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Documento 61998CC0240

Conclusioni dell'avvocato generale Saggio del 16 dicembre 1999.
Océano Grupo Editorial SA contro Roció Murciano Quintero (C-240/98) e Salvat Editores SA contro José M. Sánchez Alcón Prades (C-241/98), José Luis Copano Badillo (C-242/98), Mohammed Berroane (C-243/98) e Emilio Viñas Feliú (C-244/98).
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Juzgado de Primera Instancia nº 35 de Barcelona - Spagna.
Direttiva 93/13/CEE - Clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori - Clausola derogativa dalla competenza - Potere del giudice di esaminare d'ufficio l'illiceità di tale clausola.
Cause riunite C-240/98 a C-244/98.

Raccolta della Giurisprudenza 2000 I-04941

Identificatore ECLI: ECLI:EU:C:1999:620

61998C0240

Conclusioni dell'avvocato generale Saggio del 16 dicembre 1999. - Océano Grupo Editorial SA contro Roció Murciano Quintero (C-240/98) e Salvat Editores SA contro José M. Sánchez Alcón Prades (C-241/98), José Luis Copano Badillo (C-242/98), Mohammed Berroane (C-243/98) e Emilio Viñas Feliú (C-244/98). - Domanda di pronuncia pregiudiziale: Juzgado de Primera Instancia nº 35 de Barcelona - Spagna. - Direttiva 93/13/CEE - Clausole vessatorie nei contratti stipulati con i consumatori - Clausola derogativa dalla competenza - Potere del giudice di esaminare d'ufficio l'illiceità di tale clausola. - Cause riunite C-240/98 a C-244/98.

raccolta della giurisprudenza 2000 pagina I-04941


Conclusioni dell avvocato generale


1 Con ordinanze, di identico contenuto, del 31 marzo e del 1_ aprile 1998 il Juzgado de Primera Instancia di Barcellona ha posto alla Corte un quesito pregiudiziale in merito all'interpretazione della direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (in prosieguo: la «direttiva») (1). Si tratta della prima occasione in cui la Corte viene chiamata a pronunciarsi sulla direttiva ora citata. In particolare, il giudice remittente chiede se il sistema di protezione che la direttiva garantisce ai consumatori comporti che il giudice, nel decidere su una controversia che concerne l'asserito inadempimento di un contratto concluso tra un professionista e un consumatore, possa valutare d'ufficio il carattere abusivo di una clausola inserita nel contratto stesso. Nella fattispecie si tratta della clausola che attribuisce al giudice della sede dell'impresa la competenza esclusiva a decidere sulle controversie relative all'applicazione di un contratto di compravendita.

La normativa comunitaria

2 La direttiva ha per oggetto il ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti le clausole abusive contenute nei contratti stipulati tra un professionista e un consumatore (art. 1, n. 1).

Ai sensi dell'art. 2, per «professionista» deve intendersi qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività professionale, sia essa pubblica o privata, e per «consumatore» qualsiasi persona che agisce per fini che non rientrano nella sua attività professionale.

3 La direttiva ha come obiettivo quello di garantire, negli ordinamenti degli Stati membri, una tutela minima del consumatore, lasciando agli Stati membri la possibilità di prevedere un livello di protezione più elevato mediante disposizioni nazionali più severe di quelle previste dalla direttiva (12_ e 17_ `considerando'; art. 8).

Quanto al suo ambito di applicazione, essa intende disciplinare le sole clausole contrattuali non negoziate individualmente; ai sensi dell'art. 3, n. 2, «si considera che una clausola non sia stata oggetto di negoziato individuale quando è stata redatta preventivamente, in particolare nell'ambito di un contratto di adesione, e il consumatore non ha di conseguenza potuto esercitare alcuna influenza sul suo contenuto». La stessa disposizione, al paragrafo successivo, precisa che «il fatto che taluni elementi di una clausola o che una clausola isolata siano stati oggetto di negoziato individuale non esclude l'applicazione del presente articolo alla parte restante di un contratto, qualora una valutazione globale porti alla conclusione che si tratta comunque di un contratto di adesione». Si aggiunge poi, al terzo paragrafo, che «qualora il professionista affermi che una clausola standardizzata è stata oggetto di negoziato individuale, gli incombe l'onere della prova».

4 La direttiva contiene una definizione di carattere generale delle clausole abusive. All'art. 3, n. 1, si prevede che una clausola contrattuale, che non è stata oggetto di negoziato individuale, «si considera abusiva se, malgrado il requisito della buona fede, determina, a danno del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto».

L'art. 4 aggiunge che, senza pregiudizio per l'art. 7, «il carattere abusivo di una clausola contrattuale è valutato tenendo conto della natura dei beni o servizi oggetto del contratto e facendo riferimento, al momento della conclusione del contratto, a tutte le circostanze che accompagnano detta conclusione e a tutte le altre clausole del contratto o di un altro contratto da cui esso dipende». Tale valutazione, «non verte né sulla definizione dell'oggetto principale del contratto, né sulla perequazione tra il prezzo e la remunerazione, da un lato, e i servizi o i beni che devono essere forniti in cambio, dall'altro, purché tali clausole siano formulate in modo chiaro e comprensibile».

5 Ai fini della concreta individuazione delle clausole che determinano un significativo squilibrio a danno del consumatore, la direttiva elenca, nell'allegato, le clausole che possono essere dichiarate abusive; tale elencazione ha un carattere meramente indicativo e non esaustivo e lascia agli Stati membri il compito di integrarla o formularla in termini più restrittivi all'interno della loro legislazione nazionale (17_ `considerando' e art. 3, n. 3).

Tra le clausole previste dall'allegato rientrano quelle che hanno per oggetto o per effetto di «sopprimere o limitare l'esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore, in particolare obbligando il consumatore a rivolgersi esclusivamente ad una giurisdizione di arbitrato non disciplinata da disposizioni giuridiche, limitando indebitamente i mezzi di prova a disposizione del consumatore o imponendogli un onere della prova che, ai sensi della legislazione applicabile, incomberebbe ad un'altra parte del contratto» [lett. q)].

6 Ai sensi dell'art. 6, n. 1, gli Stati membri prevedono che le clausole abusive, contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista, «non vincolano il consumatore»; la stessa disposizione prevede che il contratto resti vincolante per le parti, «sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive».

Gli Stati membri devono, inoltre, nell'interesse dei consumatori e dei professionisti concorrenti, «fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori» (art. 7, n. 1); in particolare, tali mezzi includono disposizioni che permettano a persone o organizzazioni di adire, secondo il diritto nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché stabiliscano se le clausole contrattuali, redatte per un impiego generalizzato, abbiano carattere abusivo ed applichino mezzi adeguati per far cessare l'inserzione di siffatte clausole (art. 7, n. 2). La direttiva non indica tuttavia, in maniera espressa, se il giudice nazionale abbia o meno il potere di invocare d'ufficio la vessatorietà della clausola e dunque la sua inopponibilità al consumatore.

7 Gli Stati membri erano tenuti a trasporre la direttiva nel diritto interno entro il 31 dicembre 1994. Le disposizioni della direttiva sono applicabili a tutti i contratti conclusi a partire da detta data (art. 10, n. 1).

La normativa nazionale

8 La direttiva ha ricevuto attuazione nell'ordinamento spagnolo con legge n. 7/1998 del 13 aprile 1998 (2), dunque in ritardo rispetto al termine previsto. La legge citata ha ad oggetto, secondo quanto indicato nel preambolo, il recepimento della normativa comunitaria concernente le clausole abusive nei contratti stipulati dai consumatori e la regolamentazione delle condizioni generali di contratto. Ai sensi della terza disposizione finale, la legge è entrata in vigore a seguito di una vacatio legis di venti giorni dalla data di pubblicazione nel Boletín Oficial del Estado, vale a dire il 3 maggio 1998.

9 La novella del 1998 ha modificato la legge n. 26/1984, del 9 luglio 1984, relativa alla protezione del consumatore (3), introducendo, tra l'altro, un nuovo art. 10 bis contenente la definizione di clausole abusive, da intendersi come tutte quelle disposizioni non oggetto di negoziato individuale, che, malgrado il requisito della buona fede, causano a danno del consumatore uno squilibrio significativo dei diritti e dei doveri nascenti dal contratto. Il comma secondo di detto articolo dispone che sono nulle di pieno diritto, e si considerano non apposte, le clausole, le condizioni e le disposizioni aventi carattere abusivo.

Ai sensi e per gli effetti dell'art. 10 bis, sono da considerarsi clausole vessatorie le clausole previste dalle disposizioni addizionali, tra le quali rientrano, al numero 27, le disposizioni che prevedono come foro competente un foro diverso da quello del domicilio del consumatore o del luogo di esecuzione dell'obbligazione.

Le azioni previste dalla legge possono essere esercitate in giudizio a partire dalla data di entrata in vigore della legge, anche per i contratti conclusi precedentemente. Nel caso che ci occupa, tuttavia, la legge non era ancora in vigore nel momento in cui le società attrici citavano in giudizio i consumatori, per cui la nuova disciplina non trova applicazione nella fattispecie. In precedenza, la tutela dei consumatori nei confronti di clausole vessatorie inserite nei contratti conclusi con un professionista era oggetto della citata legge n. 26/1984. Detta legge richiedeva che le disposizioni inserite nei contratti ora indicati dovessero essere, tra l'altro, conformi alla buona fede e garantire il giusto equilibrio tra le controprestazioni. Si consideravano dunque nulle di pieno diritto le clausole abusive, intese come quelle che pregiudicano in maniera sproporzionata ovvero non equa il consumatore, oppure comportano nel contratto una posizione di squilibrio tra i diritti e gli obblighi delle parti in pregiudizio dei consumatori o utenti (art. 10, 1. sub c), 3).

10 Va infine aggiunto che le disposizioni spagnole in materia di protezione del consumatore, comprese quelle contenute nella legge di recepimento della direttiva, non regolano espressamente la questione dell'invocabilità d'ufficio della nullità delle clausole abusive. Non appare che esista nel diritto spagnolo una base giuridica su cui possa chiaramente fondarsi la competenza del giudice ad esaminare detta nullità in mancanza di stimolo di parte. Nella giurisprudenza spagnola, il problema ora accennato ha sinora ricevuto soluzioni contraddittorie, avendo alcuni giudici ritenuto di poter ricavare espressamente dalla direttiva detto potere.

I fatti all'origine della causa e i quesiti pregiudiziali

11 In date diverse, che vanno dal maggio del 1995 all'aprile del 1996, la società Océano Grupo Editorial SA e la signora R. Murciano Quintero, domiciliata in El Ejido (Almeria), e la società Salvat Editores SA e i signori J. M. Sánchez-Alcón Prades, J. L. Copano Badillo, M. Berroane e E. Viñas Feliu, tutti domiciliati in varie altre località della Spagna, concludevano un contratto per la vendita a rate di un'enciclopedia.

12 Nei rispettivi contratti di compravendita a rate, predisposti dalla parte venditrice per mezzo di formulari, le parti accettavano che, in caso di controversia, la competenza esclusiva in materia spettasse al Tribunale di Barcellona, città presso la quale le su citate società hanno la principale sede d'affari.

13 In seguito al mancato pagamento da parte degli acquirenti delle rate pattuite, la società Océano Grupo Editorial SA, in data 25 luglio, e la società Salvat Editores SA rispettivamente in data 18 settembre, 16 dicembre e 19 dicembre 1997, introducevano un ricorso dinanzi al Tribunale di Barcellona chiedendo la condanna al pagamento delle somme convenute.

Al momento della proposizione di tale domanda la direttiva non era ancora stata trasposta nell'ordinamento giuridico spagnolo. Il giudice a quo dubita tuttavia che la clausola attributiva di competenza, contenuta nel contratto, sia valida in quanto dovrebbe essere qualificata come «abusiva» secondo le disposizioni della direttiva. A suo parere, il foro competente dovrebbe essere quello del domicilio dei convenuti. In data 9 settembre 1997 detto giudice trasmetteva gli atti al Pubblico Ministero affinché questi potesse esprimere il suo parere sulla possibilità o meno di dichiarare d'ufficio la nullità della clausola attributiva di competenza. Questi ha replicato che, nell'ambito del «juicio de cognición» (4), procedura applicabile alla fattispecie, non è consentito sollevare d'ufficio il difetto di competenza qualora il giudice designato dalle parti di un contratto sia quello del domicilio di almeno una di esse (5).

14 Con ordinanze del 31 marzo 1998 (C-240/98 e C-241/98) e del 1_ aprile 1998 (C-242/98, C-243/98 e C-244/98) il Tribunale di prima istanza di Barcellona ha quindi deciso di sottoporre alla Corte il seguente quesito pregiudiziale:

«se l'ambito di tutela conferito al consumatore dalla direttiva del Consiglio 93/13/CEE, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, consenta al giudice nazionale di pronunciarsi ex officio sul carattere abusivo di una di dette clausole in quanto valutazione preventiva rispetto alla cognizione di un ricorso dinanzi ai tribunali ordinari».

15 Con ordinanza presidenziale del 20 luglio 1998 le cause sono state riunite ai fini della procedura scritta ed orale e della sentenza.

Sul merito

16 Con il quesito pregiudiziale il giudice a quo intende sapere se, in mancanza di trasposizione nei termini previsti della direttiva, gli sia consentito declinare d'ufficio la propria competenza in quanto attribuita da una clausola contrattuale che egli ritiene «abusiva» ai sensi della direttiva stessa.

Nell'affrontare detto quesito, ed al fine di fornire al giudice nazionale una risposta utile, ritengo sia necessario ricorrere a due successive operazioni: si tratta, in primo luogo, di interpretare le disposizioni della direttiva, al fine di chiarire se la clausola attributiva di competenza al giudice del domicilio dell'imprenditore sia una clausola abusiva e, in caso di risposta positiva, se la direttiva o altre regole del diritto comunitario richiedano al giudice nazionale di sollevare d'ufficio la sua incompetenza qualora si trovi a dover decidere sulla base di una clausola del genere, anche a condizione di disapplicare una regola procedurale interna che porterebbe ad una soluzione, in termini di competenza per territorio, differente. In secondo luogo, di valutare se detta disapplicazione possa eventualmente avvenire in una controversia, come quella dei procedimenti principali, che vede come parti due privati, anche qualora la regola comunitaria avente un contenuto difforme dal precetto di diritto processuale interno sia inclusa in una direttiva non recepita.

17 Rispetto alla qualificazione della clausola contrattuale di cui si discute, dirò subito che la stessa deve essere considerata come una «clausola abusiva» alla luce della direttiva. Ricordo che si tratta di una clausola, contenuta in un contratto tra un professionista e un consumatore, che indica come giudice competente in via esclusiva, per le controversie derivanti dal contratto, quello della sede dell'impresa. Come osservato dal governo francese, se è vero che una clausola del genere non risulta espressamente inserita nella lista delle «clausole abusive» di cui all'allegato della direttiva, una tale circostanza non può considerarsi determinante, e ciò per una serie di motivi. Secondo il governo francese, la clausola in oggetto andrebbe ricondotta alla categoria generale di cui alla lett. q) dell'allegato, citata in precedenza, in quanto ha per effetto di «limitare l'esercizio di azioni legali o vie di ricorso del consumatore». Maggiore rilevanza ai nostri fini assume tuttavia la circostanza per cui, ai sensi dell'art. 3, n. 3, della direttiva, l'allegato contiene soltanto «un elenco indicativo e non esauriente di clausole che possono essere dichiarate abusive» (6), potendo gli Stati membri integrarlo con ulteriori clausole le quali, all'evidenza, saranno sottoposte alla medesima disciplina alla quale sono sottoposte quelle che la direttiva prevede a regime. In definitiva, la direttiva richiede soltanto che, affinché una clausola contrattuale rientri nel campo di applicazione della direttiva, essa non sia stata negoziata individualmente tra il professionista e il consumatore e determini, a danno del consumatore, «un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti derivanti dal contratto» (art. 3, n. 1). Nel rispetto di questi parametri di carattere generale, gli Stati membri possono ben indicare clausole ulteriori, o più specifiche, rispetto a quelle contenute nell'elenco; in questo caso, le clausole saranno «abusive» alla luce della direttiva e saranno di conseguenza soggette, come detto, alla disciplina che la stessa vuole sia loro applicata.

18 Da quanto ora esposto si desume che la valutazione se una clausola come quella in discussione nei giudizi principali sia «abusiva» o meno richiede esclusivamente una interpretazione del testo della direttiva, in particolare delle disposizioni di cui all'art. 3, nn. 1 e 2. In questo contesto l'allegato annesso alla direttiva non può che assumere un valore meramente indicativo. Ciò detto, ritengo che una clausola, pur sottoscritta dal consumatore ma non negoziata individualmente in quanto contenuta in un contratto di adesione, che gli imponga di agire e di difendersi dinanzi al giudice della sede dell'imprenditore per ogni controversia scaturente dal contratto comporti indubbi vantaggi in favore di quest'ultimo e rischi specularmente di ridurre, ed in maniera sensibile, il diritto di difesa del consumatore. Infatti, come precisato dal giudice a quo nell'ordinanza di rinvio sulla base della concreta esperienza processuale, l'obbligo di sottoporsi alla giurisdizione del foro dell'imprenditore, in ipotesi molto lontano dal suo domicilio, comporta il rischio che il consumatore si trovi nella pratica impossibilità di difendersi per gli alti costi che la costituzione in giudizio comporta, specie se rapportati al valore modesto della controversia; a ciò si aggiunga che le persone coinvolte in siffatte cause sono per lo più di provenienza economica modesta e con mezzi alquanto limitati. Di converso, la clausola contrattuale in parola attribuisce indiscutibili vantaggi al professionista, il quale, in tal modo, può evitare di rivolgersi ai diversi fori competenti in base alle regole processuali, accorpando il contenzioso concernente i contratti con i consumatori nella propria sede di affari, per lui ovviamente più comoda e meno onerosa dal punto di vista finanziario. Ritengo che una situazione del genere provochi senz'altro un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi delle parti. Ciò comporta che la clausola in oggetto può essere definita come «abusiva» ai sensi della direttiva, con la conseguenza che la disciplina favorevole al consumatore prevista dalla direttiva, in particolare la «non vincolatività», ex art. 6, della clausola di scelta del foro, trova certamente applicazione nella fattispecie.

19 Non è priva di rilevanza, inoltre, la circostanza che, in sede di recepimento della direttiva, al momento cioè di dare un contenuto concreto al principio generale di cui all'art. 3, n. 1, della direttiva, lo Stato spagnolo, in linea con le soluzioni adottate in altri paesi membri (7), abbia voluto espressamente includere nella lista delle clausole abusive quella che impone il ricorso ad un foro diverso da quello del domicilio del consumatore o dell'adempimento dell'obbligazione (8). Alla luce di queste argomentazioni, si può fondatamente concludere che la clausola contenuta in un contratto tra un consumatore ed un imprenditore, che, per ogni controversia legata al contratto, preveda come giudice competente esclusivamente quello della sede dell'imprenditore, rientra nella nozione di «clausola abusiva» ai sensi della direttiva.

20 Stabilito dunque che la soluzione delle controversie di cui alle cause principali implica un giudizio sulla competenza del giudice remittente, giudizio da svolgere alla luce delle disposizioni della direttiva, va ora affrontato il problema logicamente successivo, che è oggetto del quesito pregiudiziale; si tratta cioè di valutare se il giudice nazionale possa declinare motu proprio la propria competenza qualora sia chiamato a risolvere una controversia sulla base di una clausola contrattuale, inserita in un contratto tra un consumatore ed un professionista, che ritenga abusiva in quanto attribuisce competenza esclusiva al giudice della sede del secondo.

21 In merito, ritengo sia necessario premettere che la parte convenuta nel giudizi pendenti dinanzi al giudice a quo (il consumatore) non si è costituita, rinunciando quindi a sollevare la carenza di competenza del giudice adito in quanto questa sarebbe fondata su una clausola abusiva. Secondo il governo spagnolo, al comportamento della parte dovrebbe essere attribuito un significato decisivo. Infatti, premesso che la valutazione dei poteri offerti al giudice nazionale dovrebbe essere effettuata esclusivamente alla luce della normativa nazionale, la quale, come prima rilevato, non attribuirebbe al giudice un potere del genere in una procedura come quella principale, ne conseguirebbe l'impossibilità, per quest'ultimo, di sollevare d'ufficio l'inefficacia della clausola contrattuale.

22 Dirò subito che questa interpretazione non mi sembra convincente. D'accordo con la Commissione ed il governo francese, ritengo più corretto ricorrere ad un'analisi di carattere generale, la quale porta a ritenere che è dal sistema stesso di protezione del consumatore, parte debole del contratto, che si evince la necessità di attribuire al giudice nazionale la facoltà di sollevare d'ufficio l'inefficacia di una clausola abusiva ai sensi della direttiva stessa. In altre parole, l'esigenza di attribuire alla disposizione in parola un «effetto utile» milita a favore di una interpretazione che non imponga alla parte debole del contratto l'onere di difendersi in giudizio per invocare l'inapplicabilità di clausole contrattuali per lui pregiudizievoli, e ciò, aggiungo subito, vale soprattutto qualora, in applicazione di detta clausola, il consumatore sia costretto a difendersi in giudizio in una sede diversa da quella del suo domicilio.

23 Va infatti osservato che il sistema di protezione garantito dalle norme della direttiva parte dal principio di carattere generale per cui, nei contratti conclusi con un professionista, il consumatore va considerato la «parte debole», che necessita di una speciale tutela: lo scopo della direttiva è dunque quello di ripristinare, in detti rapporti, un equilibrio contrattuale, salvaguardando, al tempo stesso, l'interesse generale all'osservanza di una corretta prassi imprenditoriale. In questo contesto, la direttiva richiede agli Stati membri un'obbligazione di risultato, in specie di evitare che le clausole ritenute abusive possano legare il consumatore, alle condizioni stabilite dalla normativa nazionale (art. 6). Dunque, se spetta agli Stati membri scegliere la specifica sanzione civilistica alla quale sottoporre dette clausole - inefficacia, nullità, annullabilità - si richiede comunque agli stessi di porre in essere un sistema che abbia come obiettivo la tutela efficace dei diritti del consumatore.

Detto obiettivo, come segnala opportunamente la Commissione, potrebbe difficilmente essere raggiunto qualora non si attribuisse al giudice la possibilità di apprezzare d'ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale. Invero, il sistema di protezione del contraente debole, quale delineato dalla direttiva, sembra prescindere dal comportamento del consumatore. Nessun rilievo viene attribuito, ad esempio, alla circostanza che la clausola contrattuale sia stata accettata dal consumatore con la sottoscrizione di un contratto di adesione; detta clausola infatti, nonostante la sottoscrizione, non può legare il consumatore. Ora, ritengo rientri nel medesimo ordine di idee escludere che sia attribuito un significato decisivo al comportamento processuale del consumatore: il consumatore potrebbe non invocare il carattere abusivo della clausola per ignoranza, ovvero perché ritiene troppo oneroso difendersi in giudizio fuori dal suo domicilio, come nel caso della clausola oggetto del presente giudizio. In tutti questi casi, l'obiettivo che la direttiva intende perseguire non sarebbe raggiunto, in quanto la clausola, pur manifestamente pregiudizievole nei confronti della parte debole del contratto, raggiungerebbe il suo scopo; sarebbe quindi messo irrimediabilmente a repentaglio l'effetto utile della direttiva.

24 Inoltre, assume certo rilevanza la circostanza che la direttiva, al fine di rimediare ad una situazione di sostanziale squilibrio tra le due parti del contratto, richieda agli Stati membri di porre in essere un sistema di tutela che coinvolge, ed in maniera attiva, soggetti estranei al singolo rapporto contrattuale. Sull'evidente presupposto che la reazione dei singoli consumatori contro clausole pregiudizievoli rispetto ai loro interessi non è un rimedio efficace, in ragione del costo dell'azione individuale e della scarsa propensione del singolo consumatore ad avventurarsi in controversie complesse contro professionisti più potenti e meglio organizzati, la direttiva richiede, all'art. 7, che «gli Stati membri, nell'interesse dei consumatore e dei concorrenti professionali, provvedono a fornire mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di clausole abusive nei contratti stipulati tra un professionista e dei consumatori». Il giudizio di «adeguatezza» e di «efficacia» degli strumenti di tutela che la direttiva richiede agli Stati membri (9) è legato ad una valutazione concreta dell'utilità degli strumenti stessi rispetto all'obiettivo perseguito, il quale, lo ricordo, è di far sì che le clausole abusive non vincolino il consumatore. Ora, in base alle considerazioni appena svolte, è ragionevole ritenere che l'intervento d'ufficio del giudice non solo si presenti come un mezzo di estrema efficacia a fini repressivi, ma appaia anche idoneo a svolgere un'efficace azione di deterrenza contro l'inserimento delle clausole nei contratti conclusi con i consumatori.

A ciò si aggiunga che escludere l'intervento d'ufficio qualora l'abusività della clausola contrattuale non sia invocata dal consumatore comporterebbe effetti paradossali in una situazione come quella di specie, in cui si contesta l'attribuzione in via esclusiva al giudice della sede del professionista della competenza a decidere sulle controversie scaturenti dal contratto. Si ricorderà che, nei giudizi principali, il giudice remittente, Tribunale di prima istanza di Barcellona, è stato investito di una controversia tra professionisti (le ditte Océano Grupo Editorial SA e Salvat Editores SA, la cui attività consiste nella vendita a rate di enciclopedie) e vari consumatori, domiciliati in città diverse della Spagna, alcune distanti centinaia di chilometri dal foro adito. Ora, in tali circostanze, qualora si escludesse che, contumace il convenuto, il giudice possa valutare di propria iniziativa l'efficacia di una clausola contrattuale manifestamente «abusiva», si arriverebbe al paradosso per cui il consumatore sarebbe obbligato a costituirsi in giudizio, in un luogo diverso dal suo domicilio, proprio per sostenere che la clausola contrattuale che lo ha obbligato a ciò è una clausola abusiva! All'evidenza, un sistema del genere sarebbe del tutto inefficace come strumento di tutela del consumatore, in quanto per avvalersi della protezione attribuita dalla direttiva questi sarebbe comunque costretto ad affrontare tutti quegli inconvenienti (spese di giudizio in un luogo diverso dal domicilio, onere di conoscenza dell'abusività della clausola, ricorso ad un legale per cifre ridotte e così via) che hanno consigliato gli Stati membri a includere la scelta obbligata del foro dell'imprenditore tra le clausole contrattuali che arrecano pregiudizio al consumatore.

25 Va infine aggiunto che attribuire al giudice il potere di intervenire d'ufficio appare del tutto coerente con il regime civilistico che la direttiva indica come sanzione nei confronti di clausole contrattuali, inserite nei contratti con i consumatori, che rientrano nel suo campo di applicazione. Come si ricorderà, la direttiva richiede agli Stati membri di prevedere che, alle condizioni stabilite dalle loro legislazioni nazionali, dette clausole non possano vincolare il consumatore (art. 6, n. 1). Se la direttiva, coerentemente con i limiti dell'azione di armonizzazione «minima» delle legislazioni nazionali, si limita a indicare in maniera generica un risultato da raggiungere (la «non vincolatività» delle clausole abusive), lasciando agli ordinamenti nazionali la scelta della concreta sanzione civilistica nei confronti di queste clausole (10), è evidente che la scelta operata con tale espressione comporta l'attribuzione alle disposizioni della direttiva del carattere di norma «imperativa», di «ordine pubblico economico» che non può non riflettersi sui poteri attribuiti al giudice nazionale (11).

26 In definitiva, ritengo che riconoscere al giudice il potere di dichiarare d'ufficio l'inefficacia di una clausola contrattuale in quanto abusiva rientri a pieno titolo nel generale contesto della tutela speciale che la direttiva intende riconoscere ad interessi della collettività che, facendo parte dell'ordine pubblico economico, trascendono quelli specifici delle parti. Esiste, in altri termini, un interesse pubblico acché le clausole pregiudizievoli per il consumatore non producano effetti. Detto interesse motiva, dal punto di vista sostanziale, la sanzione della «non vincolatività» della clausola nonostante l'eventuale sottoscrizione, che non sia frutto di negoziato individuale, da parte del consumatore; da quello processuale, esso motiva l'intervento del giudice, il quale, valutato il pregiudizio subito dal consumatore, può disapplicare la clausola indipendentemente dal comportamento processuale di quest'ultimo.

27 Premesso che il sistema di protezione dei diritti attribuiti dalla direttiva non sarebbe «efficace» qualora non si consentisse al giudice nazionale di valutare ex officio la clausola contrattuale alla luce delle disposizioni della direttiva, non può che conseguirne che le disposizioni processuali nazionali, che in ipotesi non consentissero detta valutazione, dovrebbero dunque essere disapplicate dal giudice, nel rispetto dei doveri di collaborazione che incombono a tutti gli organi nazionali - comprese, nell'ambito delle loro competenze, le giurisdizioni - ex art. 5 del Trattato CE (divenuto art. 10 CE). Si tratta, peraltro, di un principio più volte applicato nella giurisprudenza della Corte, in base al quale, in armonia con il principio generale della supremazia del diritto comunitario (12), le norme processuali nazionali non possono essere applicate dal giudice qualora non consentano una efficace tutela delle posizioni giuridiche attribuite dal diritto comunitario (13).

Va tuttavia segnalato che, nella fattispecie, la norma comunitaria che provocherebbe un effetto del genere sarebbe contenuta in una direttiva non recepita nei termini nell'ordinamento nazionale. Premesso che la controversia di cui alla causa principale è una controversia tra privati, si pone quindi il problema di valutare se una tale circostanza possa incidere in senso negativo sull'individuazione dei poteri spettanti al giudice nazionale.

28 A questo proposito, va innanzi tutto osservato come nella fattispecie non sia agevole ricorrere al rimedio dell'«interpretazione conforme» delle disposizioni dell'ordinamento nazionale rispetto allo scopo e alla lettera della direttiva, come richiesto al giudice nazionale secondo una nota giurisprudenza della Corte, qualora una direttiva non sia stata correttamente recepita nell'ordinamento interno. Se è vero che una più precisa ed informata valutazione spetta al giudice nazionale, appare tuttavia evidente che - mentre la legislazione sostanziale spagnola, precedente al recepimento, potrebbe agevolmente essere interpretata in maniera di includere il vizio di cui si discute tra quelli che comportano la «nullità di pieno diritto» della clausola contrattuale (14) - tra le disposizioni processuali interne e la direttiva è presente un chiaro ed aperto contrasto, comportando la loro applicazione degli effetti totalmente diversi: da una parte, la norma processuale interna consente, anche rispetto ai contratti conclusi tra un professionista ed un consumatore che rientrino nel campo di applicazione della direttiva, di scegliere come foro esclusivamente competente per le controversie che derivano dal contratto quello della sede del professionista, derogando ai criteri generali di competenza; dall'altra, i principi generali che informano la disciplina di tutela del consumatore contenuta nella direttiva, così come ricostruiti in precedenza, richiedono che la clausola contrattuale che impone una tale soluzione, in quanto «abusiva» ai sensi della direttiva, non sia capace di vincolare il consumatore. All'evidenza, non pare che esista una disposizione di diritto interno che si possa «interpretare» in maniera da raggiungere l'obiettivo richiesto dalla direttiva (15). Tuttavia, ripeto, una più accurata valutazione in questo senso spetta al giudice nazionale.

29 Dunque, premesso che le due norme non sono conciliabili, al giudice chiamato a risolvere la controversia non rimarrebbe che operare una scelta tra due precetti giuridici in «competizione»: quello, di origine interna, che consente la scelta del foro e quello, di origine comunitaria, che richiede al giudice di dichiararsi, d'ufficio, incompetente. Si pone allora il problema di valutare se una direttiva, non recepita nei termini, possa fungere da parametro di legittimità delle norme processuali interne, con la conseguenza che il giudice nazionale sarebbe tenuto a disapplicare dette norme per garantire la supremazia di quelle comunitarie e dunque consentire una tutela efficace delle posizioni giuridiche attribuite da queste ultime; e ciò nonostante la controversia di cui alla causa principale veda di fatto opposti due privati, non rivestendo ovviamente alcuna importanza, nel contesto, la circostanza che una delle parti non si sia costituita in giudizio. Qualora, invece, si ritenga che una direttiva non recepita non possa produrre un tale effetto, non resterebbe al giudice nazionale che accettare la validità della scelta del foro operata con la clausola che lui stesso definisce abusiva.

30 Sul punto, ritengo che una corretta applicazione del principio della supremazia del diritto comunitario sul diritto interno così come l'esigenza di garantire una uniforme applicazione delle norme comunitarie comportano che le direttive non recepite, una volta scaduto il termine per la loro attuazione nel diritto interno, possano produrre l'effetto di escludere l'applicazione della regola nazionale difforme, anche qualora, per mancanza di precisione ovvero perché non direttamente efficaci nei rapporti «orizzontali», non attribuiscano ai singoli diritti invocabili in giudizio. Il dovere di collaborazione prima citato, che incombe ad ogni organo nazionale nell'ambito delle proprie competenze, impone ai giudici ed all'amministrazione di «scartare», per così dire, la legge nazionale incompatibile. Tale conclusione, come si vedrà, traspare già in filigrana nella giurisprudenza della Corte, oltre ad essere da tempo oggetto di attenzione da parte della dottrina (16).

31 Per motivare questa conclusione, rilevo che la Corte, dopo aver premesso, da una parte, il carattere vincolante delle direttive, di cui all'art. 189 del Trattato CE (divenuto art. 249 CE), che comporta l'obbligo per gli Stati membri di conseguire il risultato da essa contemplato, e, dall'altra, l'obbligo, imposto dall'art. 5 del Trattato CE, di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire il raggiungimento di detto risultato, ha precisato che detti obblighi valgono per tutti gli organi degli Stati membri, ivi compresi, nell'ambito della loro competenza, quelli giurisdizionali. In questo contesto la Corte ha innanzi tutto riconosciuto che i giudici nazionali, nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, sono tenuti ad interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva. Dunque, tra due possibili interpretazioni delle disposizioni interne, al giudice è richiesto di preferire quella che consente di conseguire il risultato previsto dalla direttiva (17). Oltre questo, a dire il vero tutt'altro che rivoluzionario, principio di «interpretazione conforme», la Corte ha più di recente tratto ulteriori conseguenze dalla collocazione delle direttive in una posizione superiore, nella gerarchia delle fonti, rispetto alle norme interne. E, si badi, ciò è avvenuto anche rispetto a controversie che coinvolgevano esclusivamente dei privati, con ciò operando, sia pure implicitamente, una corretta distinzione tra l'effetto diretto di una disposizione di diritto comunitario, inteso in senso stretto, come facoltà di invocare in giudizio detta disposizione nei confronti di un altro soggetto, e la sua capacità di fungere da parametro di legittimità di una norma di grado inferiore nella gerarchia delle fonti (18).

32 Si può utilmente citare, a questo proposito, la sentenza CIA Security International, del 30 aprile 1996 (19). In quell'occasione, la Corte è stata chiamata dal Tribunal de commerce di Liegi ad interpretare gli artt. 8 e 9 della direttiva del Consiglio 28 marzo 1983, 83/189/CEE, che prevede una procedura d'informazione nel settore e delle regolamentazioni tecniche (20), in relazione a norme nazionali che impongono l'omologazione delle centrali e dei sistemi d'allarme. Nel procedimento dinanzi al giudice a quo, una impresa (la CIA Secutity International SA, in prosieguo: «CIA»), la cui attività era la commercializzazione di sistemi d'allarme, aveva citato in giudizio per concorrenza sleale due imprese, colpevoli, a suo giudizio, di aver diffuso notizie asseritamente diffamatorie sulle qualità del sistema d'allarme messo in commercio dalla prima. Le due imprese convenute affermavano, tra l'altro, che detto sistema non era conforme alla legislazione belga vigente in quanto non omologato nel rispetto di detta normativa. La CIA sosteneva, invece, che la normativa interna non poteva essere applicata in quanto non notificata alla Commissione in forza della direttiva. Pur in presenza di una controversia tra privati, la Corte ha correttamente richiamato la sua giurisprudenza costante per cui «in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere richiamate per opporsi a qualsiasi disposizione di diritto interno non conforme alla direttiva» (punto 42; corsivo aggiunto). La violazione della direttiva da parte dello Stato (nella specie, la mancata notificazione delle regole tecniche, in violazione dell'obbligo imposto dalla direttiva), alla luce degli obiettivi che la stessa intende perseguire, costituisce «un vizio di procedura nell'adozione delle regole tecniche che ne comporta l'inapplicabilità, con la conseguenza che esse non possono essere opposte ai singoli» (punto 45). In definitiva, risulta da questa sentenza che un privato non può opporre ad un altro privato il mancato rispetto di una normativa assunta in violazione della direttiva. Quest'ultima opera come «scudo» nei confronti dell'applicazione di una disposizione incompatibile con la direttiva stessa, senza che possa assumere rilevanza la circostanza che a chiedere l'applicazione della legge difforme dinanzi al giudice sia lo Stato (ad esempio, nella persona di un organismo statale di controllo o della pubblica accusa) ovvero un privato (21).

33 Nella causa Ruiz Bernáldez (22), invece, la Corte è stata chiamata dalla Audiencia Provincial di Siviglia ad interpretare la direttiva 72/166/CEE del Consiglio, del 24 aprile 1972, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione di autoveicoli e di controllo dell'obbligo di assicurare tale responsabilità (23). Nel caso di specie, il signor Ruiz Bernáldez era stato condannato penalmente per guida in stato di ubriachezza, con l'obbligo di risarcire i danni causati ad un terzo; la compagnia presso la quale il Ruiz aveva sottoscritto la polizza di assicurazione veniva invece sollevata dall'obbligo di versare in solido l'indennizzo alla parte lesa, in applicazione della disciplina spagnola in materia di assicurazioni per danni legati alla circolazione di veicoli; detta normativa non prevedeva, infatti, un tale obbligo qualora l'assicurato fosse in stato di ebbrezza al momento dell'incidente. Nel rispondere al quesito pregiudiziale, la Corte ha escluso che siffatta disciplina fosse compatibile con l'art. 3, n. 1, della direttiva e, per l'effetto, ha concluso che detta disposizione «osta a che l'assicuratore possa valersi di disposizioni legali o di clausole contrattuali allo scopo di rifiutare l'indennizzo dei terzi vittime di un sinistro causato dal veicolo assicurato» (punto 21). Anche in questo caso, la Corte ha chiesto al giudice nazionale di non applicare la normativa interna, incompatibile con la direttiva, nonostante quest'ultima non fosse stata correttamente recepita. Il privato - nella specie la compagnia di assicurazioni - ha dovuto di conseguenza far fronte ad un obbligo pecuniario che la normativa nazionale non gli imponeva.

34 Altri esempi, tratti dalla recente giurisprudenza della Corte, confermano che la Corte ritiene che la direttiva si ponga come un parametro in base al quale valutare la legittimità della legislazione nazionale, indipendentemente dalla sua capacità di attribuire ai privati posizioni giuridiche soggettive «attive» invocabili in giudizio. Nella sentenza 11 agosto 1995, Commissione/Germania (24), la Corte ha chiaramente respinto la posizione, fatta propria dallo Stato membro in questione, secondo la quale «la giurisprudenza della Corte ammette l'efficacia diretta delle disposizioni di una direttiva solo nel caso in cui queste conferiscano diritti individuali a soggetti privati» (punto 24). Non conferendo gli artt. 2, 3 e 8 della direttiva in materia di valutazione d'impatto ambientale (25) siffatti diritti ai singoli, a parere della Germania non ricorreva alcun obbligo di applicarli prima del recepimento della direttiva, per cui una decisione di autorizzazione all'ampliamento di una centrale termoelettrica senza previa valutazione d'impatto ambientale non avrebbe potuto essere oggetto di un procedimento di infrazione. La Corte ha superato detta eccezione distinguendo chiaramente tra rispetto della direttiva ed impatto della stessa sulla legislazione nazionale, da un lato, ed invocabilità diretta della stessa da parte dei privati, dall'altro (26). La questione dell'obbligo, per lo Stato, di rispettare la direttiva «è estranea» all'invocabilità diretta da parte dei privati delle disposizioni di una direttiva non trasposta (punto 26).

35 Ancora più significativa appare, in quanto concerne una controversia tra privati, la soluzione che la Corte ha raggiunto nella sentenza 30 aprile 1998, Bellone/Yokohama (27). In quell'occasione, la Corte ha interpretato la direttiva 86/653/CEE, relativa al coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti (28). Nel giudizio a quo, l'agente di commercio Bellone aveva adito il Pretore di Bologna per vedersi riconoscere il diritto al pagamento di alcune somme asseritamente dovute per aver svolto attività di agente commerciale in favore della ditta Yokohama; quest'ultima invocava invece la nullità del contratto di agenzia in quanto l'agente non era iscritto nell'apposito albo previsto dalla normativa italiana. Si trattava dunque, all'evidenza, di una controversia tra privati. La Corte, dopo aver chiaramente precisato che il diritto nazionale subordina la validità del contratto all'iscrizione dell'agente commerciale ad un albo apposito (punto 12), ha interpretato le disposizioni della direttiva in maniera da escludere che un requisito del genere possa essere richiesto come condizione perché all'agente sia riconosciuta la tutela prevista dalla direttiva. Tra le due discipline la Corte stessa ha individuato, quindi, una incompatibilità insanabile, tale da escludere, all'evidenza, ogni ricorso ad un'eventuale «interpretazione conforme» (29). Di conseguenza, ha concluso che «la direttiva osta ad una normativa nazionale che subordini la validità di un contratto di agenzia all'iscrizione dell'agente di commercio in un apposito albo». Questa affermazione non può non essere interpretata, considerato il contesto processuale, come una richiesta rivolta al giudice nazionale di non applicare la normativa nazionale difforme, incompatibile con la direttiva non recepita nei termini previsti (30).

36 Va poi aggiunto che, qualora non si attribuisse alle direttive comunitarie, sulla base dei principi fondamentali della supremazia del diritto comunitario e della sua applicazione uniforme negli Stati membri, una posizione di superiorità nella gerarchia delle fonti, con il conseguente obbligo, da parte degli organi giurisdizionali ed amministrativi, di non dare applicazione alle norme interne difformi, si provocherebbero conseguenze difficilmente accettabili. Si pensi, ad esempio, all'ipotesi in cui uno Stato membro, in un primo momento «in regola» con gli obblighi di cui all'art. 189 del Trattato CE (in quanto la legislazione nazionale, precedente o successiva alla direttiva, ne rispetta il contenuto), adotti successivamente una normativa che contenga una disciplina manifestamente contraria. Si tratta, invero, di una ipotesi tutt'altro che improbabile (31). In casi del genere, qualora non si riconosca alle direttive, una volta scaduto il termine per il recepimento, l'efficacia di incidere sulla valida formazione delle regole nazionali, in una controversia tra privati il giudice nazionale non potrebbe fare altro che applicare la normativa nazionale successiva, sia pure assunta in violazione della direttiva, e riconoscere al privato, in presenza delle condizioni necessarie, solo il risarcimento del danno. E' evidente che una soluzione del genere si rivela tutt'altro che soddisfacente; trattandosi, poi, di trarre le conseguenze del rapporto gerarchico esistente tra l'ordinamento comunitario e quello interno, all'evidenza nessuna differenza comporta la circostanza che la legge difforme sia stata adottata prima o dopo la scadenza del termine previsto per l'attuazione della direttiva (32).

37 In definitiva, la funzione del giudice nazionale come giudice comunitario di diritto comune implica che ad esso sia demandata la delicata funzione di garantire la supremazia del diritto comunitario sul diritto interno. La necessità di evitare che l'azione di armonizzazione propria delle direttive comunitarie venga compromessa da comportamenti unilaterali degli Stati membri, che si tratti di comportamenti omissivi (mancata attuazione di una direttiva nei termini) ovvero commissivi (adozione di regole nazionali incompatibili), comporta che venga comunque esclusa l'applicazione di disposizioni legislative difformi. Questo effetto di «esclusione», perché possa raggiungere i suoi risultati, deve prodursi ogni qual volta la regola nazionale venga in rilievo per la soluzione di una controversia, indipendentemente dalla natura pubblica o privata dei soggetti coinvolti.

38 Si noti poi che una soluzione del genere, che distingue tra «effetto di sostituzione» ed «effetto di esclusione» di una direttiva non recepita nei termini, appare già in nuce nella giurisprudenza della Corte relativa alle conseguenze della dichiarazione di inadempimento degli obblighi risultanti dal Trattato. Come è noto, la Corte ha più volte affermato che l'accertamento della violazione di un obbligo imposto dal diritto comunitario comporta per le autorità giurisdizionali ed amministrative dello Stato membro in questione l'obbligo di non applicare la disposizione interna incompatibile. Inizialmente riferito alle violazioni delle disposizioni del Trattato (33), detto obbligo è stato poi esteso anche alle violazioni delle norme di una direttiva non recepita (34). Se si considera che una sentenza della Corte ai sensi dell'art. 169 del Trattato CE (divenuto art. 226 CE) non ha alcuna efficacia costitutiva, limitandosi ad accertare un inadempimento dello Stato, ne consegue che l'intervento della Corte non è necessario affinché questo effetto di «esclusione», che deriva direttamente dall'obbligo di collaborazione di cui all'art. 5 del Trattato, si produca in tutti i casi in cui la norma viene in rilievo, comprese, ovviamente, le controversie tra privati.

39 Sulla scorta dell'insieme delle osservazioni che precedono, e tornando alla nostra fattispecie, ritengo non comporti alcuna difficoltà, bensì sia del tutto coerente con i principi generali concernenti i rapporti tra ordinamento comunitario ed ordinamento nazionale, richiedere al giudice nazionale di «scartare» la regola procedurale interna per garantire la piena efficacia del diritto comunitario anche in circostanze in cui detto meccanismo si trovi ad operare al fine di escludere, in una controversia tra privati, l'applicazione di una disposizione del codice di rito contraria alle disposizioni di una direttiva non recepita. L'esclusione della regola difforme non comporterebbe, nella fattispecie, alcun «vuoto giuridico» - in ogni caso colmabile grazie all'applicazione analogica ovvero con il ricorso ai principi generali dell'ordinamento nazionale, in quanto tale disciplina nazionale corrisponda ai principi ai quali la direttiva si ispira - intervenendo a colmare detto eventuale «vuoto» l'applicazione della regola processuale generale, che impone il ricorso al giudice del domicilio del debitore.

Conclusioni

40 Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere nella maniera seguente al quesito posto dal Tribunale di primo grado di Barcellona:

«La direttiva 93/13/CEE del Consiglio, del 5 aprile 1993, concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, consente al giudice nazionale di pronunciarsi ex officio sul carattere abusivo di una di dette clausole in quanto valutazione preventiva rispetto alla cognizione di un ricorso dinanzi ai tribunali ordinari».

(1) - GU L 95, pag. 29.

(2) - Legge del 13 aprile 1998 de Condiciones Generales de la Contratación (BOE del 14 aprile 1998).

(3) - Ley General para la Defensa de los Consumidores y Usuarios (BOE n. 176, del 24 luglio 1984).

(4) - Si tratta di un procedimento sommario, al quale la parte attrice può ricorrere per controversie di valore limitato (da 80 000 a 800 000 pesetas)

(5) - V. art. 1 della legge del 17 luglio 1948, relativa alla competenza delle giurisdizioni municipali (BOE n. 200, del 18 luglio 1948); art. 32 del decreto del 21 novembre 1952, che regola la procedura «de cognición» (BOE n. 337, del 2 dicembre 1952).

(6) - V. anche il 17_ `considerando', ove si precisa che «ai fini della presente direttiva, l'elenco delle clausole figuranti nell'allegato ha solamente carattere indicativo e che, visto il suo carattere minimo, gli Stati membri possono integrarlo o formularlo in modo più restrittivo, nell'ambito della loro legislazione nazionale, in particolare per quanto riguarda la portata di dette clausole».

(7) - L'art. 1469-bis del codice civile italiano, aggiunto dalla legge 6 febbraio 1996, n. 25, di attuazione della direttiva, prevede che si presuma vessatoria, fino a prova contraria, la clausola che ha per oggetto o per effetto di «stabilire come sede del foro competente sulle controversie località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore» (v. comma 3, n. 19); in Francia, la «recommandation de synthèse» n. 91-02, adottata dalla Commission des clauses abusives creata dall'art. L.132.2 del code de la consommation, include tra le clausole che si presumono abusive quella che ha per oggetto o per effetto di «déroger aux règles légales de compétence territoriale ou d'attribution».

(8) - V. la prima disposizione addizionale della citata legge n. 7/1998, al numero 27. La legislazione precedentemente in vigore conteneva una formulazione di carattere generale che ben potrebbe, a mio parere, essere interpretata in maniera da includere tra le clausole contrattuali vietate quella in oggetto nella presente causa [art. 10, n. 1, sub c), 3_, della citata legge n. 26/1984].

(9) - Va notato che detto giudizio viene svolto direttamente dalla direttiva, al n. 2 dell'art. 7, ove si indica che «i mezzi di cui al paragrafo 1 comprendono disposizioni che permettano a persone o organizzazioni, che a norma del diritto nazionale abbiano un interesse legittimo a tutelare i consumatori, di adire, a seconda del diritto nazionale, le autorità giudiziarie o gli organi amministrativi competenti affinché stabiliscano se le clausole contrattuali, redatte per un impiego generalizzato, abbiano carattere abusivo ed applichino mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione di siffatte clausole». Si tratta, all'evidenza, di una indicazione esemplificativa, che non esclude altre forme di intervento tra cui quello d'ufficio del giudice, ma che assume una speciale rilevanza nel sistema di tutela garantito dalla direttiva in quanto attribuisce ad enti o associazioni di consumatori l'accesso ad un'azione inibitoria, di carattere preventivo e dunque non collegata ad una singola controversia. Una tale forma di tutela, particolarmente efficace per il suo carattere generale, rappresenta un'assoluta novità in alcuni ordinamenti degli Stati membri, in particolare in quelli di tradizione romanistica, per cui ben si comprende il motivo per cui si è inteso richiedere espressamente agli Stati membri di prevederla nel loro ordinamento interno. Come osservato dal governo francese, mal si giustificherebbe una interpretazione della direttiva in base alla quale, da una parte, si ammettono azioni collettive «preventive», che comportano effetti benefici per tutti i consumatori, e, dall'altra, si esclude l'intervento d'ufficio del giudice che si trova a dover dare applicazione ad una clausola manifestamente abusiva in una controversia concreta in cui il consumatore risulta direttamente pregiudicato.

(10) - V. in proposito la valutazione comparativa effettuata da G. Paisant, La lutte contre les clauses abusives des contracts dans l'Unione Européenne, in Vers un code européen de la consommation, sous la direction de F. Osman, Bruxelles, 1998, pag. 165 ss., in particolare pag. 174, ove si evince che la maggior parte degli Stati membri hanno optato per una espressa sanzione di nullità delle clausole abusive.

(11) - Osservo in proposito che, in sede di trasposizione della direttiva, il legislatore francese ha espressamente definito «di ordine pubblico» le disposizioni in tema di protezione dei consumatori rispetto alle clausole abusive (v. code de consommation, art. L.132-1); in dottrina si ritiene che, come conseguenza di questa qualificazione, «le juge doit desormais soulever d'office la nullité de la clause abusive» (A. Karimi, Les modifications des dispositions du code de la consommation concernant les clauses abusives par la loi nº 95-96 du 1er février 1995, in Les petites affiches, n. 54 (1995), pag. 4 ss.). In Italia, il nuovo articolo 1469-quinquies del codice civile, dopo aver precisato che le clausole considerate vessatorie «sono inefficaci mentre il contratto rimane efficace per il resto», aggiunge che «l'inefficacia opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice». Sul sistema belga v. E. Balate, Le contrôle des clauses abusives: premier bilan, in Droit de la consommation, 1997, pag. 321 ss., in particolare pag. 131 e 140, ove si indica che dal carattere di ordine pubblico delle disposizioni in oggetto si ricava che, anche qualora il consumatore non si costituisce in giudizio, il giudice è tenuto ad applicarle d'ufficio. Per una valutazione di ordine generale, v. M. Tenreiro, The Community Directive on Unfair Terms and National Legal Systems, in European Review of Private Law, 1995, pag. 273 ss., in particolare pag. 282, ove si precisa che dall'espressione atecnica per cui le clausole abusive «non vincolano» il consumatore possono trarsi delle consegeuenze concrete, tra le quali quella per cui «the judge shall declare a term as unfair and refuse to enforce it ex officio, without any need for special demand from the consumer».

(12) - Sentenza 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal (Racc. pag. 629), punti 17-24).

(13) - Ricordo che, rispetto alla questione relativa al rapporto tra i doveri del giudice nazionale ed i principi di diritto processuale interno, la Corte ha più volte affermato che in mancanza di disciplina comunitaria in materia spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario. Tuttavia, dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna, né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario (v. sul punto le sentenze: 16 dicembre 1976, causa 33/76, Rewe, Racc. pag. 1989, punto 5; 16 dicembre 1976, causa 45/76, Comet, Racc. pag. 2043, punti 12-16; 27 febbraio 1980, causa 68/79, Just, Racc. pag. 501, punto 25; 9 novembre 1983, causa 199/82, San Giorgio, Racc. pag. 3595, punto 14; 25 febbraio 1988, cause riunite 331/85, 376/85 e 378/85, Bianco e Girard, Racc. pag. 1099, punto 12; 24 marzo 1988, causa 104/86, Commissione/Italia, Racc. pag. 1799, punto 7; 14 luglio 1988, cause riunite 123/87 e 330/87, Jeunehomme e EGI, Racc. pag. 4517, punto 17; 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich e a., Racc. pag. I-5357, punto 43; 9 giugno 1992, causa C-96/91, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-3789, punto 12; 1_ aprile 1993, cause riunite da C-31/91 a C-44/91, Lageder e a., Racc. pag. I-1761, punti 27-29; 14 dicembre 1995, cause riunite C-430/93 e C-431/93, Van Schijndel, Racc. pag. 4705, punti 16 e 17; 14 dicembre 1995, causa C-312/93, Peterbroeck, Racc. pag. I-4599, punto 12; 17 luglio 1997, causa C-242/95, GT-Link, Racc. pag. I-4449, punti 24 e 27; 1_ giugno 1999, Eco Swiss, causa C-126/97, non ancora pubblicata nella Raccolta, punti 31-41).

(14) - V. art. 10, nn. 1 e 4, legge n. 26/1984.

(15) - Nella sentenza 26 settembre 1996, Arcaro, causa C-168/95 (Racc. pag. I-4705), la Corte, premesso correttamente che il diritto comunitario non consente ai giudici nazionali di eliminare disposizioni nazionali in contrasto con una disposizione di una direttiva non trasposta, ha aggiunto che il rimedio dell'«interpretazione conforme» incontra un limite qualora tale interpretazione comporti che ad un singolo venga opposto un obbligo previsto da una direttiva non trasposta ovvero, a maggior ragione, qualora abbia l'effetto di determinare o aggravare, in forza della direttiva e in mancanza di una legge emanata per la sua attuazione, la responsabilità penale di coloro che ne trasgrediscono le disposizioni (punto 42). La Corte ha dunque giustamente escluso che, in nome dell'«interpretazione conforme» del diritto interno rispetto ad una direttiva non recepita, si arrivi ad imporre una sanzione, specie se di carattere penale, a carico di un privato per violazione della direttiva non recepita.

(16) - Senza pretesa di esaustività, mi limito a ricordare: D. Simon, La directive européenne, Parigi, 1997; pag. 4 ss., ove si sostiene che «l'obligation d'écarter les règles nationales contraires au droit communautaire s'impose au juge national en vertu du principe de primauté, y compris si la norme en cause est déporvue d'effet direct. Si le juge national (...) ne peut se sustituer à l'autorité de transposition, rien ne lui interdit en revanche d'écarter l'application d'une règle nationale incompatible avec une norme qui lui est hiérarchiquement supérieure en vertu du principe de primauté. A contrario, toute autre solution, qui aurait pour conséquence d'autoriser les juridictions nationales à faire prévaloir une norme interne incompatible avec le droit communautaire, remettrait directement en cause la primauté du droit communautaire et plus précisément, en l'occurrence, l'effet obligatoire et l'uniformité d'application des directives. Certes, l'analyse proposée suppose un découplage entre effet direct et primauté, mais cette dissociation paraît précisément constituer l'un des axes dominants de l'évolution récente de la jurisprudence de la Cour de justice comme des juridictions nationales» (corsivo aggiunto); Prechal, Directives in European Community Law, Amsterdam, 1995, in particolare pagg. 121 e 122: «if the theoretical underpinning of the principle of supremacy is the conception of an autonomous Community legal order involving a transfer of powers to the Community and consequent limitations of Member States' sovereign rights (...), national legal rules which are contrary to a directive cannot apply or cannot validly be adopted, as they are ultra vires. (...) in practice the construction often amounts to giving directivers and Community law in general a higher ranking in the hierarchy of norms which are valid within a national legal system»; A. Ruggeri, Continuo e discontinuo nella giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sent. n. 170 del 1984, in tema di rapporti tra ordinamento comunitario e ordinamento interno: dalla «teoria» della separazione alla «prassi» dell'integrazione intersistemica?, in Giurisprudenza costituzionale, 1991, pagg. 1583, 1608: «scaduto inutilmente il termine stabilito per la loro attuazione, per una rigorosa, coerente affermazione della primauté, le leggi difformi, e non prontamente aggiornate agli impegni comunitari, dovranno considerarsi affette da vizio di illegittimità costituzionale sopravvenuta, così come illegittime si dimostrano quelle contrarie eventualmente adottate in un tempo successivo». V. anche Timmermans, Directives: their Effects within the National Legal Systems, in Common Market Law Review, 1979, pag. 533 ss.; Galmot, Bonichot, La Cour de justice européenne et la trasposition des directives en droit national, in Revue Française de Droit Administratif, 1988, pag. 4 ss.; Manin, L'invocabilité des directives: quelques interrogations, in Revue Trimestrielle de droit européen, 1990, pagg. 669, 690; Bach, Direkte Wirkung von EG-Richtlinien, JZ, 1990, pag. 1108 ss.; Lenaerts, L'égalité de traitement en droit communautaire, in Cahiers de droit européen, 1991, pag. 38 e nota 120: Slot, Commento alla sentenza C.I.A. Security International SA, in Common Market Law Review, 1996, pag. 1036, 1049; Timmermans, Community Directives Revisited, Yearbook of European Law, 1998, pag. 1 ss.; Barav, Rapport Général, XVIII Congrés FIDE, Stoccolma, 1998, vol. III (Les directives Communautaires: effets; efficacité, justiciabilité), pag. 433 ss. Sulle incertezze create dalla giurisprudenza della Corte v. C. Holson, T. Downes, Making Sense of Rights: Community Rights in E.C. Law, European Law Review, 1999, pag. 121 ss.

(17) - Sentenze 10 aprile 1984, causa 14/83, Von Colson e Kamann (Racc. pag. 1891, punto 26); 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing (Racc. pag. I-4135, punto 8); 16 dicembre 1993, causa C-334/92, Wagner Miret (Racc. pag. I-6911, punto 20); 25 febbraio 1999, causa C-131/97, Carbonari (Racc. pag. I-1103, punto 48). Si noti che nella sentenza Marleasing la Corte ha richiesto al giudice nazionale di interpretare il proprio codice civile in maniera da escludere l'applicazione delle disposizioni interne che individuavano ipotesi di nullità del contratto costitutivo di una società di capitali non consentite da una direttiva non recepita. Ritengo quindi si possa annoverare anche questa sentenza tra quelle in cui la Corte ha riconosciuto alla direttiva non recepita, indipendentemente dalla natura «verticale» o «orizzontale» del rapporto, l'effetto di «esclusione» nei confronti di norme interne incompatibili. V. Louis, L'ordre juridique communautaire, Bruxelles, 1993, pagg. 147-149.

(18) - Si noti che, in un contesto diverso, detta distinzione appare chiaramente nella sentenza Racke (16 giugno 1998, causa C-162/96, Racc. pag. I-3655), in tema di rapporti tra un atto comunitario derivato e una norma di diritto internazionale generale. Premesso che le norme del diritto consuetudinario internazionale relative alla cessazione ed alla sospensione delle relazioni convenzionali a motivo di un cambiamento fondamentale delle circostanze vincolano le istituzioni della Comunità e fanno parte dell'ordinamento giuridico comunitario (punto 46), la Corte ha rilevato che «nel caso di specie l'amministrato mette in discussione, in via incidentale, la validità di un regolamento comunitario con riguardo a dette norme per avvalersi dei diritti derivantigli direttamente da una accordo stipulato dalla Comunità con un paese terzo. La presente causa non riguarda dunque l'effetto diretto di tali norme» (punto 47; il corsivo è aggiunto). In definitiva, così come nella presente fattispecie, la norma di grado superiore viene utilizzata come parametro di legittimità di quella di grado inferiore, indipendentemente dalla individuazione, in capo al singolo, di un diritto invocabile in giudizio. Se è vero che la presente causa, a differenza della causa Racke, si occupa di rapporti tra ordinamento comunitario e quello nazionale, ritengo che questa circostanza non dovrebbe comportare una soluzione differente, specie se si considera l'approccio tipicamente «monista» che la Corte ha sempre seguito nella definizione dei rapporti tra i due ordinamenti.

(19) - Causa C-194/94 (Racc. pag. I-2201).

(20) - GU L 109, pag. 8, modificata con direttiva del Consiglio 22 marzo 1988, 88/162/CEE (GU L 81, pag. 75).

(21) - Una fattispecie simile a quella in oggetto nella causa CIA Security si presenta nella causa C-443/98, Unilever Italia/Central Food, tuttora pendente.

(22) - Sentenza 28 marzo 1996, causa C-129/94, (Racc. pag. I-1829).

(23) - GU L 103, pag. 1.

(24) - Causa C-431/92 (Racc. pag. I-2189 ss.). V. anche la sentenza 24 ottobre 1996, causa C-72/95, Kraaijeveld (Racc. pag. I-5403, punti 59 ss.).

(25) - Direttiva del Consiglio 27 giugno 1985, 85/337/CEE (GU L 175, pag. 40).

(26) - Per questa interpretazione V. D. Edward, Direct Effect, The Separation of Powers and the Judicial Enforcement of Obligations, in Studi in onore di Giuseppe Federico Mancini, volume II, Diritto dell'Unione europea, Milano, 1998, pagg. 423, 438.

(27) - Causa C-215/97 (Racc. pag. I-2191).

(28) - GU L 382, pag. 17.

(29) - Va notato in proposito che la Corte interpreta spesso disposizioni di una direttiva in controversie tra privati utilizzando dette disposizioni, indipendentemente da norme interne di trasposizione, come la disciplina che regola la fattispecie concreta. V., solo per citarne alcune tra le più recenti, la sentenza 29 giugno 1999, causa C-60/98, Butterfly Music (non ancora pubblicata nella Raccolta); 2 dicembre 1999, causa C-234/98, G.C. Allen (non ancora pubblicata nella Raccolta). Ora, se è vero che, come la Corte stessa ha chiarito, «prescindendo dall'efficacia della direttiva, la sua interpretazione (...) può costituire per il giudice nazionale un utile criterio orientativo al fine di garantire l'interpretazione e l'applicazione della legge interna d'attuazione in senso conforme ai dettami del diritto comunitario» (sentenza 20 maggio 1976, causa 111/75, Mazzalai, Racc. pag. 657, punto 10), detta precisazione non viene in rilievo qualora si accerti, come nel caso di specie, ovvero nella causa Bellone prima ricordata, una insanabile incompatibilità tra la disciplina comunitaria e quella interna. Né vale replicare che la sentenza della Corte potrebbe essere intesa come un'utile valutazione per un'eventuale responsabilità dello Stato membro per violazione dell'obbligo di dare attuazione alla direttiva, in quanto in tal modo si prescinderebbe dalla controversia a qua, che investe due parti private e non lo Stato membro, e si attribuirebbe alla Corte il compito, dalla stessa sempre rifiutato, di pronunciarsi su questioni ipotetiche (sentenza 16 luglio 1992, causa C-343/90, Laurenço Dias, Racc. pag. I-4673). Va poi notato che la fattispecie de qua è diversa da quella che ha dato origine alla sentenza Spano (7 dicembre 1995, causa C-472/93, Racc. pag. I-4321), in cui la Corte, in una vicenda che coinvolgeva due privati, ha interpretato il contenuto di una direttiva non trasposta in quanto il giudice nazionale intendeva accertare «se e come il diritto nazionale, ed in particolare l'art. 2112 del codice civile, possa essere applicato in conformità alla direttiva» (punto 18).

(30) - Ed infatti in questo modo la sentenza è stata interpretata dai giudici italiani. V. la sentenza della Cassazione, Sez. Lavoro, n. 4817, del 18 maggio 1999, che ha escluso l'applicazione, in una controversia tra privati, della disposizione interna che la Corte ha ritenuto non conforme alla direttiva.

(31) - Una questione del genere è oggetto della causa pendente C-343/98, Collino e Chiappero/Telecom Italia, in cui la Corte è chiamata ad interpretare, in una controversia tra privati, la direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (GU L 161, pag. 26).

(32) - Sentenza Simmenthal, citata, punto 17.

(33) - Sentenza 13 luglio 1972, causa 48/71, Commissione/Italia (Racc. pag. 529, punto 7).

(34) - Sentenza 19 gennaio 1993, causa C-101/91, Commissione/Italia (Racc. pag. I-191, punto 23).

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