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Documento 61997CC0321

    Conclusioni dell'avvocato generale Cosmas del 19 gennaio 1999.
    Ulla-Brith Andersson e Susannne Wåkerås-Andersson contro Svenska staten (Stato svedese).
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Stockholms tingsrätt - Svezia.
    Art. 234 CE (ex art. 177) - Accordo SEE - Competenza della Corte - Adesione dell'Unione europea - Direttiva 80/987/CEE - Responsabilità dello Stato.
    Causa C-321/97.

    Raccolta della Giurisprudenza 1999 I-03551

    Identificatore ECLI: ECLI:EU:C:1999:9

    61997C0321

    Conclusioni dell'avvocato generale Cosmas del 19 gennaio 1999. - Ulla-Brith Andersson e Susannne Wåkerås-Andersson contro Svenska staten (Stato svedese). - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Stockholms tingsrätt - Svezia. - Art. 234 CE (ex art. 177) - Accordo SEE - Competenza della Corte - Adesione dell'Unione europea - Direttiva 80/987/CEE - Responsabilità dello Stato. - Causa C-321/97.

    raccolta della giurisprudenza 1999 pagina I-03551


    Conclusioni dell avvocato generale


    I - Introduzione

    1 Nella causa in esame la Corte è stata chiamata a pronunciarsi su tre questioni pregiudiziali poste dallo Stockholms tingsrätt (Svezia). Tali questioni sollevano tre punti importanti relativi, in primo luogo, ai limiti della competenza della Corte, in secondo luogo agli obblighi imposti dall'accordo SEE (1)a carico degli Stati AELS (EFTA), e in terzo luogo all'applicabilità del diritto comunitario nel tempo.

    II - I fatti e il procedimento a quo

    2 Le signore Ulla-Brith Andersson e Susanne Wåkerås-Andersson (in prosieguo: «le ricorrenti») prestavano lavoro come dipendenti della società Aktiebolaget Kinna Installationsbyrå (in prosieguo: «la società»), il cui fallimento veniva dichiarato il 17 novembre 1994, prima dell'adesione della Svezia alla Comunità europea. Il curatore fallimentare respingeva la domanda delle ricorrenti volta ad ottenere il pagamento dei crediti da lavoro garantiti, per via del loro stretto legame di parentela (rispettivamente moglie e madre) con l'unico azionista della società; in base alla legislazione nazionale vigente, infatti, tale circostanza escludeva il diritto all'indennizzo. Le ricorrenti proponevano ricorso per risarcimento danni contro lo Stato svedese, sostenendo che quest'ultimo fosse tenuto a risarcire i danni da esse subiti, in conseguenza della mancata trasposizione della direttiva 80/987/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro (2) (in prosieguo: «la direttiva»), che è inclusa nell'accordo SEE. Le ricorrenti invocavano, in particolare, i principi generali del diritto comunitario riconosciuti dalla Corte nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90 (3) e che costituiscono parte integrante dell'accordo SEE in virtù dell'art. 6 di quest'ultimo. Le ricorrenti ritengono, in altri termini, che l'accordo in questione attribuisca loro il medesimo diritto al risarcimento del danno, a seguito della mancata trasposizione della direttiva sulla tutela dei crediti da lavoro, di cui avrebbero beneficiato qualora la Svezia fosse stata membro dell'Unione europea al momento del fallimento del loro datore di lavoro.

    3 Secondo il diritto svedese, la decisione relativa al pagamento dei crediti da lavoro garantiti spetta al curatore fallimentare. Ai sensi dell'art. 7 del lönegarantilagen (legge svedese istitutiva di una garanzia per il pagamento dei crediti da lavoro), il pagamento in base alla garanzia era previsto per i crediti relativi alla retribuzione o ad altre prestazioni alle quali è riconosciuto un privilegio per il pagamento in forza dell'art. 12 del förmånsrättslagen (legge svedese sui crediti privilegiati). Questa disposizione - nella formulazione che aveva al momento del fallimento - prevedeva che il privilegio sui crediti non era riconosciuto al lavoratore che, per proprio conto o assieme ai propri parenti stretti, possedesse almeno un quinto dell'impresa meno di sei mesi prima dell'istanza di fallimento. Lo stesso accadeva se la quota del capitale faceva capo ad un congiunto del lavoratore.

    4 Vorrei evidenziare che l'accordo SEE prevede delle deroghe rispetto a determinate disposizioni della direttiva 80/987, in particolare per la Svezia. Dal campo di applicazione della direttiva sono esclusi il lavoratore subordinato, o i superstiti di un lavoratore subordinato, che, per proprio conto o assieme ai propri parenti stretti, sia stato proprietario di una parte consistente dell'impresa o dell'azienda del datore di lavoro e abbia avuto una notevole influenza sulle sue attività.

    Tuttavia, come ha rilevato l'organo giurisdizionale di rinvio, se la disciplina svedese in materia di garanzia per il pagamento dei crediti da lavoro fosse stata conforme alla direttiva sull'insolvenza del datore di lavoro, ivi incluse le deroghe concesse alla Svezia, le ricorrenti avrebbero avuto diritto ad un indennizzo in base alla garanzia dei crediti da lavoro. Esse non appartenevano alla categoria di lavoratori esclusi dal campo d'applicazione della direttiva, non essendo state, per proprio conto o assieme ai propri parenti stretti, proprietarie di una parte consistente dell'impresa o dell'azienda del datore di lavoro e non avendo avuto una notevole influenza sulle sue attività. Il fatto che un congiunto fosse proprietario di una parte consistente dell'impresa non limitava de iure il loro diritto all'indennizzo in base alla direttiva, anche tenuto conto delle deroghe che erano riconosciute alla Svezia. Ne discende, chiaramente, che il rifiuto da parte del curatore fallimentare di riconoscere l'indennizzo in base alla garanzia per il pagamento dei crediti da lavoro si pone in contrasto con le disposizioni della direttiva, così come integrata nell'accordo SEE. Cosa consegue a tale constatazione? Possono le ricorrenti pretendere dallo Stato svedese il risarcimento dei danni per non avere quest'ultimo adempiuto alle prescrizioni contenute nell'accordo SEE?

    5 Secondo lo Stato svedese, la pretesa delle ricorrenti sarebbe priva di fondamento giuridico, dal momento che, anteriormente all'adesione della Svezia all'Unione europea, ad essa non incombeva alcun obbligo di vigilare sulla compatibilità dell'ordinamento giuridico interno con le disposizioni del diritto comunitario, e una violazione del diritto comunitario non avrebbe potuto far sorgere il diritto di chiedere il risarcimento dei danni dinanzi ad un giudice svedese.

    III - Le questioni pregiudiziali

    6 Il giudice di rinvio ha posto le seguenti questioni pregiudiziali alla Corte:

    «1) Se l'art. 6 dell'accordo SEE debba essere interpretato nel senso che i principi giuridici formulati dalla Corte di giustizia delle Comunità europee - tra l'altro nelle cause C-6/90 e C-9/90 - sono divenuti parte integrante del diritto SEE e che pertanto uno Stato può essere tenuto al risarcimento nei confronti di un singolo per il fatto di non aver correttamente recepito, nel periodo in cui era soltanto parte contraente dell'accordo SEE e non aveva aderito all'Unione europea, la direttiva del Consiglio 20 ottobre 1980, 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro (direttiva sulla tutela dei crediti da lavoro).

    2) In caso di soluzione affermativa della questione sub 1): se l'art. 6 dell'accordo SEE debba essere interpretato nel senso che la direttiva sulla tutela dei crediti da lavoro, unitamente ai principi giuridici stabiliti dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, tra l'altro nelle cause C-6/90 e 9/90, prevalgano sul diritto nazionale, qualora lo Stato non abbia correttamente recepito la citata direttiva.

    3) In caso di soluzione negativa della questione sub 1): se l'adesione di uno Stato all'Unione europea comporti che la direttiva sulla tutela dei crediti da lavoro, unitamente ai principi giuridici stabiliti dalla Corte di giustizia delle Comunità europee nelle cause C-6/90 e C-9/90, prevalgano sul diritto nazionale anche in relazione a circostanze che si sono verificate nel periodo in cui lo Stato di cui trattasi era solo parte contraente dell'accordo SEE, ma prima della sua adesione all'Unione europea, qualora lo Stato non abbia correttamente recepito la citata direttiva».

    IV - Le disposizioni applicabili

    7 L'art. 6 dell'accordo SEE così dispone:

    «Fatti salvi futuri sviluppi legislativi, le disposizioni del presente accordo, nella misura in cui sono identiche nella sostanza alle corrispondenti norme del trattato che istituisce la Comunità economica europea e del trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell'acciaio e degli atti adottati in applicazione di questi due trattati, devono essere interpretate, nella loro attuazione ed applicazione, in conformità delle pertinenti sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia delle Comunità europee prima della data della firma del presente accordo».

    8 L'art. 7 dell'accordo SEE recita:

    «Gli atti cui è fatto riferimento o contenuti negli allegati del presente accordo o in decisioni del Comitato misto SEE sono vincolanti per le Parti contraenti e sono o saranno recepiti nei rispettivi ordinamenti giuridici interni nei seguenti modi:

    a) (...)

    b) un atto corrispondente ad una direttiva comunitaria permette alle autorità delle Parti contraenti di stabilire la forma e il mezzo di applicazione».

    9 Il protocollo 34 dell'accordo SEE, sulla facoltà per le corti e i tribunali degli Stati AELS (EFTA) di chiedere alla Corte di giustizia delle Comunità europee di pronunciarsi sull'interpretazione delle norme SEE corrispondenti a norme comunitarie, così dispone:

    «Articolo 1

    Qualora, in una causa pendente dinanzi a una corte o tribunale di uno Stato AELS (EFTA), sia sollevata una questione d'interpretazione di disposizioni dell'accordo identiche, nella sostanza, a disposizioni dei trattati che istituiscono le Comunità europee, quali modificati o completati, o degli atti adottati in virtù dei medesimi, detta corte o tribunale può, ove lo ritenga necessario, chiedere alla Corte di giustizia delle Comunità europee di pronunciarsi sulla questione.

    Articolo 2

    Gli Stati AELS (EFTA) che intendono avvalersi del presente protocollo notificano al depositario e alla Corte di giustizia delle Comunità europee in quale misura e secondo quali modalità il presente protocollo si applica alle loro corti e tribunali».

    10 Il protocollo 35 dell'accordo SEE, relativo all'attuazione delle norme SEE, è così formulato:

    «Articolo unico

    Per i casi di eventuale conflitto tra norme SEE attuate ed altre disposizioni legislative, gli Stati AELS (EFTA) si impegnano ad introdurre, se del caso, una disposizione ai sensi della quale in tali casi prevalgono le norme SEE».

    11 In virtù dell'allegato XVIII dell'accordo SEE al punto 24, la direttiva 80/987 è vincolante per gli Stati AELS (EFTA). Ai fini dell'accordo SEE, le disposizioni della direttiva s'intendono specificamente adattate al Regno di Svezia, così da escludere determinate persone dal suo campo di applicazione, in particolare «un lavoratore subordinato, o i superstiti di un lavoratore subordinato, che per proprio conto o assieme ai propri parenti stretti sia stato proprietario di una parte consistente dell'impresa o dell'azienda del datore di lavoro e abbia avuto una notevole influenza sulle sue attività».

    V - Sulla ricevibilità della prima e della seconda questione pregiudiziale

    12 I rappresentanti del governo svedese, che sono sia parti convenute nel presente procedimento sia intervenienti nel procedimento a quo, i governi norvegese e islandese, nonché la Commissione, sostengono che la Corte non è competente a pronunciarsi sulle prime due questioni pregiudiziali. Occorre subito rilevare che tali questioni non riguardano direttamente l'interpretazione del contenuto della direttiva 80/987, né un chiarimento della sentenza Francovich, ma le conseguenze per uno Stato AELS (EFTA), quale era la Svezia, derivanti dall'inosservanza degli obblighi imposti dall'accordo SEE. Può la Corte esaminare una questione simile nel quadro dell'art. 177 del trattato?

    A - La competenza della Corte a rispondere alle questioni pregiudiziali

    13 Nell'ambito di un procedimento ai sensi dell'art. 177 del trattato, la Corte può, in linea di principio, esaminare le disposizioni che, come l'art. 6 dell'accordo SEE, fanno parte di un accordo di diritto internazionale, quando la finalità ultima dell'intervento del giudice è di pervenire ad un'interpretazione del diritto comunitario nel quadro dell'ordinamento giuridico comunitario. Nel caso di specie, l'accordo internazionale costituisce parte integrante dell'ordinamento giuridico comunitario (4).

    14 Le presenti questioni pregiudiziali non rientrano in questa categoria. Esse concernono esclusivamente rapporti giuridici particolari costituitisi al di fuori dell'ordinamento giuridico comunitario per mezzo di un accordo internazionale, più precisamente l'accordo SEE, che non era una norma di diritto comunitario, e tanto meno per la Svezia, all'epoca dei fatti controversi nel procedimento principale. La differenza non è cospicua, ma è di decisiva importanza. Non si tratta di applicare le disposizioni di diritto comunitario ed i principi generali invocati dal giudice di rinvio nell'ambito dell'ordinamento giuridico comunitario. Al contrario, essi saranno applicati eventualmente nell'ambito di un altro quadro di regolamentazione giuridica, creato dall'accordo SEE, e in ogni caso nell'ordinamento giuridico di uno Stato che non era membro dell'Unione all'epoca dei fatti rilevanti (5).

    15 Vorrei inoltre sottolineare che la Corte, nel suo parere 1/91, (6) relativo al progetto di accordo SEE che le era stato sottoposto, affermò che le differenze tra quel fenomeno particolare che è il diritto comunitario e l'accordo in questione riguardano le peculiarità proprie dell'ordinamento giuridico comunitario, «i cui obiettivi trascendono lo scopo dell'accordo» (7). Da questo parere, che analizzerò più avanti, discende che gli Stati AELS (EFTA) non fanno automaticamente parte dell'ordinamento giuridico comunitario per il solo fatto di essere parti contraenti dell'accordo SEE.

    a) La giurisprudenza Dzodzi

    16 Le osservazioni suddette, tuttavia, non possono da sole giustificare il rifiuto da parte della Corte di rispondere alle prime due questioni pregiudiziali ai sensi dell'art. 177 del trattato. In certi casi, la Corte di giustizia ha esaminato questioni concernenti l'interpretazione del diritto comunitario, nonostante esse siano state sollevate nel corso di controversie estranee all'ambito di applicazione del diritto comunitario. Ritengo necessario fornire qualche indicazione sui fattori che sono alla base di questa posizione. Il denominatore comune delle decisioni della Corte rilevanti (8) a questo proposito risiede nel fatto che tali decisioni riguardano casi concernenti l'applicazione di disposizioni meramente nazionali, che rinviano al diritto comunitario o che ne riprendono il contenuto. Tali disposizioni riflettono il desiderio del legislatore nazionale di attribuire ai soggetti di diritto contemplati dal loro campo di applicazione lo stesso trattamento che è previsto nell'ordinamento giuridico comunitario.

    17 Nelle cause Thomasdünger (9) e Gmurzynsk (10) si trattava dell'interpretazione di disposizioni contenute nella Tariffa doganale comune, a cui la legislazione nazionale applicabile faceva riferimento e di cui riprendeva la formulazione.

    Nella causa Dzodzi (11) il giudice di rinvio chiedeva l'intervento della Corte di giustizia in ordine ad un caso in cui le disposizioni applicabili erano costituite da regolamenti del diritto belga, in forza dei quali la moglie di un cittadino belga deve beneficiare dello stesso trattamento che riceverebbe qualora suo marito fosse cittadino di un altro Stato membro della Comunità. La causa riguardava anche la questione se una cittadina del Togo, rimasta vedova di un cittadino belga, avrebbe avuto diritto di risiedere nel Belgio qualora suo marito fosse stato cittadino di un altro Stato membro.

    Nella causa Kleinwort Benson (12) un giudice inglese chiedeva come doveva essere interpretata la Convenzione di Bruxelles. L'occasione della richiesta era scaturita dal fatto che doveva essere applicata una legge inglese la cui formulazione era stata ispirata da questa convenzione e nella quale si prevedeva che per stabilire il significato o l'efficacia di una disposizione della legge «occorre far riferimento a ogni pertinente principio posto dalla Corte di giustizia delle Comunità europee relativamente al titolo II della Convenzione del 1968 e a ogni pertinente decisione della stessa Corte relativamente al significato o all'efficacia di ogni disposizione di tale titolo».

    Nella sentenza Fournier (13) la Corte interpretava l'espressione «stazionamento abituale» adoperata in una direttiva comunitaria che non era applicabile alla causa nel procedimento a quo, ma le cui disposizioni erano state letteralmente riprese in un accordo di diritto privato concluso tra diversi uffici nazionali di compagnie di assicurazione. Era quest'ultimo accordo che il giudice nazionale era chiamato ad interpretare e ad applicare.

    Infine, nelle cause Leur-Bloem (14) e Giloy (15) la Corte doveva pronunciarsi in via pregiudiziale sull'interpretazione di direttive in materia fiscale e doganale che non erano applicabili nella causa pendente dinanzi ai giudici nazionali, ma alle quali faceva riferimento la legislazione nazionale applicabile nelle rispettive cause.

    18 Fatta eccezione per la causa Kleinwort Benson, in tutti questi casi la Corte ha deciso di esaminare le questioni pregiudiziali. L'elemento degno di nota in queste sentenze è che la Corte ha scelto di rispondere alle domande di pronuncia pregiudiziale, nonostante gli avvocati generali abbiano proposto nelle loro conclusioni di fare il contrario.

    Nella causa Thomasdünger l'avvocato generale Mancini riteneva che la Corte non fosse competente a rispondere ai quesiti sollevati, dal momento che ciò avrebbe indirettamente comportato una valutazione delle norme giuridiche nazionali.

    Nelle cause Dzodzi e Gmurzynska, l'avvocato generale Darmon fondava la sua valutazione sul rischio che la funzione della Corte si sarebbe ridotta alla formulazione di pareri non vincolanti, mentre i giudici nazionali sarebbero sempre stati liberi di disattendere questi pareri senza conseguenze.

    L'avvocato generale Tesauro concludeva nella causa Kleinwort Benson nel senso di abbandonare la giurisprudenza Dzodzi. A sostegno di questa posizione aveva rilevato che, nonostante la precedente giurisprudenza, un'interpretazione estensiva dell'art. 177 non assicura l'uniformità necessaria nell'interpretazione del diritto comunitario, il che rappresenta l'obiettivo principale del procedimento di pronuncia pregiudiziale. In secondo luogo, una simile interpretazione frustrerebbe l'effetto vincolante delle decisioni della Corte e, in terzo luogo, presupporrebbe un controllo diretto sulla loro utilità per i giudici nazionali. Egli asseriva, tra l'altro, che la giurisprudenza Dzodzi «sul piano della teoria giuridica generale tradisce la logica del meccanismo del rinvio pregiudiziale, esaurendosi in un vero e proprio - perché tacerlo? - sviamento di procedura» (16).

    L'avvocato generale Jacobs, nelle sue conclusioni relative alle cause C-28/95 e 130/95, aderiva alle obiezioni che erano state sollevate dai suoi colleghi, gli avvocati generali testé citati. Egli si chiede preliminarmente come possa essere perseguita la finalità di assicurare l'applicazione uniforme del diritto comunitario in tutti gli Stati membri se la Corte si pronuncia in controversie nelle quali una norma comunitaria viene rilevata da uno Stato membro e trasposta in un contesto non comunitario (17). In tali circostanze «l'esatta applicazione del diritto comunitario nello Stato interessato sarebbe minacciata al massimo solo in maniera indiretta e temporanea» (18). Anzi, secondo l'avvocato generale, quando le viene chiesto di interpretare una disposizione di diritto comunitario al di fuori del suo contesto, la Corte «corre il rischio non solo di omettere di esaminare tutte le questioni rilevanti, ma anche di essere fuorviata da elementi estranei» (19) Anche se si ammettesse che la Corte possa fornire un'esatta interpretazione del diritto comunitario in una controversia che sorge in un contesto non comunitario, «non è certo che la pronuncia della Corte sia determinante per la soluzione della controversia» (20). Dopo aver descritto altre difficoltà di natura teorica e pratica legate alla suddetta interpretazione estensiva dell'art. 177, l'avvocato generale concludeva che «la Corte deve pronunciarsi solo nei casi in cui conosce il contesto di fatto e di diritto della controversia ed in cui tale contesto rientra nell'ambito delle finalità della norma comunitaria», dal momento che tale tesi è «la sola compatibile con i principi giuridici e la finalità dell'art. 177» (21).

    19 A prima vista, la Corte non sembra essere stata particolarmente impressionata dalla posizione di scetticismo mostrata dagli avvocati generali nelle loro conclusioni. Ritengo, invece, che un'analisi più approfondita delle sentenze citate riveli che, se la Corte non ha certamente abbandonato la giurisprudenza Dzodzi, essa ha tuttavia ridotto il suo ambito applicativo e ha, in ogni caso, progressivamente sottoposto la sua applicazione a condizioni più severe. L'intervento della Corte di giustizia, per la via interpretativa, in un campo che non sarebbe ragionevole considerare di interesse per l'ordinamento giuridico comunitario è stato accettato nei casi in cui il legislatore nazionale, espressamente e senza restrizioni, ha reso le disposizioni del diritto comunitario applicabili a rapporti di natura meramente interna, allo scopo di evitare discriminazioni ingiustificate e di promuovere un'applicazione uniforme del diritto, costringendo in questo modo i giudici nazionali a seguire l'interpretazione della Corte di giustizia. D'altra parte, non è accettabile che la Corte sia competente quando il rinvio del legislatore nazionale al diritto comunitario sia privo di quella completezza ed efficacia di cui si è detto, e non si traduca in un dovere assoluto per i giudici nazionali di interpretare le disposizioni interne applicabili nel senso indirettamente proposto dalla Corte di giustizia.

    20 In sintesi, la competenza della Corte si lascia individuare in via di principio in base a due assiomi fondamentali dei procedimenti di rinvio pregiudiziale, precisamente quello della cooperazione tra i giudici nazionali e la Corte di giustizia e quello dell'applicazione corretta ed uniforme del diritto comunitario. In certe ipotesi accade che la competenza della Corte fuoriesca da questi limiti e si estenda perfino ad un settore che non era espressamente citato negli atti del diritto comunitario originario, per perseguire un altro obiettivo, quello di una generale armonizzazione del diritto.

    21 Quest'ultima osservazione trova sostegno nella recente sentenza Hermès (22) relativa all'interpretazione dell'accordo internazionale sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio che la Comunità ha concluso nel quadro dell'Accordo che istituisce l'Organizzazione mondiale del commercio. La Corte si ritenne competente ad interpretare le disposizioni di quell'accordo nonostante la controversia non riguardasse il diritto comunitario. La Corte dichiarò in proposito che «quando una disposizione trova applicazione sia per situazioni che rientrano nel diritto internazionale sia per situazioni che rientrano nel diritto comunitario, esiste un interesse comunitario certo a che, per evitare future divergenze di interpretazione, questa disposizione riceva un'interpretazione uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui essa verrà applicata» (23).

    b) La giurisprudenza Dzodzi e la presente causa

    22 Nella presente causa non si provvederà a fornire una valutazione globale della citata giurisprudenza né a darne un giudizio, sia esso positivo o negativo.

    Vorrei tuttavia evidenziare che tale estensione dell'ambito applicativo delle pronunce pregiudiziali della Corte non costituisce un rimedio universale per la difesa e la promozione del diritto comunitario.

    Non sarebbe saggio ricorrere sistematicamente a questa giurisprudenza e, quindi, attribuire alla Corte la nuova funzione di valutare se disposizioni diverse dal diritto comunitario abbiano il suo medesimo contenuto. Il tentativo di pervenire ad una simile uniformità potrebbe rivelarsi controproducente per il diritto comunitario soprattutto se, per motivi di armonizzazione, si cessasse di riconoscere la dovuta importanza a quel fenomeno particolare che è il diritto comunitario.

    23 Comunque, non mi sembra affatto necessario riverificare la giurisprudenza Dzodzi per giustificare la mia opinione in base alla quale la Corte non deve esaminare le questioni pregiudiziali sollevate. Ritengo, infatti, che tali questioni non ricadano nel campo di applicazione di questa giurisprudenza. Inoltre, esse non riguardano direttamente la direttiva 80/987 o la giurisprudenza Francovich, ma concernono, invece, l'interpretazione dell'art. 6 dell'accordo SEE in combinato disposto sia con la direttiva 80/987 sia con la giurisprudenza Francovich, perché si stabiliscano le modalità di applicazione di queste norme comunitarie di rango giurisprudenziale e di diritto scritto al di fuori del campo d'azione dell'ordinamento giuridico comunitario.

    24 1) La mia prima obiezione riguardo all'opportunità di rispondere alle questioni pregiudiziali sollevate riguarda l'utilità della risposta della Corte. In base a costante giurisprudenza, il procedimento ai sensi dell'art. 177 del trattato ha come scopo quello di fornire risposte che i giudici nazionali possano utilizzare per risolvere le controversie del procedimento principale. D'altra parte, la Corte di giustizia non ha mai, neppure nell'ambito della giurisprudenza Dzodzi, esaminato le questioni che le sono state sottoposte qualora sia manifesto «che la disposizione di diritto comunitario sottoposta all'interpretazione della Corte non può essere applicata» (24). Ritengo che il caso di specie sia contemplato da quest'eccezione, poiché le questioni pregiudiziali sollevate hanno come scopo l'incorporazione di elementi costitutivi dell'ordinamento giuridico comunitario nel diritto di uno Stato che non ha aderito a quest'ordinamento giuridico.

    L'argomento suesposto è certamente esatto, ma non è tuttavia del tutto soddisfacente da un punto di vista metodologico e questo per due ordini di ragioni. In primo luogo, spetta ai giudici nazionali stabilire l'opportunità di un rinvio pregiudiziale e, in secondo luogo, è possibile pervenire alla conclusione che l'inapplicabilità nel procedimento principale delle disposizioni di diritto comunitario e della giurisprudenza richiamati dal giudice svedese nella causa in questione costituiscano un dato «manifesto» solo se si procede all'analisi delle questioni di merito congiuntamente all'esame della ricevibilità delle questioni pregiudiziali. In altri termini, occorre valutare la causa nel merito per affermare fino a che punto sia «manifesto» che la giurisprudenza Francovich non sia applicabile nel contesto a cui si riferisce il giudice di rinvio. L'analisi di tali questioni già allo stadio dell'esame della ricevibilità delle stesse appare problematica da un punto di vista metodologico e non si lascia neppure giustificare da motivi pratici, dal momento che ciò presuppone che le questioni siano già state valutate nel merito.

    25 2) Esiste un altro ostacolo alla ricevibilità delle questioni pregiudiziali che mi sembra essere di maggiore peso. I quesiti sollevati nel caso di specie si distinguono da quelli che sono stati esaminati dalla Corte nel quadro della giurisprudenza Dzodzi per un aspetto decisivo. Nel presente caso, il giudice nazionale non è interessato all'interpretazione di una norma di diritto comunitario che egli stesso possa trasporre in una controversia che è sorta al di fuori dell'ordinamento giuridico comunitario, adeguandosi alle indicazioni e alle limitazioni previste dalla disposizione non comunitaria applicabile in questa controversia. Piuttosto, il giudice nazionale chiede direttamente in quale modo, in quale misura e con quale forza egli debba applicare le norme di diritto comunitario al di fuori dell'ordinamento giuridico comunitario. Ma tale quesito non rientra tra le competenze della Corte. Nella sentenza Dzodzi, si dice espressamente che «la competenza della Corte è tuttavia limitata unicamente al vaglio delle disposizioni del diritto comunitario. Nel risolvere le questioni sottopostele dai giudici nazionali essa non può tener conto del sistema generale delle disposizioni di diritto interno le quali nel rinviare al diritto comunitario determinano l'ampiezza del rinvio. I limiti fissati dal legislatore nazionale all'applicazione del diritto comunitario a situazioni puramente interne, cui si applica solo per il tramite della legge nazionale, vanno presi in considerazione giusta il diritto interno e sono pertanto di esclusiva competenza dei giudici dello Stato membro» (25).

    26 L'applicazione della giurisprudenza suddetta porta alle seguenti conseguenze nella causa in esame. Le prime due questioni pregiudiziali non riguardano l'interpretazione né della direttiva 80/987 né della giurisprudenza Francovich, ma mirano ad ottenere chiarezza in merito all'applicabilità della giurisprudenza Francovich alla causa nel procedimento a quo, attraverso l'interpretazione e l'applicazione dell'art. 6 dell'accordo SEE. Questo articolo, come l'accordo nella sua interezza, conserva una doppia natura dovuta al fatto di essere nello stesso tempo una norma comunitaria ed una norma extracomunitaria. Con riguardo alle questioni pregiudiziali sollevate nel caso di specie, l'articolo non va visto come una disposizione di diritto comunitario, ma come una norma di un accordo internazionale che è stato trasposto nell'ordinamento giuridico svedese conformemente alle norme di diritto interno e di diritto internazionale pubblico, in ragione del fatto che la Svezia è membro dell'AELS (EFTA), e non perché è membro dell'Unione. Il giudice di rinvio è il solo ad essere competente a determinare, tenendo conto della sistematica delle norme giuridiche svedesi e del diritto internazionale pubblico, in quale misura e con quale forza l'art. 6 dell'accordo SEE - sempre nella sua qualità di norma non comunitaria - comporti un'integrazione del diritto comunitario (e in particolare della direttiva 80/987 e della giurisprudenza Francovich). La Corte di giustizia non può interferire in tale questione, neppure nel quadro della giurisprudenza Dzodzi.

    27 Contro questo ragionamento, si potrebbe obiettare che esso non prende sufficientemente in considerazione l'esigenza di un'interpretazione uniforme dell'art. 6 dell'accordo SEE, in particolare perché l'articolo in questione mira proprio ad assicurare che le norme del diritto comunitario siano interpretate in modo uniforme. Nelle succitate sentenze Leur-Bloem e Hermès la Corte ha espressamente chiarito che «quando una disposizione trova applicazione sia per situazioni che rientrano nel diritto internazionale sia per situazioni che rientrano nel diritto comunitario», vale a dire che ha una doppia natura, come è il caso dell'art. 6 dell'accordo SEE, «esiste un interesse comunitario certo a che, per evitare future divergenze di interpretazione, le disposizioni o le nozioni riprese dal diritto comunitario ricevano un'interpretazione uniforme, a prescindere dalle condizioni in cui verranno applicate» (26). Detto ragionamento, in base al quale la Corte non è competente a rispondere alle prime due questioni pregiudiziali, in ragione del fatto che esse non fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario, ma sono collegate esclusivamente al sistema generale degli ordinamenti giuridici degli Stati AELS (EFTA) e del diritto internazionale pubblico, sembra contrastare con la filosofia che ha ispirato le sentenze della Corte nelle cause Leur-Bloem e Hermès. In tali cause, la necessità di un'interpretazione uniforme sembrava costituire un motivo sufficiente per giustificare la competenza della Corte ad interpretare una norma con doppia natura (comunitaria ed extracomunitaria), nonostante le inevitabili differenze riguardo al livello al quale doveva essere applicata la norma interpretata.

    28 A mio avviso, la posizione manifestata dalla Corte nelle suddette sentenze non è peraltro inconciliabile con la soluzione proposta nella presente causa. Occorre dapprima ricordare che l'obiettivo finale di pervenire ad un'interpretazione uniforme non ha carattere assoluto. La Corte di giustizia è ben consapevole del fatto che cercare di pervenire all'armonizzazione per via interpretativa presenta determinati limiti ed è per questa ragione che essa ha rifiutato di pronunciarsi sulle modalità e sui limiti dell'applicabilità delle norme che era stata chiamata ad interpretare in un ambito esterno rispetto all'ordinamento giuridico comunitario. E' inoltre importante ricordare la singolarità della causa in esame. Le prime due questioni pregiudiziali non riguardano solo l'interpretazione di una disposizione di natura sia comunitaria che extracomunitaria, cioè l'art. 6 dell'accordo SEE, ma pongono anche dei quesiti relativi all'applicazione di questa disposizione e dei suoi effetti in un ordinamento esterno alla Comunità. Questa commistione tra interpretazione ed applicazione è di per sé sufficiente a fondare l'incompetenza della Corte.

    In altri termini, la Corte di giustizia ha in alcuni casi limitati accettato di interpretare disposizioni che al di fuori dell'ordinamento giuridico comunitario potrebbero avere un'applicazione diversa rispetto a quella che riceverebbero all'interno di esso. Tuttavia, la Corte non può svolgere la sua funzione interpretativa in base all'art. 177 nei casi in cui, in pratica, la questione sollevata ha come scopo la definizione di come una o più norme del diritto comunitario vadano applicate in un ambito che si trova al di fuori del campo di applicazione del diritto comunitario. Per tale motivo, che è particolarmente significativo nella presente controversia, bisognerebbe evitare di interpretare l'art. 6 dell'accordo SEE secondo la prospettiva che si pone alla base delle prime questioni pregiudiziali.

    29 3) Il ragionamento di cui sopra esclude che si proceda all'esame delle prime due questioni pregiudiziali nella presente causa, senza perciò nulla togliere all'applicabilità della giurisprudenza Dzodzi in futuro per chiarire disposizioni dell'accordo SEE per via interpretativa e ciò anche quando queste disposizioni debbano applicarsi al di fuori dell'ordinamento giuridico comunitario. Certamente a questi fini occorre che l'interpretazione e l'applicazione delle disposizioni in questione non siano intrecciate nel modo in cui lo sono nella causa di specie. Qualora la Corte dovesse ritenere più corretto da un punto di vista giuridico escludere in modo più categorico la possibilità di esaminare questioni pregiudiziali che mirino ad ottenere un'interpretazione dell'accordo SEE e che sono sollevate da un organo giurisdizionale di uno Stato membro che ha aderito all'accordo, vorrei esporre il seguente argomento a titolo sussidiario.

    30 In primo luogo, la giurisprudenza Dzodzi concerneva, nel suo insieme, cause nelle quali le difficoltà interpretative riguardavano il diritto interno di uno Stato membro. In tali casi, è particolarmente forte la necessità dell'interpretazione uniforme di una disposizione applicabile nell'ambito sia del diritto comunitario che dell'ordinamento giuridico di uno Stato membro. Tale giurisprudenza mira più precisamente a scongiurare quella situazione poco auspicabile che vede soggetti di diritto in uno Stato membro ricevere un trattamento diverso sul piano giuridico secondo che il loro caso sia regolato o no dal diritto comunitario, nonostante le norme giuridiche applicabili in entrambi i casi siano simili o identiche. L'armonizzazione delle legislazioni - la quale include ovviamente anche l'interpretazione delle leggi - ha grande importanza nell'economia del trattato e svolge un ruolo fondamentale nell'integrazione europea. Non si tratta tuttavia di un'armonizzazione generica e indefinita delle legislazioni, ma essa si colloca proprio nel rapporto tra i diritti nazionali degli Stati membri e il diritto comunitario. La necessità di un'interpretazione uniforme non ha la medesima portata quando l'armonizzazione mira alla parità di trattamento di soggetti di diritto non all'interno dell'«ambito» della Comunità (questo «ambito» include i soggetti di diritto che sono sottoposti sia al diritto comunitario sia ai diritti nazionali degli Stati membri), ma al di fuori di detto ambito.

    Nella causa in esame, quanto detto comporta che, anche se le disposizioni contenute nell'accordo SEE, e in particolare l'art. 6 di tale accordo, possono far ritenere che ci sia un forte bisogno di un'applicazione uniforme di quelle norme del diritto comunitario che costituiscono il «diritto SEE», la necessità di un'interpretazione uniforme delle norme che vanno applicate all'interno degli Stati membri è ancora più forte. Ritengo pertanto che la giurisprudenza Dzodzi non vada considerata o applicata in casi come quello in esame. In ogni caso, quegli obiettivi che finora hanno giustificato un'estensione della competenza interpretativa della Corte in cause dove le disposizioni di interesse comunitario erano applicabili all'interno dell'ordinamento giuridico di uno Stato membro non possono essere invocati per una corrispondente estensione in questo caso.

    31 In secondo luogo, ho evidenziato che l'interpretazione pregiudiziale di disposizioni del diritto comunitario che non sono direttamente applicabili alla controversia nel procedimento a quo è possibile quando una norma non comunitaria faccia espressamente rinvio a tali disposizioni, direttamente e senza limitazioni, in vista di assicurare che determinati rapporti giuridici siano regolati in modo uniforme e a condizione che il giudice di rinvio sia tenuto a seguire l'interpretazione della Corte. Devono essere rispettate entrambe le condizioni. Anche se si ritenesse - dopo l'esame nel merito delle questioni pregiudiziali - soddisfatta la prima condizione, non è detto che lo sia anche la seconda. Non esiste, infatti, nessuna norma nel diritto svedese, o nell'accordo SEE (27), che impone al giudice di rinvio di attenersi all'eventuale risposta della Corte riguardo alle questioni controverse, dal momento che una tale risposta non verrebbe fornita nell'ambito dell'ordinamento giuridico comunitario (28). E' evidente che non sarebbe possibile ritenere che la circostanza per cui, in base all'art. 6 dell'accordo SEE, occorre rifarsi alla giurisprudenza della Corte - almeno a quella elaborata fino al momento dell'entrata in vigore dell'accordo - sia sufficiente ad introdurre un tale obbligo in capo al giudice di rinvio rispetto alla risposta che la Corte è richiesta di fornire con riferimento alle prime due questioni pregiudiziali.

    32 L'analisi fin qui svolta dimostra che le questioni giuridiche sollevate nelle prime due questioni pregiudiziali non sono di natura tale da poter essere esaminate dalla Corte nel quadro di un procedimento ai sensi dell'art. 177 del trattato.

    B - L'accordo SEE come possibile base giuridica della competenza della Corte ad esaminare le questioni pregiudiziali

    33 Indipendentemente dalla fondatezza del ragionamento di cui sopra, la Corte non può basare la sua competenza sull'accordo SEE. Come la Commissione ha giustamente osservato, una valutazione d'insieme del contenuto e della struttura di quest'accordo rivela che la Corte di giustizia delle Comunità europee non può essere ritenuta competente in casi come quello in esame. L'interpretazione dell'art. 6 dell'accordo SEE, che ha rilievo per la risposta alle prime due questioni pregiudiziali, sembra, infatti, essere di competenza esclusiva della Corte AELS (EFTA), almeno quando tale interpretazione riguarda l'applicazione di quest'accordo da parte di uno Stato AELS (EFTA). In base all'art. 34 dell'accordo tra gli Stati AELS (EFTA) sull'istituzione di un organo di vigilanza e di una corte di giustizia, quest'ultima è competente a fornire pareri consultivi sull'interpretazione dell'accordo SEE, vale a dire a stabilire se tale accordo è stato recepito correttamente negli ordinamenti giuridici interni degli Stati AELS (EFTA).

    34 Conformemente all'art. 107 dell'accordo SEE e al relativo protocollo 34, i giudici degli Stati AELS (EFTA) possono chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi su una questione di interpretazione di disposizioni dell'accordo SEE identiche a disposizioni di diritto comunitario (29) in presenza di due condizioni, una di natura formale, l'altra sostanziale. In primo luogo, la competenza della Corte di giustizia delle Comunità europee è limitata a quelle disposizioni dell'accordo SEE «identiche, nella sostanza, a disposizioni dei trattati che istituiscono le Comunità europee, quali modificati o completati, o degli atti adottati in virtù dei medesimi». In secondo luogo, uno Stato AELS (EFTA) che intenda avvalersi di questa possibilità deve notificare alla Corte di giustizia delle Comunità europee «in quale misura e secondo quali modalità il presente protocollo si applica alle loro corti e tribunali». Indipendentemente dal fatto se è stato soddisfatto il primo requisito, è chiaro che ciò non è avvenuto per la condizione formale consistente nella notificazione preventiva. La Svezia non si è mai avvalsa della possibilità di attribuire alla Corte di giustizia delle Comunità europee la competenza a rispondere alle prime due questioni pregiudiziali ai sensi del protocollo 34.

    35 Ci si potrebbe chiaramente chiedere come debbano essere risolte le difficoltà interpretative menzionate nell'accordo SEE nel caso in cui uno Stato AELS (EFTA), come era la Svezia, aderisca all'Unione europea. Quest'ipotesi è stata regolata in un accordo separato, stipulato a Bruxelles il 28 settembre 1994, relativo alle misure transitorie per il periodo successivo all'adesione di alcuni Stati AELS (EFTA) all'Unione europea. L'accordo attribuisce alla Corte AELS (EFTA) la competenza solo per un certo periodo che era già spirato quando le questioni pregiudiziali furono poste alla Corte di giustizia. Ritengo tuttavia che il fatto che la Corte AELS (EFTA) sia incompetente ratione temporis ad esaminare le questioni in esame - almeno in base alle disposizioni contenute nell'accordo del 28 settembre 1994 - non può essere tale da giustificare la competenza della Corte di giustizia delle Comunità europee. Quest'ultima, infatti, è in ogni caso incompetente ratione materiae (30). Se pure la Svezia lo desiderasse, allo stadio attuale lo Stato svedese non potrebbe più avvalersi del protocollo 34 per attribuire alla Corte la competenza ad interpretare le norme dell'accordo SEE, perché non fa più parte dell'AELS (EFTA) (31).

    36 Ritengo pertanto che la Corte non sia competente a rispondere alle prime due questioni pregiudiziali.

    VI - La risposta alle prime due questioni pregiudiziali

    37 E' evidente che le indicazioni su come rispondere a tali questioni sono fornite a mero titolo sussidiario. Comincerò con il delineare il quadro delle questioni pregiudiziali. L'elemento decisivo è costituito dalla questione se i principi della giurisprudenza Francovich sulla responsabilità civile di uno Stato sono divenuti parte integrante del «diritto SEE» ai sensi dell'art. 6 dell'accordo SEE e se questi principi prevalgono sul diritto nazionale di uno Stato AELS (EFTA) che ha firmato quest'accordo.

    A - Osservazioni preliminari

    38 Vorrei anzitutto rilevare che un'eventuale risposta affermativa a tali questioni non è necessariamente priva di base giuridica. L'art. 6 dell'accordo SEE dispone, infatti, espressamente che le disposizioni contenute nell'accordo, nella misura in cui sono «identiche nella sostanza» alle corrispondenti norme del diritto comunitario primario e derivato, devono essere interpretate, nella loro attuazione ed applicazione, «in conformità delle pertinenti sentenze pronunciate dalla Corte di giustizia delle Comunità europee prima della data della firma del presente accordo». Le disposizioni in materia di tutela dei crediti da lavoro contenute nella direttiva 80/987 sono senza alcun dubbio identiche a quelle che sono riportate nell'allegato XVIII dell'accordo SEE, che rinvia direttamente alla direttiva 80/987. A questo si aggiunge che la giurisprudenza Francovich, che discende dalla sentenza che la Corte pronunciò il 19 novembre 1991 nelle cause riunite C-6/90 e C-9/90 (32), è stata elaborata prima della firma dell'accordo SEE, come prescrive l'art. 6 di quest'ultimo. La sentenza Francovich riguardava, infine, un caso di non corretto recepimento della direttiva 80/987 nel diritto interno di uno Stato membro, vale a dire una questione che in diritto ed in fatto è simile a quella della causa nel procedimento principale (33).

    39 In queste circostanze (e purché la Corte si ritenga competente) occorre ricercare la migliore interpretazione dell'art. 6 dell'accordo SEE. In favore di un'interpretazione estensiva è possibile sostenere alcuni argomenti, che giustificherò qui di seguito e che potrebbero far ritenere che, in forza dell'art. 6, i rapporti giuridici creati dall'accordo SEE comprendano perfino gli elementi fondamentali dell'ordinamento giuridico comunitario, sotto la veste dei principi del primato del diritto comunitario e dell'applicabilità diretta, del concetto dell'acquis communautaire e - cosa che interessa in particolare la causa in esame - della giurisprudenza Francovich.

    40 Dovrebbe potersi ritenere (34) che l'art. 6 dell'accordo SEE - come tra l'altro anche le disposizioni contenute nella direttiva 80/987 visto che gli allegati dell'accordo vi fanno rinvio - costituiscano parte integrante dell'ordinamento giuridico comunitario (35) dal momento che rientrano in un accordo di diritto internazionale che la Comunità ha stipulato con Stati terzi. Gli elementi costitutivi di quest'ordinamento giuridico, e cioè il primato dell'ordinamento giuridico, l'efficacia diretta e, più generalmente, la giurisprudenza della Corte, che rientrano in quello che convenzionalmente è chiamato acquis communautaire, possono pertanto trovare collocazione in un corpo normativo come l'accordo SEE, a condizione che tale possibilità sia prescritta in una disposizione specifica dell'accordo internazionale in questione (art. 6 dell'accordo SEE).

    41 Questa posizione è suffragata anche dal fatto che il raggiungimento di un'interpretazione uniforme delle disposizioni del diritto comunitario integrate in quest'accordo rappresenta l'obiettivo fondamentale dell'art. 6 ed è tenuto in grande considerazione dagli Stati firmatari, com'è confermato da una serie di disposizioni contenute nell'accordo SEE. Pertanto è possibile sostenere che la Corte, in qualità di garante dell'interpretazione uniforme delle norme comunitarie e per far sì che una determinata norma giuridica di origine comunitaria - nel caso di specie la direttiva sulla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro - sia sempre interpretata ed applicata nello stesso modo, debba optare per la soluzione che comporta minori divergenze interpretative, indipendentemente dal campo di applicazione della norma. Ciò vale a maggior ragione quando la Corte ha già accettato di andare molto lontano in materia di ricevibilità delle questioni pregiudiziali (36). E' evidente che la soluzione più attraente, se si considera la necessità di un'interpretazione uniforme, consiste nel concepire l'acquis communautaire, almeno così come appare alla luce della giurisprudenza elaborata fino al giorno prima della firma dell'accordo SEE, come parte integrante di quest'accordo e ritenere che esso vada considerato nell'interpretazione e nell'applicazione delle disposizioni in esso contenute.

    42 Queste considerazioni generali non sono tuttavia sufficienti per fornire una risposta alle prime due questioni pregiudiziali. Al di là della parentela apparente e della similitudine delle disposizioni in questione dell'accordo SEE e di certe parti dell'ordinamento giuridico comunitario, occorre prendere in considerazione il loro contenuto e a tale proposito bisogna attenersi ai criteri che la Corte ha definito per l'interpretazione degli accordi internazionali.

    B - Criteri interpretativi individuati dalla giurisprudenza

    43 A questo riguardo, occorre verificare come la Corte ha proceduto quando si è trattato di esaminare disposizioni contenute in un accordo internazionale che la Comunità ha stipulato con Stati terzi. Anche se la Corte di giustizia in certi casi ha ritenuto che l'interpretazione di una disposizione comunitaria debba essere estesa fino a comprendere una disposizione simile o identica di diritto internazionale (37), in altre circostanze essa non ha ritenuto possibile o opportuna una simile estensione (38). Da questa giurisprudenza discende che la risposta al quesito relativo all'estensibilità dell'interpretazione di una norma comunitaria fino a comprendere una disposizione dalla formulazione corrispondente, simile o identica, tra l'altro si fonda sul fine perseguito da ciascuna disposizione vista nel proprio contesto. Pertanto dovrebbe essere attribuito particolare peso alla comparazione, da un lato, tra il fine ed il contesto generale dell'accordo di diritto internazionale e, dall'altro, tra il fine ed il contesto del trattato.

    44 Tale posizione giurisprudenziale è seguita anche nel parere 1/91 relativo all'accordo SEE di cui ora mi accingo a trattare. In questo parere è fatto anche richiamo all'art. 31 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati 23 maggio 1969, in base al quale un trattato deve essere interpretato «seguendo il senso ordinario da attribuire ai suoi termini nel loro contesto ed alla luce del suo oggetto e del suo fine» (39).

    45 Per stabilire il contenuto e gli effetti giuridici delle disposizioni dell'art. 6 dell'accordo SEE e della direttiva 80/987 - nel caso in cui quest'ultima debba essere applicata solo nell'ambito dell'accordo SEE - occorre procedere ad una valutazione d'insieme di quest'accordo. Una tale valutazione d'insieme, congiuntamente ad una comparazione tra l'accordo SEE e il diritto comunitario nonché l'ordinamento giuridico comunitario nella sua interezza, consente di stabilire i criteri in base ai quali è possibile determinare il significato dell'art. 6 dell'accordo SEE e gli effetti giuridici che derivano ad uno Stato AELS (EFTA) dal mancato recepimento della direttiva 80/987 che costituisce parte integrante dell'accordo SEE.

    C - Comparazione tra l'accordo SEE ed il diritto comunitario

    46 Il governo francese e le parti ricorrenti nel procedimento principale sostengono nelle loro osservazioni scritte e orali che l'accordo SEE vincola gli Stati AELS (EFTA) firmatari alla Comunità europea in un modo talmente stretto che ne deriva una quasi-assimilazione di questi Stati all'ordinamento giuridico comunitario. Di conseguenza, l'accordo SEE non potrebbe essere considerato come un ordinario accordo di diritto internazionale, ma occuperebbe una posizione particolare ed avrebbe un contenuto altrettanto speciale quanto la posizione e la relazione degli Stati AELS (EFTA) contraenti nei confronti della Comunità. L'art. 6 dell'accordo SEE integrerebbe in modo espresso e senza riserve tutta la giurisprudenza della Corte elaborata fino alla firma dell'accordo nel sistema giuridico che si è soliti chiamare «diritto SEE». Tale diritto comporterebbe un'estensione del campo di applicazione delle norme comunitarie fino a comprendere Stati che non sono membri della Comunità e avrebbe il medesimo contenuto che tali norme hanno nell'ordinamento giuridico comunitario. Essi hanno perfino invocato l'art. 7 dell'accordo SEE, che riguarda l'obbligo di recepire determinate direttive comunitarie negli ordinamenti giuridici interni degli Stati AELS (EFTA). Da questa disposizione deducono l'esistenza di un obbligo per questi Stati di incorporare effettivamente e completamente l'acquis communautaire nei loro ordinamenti giuridici interni. L'ampiezza di quest'obbligo sarebbe limitato ai settori specifici a cui si riferisce l'accordo SEE. Tale obbligo sarebbe invece illimitato nel senso che include tutta la giurisprudenza elaborata dalla Corte in tali settori. Infine, secondo il governo francese e le parti ricorrenti, i principi del primato del diritto comunitario e dell'efficacia diretta, che valgono all'interno dell'ordinamento giuridico comunitario, costituirebbero anche parte integrante dell'accordo SEE in ragione dello scopo particolare di quest'accordo e delle caratteristiche del sistema giuridico creato dall'accordo per raggiungere una concordanza con il diritto comunitario.

    47 La mia posizione si muove tuttavia in direzione opposta. La Corte ha espresso il medesimo orientamento nel citato parere 1/91 (40). In tale parere, la Corte ritenne necessario confrontare gli obiettivi ed il contenuto dell'accordo SEE, da una parte, con gli obiettivi ed il contenuto del diritto comunitario, dall'altra, prima di rispondere ai quesiti che erano stati sollevati. Si espresse quindi nei seguenti termini: l'accordo SEE «ha per oggetto l'applicazione di un regime di libero scambio e di concorrenza nei rapporti economici e commerciali tra le parti contraenti. Per quanto riguarda la Comunità, invece, il regime di libero scambio e di concorrenza (...) si è sviluppato e si inserisce nell'ordinamento giuridico comunitario, i cui obiettivi trascendono lo scopo dell'accordo» (41) Esiste pertanto un'innegabile differenza di ordine teleologico tra l'accordo SEE e il trattato CE. Mentre la libera circolazione e la libera concorrenza costituivano una finalità di per sé per l'accordo SEE, esse rappresentavano per la Comunità soltanto un mezzo per realizzare un obiettivo più lontano, come la creazione di un mercato interno, l'introduzione di un'unione economica e monetaria e la costituzione concreta dell'Unione europea.

    48 Finanche il contesto generale in cui si collocano gli obiettivi dell'accordo SEE si distingue dal contesto in cui sono perseguiti quelli comunitari. Nel parere 1/91 la Corte ha dichiarato che «(...) lo Spazio EE deve essere realizzato sulla base di un trattato internazionale che crea, in sostanza, solo diritti ed obblighi fra le parti contraenti e che non prevede alcun trasferimento di poteri sovrani in favore degli organi intergovernativi da esso istituiti. Per contro, il Trattato CEE, benché sia stato concluso in forma d'accordo di diritto internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto. Come risulta dalla giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, i Trattati comunitari hanno instaurato un ordinamento giuridico di nuovo genere, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, in settori sempre più ampi, ai loro poteri sovrani e che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini (...). Le caratteristiche fondamentali dell'ordinamento giuridico comunitario costituito sono, in particolare, la sua preminenza sui diritti degli Stati membri e l'efficacia diretta di tutta una serie di norme che si applicano ai cittadini di tali Stati nonché agli Stati stessi» (42).

    49 Sembra così che le somiglianze sostanziali tra il SEE e l'ordinamento giuridico comunitario, fatte espressamente valere dal governo francese e implicitamente anche dalle parti ricorrenti nel procedimento principale, non esistano, dal momento che sono contraddette dalle differenze fondamentali tra i due sistemi giuridici, cioè il sistema dell'accordo SEE, da una parte, e il sistema della Comunità, dall'altra. Dal brano del parere della Corte appena citato discende a contrario che le caratteristiche essenziali dell'ordinamento giuridico comunitario, vale a dire il principio del primato (sul diritto nazionale) e dell'efficacia diretta, sono propri di quel fenomeno particolare che è la Comunità e non valgono per il sistema giuridico creato dall'accordo SEE. Neppure la giurisprudenza Francovich, che è indissolubilmente legata a questi principi fondamentali, può di conseguenza essere trasposta all'ambito dell'accordo SEE, indipendentemente da quanto è prescritto nell'art. 6 dello stesso.

    50 Il succitato parere 1/91 della Corte non è stato contraddetto dal parere 1/92 (43) e costituisce, a mio avviso, un motivo sufficiente per dare una risposta negativa alle questioni pregiudiziali (44). Vorrei comunque formulare per completezza le seguenti osservazioni.

    51 L'accordo SEE contiene disposizioni che impongono agli Stati AELS (EFTA) determinati obblighi al fine di osservare le norme di origine comunitaria che sono state integrate in quest'accordo. Tali disposizioni, tuttavia, non vincolano le parti contraenti in modo altrettanto forte ed ampio quanto le corrispondenti disposizioni del diritto comunitario originario vincolano gli Stati membri della Comunità. Un esempio tipico di questo è l'art. 7 dell'accordo SEE che in questo accordo svolge lo stesso ruolo dell'art. 189 del trattato CE. A differenza di quanto avviene nell'art. 189 del trattato CE, l'art. 7 dell'accordo SEE non prevede che i regolamenti contenuti negli allegati debbano essere «direttamente applicabili» negli Stati AELS (EFTA). Sembra quindi che il principio per cui determinate norme giuridiche debbano essere direttamente applicabili nell'ordinamento giuridico interno, che costituisce una delle pietre miliari del diritto comunitario, sia assente nel sistema giuridico dell'accordo SEE.

    52 Allo scopo di risolvere eventuali conflitti tra norme SEE attuate ed altre disposizioni legislative, il protocollo 35 dell'accordo SEE prevede che gli Stati AELS (EFTA) «si impegnano ad introdurre, se del caso, una disposizione ai sensi della quale in tali casi prevalgono le norme SEE». Da ciò discende a contrario che le norme SEE non prevalgono automaticamente nell'ordinamento giuridico interno degli Stati AELS (EFTA); per tali Stati si tratta invece di un obbligo derivante da un accordo internazionale, la cui esecuzione può rendere necessari dei provvedimenti ad hoc.

    53 In altri termini, l'accordo SEE si presenta come un accordo di diritto internazionale che crea diritti ed obblighi tra le parti contraenti in questo campo (quello del diritto internazionale pubblico) conformemente ad una logica giuridica «dualistica». All'accordo manca pertanto quel necessario carattere sopranazionale che è tipico dell'ordinamento giuridico comunitario. Il «diritto SEE» non è dunque integrato nel diritto interno, né esiste una interazione tra i due che possa essere paragonata con quanto accade nel caso del sistema comunitario. Questo accordo non comporta alcuna rinuncia ai propri poteri sovrani da parte degli Stati contraenti, né un abbandono della logica «dualistica» che domina in questi Stati conformemente alla dottrina classica del diritto internazionale pubblico.

    54 In sintesi, la violazione di una norma contenuta nell'accordo SEE commessa da uno Stato AELS (EFTA) - come la Svezia nel caso di specie - può comportare una responsabilità contrattuale di questo Stato in base al diritto internazionale pubblico, ma non può attribuire ad un singolo, che sia stato leso da tale infrazione, il diritto di chiedere nei confronti dello Stato il risarcimento del danno, invocandone la responsabilità extracontrattuale in base ai principi che la Corte di giustizia delle Comunità europee nella sentenza relativa alle cause riunite C-6/90 e C-9/90 (45) ha specificamente elaborato per l'ordinamento giuridico comunitario.

    VII - Sulla terza questione pregiudiziale

    55 La terza questione pregiudiziale non pone problemi per quanto riguarda la sua ricevibilità, dal momento che rientra sicuramente nel diritto comunitario. Essa riguarda l'applicazione delle norme comunitarie nel tempo. Più precisamente, concerne l'applicabilità della direttiva 80/987 e dei principi generali, elaborati nella sentenza Francovich, anche a circostanze verificatesi in un momento in cui lo Stato in questione non aveva aderito all'Unione europea.

    56 Come è disposto dall'art. 166 dell'Atto relativo alle condizioni di adesione del Regno di Norvegia, della Repubblica d'Austria, della Repubblica di Finlandia e del Regno di Svezia (46), le direttive comunitarie sono vincolanti per questi Stati dal momento della loro adesione all'Unione europea, salvo che sia previsto un altro termine per la loro trasposizione nel diritto interno. In ogni caso, l'atto di adesione non prevede alcuna efficacia retroattiva, né delle direttive né di altre norme del diritto comunitario.

    57 A questo riguardo mi sembra necessario fornire qualche indicazione generale sull'efficacia delle norme nel tempo (47). In primo luogo non bisogna confondere efficacia retroattiva ed efficacia immediata di una norma. Tale distinzione va effettuata con riferimento alla dimensione temporale dei rapporti disciplinati dalla norma in questione (48). L'efficacia retroattiva consiste nel fatto che la norma si applica a rapporti che si sono definitivamente stabiliti prima della sua entrata in vigore (49). L'efficacia immediata, che si esercita anch'essa in linea di principio conformemente alla regola tempus regit actum, consiste nel fatto che la norma si applica a rapporti ancora in corso (50). Ne discende che il campo di applicazione di una norma nel tempo include gli effetti futuri di rapporti in corso, sorti nel passato, ma che non si sono definitivamente consolidati prima dell'entrata in vigore della norma.

    58 In secondo luogo, occorre in ogni caso verificare in quale momento si è definitivamente stabilito un rapporto giuridico, perché questo criterio appare decisivo per la scelta della norma giuridica applicabile. In questo contesto non è priva di interesse l'operazione consistente nel verificare la dimensione temporale dei rapporti giuridici ed in particolare nel tracciare una distinzione tra rapporti istantanei e rapporti di durata (51). Nella prima ipotesi, il rapporto sorge e si consolida nello stesso ed unico momento, ragione per cui è molto facile individuare la norma applicabile. Nel secondo caso, trascorre un certo tempo tra il momento in cui il rapporto nasce e quello in cui si definisce ed è probabile che nel frattempo siano intervenuti dei cambiamenti nel diritto positivo, il che potrebbe condurre ad una scelta errata della base giuridica. In ogni caso quello che più importa, come già ho evidenziato, è verificare quale norma era vigente nel momento in cui il rapporto giuridico si è definitivamente consolidato.

    59 I criteri su indicati sono stati anche considerati nella giurisprudenza della Corte. Ne darò ora quattro esempi.

    60 Nella sentenza Suffritti (52) le parti ricorrenti nel procedimento principale erano degli ex dipendenti dimessisi per il mancato pagamento delle loro retribuzioni da parte di società italiane in seguito dichiarate fallite. Benché il termine per il recepimento della direttiva 80/987 non fosse ancora scaduto al momento dei fatti della controversia, le parti ricorrenti invocarono comunque questa direttiva al fine di ottenere il risarcimento dall'organismo statale di previdenza sociale. La Corte constatava che «il termine per la trasposizione della direttiva 80/987 scadeva solo il 23 dicembre 1983 e che tanto le dichiarazioni di insolvenza quanto la cessazione dei rapporti di lavoro di cui trattasi nelle cause principali si sono verificate in date anteriori alla scadenza del suddetto termine», e ha ritenuto che «di conseguenza, i lavoratori non possono far valere le disposizioni della direttiva per evitare l'applicazione di talune disposizioni della legge nazionale» (53).

    Nella causa Vaneetveld (54) la parte ricorrente nel procedimento principale era stata vittima di un incidente stradale il 2 maggio 1988 e invocava la direttiva 84/5/CEE (55) a motivo della richiesta di risarcimento del danno. La Corte ricordava che «una direttiva può essere fatta valere dai singoli dinanzi ai giudici nazionali solo dopo la scadenza del termine fissato per la sua recezione nell'ordinamento nazionale» (56) e concludeva che gli Stati membri avevano l'obbligo di applicare le disposizioni pertinenti della direttiva «solo per la copertura assicurativa dei sinistri avvenuti a partire dal 31 dicembre 1988» (57), vale a dire il giorno di scadenza del termine per la trasposizione della direttiva 84/5.

    La causa Saldanha e MTS (58) riguardava una disposizione del codice di procedura civile austriaco, in base alla quale, qualora un cittadino di un altro Stato membro voglia agire in giudizio, egli ha l'obbligo di depositare una somma destinata a garantire il pagamento delle spese processuali (cautio iudicatum solvi). In considerazione dell'efficacia diretta dell'art. 6 del trattato CE, la Corte concludeva che tale disposizione era vincolante «per la Repubblica d'Austria fin dalla data dell'adesione, sicché da questo momento si applica agli effetti delle situazioni sorte prima dell'adesione di detto Stato membro alle Comunità. Una norma processuale che operi una discriminazione in base alla cittadinanza non può quindi più venir opposta, a partire dalla data d'adesione, ai cittadini di un altro Stato membro, sempreché detta norma rientri nella sfera di applicazione ratione materiae del Trattato CE» (59) Vorrei evidenziare che la Corte faceva questa dichiarazione nonostante la persona interessata alla quale era stata applicata la legge austriaca, in base ai fatti del procedimento principale, avesse promosso l'azione prima dell'adesione della Repubblica d'Austria alle Comunità europee e aveva già depositato la garanzia controversa.

    Nella recente sentenza Kuusijärvi (60) la questione pregiudiziale riguardava l'applicabilità del regolamento n. 1408/71 (61) ad una persona che, al momento dell'entrata in vigore di detto regolamento in Svezia, vi risiedeva in stato di disoccupazione, dopo un breve periodo di impiego in un momento in cui la Svezia non era ancora membro dell'Unione europea. La Corte ritenne che «la circostanza che una siffatta persona fosse già in situazione di disoccupazione alla data di entrata in vigore del regolamento n. 1408/71 nello Stato membro di cui trattasi e vi percepisse delle prestazioni di disoccupazione sulla base di un'occupazione che essa vi aveva svolto prima di tale data non è tale da sottrarla alla sfera di applicazione ratione personae del regolamento» (62). A questo riguardo, la Corte aveva fatto riferimento all'art. 94 del regolamento, che prevede espressamente l'acquisizione di un diritto in virtù di tale regolamento anche se si riferisce ad un evento verificatosi prima della data della sua entrata in vigore nello Stato membro in questione, e al fatto che ogni periodo di assicurazione e, eventualmente, ogni periodo di occupazione o di residenza compiuto sotto la legislazione di uno Stato membro prima della data di entrata in vigore del regolamento in questo Stato membro è preso in considerazione per la determinazione dei diritti acquisiti in conformità delle disposizioni del regolamento stesso.

    61 Si potrebbe per sbaglio concludere che la Corte sia assai ben disposta ad applicare il diritto comunitario ai nuovi Stati membri, relativamente a fatti che si sono verificati prima della loro adesione alla Comunità. Ciò sarebbe tuttavia un evidente errore. Le quattro sentenze appena citate riflettono esattamente la stessa logica: la norma comunitaria si applica in linea di principio ex nunc e occorre in ogni singolo caso chiedersi se i rapporti giuridici oggetto del procedimento pendente dinanzi al giudice nazionale fossero già consolidati al momento della sua entrata in vigore.

    Nella causa Suffritti la situazione giuridica a cui si riferiva la norma comunitaria, vale a dire l'insolvenza del datore di lavoro, si era definitivamente consolidata nel momento, precedente alla scadenza del termine per la trasposizione della direttiva, in cui tale insolvenza si era verificata.

    Nella causa Vaneetveld i rapporti giuridici contemplati dalla direttiva erano gli incidenti stradali. In quest'occasione la Corte ritenne, giustamente, che il momento rilevante per la scelta della norma applicabile deve essere quello in cui si è verificato l'incidente. In entrambi i casi si trattava di rapporti giuridici temporalmente delimitati e rispetto ai quali non era assolutamente difficile stabilire il momento in cui si erano definiti.

    In base alla sentenza Saldanha, invece, né la presentazione di un ricorso né la decisione di un giudice di disporre la costituzione di una garanzia creano da un punto di vista economico rapporti giuridici consolidati. Nel momento in cui è proposto un ricorso sulla base del diritto nazionale, si creano dei rapporti giuridici che persistono per tutta la durata del processo e che non si definiscono prima della conclusione di quest'ultimo. Giustamente, quindi, la Corte aveva accolto l'argomentazione della parte che aveva contestato la garanzia richiesta, nonostante quest'ultima fosse stata pretesa prima dell'adesione dell'Austria alla Comunità. La risposta della Corte sarebbe sicuramente stata diversa qualora il procedimento dinanzi al giudice nazionale si fosse già concluso e la decisione del giudice di rinvio fosse passata in cosa giudicata prima dell'adesione dell'Austria alla Comunità.

    Per quanto riguarda la sentenza Kuusijärvi, la posizione della Corte, che tra l'altro era fondata sull'espressa volontà dell'autore del regolamento n. 1408/71, è pienamente giustificata. I rapporti giuridici che nascono dall'adesione al sistema di sicurezza sociale, in ragione dell'occupazione o della residenza di una persona, per quanto riguarda il diritto di quest'ultima a prestazioni di sicurezza sociale, sono definitivamente consolidati a partire dal momento in cui la persona in questione soddisfa le condizioni che sono poste per la concessione del diritto in questione, o eventualmente, a partire dal momento della presentazione della domanda corrispondente da parte della persona interessata. Il fatto che i diritti invocati dal ricorrente sulla base del regolamento n. 1408/71, in un ricorso che era stato presentato dopo l'entrata in vigore di detto regolamento in Svezia, riguardassero periodi di residenza o di impiego che si erano compiuti prima dell'adesione di questo Stato alla Comunità, non comporta che il regolamento non potesse ricevere applicazione in quel caso. Non sarebbe neppure corretto osservare che la Corte, rispondendo in questo modo alle questioni pregiudiziali sollevate in tale causa, avrebbe attribuito o riconosciuto efficacia retroattiva alle disposizioni contenute nel regolamento n. 1408/71.

    62 Vorrei ora analizzare le circostanze di diritto e di fatto della causa nel procedimento principale alla luce di questa giurisprudenza. Ritengo che il metodo più opportuno consista nel partire dalla finalità della direttiva 80/987 che è di garantire il pagamento dei crediti da lavoro dei lavoratori esistenti nel momento in cui sopraggiunge l'insolvenza del datore di lavoro. L'elemento determinante per l'applicabilità della direttiva è, come nella causa Suffritti, il verificarsi dell'insolvenza. Nella causa in esame questa situazione giuridica si è creata, ha acquisito il suo carattere definivo e si è quindi trovata consolidata al più tardi quando fu dichiarato il fallimento della società il 17 novembre 1994, vale a dire in un periodo precedente l'adesione della Svezia alla Comunità. A questa data, tuttavia, la direttiva 80/987 non era applicabile, almeno non in forza del diritto comunitario, perché questa direttiva ha cominciato ad avere effetto in Svezia (in forza del diritto comunitario) solo dopo il 1 gennaio 1995 quando quest'ultima ha aderito alla Comunità. Ritengo pertanto che si debba dare una risposta negativa anche alla terza questione pregiudiziale.

    VIII - Conclusione

    63 Alla luce di quanto in precedenza esposto, propongo alla Corte di rispondere alle questioni pregiudiziali nel modo seguente:

    1) La Corte non è competente a rispondere alle prime due questioni pregiudiziali.

    2) Le situazioni di fatto che si sono definitivamente consolidate prima dell'adesione di uno Stato all'Unione europea non rientrano, in linea di principio, nel campo di applicazione delle norme del diritto comunitario. Pertanto la direttiva del Consiglio 80/987/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro, non è applicabile alle situazioni di fatto che sono divenute definitive prima dell'adesione della Svezia all'Unione europea. Le conseguenze giuridiche derivanti da un non corretto recepimento di questa direttiva nell'ordinamento giuridico interno non sono pertanto applicabili alle situazioni di fatto che si sono consolidate prima dell'adesione della Svezia all'Unione europea.

    (1) - Accordo sullo Spazio Economico Europeo (GU 1994, L 1, pag. 1).

    (2) - GU 1980, L 283, pag. 23.

    (3) - Sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a. (Racc. pag. I-5357).

    (4) - Sentenza 30 aprile 1974, causa 181/73, Haegeman (Racc. pag. 449).

    (5) - Quest'osservazione può rivelarsi di notevole rilievo. Gli accordi internazionali conclusi tra la Comunità e Stati terzi finora esaminati dalla Corte nell'ambito di procedimenti pregiudiziali, in quanto ritenuti parte integrante dell'ordinamento giuridico comunitario, riguardavano casi relativi all'applicazione di questi accordi da parte degli Stati membri all'interno della Comunità. La controversia pendente dinanzi al giudice nazionale mostrava, in altri termini, quegli indispensabili elementi di «rilevanza comunitaria» che sono richiesti perché una questione pregiudiziale possa essere considerata riguardare una norma di diritto comunitario. V. le sentenze 29 aprile 1982, causa 17/81, Pabst & Richarz KG (Racc. pag. 1331) sulla compatibilità di un'imposta sui prodotti alcolici importati in Germania con l'accordo di associazione tra la CEE e la Grecia; 9 febbraio 1982, causa 270/80, Polydor (Racc. pag. 329) sulla compatibilità di una restrizione all'importazione di dischi nel Regno Unito con l'accordo di associazione tra la CEE e il Portogallo; 26 ottobre 1982, causa 104/81, Kupferberg (Racc. pag. 3641) sulla compatibilità di un trattamento doganale di un prodotto importato in Germania con l'accordo di associazione CEE-Portogallo; 16 luglio 1992, causa C-163/90, Legros (Racc. pag. I-4625) sulla compatibilità di un trattamento doganale su automobili importate in Francia con l'accordo di associazione tra la CEE e la Svezia.

    (6) - Parere 14 dicembre 1991 (Racc. pag. I-6079).

    (7) - Punto 16 del succitato accordo (v. nota 6).

    (8) - V. anche la sentenza nel caso Hermès citata alla nota 21.

    (9) - Sentenza 26 settembre 1985, causa 166/84 (Racc. pag. 3001).

    (10) - Sentenza 8 novembre 1990, causa C-231/89 (Racc. pag. I-4003).

    (11) - Sentenza 18 ottobre 1990, cause riunite C-297/88 e C-197/89 (Racc. pag. I-3763).

    (12) - Sentenza 28 marzo 1995, causa C-346/93 (Racc. pag. I-615).

    (13) - Sentenza 12 novembre 1992, causa C-73/89 (Racc. pag. I-5621).

    (14) - Sentenza 17 luglio 1997, causa C-28/95 (Racc. pag. I-4161).

    (15) - Sentenza 17 luglio 1997, causa C-130/95 (Racc. pag. I-4291).

    (16) - Paragrafo 27 delle conclusioni.

    (17) - Paragrafo 47 delle conclusioni.

    (18) - Paragrafo 49 delle conclusioni.

    (19) - Paragrafo 52 delle conclusioni.

    (20) - Paragrafo 56 delle conclusioni.

    (21) - Paragrafo 75 delle conclusioni.

    (22) - Sentenza 16 giugno 1998, causa C-53/96 (Racc. pag. I-3603).

    (23) - Punto 32 della sentenza.

    (24) - Punto 40 della sentenza Dzodzi, citata alla nota 11.

    (25) - Punto 42 della sentenza Dzodzi, citata alla nota 11.

    (26) - Punto 32 della sentenza Hermès (citata alla nota 22) e punto 32 della sentenza Leur-Bloem (citata alla nota 14).

    (27) - A questo riguardo v. infra, paragrafo 33 ss.

    (28) - Al momento dell'adesione della Svezia all'Unione europea, lo Stato s'impegnò ad adeguarsi alle decisioni della Corte nel quadro dell'ordinamento giuridico comunitario e non a quelle adottate al di fuori di esso.

    (29) - L'introduzione di una specifica base giuridica per dare agli Stati AELS (EFTA) la possibilità di rivolgersi alla Corte di giustizia comporta, a contrario, che una tale possibilità non discende direttamente dall'art. 177 del trattato. Peraltro l'art. 177 contempla solo «[giurisdizioni] di uno degli Stati membri», vale a dire una categoria nella quale non rientrano le giurisdizioni degli Stati AELS (EFTA).

    (30) - Non sussiste neppure alcun motivo per ritenere che questa duplice incompetenza possa rappresentare una forma di diniego di giustizia. Esiste, infatti, in ogni caso un giudice competente, quello nazionale. Poiché né la Corte di giustizia né la Corte AELS (EFTA) sono competenti, spetta al giudice nazionale statuire sulle questioni giuridiche che sono alla base delle prime due questioni pregiudiziali.

    (31) - Non è privo d'importanza il fatto che l'atto di adesione imponeva alla Svezia di lasciare l'AELS (EFTA) nello stesso momento in cui aderiva all'Unione europea.

    (32) - V. la nota 3.

    (33) - In ogni caso, quest'ultimo elemento non riveste alcuna rilevanza. Il quesito se la giurisprudenza Francovich debba applicarsi ad un caso in cui una disposizione del «diritto SEE» identica ad una disposizione contenuta in una direttiva comunitaria è stata recepita in modo scorretto avrebbe potuto essere sollevato con riferimento a qualunque direttiva indicata negli allegati dell'accordo SEE.

    (34) - Sempre nell'ipotesi, naturalmente, che la Corte non aderisca alla mia posizione già esposta, e cioè che, in ragione delle circostanze di fatto e di diritto del procedimento principale, l'accordo SEE, che deve essere esaminato dal giudice nazionale, non costituisce una norma di diritto comunitario e non fa neppure parte dell'ordinamento giuridico comunitario.

    (35) - Sentenza Haegeman (citata alla nota 4).

    (36) - V. l'analisi già svolta, paragrafo 16 e seguenti.

    (37) - V. le sentenze Pabst & Richarz KG e Legros (citate alla nota 5).

    (38) - V. le sentenze Polydor e Kupferberg (citate alla nota 5).

    (39) - V. sentenza 1_ luglio 1993, causa C-312/91, Metalsa (Racc. pag. I-3751).

    (40) - Supra, nota 6.

    (41) - Punti 15 e 16 del parere 1/91 (citato alla nota 6).

    (42) - Punti 20 e 21 del parere 1/91 (citato alla nota 6).

    (43) - Parere della Corte 10 aprile 1992, 1/92 (Racc. pag. I-2825) sul progetto di accordo SEE, come modificato a seguito del primo parere della Corte.

    (44) - A questo proposito può essere opportuno citare la posizione del Tribunale di primo grado nella sentenza 22 gennaio 1997, causa T-115/94, Opel Austria (Racc. pag. II-39) secondo la quale, quando la Corte ha «dichiarato che l'obiettivo dell'uniformità nell'interpretazione ed applicazione del diritto nel SEE confliggeva con le divergenze esistenti tra le finalità ed il contesto dell'accordo, da un lato, e quelli del diritto comunitario, dall'altro, tale constatazione è stata effettuata nell'ambito dell'esame del sistema giurisdizionale prospettato dall'accordo SEE al fine di accertare se quest'ultimo fosse tale da rimettere in questione l'autonomia dell'ordinamento giuridico comunitario (...)» (punto 109). Se questa frase significa che le conclusioni del parere 1/91 riguardavano solo il particolare sistema giurisdizionale previsto dal progetto di accordo SEE, allora la mia posizione è errata. A mio avviso, il ragionamento della Corte nel parere 1/91, a proposito delle differenze di fondo tra il sistema SEE e quello comunitario, ha carattere generale.

    Il Tribunale di primo grado ha inoltre chiarito nella medesima sentenza che «l'accordo SEE implica un'integrazione avanzata, i cui obiettivi vanno oltre quelli di un semplice accordo di libero scambio» e che «lo scopo dell'accordo SEE è del pari quello di estendere al SEE il diritto comunitario da far intervenire nei settori coperti dall'accordo, a mano a mano che tale diritto sia creato, si sviluppi o si modifichi (...)» (punto 107).

    Ritengo del tutto condivisibile quest'interpretazione. Essa non può tuttavia essere intesa nel senso di implicare che debbano essere applicate tutte le norme comunitarie, e nello stesso modo, nell'ambito del «diritto SEE». L'uniformità legislativa e interpretativa che è auspicata dall'accordo SEE è limitata dalle differenze tra l'ordinamento giuridico comunitario e quest'accordo. La sentenza citata del Tribunale di primo grado va in ogni caso letta alla luce del particolare quadro giuridico di quella causa. Al Tribunale di primo grado era stato chiesto di chiarire fino a che punto l'art. 10 dell'accordo SEE fosse identico agli artt. 12, 13, 16 e 17 del trattato CE, che vietano i dazi su importazioni e esportazioni e qualsiasi tassa di effetto equivalente. In quest'ambito, il Tribunale di primo grado ha ritenuto giustamente che era senz'altro possibile pervenire all'auspicata uniformità normativa ed interpretativa e che l'art. 10 dell'accordo SEE, in ragione dell'art. 6 dello stesso accordo, doveva essere interpretato conformemente alla giurisprudenza relativa agli artt. 12, 13, 16 e 17 del trattato CE così come si presentava prima della firma dell'accordo SEE.

    (45) - V. la sentenza Francovich (citata alla nota 6).

    (46) - GU 1994, C 241, pag. 21.

    (47) - In merito v. C. Yannakopoulos, La notion de droit acquis en droit administratif français, Paris, L.G.D.J. (Collection Bibliothèque de droit public, vol. n. 188), 1997, nei brani indicati qui di seguito.

    (48) - Ibidem, paragrafi 348 e seguenti.

    (49) - Ibidem, paragrafo 354 e paragrafi 765 e seguenti.

    (50) - Ibidem, paragrafo 356 e paragrafi 865 e seguenti.

    (51) - Ibidem, paragrafi 635 e seguenti.

    (52) - Sentenza 3 dicembre 1992, cause riunite C-140/91, C-141/91, C-278/91 e C-279/91 (Racc. pag. I-6337).

    (53) - Punti 11 e 12 della sentenza Suffritti (citata alla nota 52).

    (54) - Sentenza 3 marzo 1994, causa C-316/93 (Racc. pag. I-763).

    (55) - Seconda direttiva del Consiglio 30 dicembre 1983, 84/5/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli (GU 1984, L 18, pag. 17).

    (56) - Punto 16 della sentenza.

    (57) - Punto 18 della sentenza.

    (58) - Sentenza 2 ottobre 1997, causa C-122/96 (Racc. pag. I-5325).

    (59) - Punto 14 della sentenza.

    (60) - Sentenza 11 giugno 1998, causa C-275/96 (Racc. pag. I-3419).

    (61) - Regolamento (CEE) del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità (GU L 149, pag. 2).

    (62) - Punto 23 della sentenza.

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