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Dokument 62014CJ0095

    Sentenza della Corte (Terza Sezione) del 16 luglio 2015.
    Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC) e Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (Uni.co.pel) contro FS Retail e a.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunale di Milano.
    Rinvio pregiudiziale – Libera circolazione delle merci – Articoli da 34 TFUE a 36 TFUE – Misure di effetto equivalente – Direttiva 94/11/CE – Articoli 3 e 5 – Armonizzazione esauriente – Divieto di ostacolare il commercio delle calzature conformi alle disposizioni in materia di etichettatura della direttiva 94/11 – Normativa nazionale che impone l’indicazione del paese d’origine sull’etichetta di prodotti trasformati all’estero e che utilizza l’espressione in lingua italiana “pelle” – Articoli messi in libera pratica.
    Causa C-95/14.

    Zbiór orzeczeń – ogólne

    Identyfikator ECLI: ECLI:EU:C:2015:492

    SENTENZA DELLA CORTE (Terza Sezione)

    16 luglio 2015 ( *1 )

    «Rinvio pregiudiziale — Libera circolazione delle merci — Articoli da 34 TFUE a 36 TFUE — Misure di effetto equivalente — Direttiva 94/11/CE — Articoli 3 e 5 — Armonizzazione esauriente — Divieto di ostacolare il commercio delle calzature conformi alle disposizioni in materia di etichettatura della direttiva 94/11 — Normativa nazionale che impone l’indicazione del paese d’origine sull’etichetta di prodotti trasformati all’estero e che utilizza l’espressione in lingua italiana “pelle” — Articoli messi in libera pratica»

    Nella causa C‑95/14,

    avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, dal Tribunale di Milano (Italia), con decisione del 20 febbraio 2014, pervenuta in cancelleria il 27 febbraio 2014, nel procedimento

    Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC),

    Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (Uni.co.pel)

    contro

    FS Retail,

    Luna Srl,

    Gatsby Srl,

    LA CORTE (Terza Sezione),

    composta da M. Ilešič, presidente di sezione, A. Ó Caoimh, C. Toader (relatore), E. Jarašiūnas e C.G. Fernlund, giudici,

    avvocato generale: E. Sharpston

    cancelliere: L. Carrasco Marco, amministratore

    vista la fase scritta del procedimento e in seguito all’udienza del 15 gennaio 2015,

    considerate le osservazioni presentate:

    per l’Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC), da G. Floridia, A. Tornato, M. Mussi, A. Fratini e G.P. Geminiani, avvocati;

    per l’Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (Uni.co.pel), da G. Floridia, A. Tornato, M. Mussi, G.P. Geminiani e A. Fratini, avvocati;

    per la FS Retail, da M. Sapio, avvocato;

    per la Luna Srl, da A. Cattel e M. Concetti, avvocati;

    per la Gatsby Srl, da A. Terenzi, avvocato;

    per il governo ceco, da M. Smolek, in qualità di agente;

    per il governo tedesco, da T. Henze e J. Möller, in qualità di agenti;

    per il governo olandese, da M. Bulterman, B. Koopman e H. Stergiou, in qualità di agenti;

    per il governo svedese, da A. Falk, C. Meyer-Seitz, U. Persson, N. Otte Widgren, K. Sparrman, L. Swedenborg, E. Karlsson e F. Sjövall, in qualità di agenti;

    per la Commissione europea, da G. Gattinara e G. Zavvos, in qualità di agenti,

    sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza del 23 aprile 2015,

    ha pronunciato la seguente

    Sentenza

    1

    La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione degli articoli da 34 TFUE a 36 TFUE, degli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 marzo 1994, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore (GU L 100, pag. 37), e dell’articolo 60 del regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Unione (GU L 269, pag. 1; in prosieguo: il «codice doganale dell’Unione»).

    2

    Questa domanda è stata proposta nel quadro di una controversia che oppone l’Unione Nazionale Industria Conciaria (UNIC), un sindacato nazionale di categoria, membro della confederazione dell’industria italiana che raggruppa e rappresenta gli operatori più qualificati nel settore della conceria, e l’Unione Nazionale dei Consumatori di Prodotti in Pelle, Materie Concianti, Accessori e Componenti (Uni.co.pel), un’associazione di consumatori senza scopo di lucro, che persegue obiettivi di solidarietà sociale, alle società di diritto italiano FS Retail, Luna Srl e Gatsby Srl, in merito alla messa in commercio in Italia, senza indicazione concernente il paese d’origine del prodotto, delle calzature recanti sulla suola interna la denominazione generica, in lingua italiana, «pelle» o «vera pelle».

    Contesto normativo

    Il diritto dell’Unione

    3

    Ai sensi dell’articolo 8 della direttiva 98/34/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 giugno 1998, che prevede una procedura di informazione nel settore delle norme e delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione (GU L 204, pag. 37), come modificata dalla direttiva 98/48/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 luglio 1998 (GU L 217, pag. 18; in prosieguo: la «direttiva 98/34»), gli Stati membri devono comunicare immediatamente, in linea di principio, alla Commissione europea ogni progetto di regola tecnica che essi intendano adottare. Essi le comunicano anche i motivi che rendono necessario adottare tale regola tecnica a meno che non risultino già dal progetto. La Commissione comunica senza indugio agli altri Stati membri il progetto di regola tecnica e tutti i documenti che le sono stati trasmessi. Gli Stati membri comunicano senza indugio alla Commissione il testo definitivo di una regola tecnica.

    4

    A norma dell’articolo 9 di questa direttiva l’adozione di un progetto di regola tecnica comunicato ai sensi dell’articolo 8 dev’essere rinviato di tre mesi a decorrere dalla data in cui la Commissione ha ricevuto la comunicazione del progetto di regola tecnica. Quest’articolo prevede segnatamente che detto periodo è esteso a sei mesi se la Commissione o un altro Stato membro emette un parere circostanziato, secondo il quale la misura proposta presenta aspetti che possono eventualmente creare ostacoli alla libera circolazione delle merci nell’ambito del mercato interno. Il periodo di sospensione è esteso a dodici mesi se, nei tre mesi successivi alla data di ricevimento della comunicazione, la Commissione notifica la sua intenzione di proporre o adottare una normativa sulla materia oggetto del progetto di regola tecnica.

    5

    L’articolo 24 del regolamento (CE) n. 2913/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario (GU L 302, pag. 1), così disponeva:

    «Una merce nella cui produzione sono intervenuti due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata, effettuata in un’impresa attrezzata a tale scopo e che abbia come risultato la fabbricazione di un prodotto nuovo o che rappresenti una fase importante della fabbricazione».

    6

    Il codice doganale dell’Unione, entrato in vigore il 31 ottobre 2013, ha abrogato il regolamento n. 2913/92. Tuttavia, l’articolo 60 di questo codice, che ha un contenuto sostanzialmente identico a quello dell’articolo 24 del regolamento n. 2913/92, si applica, in forza dell’articolo 288, paragrafo 2, di detto codice, solo a partire dal 1o maggio 2016.

    7

    I considerando dal primo al terzo, nonché quinto e settimo, della direttiva 94/11 prevedono quanto segue:

    «considerando che in alcuni Stati membri esiste una normativa sull’etichettatura delle calzature, intesa a tutelare e informare il pubblico nonché a assicurare i legittimi interessi dell’industria;

    considerando che la disparità tra tali normative rischia di creare ostacoli agli scambi intracomunitari e di pregiudicare il funzionamento del mercato interno;

    considerando che è opportuno, per evitare i problemi dovuti alla coesistenza di sistemi diversi, specificare gli elementi esatti di un sistema comune di etichettatura per le calzature;

    (…)

    considerando che è nell’interesse reciproco dei consumatori e dell’industria della calzatura introdurre un sistema che riduca i rischi di frode, indicando la natura esatta dei materiali impiegati nelle componenti principali delle calzature;

    (…)

    considerando che l’armonizzazione delle legislazioni nazionali costituisce il mezzo idoneo per sopprimere questi ostacoli al libero scambio; che tale obiettivo non può essere raggiunto in modo soddisfacente dai singoli Stati membri; che la presente direttiva stabilisce soltanto i requisiti indispensabili alla libera circolazione dei prodotti ai quali si applica,

    (…)».

    8

    L’articolo 1, paragrafo 1, secondo comma, di questa direttiva enuncia quanto segue:

    «Ai fini della presente direttiva, si intendono per “calzature”: tutti i prodotti dotati di suole intesi a proteggere o coprire il piede, comprese le parti messe in commercio separatamente di cui all’allegato I».

    9

    L’articolo 2 della direttiva di cui trattasi così dispone:

    «1.   Gli Stati membri adottano tutte le misure necessarie per assicurare che solo le calzature conformi ai requisiti di etichettatura della presente direttiva possano avere accesso al mercato, fatte salve le altre disposizioni comunitarie in materia.

    2.   Qualora vengano immesse sul mercato calzature non conformi alle disposizioni in materia di etichettatura, lo Stato membro competente adotta le opportune misure previste nella legislazione nazionale».

    10

    L’articolo 3 della stessa direttiva è formulato nel modo seguente:

    «Fatti salvi gli altri obblighi contenuti nella normativa comunitaria, gli Stati membri non possono vietare o impedire la commercializzazione sul loro territorio di calzature conformi ai requisiti di etichettatura della presente direttiva, applicando disposizioni nazionali non armonizzate che disciplinano l’etichettatura di determinate calzature o di calzature in generale».

    11

    L’articolo 4 della stessa direttiva prevede quanto segue:

    «1.   L’etichetta fornisce informazioni sul materiale determinato ai sensi dell’allegato I che costituisce almeno l’80% della superficie della tomaia, del rivestimento della tomaia e suola interna della calzatura e almeno l’80% del volume della suola esterna. Se nessun materiale raggiunge almeno l’80% è opportuno fornire informazioni sulle due componenti principali.

    2.   Tali informazioni sono fornite sulle calzature. Il fabbricante o il suo rappresentante con sede nella Comunità può scegliere simboli o informazioni scritte almeno nella (nelle) lingua (lingue) che può (possono) essere determinata (determinate) dallo Stato membro di consumo in conformità del trattato, definiti e illustrati nell’allegato I. Nelle disposizioni nazionali gli Stati membri fanno in modo che i consumatori siano correttamente informati del significato dei simboli. Essi vigilano affinché tali disposizioni non creino ostacoli agli scambi.

    3.   Ai sensi della presente direttiva l’etichettatura consiste nel munire almeno uno degli articoli di ciascun paio di calzature delle indicazioni prescritte. L’etichetta può essere stampata, incollata, goffrata o applicata a un supporto attaccato.

    4.   L’etichetta deve essere visibile, saldamente applicata e accessibile e la dimensione dei simboli deve essere sufficiente a rendere agevole la comprensione delle informazioni contenute sull’etichetta. L’etichetta non deve poter indurre in errore il consumatore.

    5.   Il fabbricante o il suo rappresentante con sede nella Comunità ha l’obbligo di fornire l’etichetta ed è responsabile dell’esattezza delle informazioni in essa contenute. Se né il fabbricante, né il suo rappresentante hanno sede nella Comunità, tale obbligo incombe alla persona responsabile della prima immissione nella Comunità. Il venditore al dettaglio deve assicurarsi della presenza sulle calzature in vendita dell’idonea etichetta prescritta dalla presente direttiva».

    12

    Ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 94/11:

    «Informazioni scritte supplementari apposte se del caso sull’etichetta potranno accompagnare le indicazioni richieste ai sensi della presente direttiva. Gli Stati membri tuttavia non possono vietare od ostacolare l’immissione sul mercato di calzature conformi al disposto della presente direttiva, come previsto all’articolo 3.»

    Il diritto italiano

    13

    L’articolo 3, comma 2, della legge del 14 gennaio 2013, n. 8, recante nuove disposizioni in materia di utilizzo dei termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» e di quelli da essi derivanti o loro sinonimi (GURI n. 25 del 30 gennaio 2013; in prosieguo: la «legge n. 8/2013») prevede segnatamente che «è vietato mettere in vendita o altrimenti in commercio con i termini “cuoio”, “pelle”, “pelliccia” e loro derivati o sinonimi, sia come aggettivi che sostantivi, anche se inseriti quali prefissi o suffissi in altre parole ovvero sotto i nomi generici di “pellame”“pelletteria” o “pellicceria”, anche tradotti in lingua diversa dall’italiano, articoli che non siano ottenuti esclusivamente da spoglie animali lavorate appositamente per la conservazione delle loro caratteristiche naturali e, comunque, prodotti diversi da quelli indicati all’art. 1». I prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri e muniti di diciture in italiano devono obbligatoriamente recare un’etichettatura indicante il loro Stato di provenienza.

    14

    In applicazione di questa normativa nazionale costituisce una presunzione assoluta di frode del consumatore la messa in commercio di prodotti contenenti cuoio non italiano e recanti diciture in lingua italiana.

    15

    La legge n. 8/2013 non fa distinzione tra le merci prodotte in paesi terzi e quelle legalmente fabbricate o messe in commercio in uno Stato membro dell’Unione europea diverso dalla Repubblica italiana.

    16

    Ai sensi dell’articolo 4 di questa legge la violazione del divieto di messa in commercio previsto da tale normativa comporta l’applicazione di sanzioni amministrative di ammontare compreso tra EUR 10000 e 50000 nonché il sequestro amministrativo della merce interessata.

    Fatti e questioni pregiudiziali

    17

    Con ricorso cautelare depositato il 27 settembre 2013 dinanzi al giudice del rinvio, l’UNIC e l’Uni.co.pel hanno chiesto l’adozione di misure cautelari urgenti nei confronti delle convenute nel procedimento principale.

    18

    Le ricorrenti nel procedimento principale rimproverano a queste ultime di porre in commercio sul territorio italiano, in violazione della legge n. 8/2013, calzature recanti sulla suola interna la denominazione generica, in lingua italiana, «pelle» o «vera pelle», senza nessuna indicazione concernente il paese d’origine del prodotto. In tal modo, il pubblico sarebbe indotto in errore in merito all’origine del cuoio, attribuendogli erroneamente un’origine italiana a causa del marchio italiano apposto sul prodotto. Inoltre, la stampigliatura «pelle» o «vera pelle» apposta sulla suola interna farebbe pensare a torto che la calzatura nel suo insieme, compresi i suoi elementi in cuoio, sia di origine italiana, quando invece non lo è.

    19

    Di conseguenza, le ricorrenti hanno chiesto al giudice del rinvio che ingiunga alle convenute nel procedimento principale di non mettere più in circolazione sul mercato italiano calzature siffatte, qualora siano sprovviste di una menzione che indichi il paese d’origine del cuoio utilizzato. Esse chiedono parimenti che questa ingiunzione sia munita di penale.

    20

    Dalla decisione di rinvio si evince che talune calzature oggetto della controversia dinanzi a detto giudice sono prodotte in paesi terzi, quali la Cina, come indica l’etichetta in plastica apposta sulla suola esterna. Tuttavia, secondo le ricorrenti nel procedimento principale, quest’indicazione non è conforme alle disposizioni della legge n. 8/2013, in quanto non riguarda specificamente l’origine del cuoio quale elemento della calzatura, ma è relativa all’origine della calzatura nel suo insieme. Pertanto, in tale contesto, l’apposizione della menzione «vera pelle» sulla suola interna potrebbe indurre il consumatore a pensare che queste calzature, benché prodotte all’estero, siano state realizzate con cuoio di origine italiana. Viceversa, per altre calzature, l’origine europea o extraeuropea del cuoio utilizzato sarebbe controversa.

    21

    Il giudice del rinvio ritiene anzitutto che, in forza della sentenza Eggers (13/78, EU:C:1978:182, punto 25), le disposizioni in questione della legge n. 8/2013 potrebbero costituire misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative contrarie al diritto dell’Unione, poiché una presunzione di qualità collegata all’ubicazione nazionale di tutto o di una parte del processo produttivo, che pertanto limiti o sfavorisca un processo le cui fasi si svolgerebbero in tutto o in parte in altri Stati membri, è incompatibile con il mercato unico.

    22

    Esso chiede parimenti se il diritto dell’Unione osti a detta normativa nazionale unicamente quando essa ha ad oggetto prodotti in cuoio lavorati e posti in commercio legalmente negli Stati membri, oppure anche se essa riguardi i prodotti in cuoio lavorati in paesi terzi e non ancora posti legalmente in commercio nell’Unione.

    23

    Detto giudice desidera poi sapere se l’articolo 3 della legge n. 8/2013, che vieta la circolazione delle calzature le cui diciture sono tuttavia conformi alle prescrizioni della direttiva 94/11, debba essere considerato come fonte di un obbligo di indicazione della provenienza incompatibile con l’articolo 5 di detta direttiva.

    24

    Infine, esso desidera sapere se il codice doganale dell’Unione e la norma secondo la quale una merce, nella cui produzione siano intervenuti due o più paesi, è originaria del paese dove è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale non ostino parimenti alla normativa nazionale in questione nel procedimento principale.

    25

    Alla luce di quanto esposto, il Tribunale di Milano ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

    «1)

    Se gli articoli [da 34 TFUE a 36 TFUE], correttamente interpretati, ostino all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge nazionale n. [8/2013] – che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza per prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana “pelle” – ai prodotti in pelle legalmente lavorata o commercializzata in altri Stati membri dell’Unione europea, risolvendosi tale legge nazionale in una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa vietata dall’articolo [34 TFUE] e non giustificata dall’articolo 36 TFUE.

    2)

    Se gli articoli [da 34 TFUE a 36 TFUE], correttamente interpretati, ostino all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge nazionale n. [8/2013] – che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza per prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana “pelle” – ai prodotti in pelle ottenuta da lavorazioni in paesi non membri dell’Unione europea e non già legalmente commercializzati nell’Unione, risolvendosi tale legge nazionale in una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa vietata dall’articolo [34 TFUE] e non giustificata dall’articolo 36 TFUE.

    3)

    Se gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11(…), correttamente interpretati, ostino all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge nazionale n. [8/2013] – che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza per prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana “pelle” – ai prodotti in pelle legalmente lavorata o legalmente commercializzata in altri Stati membri dell’Unione.

    4)

    Se gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11(…), correttamente interpretati, ostino all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, della legge nazionale n. [8/2013], che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza, per prodotti in pelle ottenuta da lavorazioni in paesi non membri dell’Unione europea e non già legalmente commercializzati nell’Unione.

    5)

    Se l’articolo 60 del regolamento (…) n. 952/2013 (…), correttamente interpretato, osti all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, [della] legge nazionale n. [8/2013] – che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza per prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana “pelle” – a prodotti in pelle ottenuta da lavorazioni in paesi membri dell’Unione europea o non già legalmente commercializzati nell’Unione.

    6)

    Se l’articolo 60 del regolamento (…) n. 952/2013 (…), correttamente interpretato, osti all’applicazione dell’articolo 3, comma 2, [della] legge nazionale n. [8/2013] – che fa obbligo di etichettatura recante l’indicazione dello Stato di provenienza per prodotti ottenuti da lavorazioni in paesi esteri che utilizzano la dicitura italiana “pelle” – a prodotti in pelle ottenuta da lavorazioni in paesi non membri dell’Unione europea e non già legalmente commercializzati nell’Unione».

    Sulle questioni pregiudiziali

    Sulla direttiva 98/34

    26

    In via preliminare, occorre notare che la Commissione deduce l’inapplicabilità delle disposizioni della legge n. 8/2013 in quanto queste ultime sono state adottate in violazione del periodo di sospensione di tre mesi previsto dall’articolo 9 della direttiva 98/34.

    27

    La Commissione afferma di aver ricevuto comunicazione della legge n. 8/2013 il 29 novembre 2012 e ha rilevato, conformemente all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 98/34, che il termine per l’adozione di questa legge doveva essere rinviato sino al 1o marzo 2013. In manifesta violazione di questa norma, la legge n. 8/2013 sarebbe stata adottata il 14 gennaio 2013 e sarebbe entrata in vigore il 14 febbraio 2013.

    28

    In udienza, l’UNIC e l’Uni.co.pel hanno confermato le informazioni fornite dalla Commissione e hanno aggiunto che le autorità italiane hanno adottato provvedimenti per porre rimedio a questa violazione delle norme obbligatorie della direttiva 98/34, abrogando la legge n. 8/2013 in forza dell’articolo 26 della legge del 30 ottobre 2014, n. 161. Ai sensi di questa legge abrogativa, una nuova normativa in materia dev’essere adottata entro dodici mesi, in osservanza degli obblighi di comunicazione delle regole tecniche previsti dalla direttiva 98/34.

    29

    A questo proposito, è importante ricordare che una regola tecnica non può essere applicata quando essa non è stata comunicata conformemente all’articolo 8, paragrafo 1, de la direttiva 98/34 oppure quando, pur essendo stata comunicata, essa è stata approvata e posta in esecuzione prima della scadenza del periodo di sospensione di tre mesi previsto dall’articolo 9, paragrafo 1, di detta direttiva (v. sentenze CIA Security International, C‑194/94, EU:C:1996:172, punti 41, 44 e 54, nonché Unilever, C‑443/98, EU:C:2000:496, punto 49).

    30

    Di conseguenza, nel procedimento principale spetta al giudice del rinvio verificare se la legge n. 8/2013 sia entrata in vigore in violazione del termine di sospensione previsto dall’articolo 9 della direttiva 98/34. In caso affermativo, la violazione di detto termine costituisce un vizio sostanziale di procedura tale da comportare l’inapplicabilità della regola tecnica in questione. Come rilevato parimenti dall’avvocato generale nei paragrafi da 44 a 47 delle sue conclusioni, l’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013, in una simile ipotesi, non potrà essere opposto ai soggetti dell’ordinamento.

    31

    Tuttavia, dato che le questioni relative all’interpretazione del diritto dell’Unione proposte dal giudice nazionale nel contesto normativo e materiale che esso definisce sotto la propria responsabilità, e di cui non spetta alla Corte verificare l’esattezza, godono di una presunzione di rilevanza (sentenza Melki e Abdeli, C‑188/10 e C‑189/10, EU:C:2010:363, punto 27 nonché giurisprudenza ivi citata) occorre rispondere alle questioni proposte dal giudice del rinvio.

    Sulle questioni prima e terza

    32

    Con le sue questioni prima e terza, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio chiede sostanzialmente se gli articoli da 34 TFUE a 36 TFUE nonché gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa di uno Stato membro, quale quella di cui trattasi nel procedimento principale, che vieta, fra l’altro, il commercio degli elementi in cuoio delle calzature provenienti da altri Stati membri o da paesi terzi e che, in quest’ultimo caso, sono già state poste in commercio in un altro Stato membro o nello Stato membro interessato, quando questi prodotti non riportano indicazioni relative al loro paese d’origine.

    33

    Dato che queste due questioni vertono sia sull’interpretazione del diritto primario sia su quella della direttiva 94/11, occorre anzitutto ricordare che, in base a una giurisprudenza consolidata, qualsiasi misura nazionale in un ambito che ha costituito oggetto di un’armonizzazione esauriente a livello dell’Unione dev’essere valutata alla luce delle disposizioni di questa misura di armonizzazione, e non di quelle del diritto primario (sentenze Gysbrechts e Santurel Inter, C‑205/07, EU:C:2008:730, punto 33, nonché Commissione/Belgio, C‑421/12, EU:C:2014:2064, punto 63).

    34

    Occorre pertanto, in primo luogo, verificare se l’armonizzazione effettuata da questa direttiva, segnatamente negli articoli 3 e 5 di quest’ultima, rivesta carattere esauriente.

    35

    A questo scopo, spetta alla Corte interpretare queste disposizioni tenendo conto non solo del loro disposto, ma anche del loro contesto e degli obiettivi perseguiti dalla normativa di cui esse fanno parte (v. sentenza Sneller, C‑442/12, EU:C:2013:717, punto 21 e giurisprudenza ivi citata).

    36

    Dai considerando da 1 a 3 e 7 della direttiva 94/11 si evince che essa mira a definire in modo preciso gli elementi di un sistema comune di etichettatura delle calzature allo scopo di evitare i problemi generati dalle differenze nelle normative nazionali in materia, che rischiano di creare ostacoli agli scambi all’interno dell’Unione. L’armonizzazione di queste legislazioni è considerata un mezzo idoneo a sopprimere detti ostacoli al libero scambio, posto che questi obiettivi non possono essere conseguiti in modo soddisfacente dagli Stati membri presi individualmente.

    37

    Come rilevato dall’avvocato generale nei paragrafi 58 e 59 delle sue conclusioni, una lettura combinata degli articoli 1 e 4 nonché dell’allegato I alla direttiva 94/11 rivela che quest’ultima non impone requisiti minimi per l’etichettatura dei materiali utilizzati negli elementi principali delle calzature, bensì prevede norme tassative. Di conseguenza, gli Stati membri non hanno il diritto di adottare prescrizioni più rigorose.

    38

    Sebbene sia vero che, ai sensi dell’articolo 5 di detta direttiva, gli Stati membri possono consentire che «informazioni scritte supplementari» vengano «apposte se del caso sull’etichettatura», allo scopo di «accompagnare le indicazioni richieste ai sensi della presente direttiva», ciò nondimeno gli Stati membri, conformemente a questo stesso articolo 5, non possono «vietare od ostacolare l’immissione sul mercato di calzature conformi al disposto della presente direttiva, come previsto all’articolo 3».

    39

    Da un’interpretazione letterale di detti articoli 3 e 5, letti alla luce degli obiettivi della direttiva 94/11, risulta che questa direttiva compie un’armonizzazione esauriente per quanto riguarda il contenuto dei soli obblighi di etichettatura dei materiali utilizzati nei principali elementi delle calzature i quali, una volta soddisfatti, fanno scattare il divieto per gli Stati membri di ostacolare il commercio di questi articoli.

    40

    Alla luce di queste considerazioni, la normativa nazionale in questione nel procedimento principale, nella parte in cui essa ha ad oggetto l’etichettatura degli elementi in cuoio delle calzature provenienti da altri Stati membri o già messi in libera pratica sul territorio dell’Unione, dev’essere valutata unicamente con riferimento alle disposizioni della direttiva 94/11, e non a quelle del diritto primario.

    41

    Per quanto concerne, in secondo luogo, la valutazione alla luce della direttiva 94/11, occorre ricordare che le misure previste per la liberalizzazione degli scambi tra gli Stati membri, quali la direttiva 94/11, si applicano in modo identico sia ai prodotti originari degli Stati membri sia ai prodotti provenienti da paesi terzi che si trovino in libera pratica nell’Unione. A questo riguardo, la Corte ha precisato che, per quanto concerne la libera circolazione delle merci all’interno dell’Unione, i prodotti che godono della libera pratica sono definitivamente e totalmente assimilati ai prodotti originari degli Stati membri (v., in tal senso, sentenza Tezi Textiel/Commissione, 59/84, EU:C:1986:102, punto 26).

    42

    Ai sensi dell’articolo 3 di questa direttiva, «gli Stati membri non possono vietare o impedire la commercializzazione sul loro territorio di calzature conformi ai requisiti di etichettatura della presente direttiva, applicando disposizioni nazionali non armonizzate che disciplinano l’etichettatura di determinate calzature o di calzature in generale».

    43

    Conformemente all’articolo 4 della direttiva 94/11 e all’allegato I a quest’ultima, l’etichettatura di questo tipo di articoli deve unicamente far risultare informazioni relative al materiale utilizzato per la loro fabbricazione (cuoio, cuoio rivestito, materie tessili o altre materie). Un obbligo di indicare il paese d’origine del cuoio, quale imposto dalla normativa in questione nel procedimento principale, non è pertanto previsto da questa direttiva.

    44

    A questo riguardo, occorre ricordare che la Corte ha già dichiarato, per quanto concerne l’interpretazione dell’articolo 34 TFUE, che le indicazioni o il marchio d’origine, quali quelli in questione nel procedimento principale, mirano a consentire ai consumatori di operare una distinzione tra i prodotti nazionali e i prodotti importati e danno loro pertanto la possibilità di far valere i loro eventuali pregiudizi nei confronti dei prodotti stranieri. In un mercato interno unico, l’obbligo del marchio d’origine rende non solo più difficile lo sbocco in uno Stato membro della produzione degli altri Stati membri nei settori interessati, ma ha anche l’effetto di frenare l’interpenetrazione economica nel quadro dell’Unione sfavorendo la vendita di merci prodotte grazie a una divisione del lavoro tra Stati membri (v., in questo senso, sentenza Commissione/Regno Unito, 207/83, EU:C:1985:161, punto 17).

    45

    Inoltre, dalla giurisprudenza relativa alla medesima disposizione risulta che obblighi di carattere linguistico, come quelli proclamati dalla normativa dello Stato membro in questione nel procedimento principale, costituiscono un ostacolo al commercio nell’Unione in quanto i prodotti provenienti da altri Stati membri devono essere muniti di etichette diverse, con conseguenti spese supplementari di confezionamento (sentenza Colim, C‑33/97, EU:C:1999:274, punto 36).

    46

    Alla luce delle riflessioni sin qui sviluppate, occorre risolvere le questioni prima e terza dichiarando che gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11 devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa di uno Stato membro, quale quella di cui trattasi nel procedimento principale, che vieta, inter alia, il commercio degli elementi in cuoio delle calzature provenienti da altri Stati membri o da paesi terzi e che, in quest’ultimo caso, sono già state poste in commercio in un altro Stato membro o nello Stato membro interessato, quando questi prodotti non riportano indicazioni relative al loro paese d’origine.

    Sulle questioni seconda e quarta

    47

    Con le sue questioni seconda e quarta, che occorre trattare congiuntamente, il giudice del rinvio desidera sostanzialmente sapere se gli articoli da 34 TFUE a 36 TFUE e gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11 debbano essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa nazionale, quale quella di cui trattasi nel procedimento principale, che vieta, fra l’altro, il commercio degli elementi in cuoio delle calzature provenienti da paesi terzi e non ancora legalmente poste in commercio nel territorio dell’Unione, quando questi prodotti non riportano indicazioni relative al loro paese d’origine.

    48

    In base alle stesse parole utilizzate dal giudice del rinvio, dette questioni vertono su elementi in cuoio delle calzature provenienti da paesi terzi e non ancora poste in libera pratica nel territorio dell’Unione, ivi compreso pertanto il territorio italiano.

    49

    A questo riguardo, occorre ricordare in primo luogo che, conformemente all’articolo 28 TFUE, è vietato imporre dazi doganali alle importazioni e alle esportazioni o qualsiasi tassa di effetto equivalente tra gli Stati membri, divieto che si applica sia «ai prodotti originari degli Stati membri» sia «ai prodotti provenienti da paesi terzi che si trovano in libera pratica negli Stati membri».

    50

    Ai sensi dell’articolo 29 TFUE, sono considerati in libera pratica in uno Stato membro i prodotti provenienti da paesi terzi per i quali siano state adempiute le formalità di importazione e riscossi i dazi doganali e le tasse di effetto equivalente esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi e tasse.

    51

    Da una lettura della decisione di rinvio e del fascicolo nazionale, risulta però che gli articoli in questione sono stati posti in commercio in Italia e, pertanto, sono già stati messi in libera pratica nel territorio dell’Unione ai sensi dell’articolo 29 TFUE.

    52

    Ebbene, occorre sottolineare, da un lato, che, per articoli siffatti, la risposta fornita dalla Corte nei punti da 32 a 46 della presente sentenza alle questioni prima e terza rimane applicabile.

    53

    Dall’altro, dato che le questioni seconda e quarta riguardano espressamente articoli non ancora posti in libera pratica nel territorio dell’Unione, ne consegue che tali questioni rivestono carattere teorico.

    54

    A questo proposito, occorre ricordare che la Corte può rifiutarsi di rispondere a una questione pregiudiziale proposta da un giudice nazionale quando appare manifesto che l’interpretazione del diritto dell’Unione richiesta non ha nessun rapporto con la realtà o l’oggetto della controversia principale, quando il problema è di natura teorica o ancora quando la Corte non dispone degli elementi in fatto e in diritto necessari per rispondere utilmente alle questioni ad essa sottoposte (sentenza Stark, C‑293/10, EU:C:2011:355, punto 25 e giurisprudenza ivi citata).

    55

    Di conseguenza, occorre constatare che le questioni seconda e quarta sono irricevibili.

    Sulle questioni quinta e sesta

    56

    Con le sue questioni quinta e sesta il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 60 del codice doganale dell’Unione debba essere interpretato nel senso che esso osta ad una normativa nazionale quale quella di cui trattasi nel procedimento principale.

    57

    In via preliminare occorre osservare che, sebbene il giudice chieda l’interpretazione dell’articolo 60 del codice doganale dell’Unione, quest’articolo entrerà in vigore solo a partire dal 1o maggio 2016. Di conseguenza, occorre pronunciarsi sull’interpretazione dell’articolo 24 del regolamento n. 2913/92, in vigore all’epoca dei fatti del procedimento principale, il quale ha un contenuto sostanzialmente identico a quello di detto articolo 60.

    58

    Ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 2913/92, ai fini della determinazione dei dazi all’importazione o all’esportazione, «una merce nella cui produzione sono intervenuti due o più paesi è originaria del paese in cui è avvenuta l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale».

    59

    Questa disposizione fornisce una definizione comune della nozione d’origine delle merci, che costituisce un mezzo indispensabile per garantire l’applicazione uniforme della tariffa doganale comune nonché di tutti gli altri provvedimenti adottati, per l’importazione o l’esportazione delle merci, dall’Unione o dagli Stati membri (v., in tal senso, sentenza Gesellschaft für Überseehandel, 49/76, EU:C:1977:9, punto 5).

    60

    Da ciò deriva, da un lato, che questa disposizione non concerne il contenuto dell’informazione destinata ai consumatori mediante etichettatura delle calzature.

    61

    Dall’altro, come sostiene la Commissione, dato che l’articolo 3, comma 2, della legge n. 8/2013 non prevede nessun criterio che consenta di definire l’origine del prodotto in funzione del luogo dell’«ultima trasformazione o lavorazione sostanziale» ai sensi dell’articolo 24 del regolamento n. 2913/92, occorre constatare che la decisione di rinvio non consente di identificare il nesso tra l’interpretazione di quest’articolo 24 e la soluzione da dare alla controversia pendente nel procedimento principale.

    62

    Posto che la risposta della Corte alle questioni quinta e sesta non è rilevante per la soluzione della controversia di cui al procedimento principale, occorre constatare che, in considerazione della giurisprudenza menzionata nel punto 54 della presente sentenza, dette questioni sono irricevibili.

    Sulle spese

    63

    Nei confronti delle parti nel procedimento principale la presente causa costituisce un incidente sollevato dinanzi al giudice nazionale, cui spetta quindi statuire sulle spese. Le spese sostenute da altri soggetti per presentare osservazioni alla Corte non possono dar luogo a rifusione.

     

    Per questi motivi, la Corte (Terza Sezione) dichiara:

     

    Gli articoli 3 e 5 della direttiva 94/11/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 marzo 1994, sul ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri concernenti l’etichettatura dei materiali usati nelle principali componenti delle calzature destinate alla vendita al consumatore, devono essere interpretati nel senso che essi ostano a una normativa di uno Stato membro, quale quella di cui trattasi nel procedimento principale, che vieta, fra l’altro, il commercio degli elementi in cuoio delle calzature provenienti da altri Stati membri o da paesi terzi e che, in quest’ultimo caso, sono già state poste in commercio in un altro Stato membro o nello Stato membro interessato, quando questi prodotti non riportano indicazioni relative al loro paese d’origine.

     

    Firme


    ( *1 ) Lingua processuale: l’italiano.

    Góra