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Documento 61981CC0283

Conclusioni dell'avvocato generale Capotorti del 13 luglio 1982.
Srl CILFIT e Lanificio di Gavardo SpA contro Ministero della sanità.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Corte suprema di cassazione - Italia.
Obbligo di rinvio pregiudiziale.
Causa 283/81.

Raccolta della Giurisprudenza 1982 -03415

Identificatore ECLI: ECLI:EU:C:1982:267

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

FRANCESCO CAPOTORTI

DEL 13 LUGLIO 1982

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

La questione pregiudiziale attualmente sottoposta al vostro esame concerne una delle disposizioni del Trattato CEE inerenti alle competenze della nostra Corte: precisamente il terzo comma dell'articolo 177. La Corte di cassazione italiana vuole sapere se tale norma «sancisca un obbligo di rimessione (alla Corte comunitaria) che non consenta al giudice nazionale alcuna delibazione di fondatezza della questione sollevata, ovvero subordini, ed in quali limiti, tale obbligo al preventivo riscontro di un ragionevole dubbio interpretativo».

Riassumo brevemente i fatti. Un folto gruppo di operatori italiani del settore laniero, comprendente le società CILFIT e Lanificio di Gavardo insieme a numerose altre, convenne davanti al Tribunale di Roma, nel settembre 1974, il Ministero italiano della sanità, chiedendo il rimborso di somme corrisposte — indebitamente, a loro dire — per diritti di visita sanitaria su importazioni di lane. Queste somme, in effetti, erano state pagate allorché vigeva la legge 30 gennaio 1968, n. 30, la quale fissava tali diritti in 700 lire per ogni quintale di lana importata, ma l'ammontare da corrispondere era stato sensibilmente modificato dalla legge 30 dicembre 1970, n. 1239, e ridotto a sole 70 lire per quintale.

Rimasti soccombenti nel giudizio di primo grado ed in quello di appello, gli attori proposero ricorso per cassazione, sostenendo, tra l'altro, che il diritto di visita non avrebbe potuto essere riscosso perché in contrasto con il regolamento del Consiglio del 28 giugno 1968, n. 827, relativo all'organizzazione comune dei mercati «per taluni prodotti elencati nell'allegato II del Trattato», tra cui i «prodotti di origine animale» indicati sotto la voce 05.15 della Tariffa doganale comune. Il Ministero della sanità, dal canto suo, resistette affermando che le lane non sono comprese nell'allegato II del Trattato CEE e non rientrano quindi nella sfera di applicazione del suddetto regolamento.

Secondo l'amministrazione, la portata del regolamento 827/68 è su questo punto estremamente chiara e tale quindi da escludere «l'esigenza di un rinvio pregiudiziale» alla nostra Corte.

Di fronte a tale situazione, la Corte di cassazione italiana, con ordinanza del 27 maggio 1981, ha sospeso il procedimento e ha rivolto alla nostra Corte il quesito innanzi indicato.

2. 

E noto che, in forza del terzo comma dell'articolo 177, quando una questione relativa all'interpretazione del Trattato, alla validità e interpretazione degli atti compiuti dalle istituzioni comunitarie o eventualmente all'interpretazione degli statuti degli organismi creati con atto del Consiglio «è sollevata in un giudizio pendente davanti a una giurisdizione nazionale, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, tale giurisdizione è tenuta a rivolgersi alla Corte di giustizia». Secondo la Corte di cassazione italiana — che si è resa interprete di un conflitto di opinioni assai vivo sia nella dottrina che nella giurisprudenza degli Stati membri — la regola suriportata si presta a due diverse interpretazioni. Si può infatti ritenere che essa obblighi rigorosamente le giurisdizioni di ultima istanza degli Stati membri a rimettere la cognizione delle questioni pregiudiziali alla nostra Corte senza concedere a quelle giurisdizioni alcuno spazio per delibarle e verificare in che misura esse appaiano suscettibili di più soluzioni. Ma d'altro iato si può pensare che l'articolo 177, 3° comma, consenta alle giurisdizioni nazionali di compiere una indagine preliminare al fine di stabilire, nella loro discrezionalità, se nel caso concreto esista o meno un ragionevole dubbio interpretativo; con la conseguenza che il rinvio verrebbe omesso in tutte le ipotesi in cui non si ravvisi un dubbio del genere.

Conviene precisare a questo punto, prima di passare all'esame del problema prospettato, che la Corte di cassazione, malgrado la formulazione ampia data al suo quesito, ha preso in considerazione soltanto il rinvio pregiudiziale mirante alla interpretazione di una disposizione del Trattato o di un atto derivato, e ha quindi lasciato fuori il problema del rinvio per l'accertamento della validità degli atti comunitari. Ciò mi sembra dimostrato sia dal fatto che la Corte, nella parte finale del quesito, ha esplicitamente menzionato la tesi basata sull'esistenza di un «ragionevole dubbio interpretativo»; sia dalla circostanza che il caso sottoposto al giudice a quo riguardava precisamente l'interpretazione di norme comunitarie derivate (come risulta dall'ordinanza di rinvio).

3. 

È opportuno cercare di stabilire, in primo luogo, se il contesto dell'articolo 177 faccia emergere elementi letterali utili per orientarsi di fronte all'alternativa indicata.

Il fatto che, nel terzo come nel secondo comma, l'oggetto della procedura pregiudiziale sia indicato con il termine «questione» ha indotto alcuni autori a ravvisarvi una conferma della tesi la quale limita la portata dell'obbligo imposto dal comma terzo ai soli casi in cui si pongono veri e propri problemi d'interpretazione, cioè sussistono difficoltà interpretative. Inoltre, dato che i citati commi secondo e terzo parlano di «questioni ... sollevate» in un giudizio pendente davanti a un giudice nazionale, c'è chi sostiene che la norma si sia riferita in tale modo all'ipotesi nella quale una delle parti del giudizio (compreso eventualmente il pubblico ministero, negli ordinamenti che ne prevedono l'intervento) prende l'iniziativa di prospettare al giudice l'esistenza di un problema di interpretazione del diritto comunitario. Tuttavia è noto che una questione pregiudiziale può essere formulata anche ex officio: voi l'avete recentemente ricordato nella sentenza del 16 giugno 1981 in causa 126/80, Salonia (Raccolta 1981, p. 1563, punto 7 della motivazione). Quando ciò accade, si afferma che non può essere messo in dubbio il potere d'apprezzamento del giudice, anche di ultima istanza; e si finisce col ritenere che sarebbe poi illogico riconoscere tale potere discrezionale per le questioni poste d'ufficio, e negarlo per le questioni sollevate dalle parti.

A mio avviso, questa argomentazione conduce a risultati inattendibili. Osservo, in proposito, che il termine «questione» — o piuttosto l'espressione «questione del genere» — viene adoperato nell'articolo 177 in riferimento ai tre gruppi di temi su cui la Corte è competente a pronunciarsi in via pregiudiziale (i tre gruppi corrispondenti alle lettere a, b, e). Nel quadro del secondo comma, le parole «questione» e «punto» figurano come sinonimi (almeno nei testi francese e italiano del Trattato). Mi sembra perciò che sia fuor di luogo colorare il termine «questione» aggiungendovi l'idea del dubbio fondato, della difficoltà, della scelta più o meno complessa; è naturale che, trattandosi di certi aspetti di controversie, vi sia una decisione da prendere «sul punto», e una decisione interpretativa è sempre destinata a rimuovere une stato di obbiettiva incertezza.

Quanto poi alle deduzioni che si pretende di trarre dalla necessità che la questione sia sollevata, credo che giustamente la Cone, nella citata sentenza Salonia, abbia interpretato questo termine come riferibile sia alle parti sia al giudice: non ha senso ritenere il linguaggio dell'articolo conforme soltanto all'ipotesi di una iniziativa delle parti, pur ammettendo che il giudice è in grado di porre la questione pregiudiziale ex officio. Insomma: è sempre l'articolo 177 che consente alle parti e al giudice di sollevare la questione. Se ciò è vero, l'obbligo imposto dal terzo comma vale egualmente in tutti i casi, non soltanto in quelli di un'iniziativa delle parti. D'altro canto, non si vede perché il potere del giudice di formulare d'ufficio una questione pregiudiziale dovrebbe identificarsi col potere di apprezzamento circa l'opportunità di formulare una tale questione. Questa ampia facoltà di scelta spetta indubbiamente ai giudici che non siano di ultima istanza, mentre per le giurisdizioni di ultima istanza è ben concepibile che il loro potere si limiti all'apprezzamento della necessità di una decisione pregiudiziale ai fini dell'emanazione della sentenza, e che ogni qual volta questa necessità venga riconosciuta sia obbligatorio rivolgersi alla Corte.

In definitiva, la sola indicazione estremamente chiara che risulta dal testo dell'articolo 177 è la differenza fra le disposizioni del secondo e del terzo comma: le giurisdizioni menzionate al secondo comma possono domandare alla Corte di pronunciarsi su una questione interpretativa di diritto comunitario; laddove quelle indicate al terzo comma sono tenute a farlo. Questa semplice constatazione sarà ripresa e approfondita più oltre, dopo che il problema sarà stato ridotto ai suoi termini essenziali.

4. 

Sul piano dei principi generali è stata spesso evocata, nella discussione del nostro problema, la teoria dell'atto chiaro, la quale si può sinteticamente tradurre nell'affermazione che, quando una norma è chiara, non vi è bisogno di interpretarla.

Questa teoria è sorta nell'ambito dell'ordinamento francese, che affida l'interpretazione dei Trattati internazionali in via esclusiva all'esecutivo (precisamente al Ministero degli affari esteri) e riserva al giudice soltanto la loro applicazione. In questo quadro i giudici, per contenere il ruolo dell'Esecutivo e limitarne l'interferenza nello svolgimento dell'attività giudiziaria, elaborarono la teoria anzidetta, riservandosi con essa il controllo dell'esistenza o meno di reali difficoltà di interpretazione, e quindi ricuperando una larga zona di discrezionalità. In seguito, il Consiglio di Stato francese — e in misura assai minore la Corte di cassazione — hanno creduto di potere utilizzare quella teoria per circoscrivere la portata dell'obbligo stabilito nel terzo comma dell'articolo 177 del Trattato CEE.

Un'eco della medesima teoria si ritrova nelle conclusioni Lagrange relative alle cause 28 e 30/62, Da Costa en Schaake, pronunziate il 13 marzo 1963 (Raccolta 1963, p. 88-89): vi si affermava, tra l'altro, che «se il testo è perfettamente chiaro, non si tratta più di interpretazione bensì di applicazione, il che rientra nella competenza del giudice (nazionale) la cui funzione è appunto quella di applicare la legge». Tuttavia si avrebbe torto a considerare questa espressione, avulsa dal suo contesto, come un argomento a sostegno della tesi che attribuisce al giudice nazionale il potere di delibare la fondatezza di una questione pregiudiziale sollevata dalle parti. In realtà, dal contesto delle citate conclusioni Lagrange risulta che l'unico intento del mio illustre predecessore stava nel dimostrare la superfluità di una nuova interpretazione da parte della Corte di giustizia quando la stessa questione fosse stata, nella giurisprudenza della Corte, già affrontata e risolta in precedenza. E su questa linea — cioè sulla linea della «autorità dell'interpretazione» fornita dalla nostra Corte — si pose egualmente la sentenza Da Costa del 27 marzo 1963 (Raccolta 1963, p. 75), della quale in seguito avrò occasione di riparlare.

A mio avviso, la teoria dell'atto chiaro non è di alcun aiuto per la soluzione del problema qui esaminato. Se si guarda alla sua origine e alla sua funzione, è facile constatare che essa è servita da correttivo a una situazione propria di un determinato Stato membro, situazione i cui termini non si prestano ad una analogia con quella che stiamo discutendo. In effetti, la separazione, per quanto concerne le norme dei trattati internazionali, fra il momento dell'applicazione, spettante al giudice, e quello dell'interpretazione, riservata al Ministero degli affari esteri, si verifica in Francia ma non in altri Stati membri; d'altra parte, la rivendicazione di maggiore spazio per il potere giudiziario rispetto a certe prerogative del potere esecutivo è cosa ben diversa dalla precisazione dei confini fra i compiti interpretativi attribuiti rispettivamente ai giudici nazionali di ultima istanza e alla Corte di giustizia comunitaria.

In secondo luogo, se si considera il concetto basilare della teoria dell'atto chiaro, esso appare inesatto. L'applicazione di una norma a un determinato caso richiede sempre, logicamente e praticamente, l'identificazione del significato e della portata di quella norma, senza la quale non si giunge a stabilire che essa è adatta al caso di specie, né a trarre dal suo contenuto tutte le conseguenze riferibili al caso. Si può forse dire che, quando si applica una norma, interpretazione e applicazione si intrecciano e si fondono, ma non è certo concepibile che una norma sia applicata senza bisogno di interpretarla, a meno che non si travisi il significato della parola «interpretazione», attribuendole necessariamente un carattere di difficoltà. In ultima analisi, la massima latina spesso ripetuta: «in claris non fit interpretatio» meriterebbe di essere dimenticata: è l'interprete che, svolgendo il suo compito, accerta se una norma sia chiara od oscura. Queste considerazioni valgono ancora di più in un sistema nel quale le norme presentano tutte la difficoltà tecnica di essere redatte in più lingue, e quella sistematica di influire su di una realtà già governata da dieci ordinamenti statali.

Infine, non va trascurata la testimonianza dei fatti: essi dimostrano che la teoria dell'atto chiaro, messa in pratica con riferimento all'articolo 177, ha avuto un'applicazione che non esito a definire aberrante. Il Consiglio di Stato francese, che di quella teoria rimane il principale utilizzatore, si spinse già nel 1967 fino ad affermare che la nozione di misure di effetto equivalente a una restrizione quantitativa all'importazione, ai sensi dell'articolo 30 del Trattato CEE — una delle nozioni più tormentate di questo Trattato, come la giurisprudenza della nostra Corte dimostra — non richiedeva alcuna interpretazione (decisione 27. 1. 1967, Syndicat national des importateurs français en produits laitiers, Recueil Lebon, 1967, p. 41). Successivamente lo stesso Consiglio ha interpretato senza esitazioni gli articoli 7 e 37 del Trattato CEE (decisione 27. 7. 1979, Syndicat national des fabricants de spiritueux consommés à l'eau, Recueil Lebon, 1979, p. 335), l'articolo 113 dello stesso Trattato e la decisione del Consiglio 72/455 (decisione 12. 10. 1979, Syndicat des importateurs de vêtements et produits artisanaux, Recueil Lebon, 1979, p. 373), i regolamenti 950/68 del Consiglio, 3321/75 e 1541/76 della Commissione (decisione 2. 10. 1981, Groupement d'intérêt économique Vipal, Recueil Dalloz-Sirey, 1982, Jurisprudence, p. 209), gli articoli 34 e 37 del Trattato Euratom (decisione 23. 12. 1981, Commune de Thionville, Recueil Lebon, 1981, p. 484). Una particolare menzione merita, inoltre, la decisione del 22 dicembre 1978, relativa al caso Cohn-Bendit (Recueil Lebon, 1978, p. 524), dato che in essa il Consiglio di Stato francese, interpretando l'articolo 189 del Trattato CEE, ha negato ogni possibilità di effetti diretti delle direttive (nel caso di specie, era in gioco la possibilità che un privato invocasse una direttiva in materia di circolazione delle persone), in netto contrasto con la ben nota giurisprudenza della nostra Corte.

Tutto ciò dimostra, io credo, che la teoria dell'atto chiaro porta lontano: porta in sostanza a svuotare di significato il terzo comma dell'articolo 177. Non è dunque partendo da questa teoria — infondata ed ambigua — che si può sperare di rispondere correttamente al quesito proposto dalla Corte di cassazione italiana.

5. 

La difesa del Governo italiano, che ha presentato le sue osservazioni in questa causa, ha ritenuto che il regime del rinvio della questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale, da parte delle varie giurisdizioni, nell'ordinamento italiano, possa offrire elementi utili all'interpretazione dell'articolo 177. Ricordo che, in forza dell'articolo 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, i giudici italiani hanno l'obbligo di rimettere alia Corte costituzionale tutte le questioni di costituzionalità che non siano «manifestamente infondate». Quei giudici esercitano quindi un sindacato preliminare sulla fondatezza della questione; ma è sufficiente il semplice dubbio che una questione non sia manifestamente infondata per far sorgere l'obbligo del rinvio. L'atteggiamento dei giudici nazionali quando una controversia presenta un profilo di diritto comunitario potrebbe essere retto da analoghi criteri ?

A mio avviso, la risposta deve essere negativa, per vari motivi. Evidentemente, il controllo sulla conformità della legge alla Costituzione è cosa ben diversa dal meccanismo tendente ad assicurare l'interpretazione uniforme del diritto comunitario. Per realizzare il primo obbiettivo, tutti i giudici hanno una funzione di filtro della fondatezza della questione, secondo il sistema vigente in Italia; mentre, in relazione al secondo obbiettivo, i Trattati hanno stabilito che alcuni giudici siano pienamente liberi di rivolgere o meno alla Corte domande di interpretazione, ed altri siano obbligati a farlo. Per i giudici di grado inferiore all'ultima istanza, il riconoscimento di una funzione di filtro sarebbe dunque superfluo, mentre per quelli di ultima istanza rappresenterebbe un'attenuazione dell'obbligo sancito dall'articolo 177, ultimo comma. Resterebbe da chiarire su quale base, visto che il tenore testuale della norma è netto e che un principio in vigore nel diritto di uno Stato membro non può certo essere trasposto nel diritto comunitario (ammesso pure che il contentuto del principio sia adattabile alla realtà di questo diverso ordinamento). La verità è che il potere-dovere del giudice di delibare la fondatezza della questione (o meglio la sua non manifesta infondatezza) esiste nell'ordinamento italiano in base ad una apposita norma, mentre nessun equivalente di questa norma è stato inserito nel Trattato di Roma. E questa omissione mi sembra significativa — dal punto di vista della negazione di ogni potere-dovere analogo nel quadro dell'articolo 177 — poiché il meccanismo italiano del rinvio alla Corte costituzionale non era certo ignoto al tempo in cui fu redatto il testo dell'articolo 177.

6. 

In favore della tesi che riduce la portata dell'obbligo, per i giudici di ultima istanza, di rimettere alla Corte di giustizia le questioni di interpretazione del diritto comunitario, vengono addotti pure taluni argomenti che potremmo definire «di opportunità». Si fa notare che una tale interpretazione dell'articolo 177 consente di evitare anzitutto che la Corte di giustizia venga sottoposta ad un carico eccessivo di procedure pregiudiziali il quale rischierebbe di compromettere il suo buon funzionamento, e in secondo luogo che i processi nazionali subiscano rallentamenti o aumenti di costi a causa di questioni pregiudiziali inconsistenti. Si fa notare inoltre che la tesi accennata, in quanto riconosce alle giurisdizioni nazionali un certo margine di valutazione discrezionale, è la più idonea a salvaguardare il ruolo proprio di tali giurisdizioni.

In verità, questo genere di argomentazioni non mi sembra risolutivo. Basterebbe forse obbiettare che il significato di una norma non può dipendere da ragioni di opportunità. Ma conviene tener presenti anche le ragioni che depongono in favore della tesi opposta a quella descritta. In effetti, l'esigenza che le giurisdizioni di ultima istanza rimettano sempre le questioni pregiudiziali alla Corte è avvalorata dalle specifiche caratteristiche tecniche e sistematiche del diritto comunitario, alla quali mi sono già innanzi riferito (testi in più lingue; novità di contenuto e di terminologia che quel diritto presenta). E conviene aggiungere che tra i metodi di interpretazione adottati dalla Corte e quelli a cui si ispirano i giudici nazionali vi sono inevitabili differenze, legate alla diversità del quadro giuridico entro cui operano, rispettivamente, l'una e gli altri.

7. 

Nelle poche occasioni in cui si è pronunciata circa l'articolo 177, ultimo comma, la Corte ha ribadito la natura obbligatoria di questa disposizione, senza fare alcun cenno all'ipotesi di un margine discrezionale di apprezzamento lasciato alle giuridizioni superiori. Mi riferisco alle sentenze 27 marzo 1963, Da Costa, cit.; 18 febbraio 1964 in cause riunite 73 e 74/63, Internationale Crediet (Raccolta 1964, p. 1), 15 luglio 1964 in causa6/64, Costa-Enel (Raccolta 1964, p. 1127); 4 febbraio 1965 in causa 20/64, Albatros (Raccolta 1965/3, p. 1), 24 maggio 1977 in causa 107/76, Hoff-mann-La Roche (Raccolta 1977, p. 957). Osservo che, mentre nella sentenza Costa-Enel la Corte si è limitata a parafrasare la citata norma, e nella sentenza Albatros ha soltanto fatto cenno all'uso «facoltativo o no, secondo i casi» della procedura di cui all'articolo 177, la sentenza Da Costa (confermata nella sostanza dalla sentenza Internationale Crediet) si era soffermata, invece, su due punti: la differenza «fra l'obbligo che l'articolo 177, terzo comma, impone al giudice nazionale di ultima istanza e la facoltà che il secondo comma di detto articolo conferisce a qualsiasi giudice nazionale di deferire alla Corte della Comunità questioni d'interpretazione del Trattato», e la constatazione che l'articolo 177, ultimo comma, «impone, senza restrizioni, ai Fori nazionali ... le cui decisioni non sono impugnabili secondo l'ordinamento interno, di deferire alla Corte qualsiasi questione d'interpretazione davanti ad essi sollevata». Quest'obbligo peraltro, secondo la sentenza Da Costa, sarebbe rimasto privo di senso e di contenuto se la questione sollevata si fosse rivelata «materialmente identica ad altre questioni, sollevate in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale». In tal modo la Corte riconosceva una sola eccezione all'obbligo previsto dalla norma anzidetta: la possibilità di invocare una precedente sentenza pregiudiziale della Corte, relativa alla medesima questione.

Notevole interesse riveste poi, a mio avviso, la citata sentenza 24 maggio 1977 nel caso Hoffmann-La Roche, per avere posto in evidenza, al punto 5 della motivazione, sia la finalità dell'articolo 177 («garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme in tutti gli Stati membri»), sia lo scopo specifico del terzo comma («impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie»). In realtà, è da questi due punti che si deve partire per rispondere al quesito posto dalla Corte di cassazione italiana.

Mi sia infine consentito di ribadire il punto di vista che ebbi occasione di esprimere nel quadro delle conclusioni relative all'anzidetta causa 107/76, Hoffmann-La Roche (Raccolta 1977, p. 973): «trattandosi di interpretare una regola di natura essenzialmente procedurale, come quella dell'articolo 177, terzo comma, ci si deve sforzare di definirne la portata sulla base di criteri obbiettivi e precisi, tali da non lasciare un margine di apprezzamento discrezionale alla giurisdizioni che devono applicarla». È evidente che se si accogliesse l'idea che l'obbligo di rimessione sussista solo in presenza di un ragionevole dubbio interpretativo, si introdurrebbe un elemento soggettivo ed incerto; ciò rischierebbe di impedire alla procedura ex articolo 177 di raggiungere il suo obbiettivo, consistente (come ricordai nelle citate conclusioni) nel «garantire la certezza e l'uniformità di applicazione del diritto comunitario».

8. 

In relazione a questo obbiettivo, i commi secondo e terzo dell'articolo 177 hanno evidentemente una funzione diversa. Il secondo comma assicura alle giurisdizioni nazionali che non siano di ultima istanza la collaborazione della Corte, qualora esse avvertano l'opportunità di affidare alla Corte stessa l'interpretazione di un punto di diritto comunitario. Di conseguenza, l'uniformità e la certezza dell'interpretazione non vengono raggiunte se non in parte: nella misura cioè in cui le giurisdizioni nazionali decidano di avvalersi della possibilità di rinvio delle questioni pregiudiziali. Ma il terzo comma rende obbligatorio tale rinvio, ed è chiaro lo scopo di ottenere che esso sia generale e costante: solo così l'uniformità e la certezza dell'interpretazione, a livello comunitario, possono essere integralmente raggiunte. D'altra parte, il motivo della differenza fra i due commi è ben noto: le giurisdizioni di ultima istanza emettono decisioni definitive, non modificabili, e capaci di influenzare gli orientamenti delle giurisdizioni inferiori dello stesso paese. Il «nucleo duro» della giurisprudenza nazionale, in altri termini, è formato dalle sentenze pronunciate in ultima istanza. E la volontà degli autori del Trattato è stata, chiaramente, di evitare ogni rischio di difformità a questo livello, rimettendo in sostanza alla Corte il compito di «fare giurisprudenza» sulle questioni d'interpretazione delle norme comunitarie, in modo da evitare la difformità, i conflitti di opinione, le conseguenti incertezze.

Se tale è la logica dell'articolo 177, mi sembra indiscutibile che il suo terzo comma debba essere inteso nel senso più idoneo ad assicurare l'interpretazione uniforme del diritto comunitario. Ciò comporta quattro conseguenze:

a)

l'esistenza di una questione d'interpretazione deve essere riconosciuta ogni volta che, nella materia della controversia, vi sia un aspetto, un punto regolato da norme comunitarie (indipendentemente dalla gravità dei dubbi che esso può sollevare) e che il giudice di ultima istanza debba pronunciarsi al riguardo, per emettere la sua sentenza;

b)

è indifferente che la questione venga sollevata dalle parti o individuata dal giudice, così come è indifferente l'atteggiamento delle parti (di concordia o di opposizione, sul punto di cui trattasi) ;

c)

si deve escludere che il giudice di ultima istanza abbia un potere discrezionale di apprezzare la fondatezza o meno della questione sollevata dalle parti, o di decidere se il punto di diritto comunitario rilevante per la decisione debba essere valutato da lui stesso o dalla Corte di giustizia;

d)

l'obbligo di rimessione alla Corte della questione pregiudiziale viene meno soltanto quando già esiste una sentenza pregiudiziale della Corte sulla medesima questione, ma beninteso nulla vieta al giudice di rivolgersi nuovamente alla Corte allo scopo di ottenere un'interpretazione diversa della norma comunitaria o chiarimenti e specificazioni dell'interpretazione già data.

Uno degli argomenti critici che è stato espresso contro la tesi da me accolta consiste nell'obbiettare che la procedura pregiudiziale viene in tal modo concepita come un meccanismo automatico; e ciò proprio quando spetta alle giurisdizioni supreme — per lo più gelose del loro rango nel sistema giudiziario nazionale — di mettere in moto quella procedura. Ma non si deve trascurare il fatto che spetta comunque al giudice nazionale, sia esso di prima o di ultima istanza, la responsabilità di valutare la pertinenza della questione, cioè di stabilire se l'interpretazione di una norma comunitaria sia realmente necessaria per emanare la sua sentenza. Questo tipo di controllo è caratterizzato da un largo margine di discrezionalità, e la nostra Corte ha sempre riconosciuto che esso rientra nell'esclusiva competenza del giudice nazionale. Ricordo in proposito le sentenze 14 febbraio 1980 nella causa 53/79, ONPTS e/Damiani (Raccolta 1980, p. 273), 29 novembre 1978 nella causa 83/78, Pigs Marketing Board e/Redmond (Raccolta 1978, p. 2347), 30 novembre 1977 nella causa 52/77, Cayrol c/Rivoira (Raccolta 1977, p. 2261).

Desidero infine notare che il ricorso alla procedura di cui all'articolo 177 è stato fatto, da un'autorevole giurisdizione nazionale di ultima istanza, in un caso nel quale non si ravvisavano dubbi circa il significato della regola comunitaria da applicarsi (l'articolo 119 del Trattato CEE), ma d'altra parte non esisteva ancora un orientamento giurisprudenziale consolidato della Corte di giustizia al riguardo. Mi riferisco alle decisioni della House of Lords nella causa Garland c/British Rail Engineering Ltd.: precisamente all'ordinanza di rinvio del 19 gennaio 1981 e al giudizio redatto da Lord Diplock il 22 aprile 1982 (Common Market Law Reports, 1982, p. 179).

9. 

La Commissione che, come d'abitudine, ha presentato le sue osservazioni in questo procedimento, si è schierata in favore della tesi secondo la quale l'obbligo del rinvio pregiudiziale alla Corte, per le giurisdizioni di ultima istanza, sorgerebbe soltanto in presenza di un dubbio interpretativo, ma poi ha cercato di individuare una serie di circostanze obbiettive, ricorrendo le quali il dubbio non potrebbe essere negato e la rimessione dovrebbe essere considerata obbligatoria. Sebbene il proposito di questa linea di pensiero sia quello di ridurre entro confini molto ristretti il margine di apprezzamento del giudice nazionale, e quindi di garantire, nella grandissima maggioranza dei casi, l'intervento della Corte di giustizia, la tesi menzionata non può essere condivisa. Osservo che solo in apparenza essa realizza un ancoraggio dell'obbligo a fattori oggettivi (per esempio, all'esistenza di un contrasto tra i giudici di merito di prima e seconda istanza sull'interpretazione di una regola comunitaria), ma che ciò malgrado essa riconosce al giudice nazionale un margine di valutazione circa la fondatezza o meno della questione di diritto comunitario sulla quale egli deve prendere posizione. Ora, a mio parere, il riconoscimento di questa discrezionalità urta contro la funzione dell'articolo 177; l'interesse oggettivo e generale all'interpretazione uniforme del diritto comunitario, ad opera della Corte, non può essere subordinato alla coincidenza o meno fra le soluzioni fornite dai giudici nazionali nelle precedenti fasi di un giudizio di merito, né all'atteggiamento concorde o discorde delle parti. L'articolo 177 si colloca nell'ottica di una interpretazione della norma comunitaria capace di giovare a tutta la Comunità — e quindi giustamente la citata sentenza Da Costa riconobbe fin dal 1963 il valore dei precedenti elaborati dalla Cone stessa — ma proprio per questo le vicende particolari di una determinata procedura davanti al giudice nazionale non possono influenzare la portata dell'obbligo previsto dal terzo comma di quella norma. A parte ciò, la posizione della Commissione mi sembra il risultato di un itinerario inverso rispetto a quello corretto: nulla giustifica, né nel testo né nella funzione dell'articolo 177, che si consideri punto di partenza una interpretazione riduttiva dell'obbligo previsto nel citato terzo comma; mentre una interpretazione rigorosa non esclude l'attenuazione già messa in luce dalla sentenza Da Costa.

10. 

In conclusione, sono d'avviso che la Corte dovrebbe rispondere nel modo che segue al quesito rivoltole dalla Corte di cassazione italiana, con ordinanza del 27 maggio 1981, emessa nella causa Sri CILFIT ed altri, e Lanificio Gavardo e/Ministero della sanità:

L'articolo 177, comma terzo, del Trattato CEE va interpretato nel senso che le giurisdizioni degli Stati membri, avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno, hanno l'obbligo di rivolgersi alla Corte di giustizia chiedendo che essa si pronunci sull'interpretazione del diritto comunitario primario o derivato, ogni qual volta debbano prendere posizione su di un punto di diritto comunitario, prospettato dalle parti o sollevato ex officio, per emanare la loro sentenza.

Anche qualora il giudice nazionale ritenga che il punto di diritto comunitario sul quale egli deve prendere posizione non presenti oscurità o ambiguità — e pertanto non abbia dubbi sulla sua interpretazione — sussiste l'obbligo di chiedere la pronuncia pregiudiziale della Corte, a meno che il medesimo punto non abbia già formato oggetto di una sentenza interpretativa della Corte stessa.

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