57 non ha modificato le decisioni precedenti, dal momento che il contributo ha continuato a gravare sul rottame d'acquisto. Per quanto riguarda la delega di poteri ritengo che, trattandosi semplicemente di dare applicazione alle decisioni di base dopo averle interpretate, gli organismi di Bruxelles erano abilitati a farlo, salva l'applicazione dell'art. 15 della decisione 2-57 per quanto riguarda l'eventuale intervento dell'Alta Autorità.
Un'altra censura, formulata nei ricorsi 22 e 23-58, sempre sotto il profilo dell'incompetenza, viene tratta dall'art. 15 della stessa decisione 2-57. Come ricordate, tale articolo recita : «In mancanza di una delibera unanime del Consiglio dell'Ufficio comune o della Cassa in merito ai provvedimenti previsti negli articoli da 3 ad 11, no 1, di cui sopra, … la decisione viene presa» dall'Alta Autorità. Si afferma che la questione sottoposta all'Alta Autorità e che costituisce l'oggetto della decisione impugnata non riguardava un «provvedimento» da adottarsi a norma degli articoli da 3 a 11.
Signori, gli articoli da 3 a 10 enunciano il complesso delle norme concernenti l'imponibile del contributo di perequazione (l'art. 11, no 1, ha un'altro oggetto): ora la questione sottoposta all'Alta Autorità riguardava delle incertezze — sorte dall'interpretazione di alcune fra dette norme — relative alla determinazione dei criteri di applicazione del contributo di perequazione. Tali incertezze rendevano necessaria una decisione seguita da provvedimenti esecutivi: si trattava senza dubbio di «provvedimenti» per i quali occorreva una delibera del Consiglio dell'Ufficio o della Cassa e che rientravano perciò nell'ipotesi dell'art. 15.
Ed eccomi per finire a due censure tratte dalla violazione di forme essenziali.
La prima riguarda il mancato unanime parere conforme del Consiglio dei Ministri; ho già esposto la mia opinione su questo punto.
L'altra concerne un difetto di motivazione. È contenuta in tutti e quattro i ricorsi. Anche a questo proposito sono leciti dei dubbi.
Nella sua parte essenziale, cioè per quanto riguarda la definizione delle «risorse proprie», ritengo si debba ammettere che la decisione impugnata è sufficientemente motivata. Essa dichiara infatti che «il concetto di risorse proprie» dev'essere inteso «secondo il significato etimologico del termine, il quale si basa sul principio della proprietà giuridica di tali risorse al momento del loro ricupero. Ne consegue — soggiunge l'Alta Autorità — che un'impresa, la quale ad ogni effetto rimane contraddistinta dalla propria ragione sociale, può considerare come risorse proprie soltanto il rottame da essa medesima ricuperato negli stabilimenti che portano la sua stessa ragione sociale».
Tenuto conto di quanto avete altra volta deciso, soprattutto nelle sentenze 2-54 e 6-54, tale motivazione sembra sufficiente.
Lo stesso non si può dire, invece, per una questione particolare e precisamente per quella che l'Alta Autorità considera (secondo il parere che ho già espresso, a torto) come una «deroga» : i due casi Breda Siderurgica e Hoogovens. A questo proposito l'Alta Autorità si limita a «sciogliere le riserve» che il suo rappresentante permanente aveva precedentemente formulato e decide di far ciò «in considerazione del carattere eccezionale delle situazioni di cui trattasi». Questa non è evidentemente una motivazione, poiché occorrerebbe sapere a che riguardo dette situazioni hanno carattere eccezionale.
Si deve dunque annullare la decisione per questo vizio di forma? Anche qui esito a proporvelo. Come sapete, è avvenuto che l'Alta Autorità qualche mese dopo, il 17 aprile 1958, ha scritto una nuova lettera all'Ufficio comune — lettera pubblicata nella Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee del 13 maggio 1958— la quale motiva — questa volta in modo perfettamente esplicito — la decisione di considerare come risorse proprie il rottame che circola nell'ambito di uno stesso complesso industriale: vi ho letto i passi essenziali di detta lettera all'inizio della mia esposizione. Le ricorrenti conoscono, sin da tale data, la motivazione dell'Alta Autorità ed hanno avuto agio di discuterla, tanto nella fase scritta, quanto in quella orale (le repliche sono di parecchio posteriori al 13 maggio, data di pubblicazione della lettera citata). Sono propenso a ritenere che, stando così le cose, sia possibile considerare il detto vizio di forma come «non essenziale» ai sensi dell'art. 33.
Per tutto quanto Vi ho esposto, o Signori, pur riconoscendo che è lecito nutrire dei dubbi e non su un punto soltanto, concludo
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per la reiezione dei ricorsi, |
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ponendosi le spese a carico delle ricorrenti, ciascuna per quanto la concerne. |