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Document 62005CC0305

    Conclusioni dell'avvocato generale Poiares Maduro del 14 dicembre 2006.
    Ordre des barreaux francophones et germanophone e altri contro Conseil des ministres.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Cour d'arbitrage, divenuta Cour constitutionnelle - Belgio.
    Direttiva 91/308/CEE - Prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio - Obbligo imposto agli avvocati di informare le autorità competenti di ogni fatto che possa costituire indizio di un riciclaggio - Diritto a un equo processo - Segreto professionale ed indipendenza degli avvocati.
    Causa C-305/05.

    Raccolta della Giurisprudenza 2007 I-05305

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:2006:788

    CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

    POIARES MADURO

    presentate il 14 dicembre 2006 1(1)

    Causa C-305/05

    Ordre des barreaux francophones et germanophone

    Ordre français des avocats du barreau de Bruxelles

    Ordre des barreaux flamands

    Ordre néerlandais des avocats du barreau de Bruxelles

    contro

    Consiglio dei ministri

    [domanda di pronuncia pregiudiziale, proposta dalla Cour d’arbitrage (Belgio)]

    «Prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio di capitali – Diritto ad un processo equo – Obbligo per gli avvocati di informare le autorità responsabili della lotta contro il riciclaggio di capitali»





    1.     È conforme al diritto comunitario e ai principi fondamentali da esso tutelati imporre agli avvocati, come previsto dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 dicembre 2001, 2001/97, recante modifica della direttiva 91/308/CEE del Consiglio, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite (GU L 344, pag. 76), l’obbligo di informare le autorità competenti di ogni fatto ad essi noto che potrebbe essere indice di un riciclaggio di capitali? La questione sollevata dalla presente causa dovrebbe indurre la Corte ad interrogarsi su uno dei valori fondamentali degli Stati di diritto che formano l’Unione europea, ossia il segreto professionale degli avvocati (2). Si tratta di un valore che appare incontestabile, e tuttavia il regime giuridico della sua tutela resta incerto e controverso. Su quali basi va accordata questa tutela? Sono ammissibili delle eccezioni e a quali condizioni? Qual è il criterio per distinguere in pratica cosa rientri nel segreto professionale e cosa no?

    2.     La Corte non sarà la prima a porsi queste domande. Alcuni giudici nazionali, sia nell’ambito sia al di fuori dell’Unione, hanno dovuto occuparsi di analoghe questioni (3). Inoltre, la Corte potrà utilmente richiamarsi ad alcune sue precedenti pronunce. Nella sua giurisprudenza essa ha già avuto modo di sancire il principio della riservatezza della corrispondenza tra avvocato e cliente (4) ed ha riconosciuto la peculiarità della professione di avvocato e delle regole cui essa obbedisce (5).

    I –    Il contesto della causa

    3.     Per poter ben comprendere i problemi in gioco nella presente causa, ritengo sia utile ripercorrere, in limine, la genesi della disposizione controversa ed il contesto in cui è stata invocata.

    A –    Il contesto comunitario

    4.     Sembra che l’origine del termine «blanchiment» (riciclaggio) risieda in una prassi sviluppatasi negli Stati Uniti d’America e consistente nell’acquisto, da parte della criminalità organizzata, di lavanderie automatiche e di imprese di autolavaggio allo scopo di mescolare gli introiti ricavati, in particolare, dal contrabbando di alcol, all’epoca del proibizionismo, agli utili realizzati legalmente. L’origine del termine è controversa, mentre non vi sono dubbi sul suo significato. Il riciclaggio di capitali indica un insieme di azioni finalizzate a conferire un’apparenza legale a risorse di origine criminale.

    5.     Fenomeno apparentato con la liberalizzazione degli scambi mondiali e che da questa trae perfino vantaggio, il riciclaggio esige una lotta commisurata alla sua espansione, sotto forma di cooperazione internazionale (6). Nel 1980 il Consiglio d’Europa adottò una raccomandazione relativa alle misure contro il trasferimento e la custodia dei capitali illeciti (7). Pur avendo carattere puramente esortativo, il testo ebbe il merito di lanciare il movimento di lotta internazionale contro il riciclaggio di capitali. Il 19 dicembre 1998 fu adottata a Vienna la convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti e di sostanza psicotrope (8), nella quale il riciclaggio di danaro è definito quale reato e vengono istituite delle sanzioni. Nel 1990, il Consiglio d’Europa adottò una convenzione relativa al riciclaggio, al depistaggio, al sequestro e alla confisca dei proventi del crimine (9). Approfondendo la cooperazione su scala regionale, tale convenzione amplia la definizione della nozione di riciclaggio, costringendo gli Stati firmatari ad adottare misure repressive. Contemporaneamente, venne istituito il gruppo di azione finanziaria sul riciclaggio (in prosieguo: il «GAFI»), un organismo internazionale creato a Parigi nel 1989 su iniziativa del G7 allo scopo di elaborare e di promuovere strategie di lotta contro tale flagello. A partire dal 1990, il GAFI ha pubblicato una serie di 40 raccomandazioni destinate a fungere da base per una lotta coordinata su scala internazionale (10).

    6.     È in questo contesto normativo già relativamente denso che la Comunità europea ha intrapreso la sua azione. Non si è trattato semplicemente di partecipare a questo movimento di lotta internazionale, ma anche di tutelare l’integrità del mercato unico europeo (11). Fu così adottata la direttiva del Consiglio 10 giugno 1991, 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite (GU L 166, pag. 77), con cui il legislatore comunitario sancisce il principio del divieto di riciclaggio di capitali nella Comunità e impone agli Stati membri di istituire un regime di obblighi di identificazione, di informazione e di prevenzione delle operazioni sospette all’attenzione degli istituti di credito e degli organismi finanziari.

    7.     La disposizione contestata nella causa in oggetto è il risultato di una modifica apportata alla direttiva 91/308. La direttiva 2001/97 è, infatti, scaturita dalla volontà del legislatore comunitario di aggiornare la direttiva 91/308 in considerazione delle conclusioni della Commissione e degli auspici espressi dal Parlamento europeo e dagli Stati membri nonché, alla luce dell’esperienza accumulata durante i primi anni della sua applicazione, di estenderne l’operatività a nuovi settori e a nuove attività. Ne deriva, tra l’altro, l’estensione della sfera di applicazione dell’obbligo di informare le autorità responsabili di eventuali sospetti in tema di riciclaggio di capitali, previsto dall’art. 6 della direttiva 91/308, ai «notai e altri liberi professionisti legali» nell’esercizio di alcune delle loro attività.

    8.     Tale estensione, che costituisce il punto focale della causa in esame, è stato il risultato di una lunga riflessione, effettuata in seno a vari consessi. Nel 1996 il GAFI, rivedendo le proprie raccomandazioni, chiese alle autorità nazionali di estendere la sfera di applicazione delle misure di lotta contro il riciclaggio alle attività finanziarie effettuate nell’ambito di professioni non rientranti nel settore finanziario. Nel 2001, il GAFI ribadì che, tenuto conto «del ricorso crescente da parte dei criminali a professionisti ed altri intermediari per ottenere consulenze o altri tipi di aiuto a scopo di riciclaggio di fondi di origine criminale», esso riteneva «di dover ampliare l’ambito di applicazione delle quaranta Raccomandazioni in modo da ricomprendere sette categorie di attività e di professioni non finanziarie», tra cui «gli avvocati e i notai» (12).

    9.     Tale raccomandazione non poteva rimanere estranea al contesto comunitario. La stessa direttiva 91/308 stabiliva all’art. 12: «[g]li Stati membri provvedono ad estendere, in tutto o in parte, le disposizioni della presente direttiva ad attività professionali e categorie di imprese diverse dagli enti creditizi e finanziari di cui all’articolo 1, le quali svolgono attività particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio». Inoltre, a norma dell’art. 13 della stessa direttiva, veniva istituito presso la Commissione un comitato di contatto, con il compito tra l’altro di «esaminare l’opportunità di includere una professione o categoria di imprese nel campo di applicazione dell’articolo 12, se si constata che in uno Stato membro tale professione o categoria di imprese è stata utilizzata ai fini di un riciclaggio».

    10.   In seguito alle prime relazioni della Commissione sull’applicazione della direttiva, il Parlamento europeo e il Consiglio dell’Unione europea si espressero a favore dell’estensione dell’obbligo di comunicare informazioni, previsto dall’art. 6 della direttiva, a persone e categorie professionali diverse dagli istituti di credito (13). Nel marzo 1999, nella propria risoluzione sul secondo rapporto della Commissione, il Parlamento invitava esplicitamente quest’ultima a presentare una proposta legislativa diretta a modificare la direttiva, nel senso di prevedere «l’inserimento nel campo di applicazione della direttiva di professioni suscettibili di essere coinvolte in attività di riciclaggio dei proventi di attività illecite o di essere utilizzate abusivamente dagli autori del riciclaggio, quali agenti immobiliari, commercianti d’arte, banditori d’asta, casinò, uffici di cambio, trasportatori di fondi, notai, contabili, avvocati, consulenti fiscali e revisori dei conti (…) allo scopo di:

    –       applicare nei loro confronti, integralmente o parzialmente, le disposizioni ivi contenute, ovvero, se necessario,

    –       applicare nei loro confronti nuove disposizioni tenendo conto delle circostanze particolari di tali professioni, in particolare rispettando pienamente il segreto professionale specifico a tali professioni (…)» (14).

    11.   Su tale base, nel luglio 1999 la Commissione presentava una proposta di modificazione della direttiva (15). Essa impone agli Stati membri di vigilare a che le disposizioni previste dalla direttiva siano imposte a «notai e altri professionisti legali indipendenti, quando assistono o rappresentano i clienti» nell’ambito di un determinato numero di attività finanziarie e commerciali. Viene però prevista anche una deroga di portata limitata: gli Stati membri non sarebbero tenuti ad imporre gli obblighi di informazione previsti dalla direttiva ai membri delle professioni legali «quando essi ricevono informazioni da un cliente per poterlo rappresentare in procedimenti legali». Questa deroga, peraltro, «non si applica quando vi siano ragioni per sospettare che la consulenza venga richiesta al fine di agevolare il riciclaggio di capitali».

    12.   Questa proposta è stata molto discussa. La formulazione infine accolta riflette i termini di tale dibattito. Nel parere espresso sulla proposta della Commissione, il Parlamento escludeva categoricamente che potessero essere soggetti ad obblighi di informazione gli avvocati indipendenti o gli studi legali ovvero gli appartenenti ad una professione legale regolamentata, non soltanto nell’esercizio delle loro funzioni di rappresentanza in giudizio, ma anche nell’ambito della prestazione di consulenza legale (16). Il parere si discostava, quindi, dalla proposta sotto due profili: da un lato, la facoltà concessa agli Stati membri di prevedere una deroga veniva trasformata in un obbligo di prevedere la deroga stessa; dall’altro lato, l’ambito di applicazione della deroga veniva esteso dal contesto della rappresentanza in giudizio a quello della consulenza legale.

    13.   Nella posizione comune emanata nel novembre 2000, il Consiglio adottò una soluzione di compromesso (17), proponendo di modificare il testo della disposizione controversa nei seguenti termini:

    «Gli Stati membri non sono tenuti ad applicare gli obblighi di cui al paragrafo 1 ai notai, ai professionisti legali indipendenti, ai revisori, ai contabili esterni e ai consulenti tributari con riferimento alle informazioni che essi ricevono da, o ottengono su, un loro cliente, nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza di questo cliente in un procedimento giudiziario o in relazione a tale provvedimento compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso» (18).

    14.   La deroga rimaneva, in tal modo, una semplice facoltà offerta agli Stati membri, ma la sua sfera di applicazione risultava sensibilmente ampliata. La Commissione considerò tale posizione non solo compatibile con la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (in prosieguo: la «CEDU»), ma altresì conforme allo spirito delle modifiche formulate dal Parlamento (19). Il Parlamento non fu però dello stesso avviso. Nella propria risoluzione sulla posizione comune del Consiglio, pur riprendendo la formulazione della posizione comune riguardo all’ambito di applicazione della deroga, esso ribadì la propria la volontà di trasformare la facoltà di prevedere una deroga in disposizione vincolante per gli Stati membri (20).

    15.   Su tale questione, la Commissione assunse una posizione ambigua (21). Da un lato, «data la necessità di garantire la compatibilità della direttiva con la [CEDU]», essa ammetteva di «comprendere la richiesta del Parlamento di prescrivere agli Stati membri la non applicazione dell’obbligo di segnalazione dei sospetti di riciclaggio con riferimento alle informazioni che avvocati e notai ottengono quando assistono i loro clienti in un procedimento giudiziario o quando accertano la loro posizione giuridica». Dall’altro lato, però, essa riteneva inaccettabile «che le medesime considerazioni si applichino in generale alle professioni non giuridiche». Per tale motivo la modifica proposta dal Parlamento venne respinta.

    16.   Poiché il Consiglio aveva deciso di seguire tale orientamento della Commissione, venne istituito un comitato di conciliazione. Come riferito dal Parlamento, nel corso della conciliazione emerse che «i fatti dell’11 settembre negli Stati Uniti hanno drammaticamente modificato il punto di vista sulla questione perché, a partire da quella data, la direttiva sul riciclaggio di denaro è considerata parte integrante della lotta contro il terrorismo» (22). In questo nuovo contesto, venne raggiunto un compromesso che permise al Parlamento di approvare il testo con una larga maggioranza in terza lettura il 13 novembre 2001, e al Consiglio di approvarlo il 19 novembre 2001.

    17.   Il compromesso è nei seguenti termini. I nuovi artt. 2 bis e 6 della direttiva 91/308, come modificata dalla direttiva 2001/97 (in prosieguo: la «direttiva») rimangono immutati.

    18.   L’art. 2 bis stabilisce difatti:

    «Gli Stati membri provvedono affinché gli obblighi stabiliti dalla presente direttiva vengano imposti ai seguenti enti:

    (…)

    5)     notai e altri liberi professionisti legali, quando prestano la loro opera:

    a)      assistendo i loro clienti nella progettazione o nella realizzazione di operazioni riguardanti:

    i)      l’acquisto e la vendita di beni immobili o imprese commerciali;

    ii)      la gestione di denaro, strumenti finanziari o altri beni dei clienti;

    iii)      l’apertura o la gestione di conti bancari, libretti di deposito e conti di titoli;

    iv)      l’organizzazione degli apporti necessari alla costituzione, alla gestione o all’amministrazione di società;

    v)      la costituzione, la gestione o l’amministrazione di trust, società o strutture analoghe;

    b)      o, agendo in nome e per conto del loro cliente in una qualsiasi operazione finanziaria o immobiliare».

    19.   L’art. 6 dispone, invece, quanto segue:

    «1.   Gli Stati membri provvedono a che gli enti e le persone cui si applica la presente direttiva nonché i loro amministratori e dipendenti collaborino pienamente con le autorità responsabili per la lotta contro il riciclaggio:

    a)      comunicando a tali autorità, di propria iniziativa, ogni atto che possa costituire indizio di riciclaggio;

    b)      fornendo a queste autorità, a loro richiesta, tutte le informazioni necessarie in conformità delle procedure stabilite dalla legislazione vigente.

    2.     Le informazioni di cui al paragrafo 1 sono trasmesse alle autorità responsabili per la lotta contro il riciclaggio dello Stato membro nel cui territorio è situato l’ente o la persona che trasmette le informazioni stesse. Tale trasmissione è effettuata di regola dalla persona o dalle persone designate dagli enti e dalle persone cui si applica la seguente direttiva, secondo le procedure previste all’articolo 11, punto 1, lettera a).

    3.     Nel caso dei notai e dei professionisti legali indipendenti di cui all’articolo 2 bis, punto 5, gli Stati membri possono designare un organismo adeguato di autoregolamentazione della professione in oggetto come autorità cui vanno comunicati i fatti di cui al paragrafo 1, lettera a) ed in tal caso stabiliscono le forme appropriate di collaborazione fra tale organismo e le autorità responsabili per la lotta al riciclaggio.

    Gli Stati membri non sono tenuti ad applicare gli obblighi di cui al paragrafo 1 ai notai, ai professionisti legali indipendenti, ai revisori, ai contabili esterni e ai consulenti tributari con riferimento alle informazioni che essi ricevono da, o ottengono su, un loro cliente, nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente o dell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza di questo cliente in un procedimento giudiziario o in relazione a tale provvedimento compresa la consulenza sull’eventualità di intentare o evitare un procedimento, ove tali informazioni siano ricevute o ottenute prima, durante o dopo il procedimento stesso».

    20.   Per contro, la conciliazione ha indotto ad apportare talune modifiche alla formulazione dei ‘considerando’ della direttiva riguardanti il regime applicabile alle professioni legali. Il ‘considerando’ 16 sancisce il principio secondo cui «[i] notai ed i professionisti legali indipendenti, quali definiti dagli Stati membri, dovrebbero essere assoggettati alle disposizioni della direttiva quando partecipano a operazioni di natura finanziaria o societaria, inclusa la consulenza tributaria, per le quali è particolarmente elevato il rischio che i servizi dei predetti professionisti vengano utilizzati a fini di riciclaggio dei proventi di attività criminali». Il ‘considerando’ successivo stabilisce peraltro: «[t]uttavia, quando dei professionisti indipendenti che forniscono consulenza legale, i quali siano legalmente riconosciuti e controllati come gli avvocati, esaminano la posizione giuridica di un cliente o rappresentano un cliente in un procedimento giudiziario, non sarebbe appropriato che per quanto riguarda tali attività la direttiva imponesse loro l’obbligo di comunicare eventuali operazioni sospette di riciclaggio. Deve sussistere l’esenzione da qualsiasi obbligo di comunicare le informazioni ottenute prima, durante o dopo il procedimento giudiziario, o nel corso dell’esame della posizione giuridica di un cliente. Di conseguenza, la consulenza legale è soggetta al vincolo del segreto professionale a meno che il consulente giuridico partecipi alle attività di riciclaggio dei proventi illeciti, che la consulenza sia fornita a fini di riciclaggio o l’avvocato sia a conoscenza che il cliente chiede consulenza giuridica ai fini del riciclaggio dei proventi illeciti».

    21.   Va infine precisato che la direttiva 91/308 è stata recentemente abrogata dalla direttiva 2005/60, il cui contenuto riprende senza alcuna modifica le disposizioni discusse nella causa in esame (23).

    B –    Il contesto nazionale

    22.   La presente causa è scaturita da due ricorsi presentati parallelamente dinanzi alla Cour d’arbitrage (Belgio), il primo dall’Ordre des barreaux francophones et germanophone (Ordine degli avvocati francofoni e germanofoni; in prosieguo: l’«OBFG») e dall’Ordre français des avocats du barreau de Bruxelles (Ordine francese degli avvocati del foro di Bruxelles), il secondo dall’Ordre des barreaux flamands (Ordine degli avvocati fiamminghi) e dall’Ordre néerlandais des avocats de Bruxelles (Ordine olandese degli avvocati del foro di Bruxelles). I ricorsi mirano all’annullamento di talune disposizioni della legge 12 gennaio 2004 che modifica la legge 11 gennaio 1993, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, la legge 22 marzo 1993, relativa allo status e al controllo degli istituti di credito, e la legge 6 aprile 1995, relativa allo status delle imprese di investimento e al loro controllo, agli intermediari finanziari e ai consulenti in materia di investimento. A tali ricorsi si sono aggiunti il Conseil des barreaux de l’Union européenne (Consiglio degli Ordini degli avvocati dell’Unione europea; in prosieguo: il «CCBE»), l’Ordre des avocats du barreau de Liège (Ordine degli avvocati del foro di Liegi) e il Consiglio dei ministri.

    23.   Debbo precisare che la legge 12 gennaio 2004 è diretta a trasporre nell’ordinamento giuridico belga la direttiva 2001/97, recante modifica della direttiva 91/308. Essa detta, difatti, un nuovo articolo 2 ter, che riprende in termini identici l’art. 2 bis, punto 5, della direttiva. Inoltre, avvalendosi della facoltà concessa dall’art. 6, n. 3, secondo comma, della direttiva, la suddetta legge inserisce nella legislazione belga un nuovo articolo 14 bis, n. 3, ai sensi del quale «le persone di cui all’art. 2 ter non trasmettono tali informazioni se le hanno ricevute da uno dei loro clienti o ottenute su uno dei loro clienti durante l’esame della situazione giuridica di tale cliente o nell’esercizio del loro compito di difesa o di rappresentanza di tale cliente in un procedimento giudiziario o in relazione ad un siffatto procedimento, compreso il contesto della consulenza relativa al modo di avviare o di evitare un procedimento, indipendentemente dal fatto che tali informazioni siano state ricevute o ottenute prima, durante o dopo tale procedimento».

    24.   Dall’ordinanza di rinvio emerge che i ricorrenti lamentano, in via principale, il fatto che tale legge estenda agli avvocati gli obblighi sanciti dalla legge 11 gennaio 1993. A loro avviso, tale estensione pregiudicherebbe il principio del segreto professionale e dell’indipendenza degli avvocati, tutelati dai diritti riconosciuti nella Costituzione e nella CEDU. Nella sua pronuncia, la Cour d’arbitrage dichiara che il segreto professionale, se «è un elemento fondamentale del diritto della difesa», può peraltro inchinarsi «allorché lo imponga da una necessità o allorché un valore ritenuto superiore entri con essa in conflitto», purché, tuttavia, tale scavalcamento sia giustificato da una ragione imperativa e risulti strettamente proporzionato.

    25.   Occorre, tuttavia, tener conto del fatto che le disposizioni controverse costituiscono il prodotto di un’estensione imposta dalla trasposizione della direttiva 2001/97. Pertanto, la discussione sulla costituzionalità della legge belga dipende dalla questione relativa alla validità della direttiva comunitaria. Detta questione, proposta alla Corte in forza dell’art. 234, terzo comma, CE, è la seguente:

    «Se l’art. 1, n. 2, della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 dicembre 2001, 2001/97/CE, recante modifica della direttiva del Consiglio 91/308/CEE relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, violi il diritto ad un equo processo, quale garantito dall’art. 6 della CEDU, e, di conseguenza, l’art. 6, n. 2 del Trattato sull’Unione europea, nella parte in cui il nuovo art. 2 bis, sub. 5), inserito nella direttiva 91/308/CEE, impone l’inclusione degli appartenenti alle professioni legali indipendenti – senza escludere la professione di avvocato – nella sfera di applicazione della direttiva medesima, la quale, in sostanza, è volta ad imporre alle persone e agli enti da essa contemplati l’obbligo di informare le autorità responsabili della lotta contro il riciclaggio di qualsiasi fatto che possa essere indizio di un siffatto riciclaggio (art. 6 della direttiva 91/308/CEE, sostituito dall’art. 1, sub 5) della direttiva 2001/97/CE».

    II – L’ambito del controllo di validità

    26.   Per valutare la validità della disposizione controversa alla luce del diritto comunitario, occorre, in limine, stabilire con precisione quale sia la norma con riferimento alla quale tale disposizione debba essere giudicata. Nell’ordinanza di rinvio la Cour d’arbitrage fa riferimento all’art. 6 della CEDU, riguardante il diritto ad un processo equo e, conseguentemente, all’art. 6, n. 2, UE.

    27.   L’art. 6 UE così recita:

    «1. L’Unione si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dello stato di diritto, principi che sono comuni agli Stati membri.

    2. L’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla [CEDU], firmata a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».

    28.   Il testo dell’art. 6 della CEDU è invece il seguente:

    «1.   Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge, il quale deciderà sia delle controversie sui suoi diritti e doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che le venga rivolta (…).

    (…)

    3.     In particolare, ogni accusato ha diritto a:

    (…)

    c)      difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia (…)».

    29.   Talune parti della controversia suggeriscono peraltro di estendere le norme di riferimento del controllo. Da un lato, il richiamo all’art. 6 della CEDU sarebbe eccessivamente limitato, e sarebbe opportuno estendere il sindacato sulla conformità della disposizione controversia con riferimento, in particolare, al principio dell’indipendenza dell’avvocato, al principio del segreto professionale, al dovere di lealtà, al principio dei diritti della difesa (diritto ad essere assistiti in giudizio e diritto a non autoincriminarsi) e al principio di proporzionalità. Dall’altro lato, il CCBE si interroga sulla rilevanza e sulla validità dei fondamenti normativi della direttiva.

    30.   Secondo le suddette parti, tale estensione sarebbe consentita dalla natura del sindacato di validità previsto dall’art. 234 CE. A tal fine, esse si richiamano alla giurisprudenza della Corte secondo cui «alla competenza della Corte a pronunziarsi, ai sensi dell’art. 177 del Trattato [divenuto art. 234 CE], sulla validità degli atti compiuti dalle istituzioni della Comunità non è posto alcun limite per quanto riguarda le cause dell’asserita invalidità di tali atti» (24).

    31.   Si tratta di una giurisprudenza incontestabile, che non possiede peraltro il significato che le attribuiscono le parti. Con il passo testé citato la Corte non sostiene di poter modificare, ad libitum, nella sostanza il contenuto della questione di validità proposta dal giudice del rinvio. Essa ha inteso semplicemente sottolineare che, in tale contesto, il suo controllo si può estendere a tutte le cause giuridiche che delimitano l’ambito del sindacato di legittimità previsto dall’art. 230 CE. Resta pertanto fermo il principio secondo cui l’esame di validità di una norma di diritto comunitario deve collocarsi «nell’ambito della questione pregiudiziale» sottoposta alla Corte (25).

    32.   Indubbiamente, la limitazione così formulata offre alla Corte un certo grado di flessibilità. Quest’ultima ha sempre la possibilità di precisare il contenuto della questione pregiudiziale alla luce delle osservazioni formulate dalle parti della causa principale o così come emerge dalla motivazione dell’ordinanza di rinvio (26). Deve parimenti ammettersi la possibilità di esaminare d’ufficio, al di fuori dell’ambito della questione sollevata, taluni vizi sostanziali (27).

    33.   Tuttavia, nel caso di specie non ritengo utile proporre alla Corte di avvalersi di tale flessibilità. Per due delle censure sollevate, la cosa è evidente. Quanto alla contestazione sul fondamento normativo della direttiva, è ben chiaro che essa si colloca al di fuori dell’ambito e del senso della questione sollevata. Quest’ultima riguarda unicamente la conformità di alcune disposizioni della direttiva ai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario e non il titolo della competenza di cui la Comunità disponeva per adottarla. Quanto al principio di proporzionalità, esso costituisce un elemento di realizzazione e di controllo dei diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento giuridico comunitario. A tale titolo, esso andrà comunque preso in considerazione con riferimento all’applicazione di tali diritti. Pertanto, non vi è motivo di ampliare a tal fine l’ambito del controllo richiesto dal giudice del rinvio.

    34.   Per gli altri principi invocati dalle parti intervenienti, la cosa è diversa. Pur non essendo privi di rilievo nell’ambito della questione sollevata, non sembra necessario dedicare ad essi un’analisi ad hoc, per una semplice ragione di economia di motivi. I suddetti principi, infatti, si possono tutti facilmente ricondurre al segreto professionale degli avvocati, che è il principio più direttamente minacciato dall’obbligo di informazione previsto dalla direttiva contestata. Ora, è proprio la compatibilità di tale obbligo di informazione con le necessità del segreto professionale degli avvocati che ha dato origine alla domanda posta dal giudice del rinvio.

    35.   Mi sembra quindi metodologicamente corretto verificare, in primo luogo, se tali esigenze possiedano lo status di principio generale o quello di diritto fondamentale tutelato dall’ordinamento giuridico comunitario. In tal caso, si potrà ritenere che l’art. 6, n. 2, UE offra risorse sufficienti per rispondere a tutti i timori espressi dalle parti della controversia.

    III – I fondamenti della tutela del segreto professionale degli avvocati

    36.   Secondo talune parti intervenienti, potrebbe sembrare inutile individuare una fonte di diritto precisa che sancisca il segreto professionale degli avvocati. Si tratterebbe di un principio «assiomatico» (28), di cui si potrebbero rinvenire le tracce «in qualunque democrazia» e in qualunque epoca: già presente nella Bibbia, tale principio ricompare in alcuni scritti della storia antica e da un secolo all’altro. Sotto questo profilo, il segreto professionale dell’avvocato meriterebbe di essere riconosciuto nell’ordinamento giuridico comunitario semplicemente per il fatto di affondare le proprie radici nelle fondamenta stesse della società europea.

    37.   È stato peraltro suggerito di far riferimento alle regole sancite dal complesso degli ordini professionali forensi in tutti gli Stati membri. Il segreto sarebbe inerente alla professione stessa dell’avvocato. È invocato in tutti i codici deontologici, sull’esempio del codice di deontologia degli avvocati europei adottato dal CCBE (29), il quale afferma, all’art. 2.3, relativo al segreto professionale, che «è nella natura stessa dei compiti dell’avvocato essere depositario dei segreti del proprio cliente e destinatario di comunicazioni riservate. Senza la garanzia della riservatezza, non vi può essere fiducia. Il segreto professionale è pertanto riconosciuto come diritto e dovere fondamentale e primario dell’avvocato». La regola del segreto professionale è concepita, sotto questo profilo, come un obbligo di discrezione rientrante in un’etica professionale.

    38.   Per sancire la necessità di una tutela comunitaria, la giurisprudenza della Corte non si può accontentare di un assioma sociale né di una regola professionale. Essere e dover essere sono cose ben distinte. Indubbiamente, la Corte non può ignorare l’esistenza di un principio tanto elementare da risultare universalmente riconosciuto. Tuttavia, il fatto che una regola sembri possedere un valore superiore in alcuni ordini sociali o privati non implica che la si debba consacrare come principio generale di diritto comunitario. Occorre ancora stabilire se in tale ordinamento esista una fonte autonoma che ne garantisca la tutela.

    39.   È dunque ammissibile chiedersi se esista, in tale settore, una tradizione costituzionale comune agli Stati membri. Come ricordato dalla Corte nella citata sentenza AM & S, «il diritto comunitario, derivante da una compenetrazione non soltanto economica, ma anche giuridica, fra gli Stati membri, deve tener conto dei principi e delle concezioni comuni ai diritti di questi Stati» (30). Lo studio comparato dei diritti degli Stati membri dell’Unione dimostra, in effetti, che il segreto professionale degli avvocati esiste nella maggior parte di detti Stati con rango di principio fondamentale e status di norma di ordine pubblico (31). Dallo stesso studio emerge, però, che da un ordinamento giuridico all’altro vi è un ampio divario riguardo all’ampiezza e alle modalità di tutela del segreto professionale. Pertanto, se occorre tener conto delle diverse normative e dei diversi orientamenti giurisprudenziali nazionali nell’interpretazione da dare alla nozione di segreto professionale dell’avvocato, mi sembra che, tenuto conto delle divergenze e delle variazioni nell’applicazione di detto principio negli ordinamenti giuridici degli Stati membri, occorra rivolgersi piuttosto verso un’altra fonte di tutela.

    40.   Secondo una costante giurisprudenza, i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU rivestono, nell’ordinamento giuridico comunitario, «un particolare significato» e sono parte integrante dei principi generali di cui la Corte garantisce il rispetto (32). Da ciò non deriva necessariamente che la tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario sia estesa quanto quella garantita dalla CEDU. Per contro, nella Comunità non possono essere consentite misure incompatibili con il rispetto dei diritti dell’uomo da questa riconosciuti (33).

    41.   Ora, pur non contenendo espliciti riferimenti al segreto professionale dell’avvocato, la CEDU contiene disposizioni in grado di garantirne la tutela. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo offre al riguardo due diverse soluzioni. Da un lato, considerato l’ambito in cui può essere esercitato, il segreto professionale dell’avvocato rientra, come osserva il giudice del rinvio, nel diritto ad un equo processo. Nella sentenza Niemietz/Germania, la Corte europea ha dichiarato che, nel caso degli avvocati, un’intrusione nel segreto professionale «può ripercuotersi sulla corretta amministrazione della giustizia e, pertanto, sui diritti garantiti dall’art. 6» (34). Il segreto è la condizione della riservatezza che favorisce la fiducia e porta alla manifestazione della verità e della giustizia. D’altro canto però, dato l’oggetto alla cui tutela è diretto, esso appare come una componente essenziale del diritto al rispetto della vita privata (35). Nella sentenza Foxley c. Regno Unito, la Corte europea sottolinea in questo senso l’importanza, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, dei principi della riservatezza e del segreto professionale collegati al rapporto tra avvocato e cliente (36). Il segreto protegge il cittadino dalle rivelazioni indiscrete che potrebbero comprometterne l’integrità morale e la reputazione.

    42.   La Corte non può non ignorare questa giurisprudenza. Essa ha avuto occasione di sottolineare che, nell’interpretare i diritti fondamentali (37), è suo dovere tener conto della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo. È quindi lecito considerare il diritto ad un equo processo e quello al rispetto della vita privata quale duplice fondamento alla tutela del segreto professionale dell’avvocato nell’ordinamento giuridico comunitario.

    43.   In teoria, scegliere l’uno o l’altro di questi due fondamenti non è indifferente. Va difatti sottolineato che collegare la tutela del segreto a uno dei due suddetti diritti può permettere di variare la portata della tutela. Fondare il segreto sul diritto ad un equo processo equivale, implicitamente, a limitarne l’estensione all’ambito contenzioso, giurisdizionale e quasi giurisdizionale. Questa è stata la scelta compiuta dalla Corte nella citata sentenza AM & S. Da tale scelta derivava che la tutela della corrispondenza doveva essere garantita, nelle circostanze del caso di specie, unicamente «al fine e nell’interesse del diritto alla difesa» (38). Optare, al contrario, per il diritto al rispetto della vita privata implica, a priori, estendere la tutela a tutte le confidenze fatte dal cliente al professionista, indipendentemente dal contesto in cui tali rapporti si sviluppano.

    44.   Tale scelta non mi sembra, tuttavia pertinente in questa fase dell’indagine. Al contrario, sancire questo duplice fondamento presenta il vantaggio di coprire tutti i timori manifestati dalle parti intervenienti. La tutela del segreto professionale dell’avvocato è un principio a due facce, la prima processuale, attinente al diritto fondamentale ad un equo processo, la seconda sostanziale, legata al diritto fondamentale al rispetto della vita privata. Al fondamento processuale si possono facilmente collegare i diritti della difesa, il diritto ad un’assistenza in giudizio e il diritto a non autoincriminarsi (39). Al fondamento sostanziale corrispondono l’esigenza «di garantire a chiunque la possibilità di rivolgersi con piena libertà al proprio avvocato, la cui professione implica per natura il compito di dare, in modo indipendente, pareri giuridici a chiunque ne abbia bisogno» (40) e quella, correlativa, della lealtà dell’avvocato nei confronti del cliente. Il principio del segreto deriva dalla peculiarità stessa della professione forense.

    45.   Se i principi di indipendenza dell’avvocato, del diritto della difesa o del diritto al silenzio vengono messi in discussione dall’obbligo di informazione previsto dalla disposizione di diritto comunitario controversa, ciò è dovuto, in primo luogo, al fatto che essi rientrano nel principio del segreto professionale dell’avvocato. Nella specie, si tratta pertanto di capire se l’obbligo di informazione imposto dalla direttiva de qua agli avvocati nell’Unione europea comprometta il suddetto principio, tutelato in quanto tale dai principi fondamentali dell’ordinamento giuridico comunitario.

    46.   Anche qualora dovrà essere riconosciuta, in esito a questa analisi, l’esistenza, nel diritto comunitario, del principio della tutela del segreto professionale dell’avvocato, questo non implicherà peraltro che si tratti di una prerogativa di carattere assoluto, riconosciuta di per sé alla professione forense.

    IV – I limiti della tutela del segreto professionale dell’avvocato

    47.   Per quanto riguarda il diritto alla tutela della riservatezza delle comunicazioni tra avvocato e cliente, già nell’ambito della causa AM & S l’avvocato generale Warner sottolineava che «si tratta di un diritto generalmente riconosciuto dalle leggi dei paesi civili, di un diritto che non può essere facilmente negato, ma che non è così sacro da impedire che, nella Comunità, il Consiglio possa mai legiferare nel senso di escluderlo o di modificarlo» (41). Lo stesso sicuramente vale per la tutela del segreto professionale, come del resto dimostrato dall’analisi della pertinente normativa in tutti gli Stati membri della Comunità. Non si può escludere che il segreto professionale debba ritrarsi, in determinate circostanze concrete, dinanzi a ragioni imperative di interesse generale superiore. Di conseguenza, la disposizione discussa nella specie non può considerarsi invalida solo perché comporta talune restrizioni al segreto professionale dell’avvocato. Occorre anche verificare se le restrizioni così introdotte rispettino i criteri di restrizione dei diritti sottesi al segreto professionale dell’avvocato nel diritto comunitario. Dal momento che mettono in discussione la garanzia di diritti tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario, restrizioni di questo genere vanno rigorosamente delimitate e giustificate.

    48.   Al fine di esaminare la fondatezza delle restrizioni contestate dai ricorrenti, propongo di applicare i criteri di indagine indicati nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Come la Corte ha avuto modo di affermare, anche se tale Carta «non costituisce uno strumento giuridico vincolante», il suo obiettivo principale, «come emerge dal suo preambolo, è peraltro quello di riaffermare “i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla [CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte (…) e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo”» (42). Da tale passo emerge che, se è pur vero che tale Carta non può di per sé costituire un fondamento normativo sufficiente per far sorgere in capo ai singoli diritti direttamente invocabili, essa non è però del tutto priva di effetti quale criterio di interpretazione degli strumenti di tutela dei diritti menzionati dall’art. 6, n. 2, UE. In tale prospettiva, la Carta può svolgere una duplice funzione. In primo luogo, essa può far insorgere la presunzione di esistenza di un diritto che dovrà pertanto trovare conferma tanto nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, quanto nelle disposizioni della CEDU. In secondo luogo, nel momento in cui un diritto viene individuato come diritto fondamentale protetto dall’ordinamento giuridico comunitario, la Carta fornisce uno strumento di particolare utilità per stabilire il contenuto, l’ambito di applicazione e la portata da attribuire a tale diritto. Ricordo del resto che le disposizioni della Carta, elaborata sulla base di un ampio processo deliberativo avviato su scala europea, corrispondono in massima parte ad una codificazione della giurisprudenza della Corte.

    49.   In tale ambito, spetta alla Corte verificare, da un lato, che le restrizioni attuate dalla disposizione controversa della direttiva non limitino la protezione del segreto professionale dell’avvocato in modo tale da, ovvero fino al punto di, comprometterne la sostanza stessa e, dall’altro lato, che tali restrizioni siano finalizzate ad un obiettivo di interesse generale riconosciuto dall’Unione e che siano proporzionate al suo raggiungimento (43).

    A –    Sulla questione se la disposizione controversa comprometta il segreto professionale dell’avvocato sotto il profilo sostanziale

    50.   Tutelare la sostanza di un diritto fondamentale equivale tanto a garantire una protezione di tale diritto che sia il più possibile compatibile con la sostanza degli altri diritti fondamentali, quanto a individuare le circostanze e le condizioni in cui tale diritto merita una tutela rafforzata.

    51.   La difficoltà della causa in oggetto è interamente insita nell’individuare le circostanze e le condizioni in presenza delle quali il segreto professionale dell’avvocato non possa subire restrizioni. È su questo punto, del resto, che le interpretazioni delle parti divergono nel modo più netto.

    52.   Da un lato, la Commissione sostiene che la sostanza del segreto professionale dell’avvocato risiede interamente nel campo «contenzioso». Per poter ammettere che il segreto gode di tutela, occorre stabilire un nesso con un giudizio. Solo nell’ambito del processo, o per lo meno di un procedimento di tipo giurisdizionale o quasi giurisdizionale, il segreto merita di essere tutelato. Così, del resto, dovrebbe essere interpretata la citata sentenza della Corte AM & S, vale a dire nel senso che occorre un «rapporto di connessione» con un procedimento di tipo contenzioso. Sotto questo profilo, limitando la tutela del segreto forense all’ambito contenzioso, la direttiva non sarebbe censurabile.

    53.   Sulla sponda opposta si collocano le parti che rappresentano gli Ordini forensi, per le quali la regola del segreto sarebbe indissociabile dalla professione dell’avvocato, alla quale conferisce uno status e una dignità particolari. In ogni caso, l’avvocato dovrebbe essere l’unico giudice delle restrizioni cui possa essere subordinato. Restringere la portata del segreto ad una sola delle attività svolte dagli avvocati sarebbe al contempo contrario ai principi fondamentali e impossibile da realizzarsi in pratica, essendo le suddette attività tanto complesse quanto indivisibili. Sotto questo profilo sarebbe evidente che, imponendo di tradire il segreto in talune attività svolte dagli avvocati, la direttiva determinerebbe una violazione dei diritti fondamentali.

    54.   Queste due interpretazioni, che sono inconciliabili, presentano peraltro un punto di contatto dal quale occorre prendere le mosse. Tutte le parti, infatti, concordano nel ritenere che la ragion d’essere del segreto professionale degli avvocati risieda nel rapporto di fiducia necessariamente esistente tra cliente e avvocato (44). La tutela di tale rapporto assolve, in realtà, ad una duplice utilità. Anzitutto, essa risulta utile per il cliente, depositario del segreto, il quale può essere in tal modo sicuro di comunicarlo ad una terza persona di fiducia, vale a dire al proprio avvocato. Ma risulta utile anche per la società complessivamente intesa, in quanto, favorendo la conoscenza del diritto e l’esercizio del diritto di difesa, essa contribuisce alla buona amministrazione della giustizia e alla manifestazione della verità. Nondimeno, si tratta di un rapporto fragile, che deve potersi sviluppare in un contesto protetto. Quel che è importante nella causa in esame è quindi tracciare accuratamente i limiti di tale contesto. Non si può trattare di limiti troppo ristretti, a rischio di minare i presupposti per un vero rapporto di fiducia tra avvocato e cliente. Ma, d’altro canto, non possono essere limiti troppo ampi, per non fare del segreto un semplice attributo della professione forense. Orbene, il segreto professionale non è proprietà dell’avvocato. Esso va piuttosto considerato come un valore e un onere. Nelle parole di Lord Denning, il privilegio che deriva da tale segreto «non è privilegio dell’avvocato, ma del suo cliente» (45). Tale privilegio ha senso unicamente se serve l’interesse della giustizia e il rispetto del diritto. Esso spetta all’avvocato unicamente in quanto agente di giustizia.

    55.   Si tratta, del resto, di un punto che non viene contestato nella causa in esame. Tutte le parti concordano sul fatto che il segreto professionale debba beneficiare di una tutela rafforzata nell’ambito dell’esercizio delle funzioni di rappresentanza e di difesa del cliente. In tale ambito, infatti, come ricordato dall’avvocato generale Léger nelle conclusioni relative alla sentenza Wouters e a., citata in precedenza, «gli avvocati occupano una posizione centrale nell’amministrazione della giustizia, come intermediari tra gli amministrati ed i giudici» (46). Non a caso, difatti, essi vengono definiti dalla Corte come «ausiliari» e come «collaboratori rispetto all’amministrazione della giustizia» (47).

    56.   La discussione si concentra, quindi, sulla questione se la suddetta tutela meriti di essere estesa al di là dello stretto ambito delle necessità di rappresentanza e di difesa e fino a quale punto sia opportuno che venga estesa. A questo proposito, è giocoforza rilevare che la situazione vigente nelle legislazioni dei vari Stati membri è contraddittoria.

    57.   Prima facie, la direttiva contestata sembra adottare una posizione intermedia. Nell’esaminare la proposta di direttiva presentata dalla Commissione, il Parlamento aveva inteso estendere espressamente la deroga all’attività di prestazione di consulenza legale. Come ricordato, questa proposta non venne accolta. Nell’art. 6, n. 3, secondo comma, la direttiva adottata prevede semplicemente che gli avvocati sono sottratti a qualunque obbligo di informazione non solo «[n]ell’espletamento dei compiti di difesa o di rappresentanza» del cliente, ma anche «nel corso dell’esame della posizione giuridica del loro cliente». Quest’ultima espressione si presta a diverse interpretazioni, come del resto è dimostrato dalle differenze che esistono tra le normative nazionali che hanno applicato tale disposizione (48).

    58.   Per rispondere alla questione di validità posta dal giudice del rinvio, occorre, in limine, chiarire il significato di tale nozione.

    1.      La nozione di «esame della posizione giuridica di un cliente»

    59.   Secondo la Commissione, l’interpretazione di questa nozione in ogni caso non rileva ai fini del giudizio sulla validità della direttiva. Poiché il segreto professionale degli avvocati riguarda, in linea di principio, solo le loro attività giurisdizionali o para-giurisdizionali, è sufficiente osservare che la direttiva sottrae tali attività a qualsiasi obbligo di informazione. In altri termini, anche se l’attività di esame giuridico fosse soggetta ad un obbligo di dichiarazione, la direttiva dovrebbe considerarsi valida. Gli Ordini degli avvocati rappresentati in udienza ritengono, al contrario, che il segreto professionale valga anche per l’attività di consulenza e propongono, quindi, di accogliere un’interpretazione estensiva della nozione di esame della posizione giuridica del cliente. Nel caso in cui dovesse essere ritenuto che la disposizione controversa non ricomprenda la nozione di consulenza, la direttiva dovrebbe essere considerata invalida.

    60.   A mio avviso, nel principio del segreto professionale rientra, come sostengono gli Ordini degli avvocati intervenienti, la prestazione di consulenza legale. Il motivo di ciò è duplice e si basa su considerazioni tanto di principio quanto di ordine pratico. In via di principio, occorre tener conto della «fondamentale necessità che una persona, in una società civile, possa rivolgersi al suo avvocato per consulenza e assistenza e, eventualmente, per farsi rappresentare in giudizio» (49). Rappresentante e difensore, ogni avvocato svolge anche una funzione essenziale di assistenza e di consulenza. Grazie a ciò, egli non garantisce solo l’accesso alla giustizia, ma anche l’accesso al diritto. Orbene, in una società complessa come quella europea quest’ultima garanzia non è meno preziosa della prima. La possibilità per ogni cittadino di disporre di un consulente indipendente per poter conoscere il quadro normativo che disciplina la sua particolare situazione costituisce una garanzia essenziale dello Stato di diritto. Di conseguenza, il patto di fiducia che garantisce la tutela del segreto merita di essere esteso all’ambito delle relazioni di assistenza e di consulenza giuridica (50). Tale estensione è inoltre conforme agli sviluppi giurisprudenziali della Corte. Nella sentenza AM & S viene espressamente ricordato quanto sia importante per i clienti poter disporre, in piena indipendenza, di pareri giuridici e di assistenza legale (51).

    61.   In pratica, e in ogni caso, sembra difficile poter distinguere, nel contesto dell’esercizio dei compiti di cui è investito un professionista del diritto, la fase della consulenza e quella della rappresentanza. Se una simile distinzione dovesse essere effettuata ogniqualvolta ciò fosse necessario per la realizzazione degli obiettivi della direttiva, ne risulterebbe certamente minacciata la relazione di fiducia tra il professionista ed il cliente.

    62.   Da questa analisi emerge che la tutela rafforzata di cui gode il segreto professionale dell’avvocato deve estendersi ai compiti di rappresentanza, difesa, assistenza e consulenza legale. Pertanto, suggerisco, in conclusione, che nessun obbligo di informazione connesso alla lotta contro il riciclaggio di capitali può essere imposto agli avvocati nell’ambito dell’esercizio dei suddetti compiti. Ogni minaccia di tal genere dovrebbe considerarsi quale minaccia per la sostanza dei diritti tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario.

    63.   Occorre chiedersi se la formulazione della disposizione controversa della direttiva in esame nel caso di specie sia compatibile con l’analisi sin qui effettuata? Ricordo che, secondo una giurisprudenza costante della Corte, «quando una norma di diritto derivato comunitario ammetta più di un’interpretazione, si debba dare la preferenza a quella che rende la norma stessa conforme al Trattato rispetto a quella che conduca ad una conclusione incompatibile col Trattato stesso» (52). Nel caso di specie, ritengo che la nozione di «esame della posizione giuridica di un cliente» accolta dalla direttiva possa essere agevolmente intesa nel senso che in essa rientri anche quella di consulenza legale. Questa interpretazione è conforme al rispetto dei diritti fondamentali e dei principi dello Stato di diritto tutelati dall’ordinamento giuridico comunitario. Del resto, essa appare conforme alla lettera del ‘considerando’ 17 della direttiva ai sensi del quale, in via di principio, «la consulenza legale è soggetta al vincolo del segreto professionale». Suggerisco, pertanto, di interpretare l’art. 6, n. 3, secondo comma, della direttiva nel senso che esso esoneri da qualsivoglia obbligo di informazione gli avvocati che svolgano un’attività di consulenza legale.

    64.   Resta però da verificare se le disposizioni della direttiva siano totalmente conformi a questa interpretazione. Gli Ordini degli avvocati sostengono che, assoggettando ad un obbligo di informazione le attività menzionate dall’art. 2 bis, punto 5, la direttiva violerebbe il principio del segreto professionale così inteso. A loro parere, difatti, in tutte le sue attività l’avvocato sarebbe portato a compiere un’analisi ed un esame della posizione giuridica del suo cliente. Non sarebbe quindi opportuno escludere la tutela del segreto professionale nell’ambito di tali attività.

    65.   Si deve necessariamente riconoscere che può essere difficile effettuare in pratica una distinzione tra le attività di tipo giuridico e quelle «extra-giuridiche» degli avvocati. Tuttavia, non mi sembra impossibile individuare un criterio chiaro che permetta di tenere distinti i casi in cui l’avvocato, agendo «in quanto avvocato», gode della tutela del segreto professionale dai casi in cui tale tutela non va applicata. A mio avviso, del resto, soltanto a questa condizione è possibile salvaguardare l’equilibrio tra l’esigenza di tutela della fiducia esistente tra avvocato e cliente e l’esigenza di protezione degli interessi generali della società, nel rispetto dei diritti garantiti dall’ordinamento giuridico comunitario. Mi sembra inoltre difficile giustificare un’estensione del segreto professionale dell’avvocato sulla sola base di una difficoltà di ordine pratico e senza considerare il fatto che nella professione forense rientrano ormai attività che vanno ben oltre i compiti specifici di rappresentanza e di consulenza.

    2.      Il criterio di distinzione dell’attività protetta dal segreto professionale

    66.   Nel corso dell’udienza svoltasi dinanzi alla Corte, gli intervenienti hanno proposto differenti criteri di distinzione. Il Consiglio ha suggerito di basarsi sulla natura sostanziale dell’attività soggetta a dichiarazione. Del resto, nelle proprie osservazioni scritte, l’Istituzione ha sostenuto che occorre tener conto del criterio della partecipazione attiva degli avvocati nell’esecuzione delle operazioni interessate. Questo è anche il parere espresso in udienza dal Parlamento: sarebbe del tutto possibile distinguere tra un’attività di consulenza e una partecipazione in nome e per conto di un cliente. Secondo il governo italiano, invece, sarebbero meritevoli di tutela soltanto i pareri forniti a titolo indipendente.

    67.   A fronte di tali tesi, gli Ordini degli avvocati rappresentati in udienza hanno riconosciuto che le attività indicate nell’art. 2 bis, punto 5, potevano effettivamente essere oggetto di distinzione. Se è vero che le attività di mandatario di cui alla lett. b) implicano l’annullamento di qualunque differenza tra gli interessi dell’avvocato e quelli del suo cliente, tanto da far venir meno l’indipendenza del primo, lo stesso non può dirsi per le attività di assistenza menzionate alla lett. a), che imporrebbero il rispetto dell’indipendenza dell’avvocato.

    68.   Sembra dunque che le posizioni in via di principio contrapposte delle diverse parti della controversia si siano avvicinate. A quanto pare, le parti sembrano concordare sul criterio secondo cui sarebbe opportuno limitare il segreto professionale all’area di competenza propria degli avvocati, il che, di conseguenza, circoscrive la divergenza di opinioni.

    69.   A mio parere, sarebbe azzardato voler distinguere a seconda del grado di coinvolgimento dell’avvocato nella singola operazione. Non vedo il motivo per il quale un’attività di assistenza sia più meritevole di una particolare tutela rispetto all’attività di mandatario, quando non sia dimostrato che questa attività venga svolta in totale indipendenza. Più dell’attività esercitata, rilevano le modalità con cui essa viene svolta.

    70.   È innegabile che l’avvocato, in tutti i casi in cui interviene, possa essere portato ad effettuare un esame della posizione giuridica del cliente. Si tratta, tuttavia, di un esame che può assumere diverse direzioni. Altro è esporre l’ambito e le conseguenze giuridiche dell’operazione prevista, altro è effettuare una valutazione per scegliere la migliore strategia nell’interesse del cliente al fine di compiere un’azione o di procedere ad una transazione economica o commerciale. Se la valutazione è finalizzata semplicemente ad aiutare il cliente ad organizzare le proprie attività «nel rispetto della legge» e a sottoporne gli obiettivi alle regole di diritto (53), allora va considerata come attività di consulenza e dev’essere sottratta ad ogni obbligo di informazione, indipendentemente dal contesto in cui viene fornita. Se, invece, la valutazione ha fondamentalmente il fine di realizzare o di preparare un’operazione commerciale o finanziaria ed è subordinata alle istruzioni da parte del cliente allo scopo di individuare, in particolare, la soluzione economica più favorevole, l’avvocato agisce unicamente come «agente d’affari» che pone interamente le sue competenze al servizio di un’attività non giuridica, e non vi è ragione di applicare il segreto professionale. Nel primo caso, si può dire che l’avvocato agisce non solo nell’interesse del suo cliente, ma anche nell’interesse del diritto. Nel secondo, prevale unicamente l’interesse del cliente. In questo caso, l’avvocato non agisce come professionista indipendente, ma si trova in una situazione identica a quella di un consulente finanziario o di un giurista d’impresa.

    71.   Convengo però sul fatto che la distinzione tra i due tipi di situazioni è di per sé difficile da effettuare. Una valutazione di portata generale come quella richiesta alla Corte nella presente causa non può risolvere tutte le difficoltà pratiche cui essa può dar luogo. Il meglio che la Corte può fare in questo caso è fornire tutti gli elementi di interpretazione a sua disposizione, in modo da guidare le autorità nazionali competenti nell’applicazione della normativa. Osservo, peraltro, che un approccio analogo è stato seguito da altri giudici senza dar luogo a particolari problemi di applicazione. In cause di questo tipo, tali giudici hanno proceduto ad un’analisi caso per caso dello status in virtù del quale l’avvocato agiva (54).

    72.   Tenuto conto della natura fondamentale della tutela del segreto professionale dell’avvocato, è corretto presumere che l’avvocato agisca nella sua qualità tipica di consulente o di difensore. Solo qualora risulti che sia stato adoperato per una funzione che ne metta in discussione l’indipendenza, si dovrà ritenere che possa essere assoggettato all’obbligo di informazione previsto dalla direttiva. Tale valutazione dovrà essere effettuata caso per caso, dietro garanzia di un controllo giurisdizionale.

    3.      Conclusione provvisoria

    73.   Da tutte le suesposte considerazioni non è emerso alcun elemento che possa invalidare gli artt. 2 bis, punto 5, e 6 della direttiva 91/308, come modificata dalla direttiva 2001/97, a patto, però, che tali disposizioni vengano interpretate nel senso che esse escludono qualunque obbligo di informazione nell’ambito delle attività di rappresentanza e di consulenza legale svolte dagli avvocati. In particolare, dovrà essere esonerata da detto obbligo la consulenza offerta allo scopo di assistere il cliente nell’organizzare le proprie attività «nel rispetto della legge».

    74.   Non è sufficiente riconoscere che, al di fuori dei casi in cui è escluso qualsivoglia obbligo di informazione, possono essere previste restrizioni al segreto professionale dell’avvocato. Occorre anche chiedersi se tali restrizioni perseguano un obiettivo di interesse generale legittimo e se siano proporzionate al suo perseguimento.

    B –    Sulla questione se le restrizioni alla tutela del segreto professionale dell’avvocato perseguano un obiettivo di interesse generale

    75.   Dinanzi alla Corte, solo una delle parti sembra dubitare della legittimità dello scopo perseguito dalla direttiva controversa. Secondo l’Ordine degli avvocati di Liegi, il segreto può ritrarsi solo dinanzi ad interessi superiori relativi alla tutela della vita umana.

    76.   Si tratta di una posizione priva di fondamento. In primo luogo, a mio parere, non è affatto escluso che esigenze estranee alla tutela della vita umana possano costituire scopi legittimi tali da giustificare restrizioni al segreto professionale. In secondo luogo, la lotta contro il riciclaggio di capitali può essere considerata quale obiettivo degno di essere perseguito dalla Comunità.

    77.   Dal primo ‘considerando’ della direttiva 91/308 emerge che quest’ultima mira ad evitare che l’uso di enti creditizi ed istituti finanziari allo scopo di riciclare i proventi di attività illecite possa compromettere gravemente la solidità del sistema finanziario e minare la fiducia del pubblico nei riguardi del sistema nel suo complesso. Vero è che il riciclaggio di capitali ha un effetto potenzialmente distruttivo sui sistemi economici, politici e sociali degli Stati membri. Non sembra illegittimo voler estendere tale obiettivo ai professionisti del diritto, una volta preso atto che questi ultimi possono esercitare una serie di attività assai eterogenee, che vanno ben oltre il semplice ambito delle attività di consulenza e di rappresentanza legale. In tale contesto sorge il rischio che gli avvocati divengano, come accade per altre professioni, degli «apripista» che permettono ai riciclatori di raggiungere i loro scopi illeciti.

    78.   Pertanto, la lotta contro il riciclaggio di capitali può essere considerata quale obiettivo di interesse generale che giustifica l’eliminazione del segreto professionale dell’avvocato, a patto che tale eliminazione non incida sul contesto delle attività fondamentali da questo svolte, così come in precedenza definite. Infine, resta da verificare che le restrizioni così previste rispettino effettivamente il principio di proporzionalità.

    C –    Se le restrizioni alla tutela del segreto professionale dell’avvocato rispettino il principio di proporzionalità

    79.   In base al principio di proporzionalità, restrizioni possono essere apportate al segreto professionale dell’avvocato solo ove necessarie. Il CCBE e l’OFBG contestano, nella specie, la necessarietà dell’obbligo di informazione. A loro avviso, l’obiettivo perseguito si potrebbe raggiungere attraverso sistemi meno pregiudizievoli per il segreto, come procedimenti sanzionatori di carattere disciplinare e penale. Inoltre, il fatto che altri professionisti che partecipano ad operazioni a rischio siano soggetti a detto obbligo di dichiarazione, costituirebbe una garanzia sufficiente di realizzazione dello scopo perseguito.

    80.   Questo argomento non è convincente. Da un lato, è pacifico che le procedure descritte non svolgono la stessa funzione dell’obbligo di informazione. Le prime riguardano, infatti, soltanto la sanzione di comportamenti illeciti, mentre l’obbligo di informazione mira unicamente ad avvisare le autorità competenti in ordine a fatti che possono essere indice di un riciclaggio di capitali, senza che l’autore della dichiarazione sia implicato nella commissione dei fatti illeciti. Essendo finalizzati ad obiettivi diversi, questi due strumenti non possono essere assimilati ai fini della lotta contro il riciclaggio. Dall’altro lato, il fatto che altri operatori siano soggetti al medesimo obbligo non pregiudica affatto la necessità che esso venga imposto anche ai professionisti legali, qualora risultino direttamente coinvolti in operazioni a rischio. Di conseguenza, può ammettersi che una disposizione che preveda l’applicazione di tale obbligo ai professionisti del diritto sia necessaria nell’ambito della lotta organizzata contro il riciclaggio di capitali.

    81.   È anche vero che il segreto professionale dell’avvocato costituisce un principio fondamentale direttamente attinente ai diritti ad un equo processo e al rispetto della vita privata. Una compressione di tale principio può essere ammessa unicamente in casi eccezionali e con la previsione di garanzie adeguate e sufficienti contro gli abusi (55).

    82.   A questo proposito, va osservato che l’obbligo controverso è corredato di garanzie che tengono conto della peculiarità della professione forense. La direttiva prevede a tal fine due tipi di garanzie. In primo luogo, ai sensi dell’art. 6, n. 3, primo comma, gli Stati membri possono designare un organismo adeguato di autoregolamentazione della professione interessata, come autorità da informare in caso di dichiarazione. Tale organismo svolge una sorta di funzione di filtro e di controllo, in modo da poter preservare l’obbligo di discrezione professionale al quale gli avvocati sono tenuti nei confronti dei propri clienti. In secondo luogo, l’art. 8 della direttiva stabilisce che gli Stati membri possono non imporre agli avvocati il divieto di rivelare ai propri clienti che alcune informazioni sono state trasmesse alle autorità responsabili in attuazione della direttiva. In tal modo, è consentita la salvaguardia del rapporto di fiducia e di lealtà nei confronti dei clienti, condizione per l’esercizio della professione d’avvocato. Queste possono essere considerate garanzie adeguate ed efficaci al fine di proteggere l’integrità dei rapporti tra avvocati e clienti.

    V –    Conclusione

    83.   Alla luce delle suesposte considerazioni, suggerisco che la Corte voglia risolvere la questione proposta dalla Cour d’arbitrage nei seguenti termini:

    «L’art. 2 bis, punto 5, e l’art. 6 della direttiva del Consiglio 10 giugno 1991, 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite, come modificata dalla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 4 dicembre 2001, 2001/97/CE, sono validi purché vengano interpretati, conformemente al ‘considerando’ 17 della suddetta direttiva e nel rispetto del diritto fondamentale alla tutela del segreto professionale dell’avvocato, nel senso che devono essere esonerate da ogni obbligo di dichiarazione le informazioni ottenute prima, durante o dopo un procedimento giudiziario, ovvero nell’ambito della prestazione di una consulenza legale».


    1 – Lingua originale:il portoghese.


    2 – La tutela del segreto professionale è richiamata espressamente dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, il quale sancisce «il diritto di ogni individuo di accedere al fascicolo che lo riguarda, nel rispetto dei legittimi interessi della riservatezza e del segreto professionale».


    3 – Cito, a titolo di esempio, la decisione della Cour suprême de Colombie britannique (Canada) del 20 novembre 2001. Chiamata a stabilire se i consulenti legali dovessero essere esonerati dall’obbligo di dichiarare al Centro di analisi delle operazioni e delle dichiarazioni finanziarie del Canada talune operazioni finanziarie sospette, essa ha ritenuto utile far riferimento alle disposizioni della direttiva 2001/97, che si trovava allora nella fase finale di adozione.


    4 – Sentenza 18 maggio 1982, causa 155/79, AM & S (Racc. pag. 1575). Su questo argomento, v. lo studio di B. Vesterdorf, «Legal Professional Privilege and the Privilege Against Self­Incrimination in EC Law: Recent Developments and Currents Issues», in Fordham International Law Journal, 2005, pag. 1179.


    5 – Sentenza 19 febbraio 2002, causa C-­309/99, Wouters e a. (Racc. pag. I-­1577).


    6 – V., in tal senso, il quinto ‘considerando’ della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 26 ottobre 2005, 2005/60/CE, relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività criminose e di finanziamento del terrorismo (GU L 309, pag. 15).


    7 – Consiglio d’Europa, Raccomandazione n. R (80) 10, relativa alle misure contro il trasferimento e la custodia di fondi di origine criminale, adottata il 27 giugno 1980.


    8 – Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito di stupefacenti e di sostanze psicotrope, adottata dalla Conferenza nella 6a seduta plenaria, il 19 dicembre 1988.


    9 – Consiglio d’Europa, Convenzione relativa al riciclaggio, al depistaggio, al sequestro e alla confisca dei proventi di reato, adottata a Strasburgo l’8 novembre 1990.


    10 – GAFI, Les Quarante Recommandations, 1990, riviste nel 1996 e nel 2003.


    11 – V. le conclusioni dell’avvocato generale Saggio relative alla causa Commissione/Austria, che ha dato luogo all’ordinanza della Corte 29 settembre 2000, causa C‑290/98 (Racc. pag. I­­-7835, paragrafo 3).


    12 – GAFI, Rapport Annuel 2000‑2001, 22 giugno 2001, pagg. 17 e 19.


    13 – V., in particolare, il programma di azione relativo alla criminalità organizzata (adottato dal Consiglio il 28 aprile 1997 [GU C 251, pag. 1, punto 1, lett. e)].


    14 – Risoluzione sulla seconda relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio sull'applicazione della direttiva relativa al riciclaggio dei proventi di attività illecite (GU 1999, C 175, pagg. 39-42).


    15 – Proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 91/308 [COM(1999) 352 def. del 4 luglio 1999].


    16 – Parere del Parlamento europeo del 5 luglio 2000 (GU 2001 C 121, pag. 133).


    17 – Posizione comune (CE) n. 5/2001, emanata dal Consiglio il 30 novembre 2000, in vista dell’adozione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 91/308 (GU 2001, C 36, pag. 24).


    18 – Ibidem, pag. 28.


    19 – Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo 12 gennaio 2001, ai sensi dell’art. 251, n. 2, secondo comma, CE, relativa alla posizione comune del Consiglio in vista dell’adozione di una direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 91/308 (SEC/2001/12).


    20 – Risoluzione legislativa del Parlamento europeo 5 aprile 2001, sulla posizione comune del Consiglio [C 21 E (2002), pag. 305, modifica n. 22].


    21 – Parere della Commissione in applicazione dell’art. 251, n. 2, lett. c), CE, sugli emendamenti del Parlamento europeo alla posizione comune del Consiglio riguardante la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 91/308, del 13 giugno 2001 [COM (2001) 330 def.].


    22 – Relazione del Parlamento europeo sul progetto comune, approvato dal comitato di conciliazione, di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio recante modifica della direttiva 91/308, del 5 novembre 2001 [PE‑CONS 3654/2001 – C5‑0496/2001 – 1999/0152(COD)].


    23 – Artt. 2 e 23, n. 2.


    24 – V., in particolare, sentenza 16 giugno 1998, causa C‑162/96, Racke (Racc. pag. I‑3655, punto 26).


    25 – Sentenza 28 ottobre 1982, cause riunite da 50/82 a 58/82, Dorca Marine e a. (Racc. pag. 3949, punto 13).


    26 – Sentenze 10 gennaio 1973, causa 41/72, Getreide Import (Racc. pag. 1, punto 2), e 25 ottobre 1978, cause riunite 103/77 e 145/77, Royal Scholten-Honig (Racc. pag. 2037, punti 16 e 17).


    27 – Sentenza 18 febbraio 1964, cause riunite 73/63 e 74/63, Internationale Crediet‑ en Handelsvereniging (Racc. pag. 3, punto 28).


    28 – Osservazioni scritte presentate dall’Ordine degli avvocati francofoni e germanofoni e dall’Ordine francese degli avvocati del foro di Bruxelles, pag. 22.


    29 – Codice adottato il 28 ottobre 1988 e modificato da ultimo il 19 maggio 2006.


    30 – Punto 18 della sentenza AM & S.


    31 – V., in questo senso, le conclusioni dell’avvocato generale Léger relative alla citata sentenza Wouters e.a., paragrafo 182.


    32 – V., in particolare, sentenza 12 giugno 2003, causa C‑112/00, Schmidberger (Racc. pag. I‑5659, punto 71).


    33 – Sentenza Schmidberger, punto 73.


    34 – Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Niemetz c. Germania, 16 dicembre 1992, punto 37.


    35 – V. per analogia, in tema di segreto medico, sentenza 8 aprile 1992, causa C‑62/90, Commissione/Germania (Racc. pag. I‑2575, punto 23).


    36 – Sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Foxley c. Regno Unito, 29 settembre 2000, punto 44; e sentenza Kopp c. Svizzera, 25 marzo 1998.


    37 – Sentenza 29 giugno 2006, causa C‑301/04 P, Commissione/SGL Carbon (Racc. pag. I-0000, punto 43).


    38 – Punto 21 della citata sentenza AM & S.


    39 – V. art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che codifica la giurisprudenza della Corte sui diritti di accesso alla giustizia; sentenza 18 ottobre 1989, causa 374/87, Orkem/Commissione (Racc. pag. 3283, punto 35).


    40 – Punto 18 della citata sentenza AM & S, (il corsivo è mio).


    41 – Conclusioni dell’avvocato generale Warner relative alla citata sentenza AM & S, pag. 1637.


    42 – Sentenza 27 giugno 2006, causa C‑540/03, Parlamento/Consiglio (Racc. pag. I-0000, punto 38).


    43 – Ai sensi dell’art. 52, n. 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea «[e]ventuali limitazioni all'esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui».


    44 – Conclusioni dell’avvocato generale Léger relative alla citata sentenza Wouters e.a., paragrafo 182.


    45 – Lord Denning, The Due Process of Law, Butterworths, London, 1980, pag. 29.


    46 – Paragrafo 174 delle conclusioni dell’avvocato generale.


    47 – Sentenze 3 dicembre 1974, causa 33/74, Van Binsbergen (Racc. pag. 1299, punto 14), e AM & S, già citata, punto 24.


    48 – Numerosi Stati membri hanno proceduto ad una trasposizione letterale dei termini della direttiva. Alcuni hanno scelto di fare espressamente riferimento all’attività di consulenza legale: è quanto avvenuto nel diritto tedesco (art. 11, paragrafo 3, prima frase, del Geldwäschebekämpfungsgesetz), nel diritto francese (art. 562‑2‑1 del code monétaire et financier), nel diritto greco (art. 2a, paragrafo 1, lettera β, della legge 2331/1995, modificata dall’art. 4 della legge 3424/2005) e nel diritto britannico (Proceeds of Crime Act 2002, art. 330, sub-paragrafi 6 e 10). Determinati Stati, infine, hanno inteso escludere l’attività di consulenza legale non connessa con un procedimento giudiziario dall’ambito della deroga prevista dall’art. 6, n. 3, secondo comma, della direttiva: così è avvenuto in Finlandia (Rahanpesulaki, art. 3, punto 18) e in Polonia (art. 11, paragrafo 5, legge del 16 novembre 2000, modificata dalla legge 5 marzo 2004).


    49 – Conclusioni dell’avvocato generale Slynn relative alla citata sentenza AM & S, pag. 1654.


    50 – Ibidem, pag. 1655.


    51 – Punti 18 e 21 della sentenza AM & S.


    52 – Sentenze 13 dicembre 1983, causa 218/82, Commissione/Consiglio (Racc. pag. 4063, punto 15), e 29 giugno 1995, causa C-135/93, Spagna/Commissione (Racc. pag. I-1651, punto 37).


    53 – Conclusioni dell’avvocato generale Léger relative alla sentenza Wouters e a., già citata, paragrafo 174.


    54 – In questo senso, v. le pronunce della giurisprudenza americana: In re Grand Jury Investigation (Schroeder), 842 F.2d 1223, 1225 (11th Cir. 1987); United States v. Davis, 636 F.2d at 1043; United States v. Horvath, 731 F.2d 557, 561 (8th Cir. 1984); Upjohn Co. v. United States, 449 U.S. 383 (1981); v. anche la sentenza 87/1997 della Corte Costituzionale italiana, 8 aprile 1997 (GURI 16 aprile 1997), nonché la decisione della House of Lords: Three Rivers District Council and Others v. Governor and Company of the Bank of England, [2004] UKHL 48. In tale ultima decisione, Lord Scott of Foscote, precisa del resto: «There is, in my opinion, no way of avoiding difficulty in deciding in marginal cases whether the seeking of advice from or the giving of advice by lawyers does or does not take place in a relevant legal context so as to attract legal advice privilege» (A mio avviso, non vi è modo di evitare la difficoltà di decidere, in casi limite, se la richiesta di un parere o il fatto che l’avvocato rilasci un parere ricada o meno in un contesto di tipo legale, in modo da far scattare i privilegi della consulenza legale).


    55 – V., per analogia, sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, Erdem c. Germania, 5 luglio 2001, punto 65.

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