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Documento 62018CJ0564

    Sentenza della Corte (Prima Sezione) del 19 marzo 2020.
    LH contro Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság.
    Rinvio pregiudiziale – Politica d’asilo – Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale – Direttiva 2013/32/UE – Domanda di protezione internazionale – Articolo 33, paragrafo 2 – Motivi di inammissibilità – Normativa nazionale che prevede l’inammissibilità della domanda se il richiedente è arrivato nello Stato membro interessato attraverso un paese in cui non è esposto a persecuzione o al rischio di danno grave, o se tale paese fornisce sufficiente protezione – Articolo 46 – Diritto a un ricorso effettivo – Controllo giurisdizionale delle decisioni amministrative riguardante l’inammissibilità delle domande di protezione internazionale – Termine di otto giorni per pronunciarsi – Articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
    Causa C-564/18.

    Identificatore ECLI: ECLI:EU:C:2020:218

     SENTENZA DELLA CORTE (Prima Sezione)

    19 marzo 2020 ( *1 )

    «Rinvio pregiudiziale – Politica d’asilo – Procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale – Direttiva 2013/32/UE – Domanda di protezione internazionale – Articolo 33, paragrafo 2 – Motivi di inammissibilità – Normativa nazionale che prevede l’inammissibilità della domanda se il richiedente è arrivato nello Stato membro interessato attraverso un paese in cui non è esposto a persecuzione o al rischio di danno grave, o se tale paese fornisce sufficiente protezione – Articolo 46 – Diritto a un ricorso effettivo – Controllo giurisdizionale delle decisioni amministrative riguardante l’inammissibilità delle domande di protezione internazionale – Termine di otto giorni per pronunciarsi – Articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea»

    Nella causa C‑564/18,

    avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest‑Capitale, Ungheria), con decisione del 21 agosto 2018, pervenuta in cancelleria il 7 settembre 2018, nel procedimento

    LH

    contro

    Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal,

    LA CORTE (Prima Sezione),

    composta da J.‑C. Bonichot, presidente di sezione, R. Silva de Lapuerta (relatrice), vicepresidente della Corte, M. Safjan, L. Bay Larsen e C. Toader, giudici,

    avvocato generale: M. Bobek

    cancelliere: I. Illéssy, amministratore

    vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza dell’11 settembre 2019,

    considerate le osservazioni presentate:

    per LH, da T. Á Kovács e B. Pohárnok, ügyvédek;

    per il governo ungherese, inizialmente da M.Z. Fehér, G. Tornyai e M.M. Tátrai, successivamente da M.Z. Fehér e M.M. Tátrai, in qualità di agenti;

    per il governo tedesco, inizialmente da T. Henze e R. Kanitz, successivamente da quest’ultimo, in qualità di agenti;

    per il governo francese, da D. Colas, D. Dubois e E. de Moustier, in qualità di agenti;

    per la Commissione europea, da M. Condou‑Durande, A. Tokár e J. Tomkin, in qualità di agenti,

    sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 5 dicembre 2019,

    ha pronunciato la seguente

    Sentenza

    1

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione dell’articolo 33 e dell’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (GU 2013, L 180, pag. 60), nonché dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»).

    2

    Tale domanda è stata presentata nell’ambito di una controversia tra LH e il Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal (Ufficio per l’immigrazione e l’asilo, Ungheria) in seguito alla decisione di quest’ultimo di respingere la sua domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile, senza esame nel merito, e di ordinarne l’espulsione, accompagnata da un divieto di ingresso e di soggiorno della durata di due anni.

    Contesto normativo

    Diritto dell’Unione

    3

    I considerando 11, 12, 18, 43, 44, 50, 56 e 60 della direttiva 2013/32 enunciano quanto segue:

    «(11)

    Onde garantire una valutazione completa ed efficiente delle esigenze di protezione internazionale dei richiedenti ai sensi della direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta [(GU 2011, L 337, pag. 9)], è opportuno che il quadro dell’Unione sulle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale si fondi sul concetto di una procedura unica.

    (20)

    Obiettivo principale della presente direttiva è sviluppare ulteriormente le norme relative alle procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale, così da istituire una procedura comune di asilo nell’Unione.

    (...)

    (18)

    È nell’interesse sia degli Stati membri sia dei richiedenti protezione internazionale che sia presa una decisione quanto prima possibile in merito alle domande di protezione internazionale, fatto salvo lo svolgimento di un esame adeguato e completo.

    (...)

    (43)

    Gli Stati membri dovrebbero esaminare tutte le domande nel merito, valutare cioè se al richiedente di cui trattasi è attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE, salvo se altrimenti previsto dalla presente direttiva, in particolare se si può ragionevolmente presumere che un altro paese proceda all’esame o fornisca sufficiente protezione. (...)

    (44)

    Gli Stati membri non dovrebbero essere tenuti a valutare il merito della domanda di protezione internazionale se si può ragionevolmente prevedere che il richiedente, per un legame sufficiente con un paese terzo definito nel diritto nazionale, chieda protezione in detto paese terzo e vi è motivo di ritenere che il richiedente sarà ammesso o riammesso in quel paese. Gli Stati membri dovrebbero procedere in tal modo solo nel caso in cui il richiedente in questione possa essere sicuro nel paese terzo interessato. Per evitare movimenti secondari di richiedenti, si dovrebbero definire principi comuni per la presa in considerazione o la designazione, da parte degli Stati membri, di paesi terzi quali paesi sicuri.

    (...)

    (50)

    È un principio fondamentale del diritto dell’Unione che le decisioni relative a una domanda di protezione internazionale (…) siano soggette a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice.

    (...)

    (56)

    Poiché l’obiettivo della presente direttiva, vale a dire l’istituzione di procedure comuni per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale (...)

    (...)

    (60)

    La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali e osserva i principi riconosciuti nella Carta. In particolare, la presente direttiva intende assicurare il pieno rispetto della dignità umana nonché promuovere l’applicazione degli articoli 1, 4, 18, 19, 21, 23, 24 e 47 della Carta e deve essere attuata di conseguenza».

    4

    L’articolo 1 della direttiva 2013/32 prevede quanto segue:

    «Obiettivo della presente direttiva è stabilire procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca della protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE».

    5

    L’articolo 12 della direttiva 2013/32, intitolato «Garanzie per i richiedenti», così recita:

    «1.   In relazione alle procedure di cui al capo III, gli Stati membri provvedono affinché tutti i richiedenti godano delle seguenti garanzie:

    (...)

    b)

    il richiedente riceve, laddove necessario, l’assistenza di un interprete per spiegare la propria situazione nei colloqui con le autorità competenti.

    c)

    (...) la possibilità di comunicare con l’[Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR)] o con altre organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza (...)

    d)

    il richiedente e, ove del caso, i suoi avvocati o altri consulenti legali conformemente all’articolo 23, paragrafo 1, abbiano accesso alle informazioni di cui all’articolo 10, paragrafo 3, lettera b), e alle informazioni fornite dagli esperti di cui all’articolo 10, paragrafo 3, lettera d), (...)

    e)

    la decisione dell’autorità accertante relativa alla domanda è comunicata al richiedente con anticipo ragionevole. (...)

    (...)

    2.   In relazione alle procedure di cui al capo V, gli Stati membri provvedono affinché tutti i richiedenti godano di garanzie equivalenti a quelle di cui al paragrafo 1, lettere da b) a e)».

    6

    L’articolo 20, paragrafo 1, della medesima direttiva così dispone:

    «Gli Stati membri dispongono che, su richiesta, siano concesse assistenza e rappresentanza legali gratuite nelle procedure di impugnazione di cui al capo V. (...)».

    7

    L’articolo 22 di detta direttiva riconosce il diritto dei richiedenti protezione internazionale all’assistenza e alla rappresentanza legali in ogni fase della procedura.

    8

    L’articolo 24 della medesima direttiva, rubricato «Richiedenti che necessitano di garanzie procedurali particolari», al paragrafo 3 prevede quanto segue:

    «Gli Stati membri provvedono affinché, qualora i richiedenti siano stati identificati come richiedenti che necessitano di garanzie procedurali particolari, essi siano forniti di sostegno adeguato per consentire loro di godere dei diritti e di adempiere gli obblighi della presente direttiva per tutta la durata della procedura d’asilo.

    (...)».

    9

    L’articolo 25 della direttiva 2013/32 riguarda le garanzie per i minori non accompagnati.

    10

    L’articolo 31 della citata direttiva, rubricato «Procedura di esame», che apre il capo III, a sua volta intitolato «Procedure di primo grado», al paragrafo 2 prevede quanto segue:

    «Gli Stati membri provvedono affinché la procedura di esame sia espletata quanto prima possibile, fatto salvo un esame adeguato e completo».

    11

    A termini dell’articolo 33 della medesima direttiva:

    «1.   Oltre ai casi in cui una domanda non è esaminata a norma del regolamento (UE) n. 604/2013 [del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (GU 2013, L 180, pag. 31)], gli Stati membri non sono tenuti ad esaminare se al richiedente sia attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95/UE, qualora la domanda sia giudicata inammissibile a norma del presente articolo.

    2.   Gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile soltanto se:

    a)

    un altro Stato membro ha concesso la protezione internazionale;

    b)

    un paese che non è uno Stato membro è considerato paese di primo asilo del richiedente a norma dell’articolo 35;

    c)

    un paese che non è uno Stato membro è considerato paese terzo sicuro per il richiedente a norma dell’articolo 38;

    d)

    la domanda è una domanda reiterata, qualora non siano emersi o non siano stati presentati dal richiedente elementi o risultanze nuovi ai fini dell’esame volto ad accertare se al richiedente possa essere attribuita la qualifica di beneficiario di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE; o

    e)

    una persona a carico del richiedente presenta una domanda, dopo aver acconsentito, a norma dell’articolo 7, paragrafo 2, a che il suo caso faccia parte di una domanda presentata a suo nome e non vi siano elementi relativi alla situazione della persona a carico che giustifichino una domanda separata».

    12

    Ai sensi dell’articolo 35 della direttiva 2013/32:

    «Un paese può essere considerato paese di primo asilo di un particolare richiedente, qualora:

    a)

    quest’ultimo sia stato riconosciuto in detto paese quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione; ovvero

    b)

    goda altrimenti di protezione sufficiente in detto paese, tra cui il fatto di beneficiare del principio di “non-refoulement”,

    purché sia riammesso nel paese stesso.

    Nell’applicare il concetto di paese di primo asilo alle circostanze particolari di un richiedente gli Stati membri possono tener conto dell’articolo 38, paragrafo 1. Il richiedente è autorizzato a impugnare l’applicazione del concetto di paese di primo asilo relativamente alle sue condizioni specifiche».

    13

    L’articolo 38 di tale direttiva è del seguente tenore:

    «1.   Gli Stati membri possono applicare il concetto di paese terzo sicuro solo se le autorità competenti hanno accertato che nel paese terzo in questione una persona richiedente protezione internazionale riceverà un trattamento conforme ai seguenti criteri:

    a)

    non sussistono minacce alla sua vita ed alla sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale;

    b)

    non sussiste il rischio di danno grave definito nella direttiva 2011/95/UE;

    c)

    è rispettato il principio di “non-refoulement” conformemente alla [Convenzione relativa allo status dei rifugiati, firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 [Recueil des traités des Nations unies, vol. 189, pag. 150, n. 2545 (1954)], come completata dal protocollo relativo allo status dei rifugiati, concluso a New York il 31 gennaio 1967, a sua volta entrato in vigore il 4 ottobre 1967 (in prosieguo: la “Convenzione di Ginevra”)];

    d)

    è osservato il divieto di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale; e

    e)

    esiste la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, per chi è riconosciuto come rifugiato, ottenere protezione in conformità della [C]onvenzione di Ginevra.

    2.   L’applicazione del concetto di paese terzo sicuro è subordinata alle norme stabilite dal diritto nazionale, comprese:

    a)

    norme che richiedono un legame tra il richiedente e il paese terzo in questione, secondo le quali sarebbe ragionevole per detta persona recarsi in tale paese;

    b)

    norme sul metodo mediante il quale le autorità competenti accertano che il concetto di paese terzo sicuro può essere applicato a un determinato paese o a un determinato richiedente. Tale metodo comprende l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un determinato richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi che possono essere considerati generalmente sicuri;

    c)

    norme conformi al diritto internazionale per accertare, con un esame individuale, se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente e che consentano almeno al richiedente di impugnare l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro a motivo del fatto che quel paese terzo non è sicuro nel suo caso specifico. Al richiedente è altresì data la possibilità di contestare l’esistenza di un legame con il paese terzo ai sensi della lettera a).

    3.   Quando applicano una decisione basata esclusivamente sul presente articolo gli Stati membri:

    a)

    ne informano il richiedente; e

    b)

    gli forniscono un documento con il quale informano le autorità del paese terzo, nella lingua di quest’ultimo, che la domanda non è stata esaminata nel merito.

    4.   Se il paese terzo non concede al richiedente l’ingresso nel suo territorio, gli Stati membri assicurano il ricorso a una procedura in conformità dei principi e delle garanzie fondamentali descritti al capo II.

    5.   Gli Stati membri comunicano periodicamente alla Commissione a quali paesi è applicato il concetto in questione a norma del presente articolo».

    14

    Ai sensi dell’articolo 46, paragrafi 1, 3, 4 e 10 della direttiva 2013/32:

    «1.   Gli Stati membri dispongono che il richiedente abbia diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso i seguenti casi:

    a)

    la decisione sulla sua domanda di protezione internazionale, compresa la decisione:

    (...)

    ii)

    di considerare la domanda inammissibile a norma dell’articolo 33, paragrafo 2;

    (...)

    3.   Per conformarsi al paragrafo 1 gli Stati membri assicurano che un ricorso effettivo preveda l’esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva 2011/95/UE, quanto meno nei procedimenti di impugnazione dinanzi al giudice di primo grado.

    4.   Gli Stati membri prevedono termini ragionevoli e le altre norme necessarie per l’esercizio, da parte del richiedente, del diritto ad un ricorso effettivo di cui al paragrafo 1. (...)

    (...)

    10.   Gli Stati membri possono stabilire i termini entro i quali il giudice di cui al paragrafo 1 esamina la decisione dell’autorità accertante».

    Diritto ungherese

    15

    L’articolo XIV, paragrafo 4, della Magyarország Alaptörvénye (Legge fondamentale dell’Ungheria), come modificata il 29 giugno 2018, prevede quanto segue:

    «Qualora né il paese di origine, né altri paesi offrano protezione, l’Ungheria garantisce il diritto di asilo, su richiesta, a coloro che non possiedono la cittadinanza ungherese e che, nel loro paese di origine o nel loro paese di residenza abituale, siano o abbiano il timore fondato di essere perseguiti per motivi di razza, nazionalità, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per le loro convinzioni religiose o politiche. La persona, non titolare della cittadinanza ungherese, arrivata nel territorio ungherese da un paese in cui non era esposta a persecuzioni o un rischio diretto di persecuzioni non può esigere di beneficiare del diritto d’asilo».

    16

    L’articolo 6, paragrafo 1, della menedékjogról szóló 2007. évi LXXX. törvény (legge n. LXXX del 2007 sul diritto di asilo), nella versione in vigore dal 1o luglio 2018 (in prosieguo: la «legge sul diritto di asilo»), prevede quanto segue:

    «L’Ungheria riconosce lo status di rifugiato allo straniero che soddisfa le condizioni definite all’articolo XIV, paragrafo 4, prima frase, della Legge fondamentale dell’Ungheria.».

    17

    L’articolo 12, paragrafo 1, della legge sul diritto di asilo è così formulato:

    «L’Ungheria concede lo status conferito dalla protezione sussidiaria allo straniero che non soddisfa le condizioni per essere riconosciuto quale rifugiato ma che rischia di andare incontro a gravi danni in caso di rimpatrio nel suo paese di origine e che non può, o per timore di tale rischio non intende, chiedere la protezione del suo paese di origine».

    18

    L’articolo 51, paragrafo 2, di detta legge prevede quanto segue:

    «La domanda è inammissibile qualora

    (...)

    e)

    esista un paese terzo che può essere considerato paese terzo sicuro per il richiedente;

    f)

    il richiedente sia arrivato in Ungheria attraversando un paese in cui egli non è esposto a persecuzioni ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 1, o al rischio di danno grave, ai sensi dell’articolo 12, paragrafo 1, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione».

    19

    Ai sensi dell’articolo 53, paragrafi 2 e 4, della legge sul diritto di asilo, il rigetto di una domanda di asilo per inammissibilità da parte dell’autorità nazionale in materia di asilo può essere impugnato dinanzi al tribunale, il quale deve pronunciarsi entro un termine di otto giorni dal ricevimento del ricorso.

    20

    L’articolo 2 del decreto governativo n. 191/2015, del 21 luglio 2015, ha redatto un elenco di paesi considerati paesi terzi sicuri. Tale elenco contiene gli Stati membri e gli Stati candidati all’adesione all’Unione europea, tra cui la Repubblica di Serbia.

    Procedimento principale e questioni pregiudiziali

    21

    Il ricorrente nel procedimento principale è un cittadino siriano di origine curda, arrivato in Ungheria in una zona di transito. Il 19 luglio 2018 egli ha presentato una domanda di protezione internazionale dinanzi all’Ufficio per l’immigrazione e l’asilo. A sostegno della sua domanda, egli ha fatto valere di voler vivere in Europa già prima della guerra, al fine di seguirvi studi di archeologia.

    22

    L’Ufficio per l’immigrazione e l’asilo ha respinto detta domanda in quanto inammissibile, sulla base dell’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo, senza procedere, pertanto, ad un esame nel merito, e ha rilevato l’inapplicabilità del principio di non respingimento al ricorrente nel procedimento principale. Pertanto, l’Ufficio per l’immigrazione e l’asilo, da un lato, ha adottato una decisione di rimpatrio nei confronti del ricorrente nel procedimento principale che obbligava quest’ultimo a lasciare il territorio dell’Unione e a ritornare nel territorio serbo e, dall’altro, ha disposto una misura di espulsione ai fini dell’esecuzione di tale decisione. Detto ufficio ha corredato la sua decisione di un divieto d’ingresso e di soggiorno per una durata di due anni.

    23

    Il ricorrente nel procedimento principale ha impugnato tale decisione dinanzi al giudice del rinvio.

    24

    Il giudice del rinvio, ritenendo che l’elenco dei motivi di inammissibilità enunciati all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 sia esaustivo e che l’articolo 51, paragrafo 2, lettera f), della legge sul diritto di asilo non possa, per il suo contenuto, essere ricondotto ad alcuno dei motivi di inammissibilità elencati in detto articolo 33, paragrafo 2, si chiede se la normativa nazionale non abbia introdotto un nuovo motivo di inammissibilità contrario al diritto dell’Unione.

    25

    Inoltre, il giudice del rinvio rileva che l’articolo 53, paragrafo 4, della legge sul diritto di asilo impone al giudice investito di un ricorso avverso una decisione che respinge per inammissibilità di una domanda di protezione internazionale di pronunciarsi entro un termine di otto giorni dal ricevimento del ricorso. Orbene, il giudice del rinvio ritiene che, tenuto conto delle circostanze individuali e delle specificità del caso di cui trattasi, un termine siffatto possa rivelarsi insufficiente per ottenere prove e determinare il contesto di fatto e, quindi, per emettere una decisione giurisdizionale correttamente motivata. Pertanto, tale giudice si interroga sulla compatibilità della normativa nazionale di cui trattasi con l’articolo 31, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 e con l’articolo 47 della Carta.

    26

    Alla luce di tali circostanze, il Fővárosi Közigazgatási és Munkaügyi Bíróság (Tribunale amministrativo e del lavoro di Budapest‑Capitale, Ungheria) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

    «1)

    Se le disposizioni relative alle domande inammissibili contenute all’articolo 33 della [direttiva 2013/32] possano essere interpretate nel senso che non ostano alla normativa di uno Stato membro in forza della quale una domanda è inammissibile nell’ambito della procedura di asilo qualora il richiedente sia arrivato in tale Stato membro, l’Ungheria, attraversando un paese in cui non è esposto a persecuzioni o al rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

    2)

    Se l’articolo 47 della [Carta] e l’articolo 31 della [direttiva 2013/32] – in considerazione altresì delle disposizioni contenute agli articoli 6 e 13 della [Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950] – possano essere interpretati nel senso che la normativa di uno Stato membro è conforme a tali disposizioni qualora preveda un termine imperativo di otto giorni per il procedimento giurisdizionale amministrativo per quanto riguarda le domande dichiarate inammissibili nel contesto dei procedimenti di asilo».

    Procedimento dinanzi alla Corte

    27

    Il giudice del rinvio ha chiesto che la presente causa fosse sottoposta al procedimento pregiudiziale d’urgenza previsto all’articolo 23 bis dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea. Il 19 settembre 2018 la Prima Sezione ha deciso, sentito l’avvocato generale, di non accogliere tale domanda.

    Sulle questioni pregiudiziali

    Sulla prima questione

    28

    Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 33 della direttiva 2013/32 debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

    29

    Ai sensi dell’articolo 33, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, oltre ai casi in cui una domanda non è esaminata a norma del regolamento n. 604/2013, gli Stati membri non sono tenuti ad esaminare se al richiedente sia attribuibile la qualifica di beneficiario di protezione internazionale a norma della direttiva 2011/95, qualora la domanda sia giudicata inammissibile a norma di detto articolo. A tale riguardo, l’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 elenca esaustivamente le situazioni in cui gli Stati membri possono considerare una domanda di protezione internazionale inammissibile (sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a., C‑297/17, C‑318/17, C‑319/17 e C‑438/17, EU:C:2019:219, punto 76).

    30

    Il carattere esaustivo dell’elenco di cui all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 si fonda sia sul tenore letterale di tale articolo, in particolare sul termine «soltanto» che precede l’elencazione dei motivi di inammissibilità, sia sulla sua finalità, consistente appunto, come già dichiarato dalla Corte, nel temperare l’obbligo dello Stato membro competente di esaminare una domanda di protezione internazionale definendo i casi nei quali una siffatta domanda è giudicata inammissibile (v., in tal senso, sentenza del 17 marzo 2016, Mirza, C‑695/15 PPU, EU:C:2016:188, punto 43).

    31

    Occorre, pertanto, verificare se si possa ritenere che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, attui uno dei motivi di inammissibilità previsti all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32.

    32

    A tal riguardo, occorre osservare che, come confermato dal governo ungherese in udienza, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale contempla due ipotesi diverse che comportano l’inammissibilità di una domanda di protezione internazionale, vale a dire, da un lato, il caso in cui richiedente sia arrivato in Ungheria attraverso uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, e, dall’altro, quello in cui il richiedente sia giunto in detto Stato membro attraverso uno Stato in cui è garantito un livello di protezione adeguato.

    33

    Alla luce del contenuto sia di tale normativa sia dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, si deve escludere, anzitutto, che i motivi di inammissibilità enunciati da detta normativa possano costituire l’attuazione di quelli previsti all’articolo 33, paragrafo 2, lettere a), d) ed e), di tale direttiva, potendo essere presi in considerazione a tal fine solo i motivi di inammissibilità relativi al paese di primo asilo e al paese terzo sicuro, enunciati, rispettivamente, alle lettere b) e c) dell’articolo 33, paragrafo 2, di detta direttiva.

    34

    In tale contesto, il governo ungherese afferma che la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale mira a completare il regime nazionale adottato per applicare il motivo di inammissibilità relativo al paese terzo sicuro, previsto all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), della direttiva 2013/32.

    35

    A tale riguardo, occorre ricordare che, a termini di tale disposizione, gli Stati membri possono giudicare una domanda di protezione internazionale inammissibile se un paese che non è uno Stato membro è considerato paese terzo sicuro per il richiedente a norma dell’articolo 38 di detta direttiva.

    36

    Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi da 42 a 45 delle sue conclusioni, dall’articolo 38 della direttiva 2013/32 risulta che l’applicazione della nozione di «paese terzo sicuro», ai fini dell’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), di tale direttiva, è subordinata al rispetto delle condizioni previste ai paragrafi da 1 a 4 di detto articolo 38.

    37

    In particolare, in primo luogo, l’articolo 38, paragrafo 1, della direttiva 2013/32 richiede che le autorità competenti degli Stati membri abbiano acquisito la certezza che il paese terzo interessato rispetta i principi esplicitamente enunciati in tale disposizione, vale a dire, sotto un primo profilo, che il richiedente protezione internazionale non deve temere né per la sua vita né per la sua libertà per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinioni politiche o appartenenza a un determinato gruppo sociale, sotto un secondo profilo, che il richiedente protezione internazionale non rischia di subire il danno grave definito nella direttiva 2011/95, sotto un terzo profilo, che è rispettato il principio di «non-refoulement» conformemente alla convenzione di Ginevra, sotto un quarto profilo, che è vietata l’adozione di misure di allontanamento in violazione del diritto a non subire torture né trattamenti crudeli, disumani o degradanti, sancito dal diritto internazionale, e, sotto un quinto profilo, che il richiedente protezione internazionale ha la possibilità di chiedere lo status di rifugiato e, se è riconosciuto come rifugiato, di ottenere protezione in conformità della Convenzione di Ginevra.

    38

    In secondo luogo, l’articolo 38, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 subordina l’applicazione della nozione di «paese terzo sicuro» alle norme stabilite nel diritto nazionale e in particolare, sotto un primo profilo, a quelle che prevedono l’esistenza di un legame tra il richiedente protezione internazionale e il paese terzo interessato tale da rendere ragionevole il rimpatrio di detto richiedente verso il medesimo paese, sotto un secondo profilo, a quelle che prevedono il metodo mediante il quale le autorità competenti accertano che la nozione di paese terzo sicuro possa essere applicata a un determinato paese o a un determinato richiedente protezione internazionale, metodo che, peraltro, deve comprendere l’esame caso per caso della sicurezza del paese per un simile richiedente e/o la designazione nazionale dei paesi considerati generalmente sicuri, e, sotto un terzo profilo, a quelle, conformi al diritto internazionale, per accertare con un esame individuale se il paese terzo interessato sia sicuro per un determinato richiedente protezione internazionale, e che consentano, in tale contesto, al richiedente di impugnare tanto l’applicazione del concetto di paese terzo sicuro rispetto alla sua situazione specifica sia l’esistenza di un suo legame con detto paese.

    39

    In terzo luogo, l’articolo 38, paragrafi 3 e 4, della direttiva 2013/32 impone agli Stati membri che eseguono una decisione basata esclusivamente sulla nozione di «paese terzo sicuro» di informarne il richiedente protezione internazionale e di fornirgli un documento che informi le autorità del paese terzo, nella lingua di quest’ultimo, che la domanda non è stata esaminata nel merito, nonché di assicurare che il richiedente possa ricorrere a una procedura in conformità dei principi e delle garanzie fondamentali di cui al capo II di tale direttiva, qualora il paese terzo non gli consenta di entrare nel suo territorio.

    40

    Occorre sottolineare che le condizioni enunciate all’articolo 38 della direttiva 2013/32 sono cumulative (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 121), ragion per cui il motivo di inammissibilità enunciato all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), di tale direttiva non può essere applicato in mancanza di una di dette condizioni.

    41

    Pertanto, è solo nei limiti in cui una normativa nazionale avente per effetto l’inammissibilità di una domanda di protezione internazionale rispetti tutte le condizioni enunciate all’articolo 38 della direttiva 2013/32 che una normativa siffatta potrebbe costituire un’applicazione del motivo di inammissibilità previsto all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), di tale direttiva.

    42

    Nel caso di specie, per quanto riguarda, in primo luogo, la condizione enunciata all’articolo 38, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, alla luce della formulazione stessa della normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale, risulta – circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare – che l’applicazione del motivo di inammissibilità relativo alla prima fattispecie contemplata da tale normativa è subordinata unicamente al rispetto, nel paese terzo interessato, di una parte soltanto dei principi enunciati all’articolo 38, paragrafo 1, di tale direttiva, dal momento che manca, in particolare, il requisito del rispetto in tale paese del principio di «non-refoulement». Pertanto, la condizione enunciata all’articolo 38, paragrafo 1, di detta direttiva non può essere soddisfatta.

    43

    Per quanto riguarda il motivo di inammissibilità vertente sulla seconda fattispecie considerata dalla normativa nazionale di cui al procedimento principale, il giudice del rinvio non ha fornito alcuna indicazione sul contenuto dell’«adeguato livello di protezione» richiesto da tale normativa e, in particolare, sulla questione se un siffatto grado di protezione comprenda il rispetto, nel paese terzo interessato, di tutti i principi enunciati all’articolo 38, paragrafo 1, della direttiva 2013/32. Spetta al giudice del rinvio appurare se ciò si verifichi.

    44

    Quanto, in secondo luogo, alle condizioni enunciate all’articolo 38, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, e, in particolare, quella relativa all’esistenza di un legame tra il richiedente protezione internazionale e il paese terzo interessato, il legame che la normativa nazionale di cui al procedimento principale stabilisce tra un siffatto richiedente e il paese terzo interessato deriva dal semplice transito di tale richiedente attraverso il territorio di detto paese.

    45

    Occorre pertanto verificare se un transito siffatto possa costituire un «legame», ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2013/32.

    46

    A tal riguardo, occorre rilevare che, come risulta dal considerando 44 e dall’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2013/32, il legame che deve esistere tra il richiedente protezione internazionale e il paese terzo interessato, ai fini dell’applicazione del motivo di inammissibilità di cui all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), di tale direttiva, deve essere sufficiente a rendere ragionevole il rientro di tale richiedente verso detto paese.

    47

    Orbene, la circostanza che un richiedente protezione internazionale sia transitato per il territorio di un paese terzo non può, di per sé sola, costituire una valida ragione per ritenere che detto richiedente possa ragionevolmente rientrare in tale paese.

    48

    Peraltro, come risulta dall’articolo 38, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, gli Stati membri devono adottare norme che prevedano non solo l’esistenza di un «legame», ai sensi di tale disposizione, ma anche il metodo mediante il quale accertare, caso per caso, sulla base delle circostanze specifiche del richiedente protezione internazionale, se il paese terzo interessato soddisfi le condizioni per essere considerato sicuro per tale richiedente, nonché la possibilità per detto richiedente di contestare l’esistenza di un siffatto legame.

    49

    Orbene, come rilevato dall’avvocato generale al paragrafo 53 delle sue conclusioni, l’obbligo imposto dal legislatore dell’Unione agli Stati membri, ai fini dell’applicazione della nozione di «paese terzo sicuro», di fissare norme del genere non potrebbe essere giustificato se il mero transito del richiedente protezione internazionale attraverso il paese terzo interessato costituisse un legame sufficiente o significativo a tal fine. Infatti, se così fosse, tali norme, al pari dell’esame individuale e della possibilità per il richiedente di contestare l’esistenza del legame che le suddette norme devono esplicitamente prevedere, sarebbero prive di qualsiasi utilità.

    50

    Da quanto precede risulta che il transito del richiedente protezione internazionale attraverso il paese terzo interessato non può costituire un «legame» ai sensi dell’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2013/32.

    51

    Di conseguenza, anche supponendo che la normativa nazionale di cui al procedimento principale soddisfi la condizione enunciata all’articolo 38, paragrafo 1, della direttiva 2013/32, qualora faccia difetto la condizione relativa al legame, enunciata all’articolo 38, paragrafo 2, lettera a), di tale direttiva, detta normativa nazionale non può comunque costituire un’applicazione del motivo di inammissibilità relativo al paese terzo sicuro, previsto all’articolo 33, paragrafo 2, lettera c), della direttiva medesima.

    52

    Infine, una normativa nazionale siffatta non può neppure costituire un’applicazione del motivo di inammissibilità relativo al paese di primo asilo, previsto all’articolo 33, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2013/32.

    53

    È infatti sufficiente rilevare che, secondo lo stesso tenore letterale dell’articolo 35, primo comma, lettere a) e b), della direttiva 2013/32, un paese può essere considerato paese di primo asilo di un determinato richiedente protezione internazionale solamente qualora, rispettivamente, quest’ultimo sia stato riconosciuto in detto paese quale rifugiato e possa ancora avvalersi di tale protezione, ovvero goda altrimenti di protezione sufficiente in detto paese, tra cui il fatto di beneficiare del principio di «non-refoulement», purché sia riammesso nel paese stesso.

    54

    Orbene, dal fascicolo sottoposto alla Corte risulta che l’applicazione del motivo di inammissibilità previsto dalla normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non è subordinata al godimento da parte del richiedente protezione internazionale, nel paese interessato, dello status di rifugiato o di una protezione sufficiente ad altro titolo, in modo da rendere inutile esaminare l’esigenza di una protezione nell’Unione.

    55

    Occorre, pertanto, concludere che non è possibile ritenere che una normativa nazionale, come quella di cui trattasi nel procedimento principale, attui uno dei motivi di inammissibilità previsti all’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32.

    56

    Alla luce delle considerazioni che precedono, occorre rispondere alla prima questione dichiarando che l’articolo 33 della direttiva 2013/32 debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

    Sulla seconda questione

    57

    In via preliminare, occorre osservare che, sebbene la seconda questione, come formulata dal giudice del rinvio, verta sull’interpretazione dell’articolo 31 della direttiva 2013/32, relativo alla procedura amministrativa di esame delle domande di protezione internazionale, tale questione si riferisce, in realtà, all’attuazione del diritto a un ricorso effettivo previsto all’articolo 46 di tale direttiva. È dunque quest’ultima disposizione, in particolare il suo paragrafo 3, che va interpretata al fine di fornire una risposta utile al giudice del rinvio.

    58

    Con la sua seconda questione, il giudice del rinvio chiede quindi, in sostanza, se l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, debba essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che impartisce al giudice, investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile, un termine di otto giorni per pronunciarsi.

    59

    L’articolo 46, paragrafo 1, della direttiva 2013/32 impone agli Stati membri di garantire il diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice avverso la decisione di rigetto di una domanda di protezione internazionale, anche contro le decisioni che dichiarano la domanda manifestamente inammissibile o infondata.

    60

    Peraltro, l’obbligo così imposto agli Stati membri di prevedere un siffatto diritto di ricorso corrisponde al diritto sancito dall’articolo 47 della Carta, intitolato «Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale», secondo cui ogni persona i cui diritti e le cui libertà garantiti dal diritto dell’Unione siano stati violati ha diritto a un ricorso effettivo dinanzi a un giudice (sentenza del 18 ottobre 2018, E.G., C‑662/17, EU:C:2018:847, punto 46 e giurisprudenza ivi citata).

    61

    Ne consegue che le caratteristiche del ricorso previsto dall’articolo 46 della direttiva 2013/32 devono essere determinate conformemente all’articolo 47 della Carta, che costituisce una riaffermazione del principio della tutela giurisdizionale effettiva (sentenza del 18 ottobre 2018, E.G., C‑662/17, EU:C:2018:847, punto 47 e giurisprudenza ivi citata).

    62

    Per quanto riguarda, in particolare, il termine di giudizio, occorre rilevare che la direttiva 2013/32 non solo non prevede norme armonizzate in materia di termini di giudizio, ma autorizza anche gli Stati membri a fissare simili termini al suo articolo 46, paragrafo 10 (sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punto 25).

    63

    Peraltro, come risulta da giurisprudenza costante della Corte, in mancanza di norme dell’Unione in materia, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità processuali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la salvaguardia dei diritti dei soggetti dell’ordinamento, in forza del principio di autonomia processuale, a condizione tuttavia che esse non siano meno favorevoli rispetto a quelle relative a situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza) e che non rendano in pratica impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell’Unione (principio di effettività) (sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punto 26 e giurisprudenza ivi citata).

    64

    Per quanto riguarda il rispetto della condizione relativa al principio di equivalenza con riferimento a un termine di giudizio come quello di cui al procedimento principale, occorre rilevare, fatte salve le verifiche incombenti al giudice del rinvio, che dal fascicolo di cui dispone la Corte non risulta – e non è stato peraltro sostenuto – che situazioni simili siano disciplinate con modalità processuali nazionali che siano più favorevoli di quelle previste per l’attuazione della direttiva 2013/32 e applicate nel procedimento principale (v., in tal senso, sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

    65

    Quanto al rispetto del principio di effettività, occorre ricordare che l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva in questione definisce la portata del diritto a un ricorso effettivo, precisando che gli Stati membri vincolati dalla medesima direttiva devono assicurare che il giudice dinanzi al quale è contestata la decisione relativa alla domanda di protezione internazionale proceda all’«esame completo ed ex nunc degli elementi di fatto e di diritto compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]» (sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punto 28 e giurisprudenza ivi citata).

    66

    A tale riguardo, occorre sottolineare che, anche nel caso di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile, il giudice investito di un siffatto ricorso è tenuto ad effettuare l’esame completo ed ex nunc di cui all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32.

    67

    Infatti, come già rilevato dalla Corte, l’espressione «se del caso», contenuta nella parte di frase «compreso, se del caso, l’esame delle esigenze di protezione internazionale ai sensi della direttiva [2011/95]», mette in evidenza il fatto che l’esame completo ed ex nunc incombente al giudice non deve necessariamente vertere sull’esame nel merito delle esigenze di protezione internazionale e può dunque riguardare l’ammissibilità della domanda di protezione internazionale, qualora il diritto nazionale lo consenta in applicazione dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32 (sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punto 115).

    68

    Inoltre, per quanto riguarda, in particolare, un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile per i motivi di inammissibilità relativi al primo paese di primo asilo o al paese terzo sicuro, di cui, rispettivamente, alle lettere b) e c) dell’articolo 33, paragrafo 2, della direttiva 2013/32, nell’ambito dell’esame completo e aggiornato incombente al giudice chiamato a pronunciarsi su un ricorso siffatto, quest’ultimo è tenuto, in particolare, a verificare se il richiedente protezione internazionale benefici di una protezione sufficiente in un paese terzo o se un paese terzo possa essere considerato paese terzo sicuro per il richiedente.

    69

    Ai fini di tale verifica, detto giudice deve esaminare rigorosamente se ciascuna delle condizioni cumulative alle quali è subordinata l’applicazione di tali motivi di inammissibilità – come quelle previste, per quanto riguarda il motivo relativo al paese di primo asilo, all’articolo 35 della direttiva 2013/32, e, per quanto riguarda il motivo relativo al paese terzo sicuro, all’articolo 38 di tale direttiva – sia soddisfatta, invitando, se del caso, l’autorità competente per l’esame delle domande di protezione internazionale a produrre qualsiasi documentazione e qualsiasi elemento di fatto che possano risultare pertinenti, e deve assicurarsi, prima di decidere sul ricorso, che il richiedente abbia avuto la possibilità di esporre di persona il proprio punto di vista sull’applicabilità del motivo d’inammissibilità alla sua situazione particolare (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punti 121124).

    70

    Inoltre, occorre ricordare, come fatto dall’avvocato generale al paragrafo 84 delle sue conclusioni, che, nell’ambito del ricorso giurisdizionale previsto all’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, un certo numero di diritti processuali specifici sono garantiti ai ricorrenti in forza dell’articolo 12, paragrafo 2, di tale direttiva, ossia il diritto a un interprete, la possibilità di comunicare in particolare con l’Alto Commissariato delle Nazioni (HCR) Unite per i rifugiati e l’accesso a talune informazioni, dell’articolo 20 di detta direttiva, vale a dire la possibilità di assistenza e rappresentanza legali gratuite, dell’articolo 22 della medesima direttiva, relativo all’accesso a un consulente legale, nonché degli articoli 24 e 25 della medesima, relativi ai diritti delle persone con esigenze specifiche e dei minori non accompagnati.

    71

    Inoltre, se il giudice investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile ritiene che un’audizione del richiedente sia necessaria per effettuare l’esame completo ed ex nunc cui è tenuto, detto giudice deve organizzare una siffatta audizione, e in tal caso il richiedente, laddove necessario, deve ricevere, durante la sua audizione da parte del giudice, l’assistenza di un interprete per spiegare la propria situazione (v., in tal senso, sentenza del 25 luglio 2018, Alheto, C‑585/16, EU:C:2018:584, punti 126128).

    72

    Nel caso di specie, la normativa nazionale di cui trattasi nel procedimento principale fissa un termine di otto giorni per pronunciarsi su un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile. Secondo il giudice del rinvio, è impossibile pronunciarsi su un simile ricorso entro gli otto giorni successivi alla ricezione dell’atto introduttivo senza violare l’obbligo di esame completo.

    73

    A tal riguardo, pur non potendosi escludere a priori che un termine di otto giorni sia adeguato nei casi più evidenti di inammissibilità, esso può rivelarsi, in talune circostanze, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 86 e 87 delle sue conclusioni, materialmente insufficiente per consentire al giudice investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile di assicurare il rispetto di tutti i diritti menzionati ai punti da 65 a 71 della presente sentenza per ciascuno dei casi sottoposti al suo esame, e così garantire il diritto a un ricorso effettivo dei richiedenti protezione internazionale.

    74

    Orbene, l’articolo 46, paragrafo 4, della direttiva 2013/32 prevede l’obbligo per gli Stati membri di stabilire termini di giudizio ragionevoli.

    75

    Pertanto, in una situazione in cui il termine impartito al giudice investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile non consenta di garantire l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione, il principio di effettività del diritto dell’Unione comporta l’obbligo per il giudice interessato di disapplicare la normativa nazionale che consideri tale termine imperativo (v., in tal senso, sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punto 34).

    76

    In ogni caso, tenuto conto dell’obiettivo globale di un trattamento quanto più rapido possibile delle domande di protezione internazionale, fissato al considerando 18 della direttiva 2013/32, l’obbligo per il giudice di disapplicare una normativa nazionale che preveda un termine di giudizio incompatibile con il principio di effettività del diritto dell’Unione non può liberarlo da qualsiasi obbligo di celerità, ma gli impone soltanto di considerare indicativo il termine impartitogli, con l’onere per il medesimo di pronunciarsi al più presto una volta superato detto termine (sentenza odierna, Bevándorlási és Menekültügyi Hivatal, C‑406/18, punti 35 e 36).

    77

    Alla luce delle suesposte considerazioni, occorre rispondere alla seconda questione dichiarando che l’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che impartisce al giudice, investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile, un termine di otto giorni per pronunciarsi, qualora tale giudice non sia in grado di assicurare, entro un simile termine, l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione.

    Sulle spese

    78

    Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

     

    Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara:

     

    1)

    L’articolo 33 della direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che consente di respingere in quanto inammissibile una domanda di protezione internazionale con la motivazione che il richiedente è arrivato nel territorio dello Stato membro interessato attraversando uno Stato in cui non è esposto a persecuzioni o a un rischio di danno grave, o in cui è garantito un adeguato livello di protezione.

     

    2)

    L’articolo 46, paragrafo 3, della direttiva 2013/32, letto alla luce dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che osta a una normativa nazionale che impartisce al giudice, investito di un ricorso avverso una decisione che respinge una domanda di protezione internazionale in quanto inammissibile, un termine di otto giorni per pronunciarsi, qualora tale giudice non sia in grado di assicurare, entro un simile termine, l’effettività delle norme sostanziali e delle garanzie processuali riconosciute al richiedente dal diritto dell’Unione.

     

    Firme


    ( *1 ) Lingua processuale: l’ungherese.

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