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Document 61991CC0189

    Conclusioni dell'avvocato generale Darmon del 25 novembre 1992.
    Petra Kirsammer-Hack contro Nurhan Sidal.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall'Arbeitsgericht di Reutlingen - Germania.
    Disciplina nazionale in materia di tutela contro il licenziamento illegittimo - Esclusione delle piccole imprese - Aiuto concesso da uno Stato - Parità di trattamento fra uomini e donne.
    Causa C-189/91.

    Raccolta della Giurisprudenza 1993 I-06185

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1992:458

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

    MARCO DARMON

    presentate il 25 novembre 1992 ( *1 )

    Signor Presidente,

    Signori Giudici,

    1. 

    Con la sua ordinanza di rinvio pregiudiziale, l'Arbeitsgericht di Reutlingen vi sottopone, in ordine successivo, due questioni che traggono origine dall'esclusione delle imprese dal regime generale di tutela contro il licenziamento illegittimo. Il giudice di rinvio, non potendo far altro che constatare, in conformità del proprio diritto nazionale, l'insindacabilità sul piano giurisdizionale dei motivi del licenziamento, vi interroga sulle questioni se il regime derogatorio di cui fruiscono le piccole imprese possa considerarsi aiuto ai sensi dell'art. 92, n. 1, del Trattato CEE e, nell'eventualità che non riscontriate gli estremi per una tale qualificazione, vi invita a stabilire se esso possa dar luogo a una discriminazione indiretta nei confronti delle donne.

    2. 

    Un richiamo alle disposizioni nazionali in vigore in tema di licenziamento illegittimo è necessario ai fini dell'esposizione della controversia. Tali norme di diritto del lavoro — raccolte nel Kündigungsschutzgesetz (in prosieguo: il «KSchG») — e illustrate nella relazione d'udienza, alla quale faccio rinvio, in particolare, per quanto riguarda le citazioni dei testi pertinenti, si caratterizzano per la facoltà normalmente attribuita al lavoratore licenziato di adire il Tribunale del lavoro al fine di ottenere il sindacato di legittimità del suo licenziamento.

    3. 

    Nel caso in cui il licenziamento risulti socialmente ingiustificato ( 1 ), il lavoratore dev'essere reintegrato nel posto di lavoro ( 2 ). Tuttavia la reintegrazione, che rappresenta la regola, può essere sostituita da un'indennità, la quale può rivestire due forme differenti, qualora risulti che il datore di lavoro e il lavoratore sono d'accordo a non proseguire il rapporto di lavoro. Essa viene fissata dallo stesso giudice ( 3 ) oppure dalle parti transattivamente, nel qual caso si evita un processo talvolta lungo e costoso. In quest'ultima ipotesi, sulla base di quanto riferito dal giudice di rinvio, l'indennità «varia fra la metà e una retribuzione mensile per ogni anno di lavoro prestato» ( 4 ).

    4. 

    Le due questioni che vi sono state sottoposte si basano sul fatto che l'art. 23, n. 1, seconda e terza frase, del KSchG esclude dal controllo giurisdizionale testé menzionato le imprese, che per comodità di esposizione qualificherò «piccole», le quali: «occupano, in genere, non più di cinque lavoratori (...). Per la determinazione del numero dei lavoratori (...) si deve tener conto esclusivamente dei lavoratori il cui orario di lavoro normale sia superiore alle 10 ore settimanali o alle 45 ore mensili» ( 5 ).

    5. 

    Prima di venire licenziata la signora Kirsammer-Hack, ricorrente nella causa a quo, lavorava da un anno come assistente in uno studio dentistico nel quale erano occupati due impiegati a orario pieno, due impiegati (fra cui la ricorrente) a orario di lavoro superiore a 10 ore settimanali ovvero a 45 ore mensili e, infine, quattro impiegati a orario di lavoro inferiore a 10 ore settimanali ovvero a 45 ore mensili. L'impresa, occupando meno di cinque dipendenti rispondenti ai criteri sopra menzionati ( 6 ), rientrava pertanto nelle previsioni dell'art. 23, n. 1, del KSchG, sicché il datore di lavoro era tenuto, in caso di licenziamento individuale, soltanto al rispetto del termine normale di preavviso, che nel caso di specie è stato osservato. Pur in mancanza di norme nazionali applicabili al suo caso, la signora Kirsammer-Hack adduceva il carattere socialmente ingiustificato del suo licenziamento.

    6. 

    Il giudice a quo, ritenendo che la domanda non potesse essere accolta in forza del diritto nazionale, in quanto la ricorrente non apparteneva a una categoria di lavoratori tutelata né poteva far valere l'esistenza di un abuso, ha deciso di sottoporre l'art. 23, n. 1, seconda e terza frase, del KSchG al vaglio della compatibilità con il diritto comunitario. Egli vi chiede di conseguenza di valutare la conformità di tale articolo, più precisamente della seconda frase del relativo n. 1, con l'art. 92, n. 1, del Trattato CEE e, nell'eventualità in cui riteniate che la nozione di aiuto non è pertinente nel caso di specie, di proseguire il vostro esame sulla base degli artt. 2 e 5 della direttiva del Consiglio 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionale e le condizioni di lavoro ( 7 ), in prosieguo: la «direttiva».

    7. 

    L'art. 92, n. 1, del Trattato recita: «Salvo deroghe contemplate dal presente Trattato, sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza».

    8. 

    Si fa generalmente notare che questo articolo non fornisce una definizione dettagliata della nozione di aiuto, ma si limita a determinare gli effetti (gli aiuti che falsino la concorrenza) e l'origine (gli aiuti concessi dagli Stati ovvero mediante risorse statali).

    9. 

    La vostra giurisprudenza ha tuttavia tratteggiato la nozione di aiuto in maniera più precisa.

    10. 

    In una sentenza 23 febbraio 1961 ( 8 ), concernente il Trattato CECA, i cui criteri sono tuttavia validi altresì con riferimento al Trattato CEE, dopo aver rilevato che la nozione di aiuto era stata formulata in modo alquanto impreciso, avete notevolmente ampliato i confini di una definizione che, in seguito, sarà ricorrentemente richiamata:

    «(...) il concetto di aiuto è tuttavia più comprensivo di quello di sovvenzione dato che esso vale a designare non soltanto delle prestazioni positive del genere delle sovvenzioni stesse, ma anche degli interventi i quali, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un'impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono identici effetti ( 9 )».

    11. 

    Prima di esaminare in dettaglio gli elementi costitutivi dell'aiuto, è opportuno, in via preliminare, rispondere all'obiezione, sollevata dal governo tedesco ( 10 ), relativa all'impossibilità per un singolo o per un giudice nazionale di invocare l'art. 92 in mancanza di una decisione della Commissione.

    12. 

    A sostegno della sua tesi, esso cita il punto 10 della sentenza 22 marzo 1977, Steinike e Weinlig ( 11 ), ove avete precisato che:

    «(...) i singoli non possono (...), in forza del solo art. 92, contestare la compatibilità di un aiuto con il diritto comunitario avanti ai giudici nazionali, né chiedere a questi ultimi di pronunciarsi, in via principale od incidentale, su un'eventuale incompatibilità».

    13. 

    È fuor di dubbio, infatti, che il ruolo della Commissione in materia di aiuti è determinante e che una declaratoria di incompatibilità non dovrebbe scaturire da un procedimento diverso da quello contemplato dall'art. 93 del Trattato. Su questo punto avete già statuito che:

    «(...) l'art. 92, n. 1, produce effetti nell'ordinamento giuridico interno degli Stati membri, in guisa da poter esser fatto valere dinanzi ai giudici nazionali, qualora si sia concretato in atti di carattere generale, ai sensi dell'art. 94, ovvero in decisioni, nei casi particolari contemplati dall'art. 93, n. 2» ( 12 ).

    14. 

    Tuttavia, se la sentenza citata dal governo tedesco si confà al problema sottoposto, vale a dire quello concernente la possibilità di invocare l'art. 92 nell'ambito dell'ordinamento giuridico nazionale da parte di un singolo o di un giudice, occorre parimenti aggiungere che l'art. 177 del Trattato consente a un giudice nazionale di applicare l'art. 92 senza per questo decidere egli stesso la questione relativa alla compatibilità di un aiuto.

    15. 

    Nella sentenza da ultimo citata, avete dato una risposta molto chiara in proposito affermando che:

    «(...) un giudice nazionale può trovarsi ad interpretare e ad applicare la nozione di aiuto di cui all'art. 92, al fine di determinare se un provvedimento statale adottato senza seguire il procedimento di controllo preliminare di cui all'art. 93, n. 3, dovesse o meno esservi soggetto.

    Comunque, a termini dell'art. 177 del Trattato spetta ai giudici nazionali, qualora ricorrano al procedimento previsto da quest'articolo, decidere essi medesimi circa la pertinenza delle questioni pregiudiziali.

    (...) l'art. 93 non osta a che il giudice nazionale sottoponga alla Corte di giustizia questioni relative all'interpretazione dell'art. 92 del Trattato, nel caso in cui detto giudice ritenga che una pronuncia al riguardo sia necessaria onde consentirgli di emettere la propria sentenza, fermo restando ch'esso non è competente a pronunciarsi — in mancanza di regolamenti d'attuazione ai sensi dell'art. 94 — relativamente alle domande dirette ad accertare l'incompatibilità con il Trattato d'un aiuto esistente (...) ovvero di un nuovo aiuto (...)» ( 13 ).

    16. 

    Pertanto, nulla vieta di proseguire il nostro esame sul terreno dell'art. 92, n. 1.

    17. 

    La vostra giurisprudenza fa riferimento a tal proposito a tre elementi: l'origine, la natura, gli effetti dell'aiuto.

    18. 

    Mi sono a lungo soffermato sul problema dell'origine dell'aiuto nella mie conclusioni relative alla causa Sloman Neptun ( 14 ), tuttora pendente.

    19. 

    Non ritenendo necessario riportarla integralmente, procederò, senza limitarmi a un semplice rinvio, a riassumerle per grandi linee.

    20. 

    Da un lato, ho ricordato la vostra giurisprudenza tradizionale secondo la quale

    «l'art. 92 riguarda il complesso delle sovvenzioni attribuite dagli Stati o mediante risorse statali, senza che si possa distinguere a seconda che la sovvenzione sia attribuita direttamente dallo Stato ovvero da enti pubblici o privati che esso istituisca o designi per amministrare la sovvenzione stessa» ( 15 ),

    e, più in particolare, la vostra sentenza van Tiggele ( 16 ), nella quale avete stabilito che un provvedimento che attribuisca ai suoi beneficiari vantaggi che non vengono concessi «né direttamente né indirettamente mediante risorse statali ai sensi dell'art. 92» ( 17 ), «non può costituire un aiuto ai sensi dell'art. 92» ( 18 ).

    21. 

    D'altra parte ho anche menzionato, in tema di sovvenzioni, sia la posizione di principio della Commissione, nella sua decisione 18 aprile 1985 ( 19 ), sia la vostra giurisprudenza Fediol/Commissione ( 20 ), che considerano l'onere per le finanze pubbliche come una condizione intrinseca della nozione di sovvenzione.

    22. 

    Pur notando la differenza fra le posizioni rispettivamente adottate al riguardo dalla Comunità e dagli Stati Uniti, e nella prospettiva di un'evoluzione del diritto comunitario in tema di aiuti nel senso di un suo necessario coordinamento con il diritto comunitario, vi ho proposto una lettura dell'art. 92 maggiormente incentrata, a mio parere, sulla ratio legis della disposizione, che consiste nel mantenimento di pari condizioni di concorrenza fra gli operatori economici posti in situazione di competizione.

    23. 

    Vi ho inoltre fatto presente che, a mio parere, il carattere statuale di un aiuto, ai sensi dell'art. 92, n. 1, va riferito, più che all'organismo o alla persona che provvede al suo finanziamento, all'autorità (Stato o sue emanazioni) che ha deliberato il provvedimento. Da ciò ne ho tratto la conseguenza che non si doveva tenere particolarmente conto della provenienza dei fondi in quanto

    «sono (...) sostanzialmente gli effetti dell'aiuto nei confronti delle imprese o dei produttori beneficiari dello stesso che vanno presi in considerazione» ( 21 ).

    24. 

    Nell'ipotesi in cui, restando strettamente legati alla vostra giurisprudenza precedente, segnatamente alla posizione da voi assunta nella sentenza Van Tiggele, non vi trovaste concordi con quanto testé propostovi, vale a dire, se il finanziamento tramite risorse statali vi apparisse come un presupposto essenziale dell'aiuto, perverreste alla conclusione che la misura in questione non è un aiuto ai sensi dell'art. 92 del Trattato.

    25. 

    Infatti, la limitazione della possibilità per il lavoratore di una «piccola» impresa di contestare in giudizio il licenziamento di cui è stato fatto oggetto non comporta, apparentemente, nessuna perdita di risorse da parte delle finanze pubbliche. A tal proposito, le spese richieste a seguito di un tale procedimento si configurano, al di là del loro carattere accessorio, non come un'entrata per le pubbliche autorità, bensì come il rimborso delle spese sostenute dall'amministrazione giudiziaria, dovuto dalla parte interessata.

    26. 

    In mancanza quindi di qualsiasi «sacrificio» finanziario sopportato dalle pubbliche autorità, dovreste pervenire alla conclusione che il provvedimento in esame non costituisce un aiuto e passare quindi alla seconda questione sollevata dal giudice a quo.

    27. 

    Resto tuttavia dell'idea che la mancanza di finanziamento per mezzo di risorse pubbliche non basti ad escludere la natura di aiuto di una misura deliberata dallo Stato o da un'emanazione di esso. Proseguirò quindi il mio esame con le osservazioni seguenti, incentrate sulla natura di aiuto dei provvedimenti giustificati «dalla natura o dalla struttura (del) sistema» ( 22 ), che, secondo la vostra giurisprudenza, non incorrono nel divieto sancito dall'art. 92, n. 1.

    28. 

    Tale esame postula quello del provvedimento in questione, ricondotto nell'ambito delle complessive discipline degli Stati membri in materia di licenziamento di lavoratori delle «piccole» imprese.

    29. 

    Come si è sopra rilevato ( 23 ), il provvedimento controverso si prefigge di consentire a una categoria particolare di imprese, vale a dire quelle che occupano non più di cinque dipendenti, ai sensi della legge nazionale, di giovarsi di un regime derogatorio rispetto alla disciplina generale del licenziamento che si basa su un controllo dei motivi fondato sull'esame della condotta o dell'attitudine professionale del lavoratore oppure sulle necessità di funzionamento dell'impresa.

    30. 

    Sotto quest'aspetto, tale categoria di «piccole» imprese è considerata in maniera diversa nei vari Stati membri.

    31. 

    La nozione di «piccola» impresa, laddove viene presa in considerazione in materia di licenziamento, appare eterogenea in quanto in Germania si riferisce alle imprese con non più di cinque dipendenti, mentre in Francia riguarda quelle con meno di undici dipendenti.

    32. 

    Per di più, alcuni paesi, come la Danimarca, la Grecia e i Paesi Bassi, ignorano qualsiasi distinzione basata sulle dimensioni dell'impresa.

    33. 

    Altri, come l'Irlanda, hanno rifiutato una modifica del diritto vigente, nel senso di escludere dalla sfera di applicazione dell'«Unfair Dismissals Act» del 1977, che si applica indistintamente a tutte le imprese, i lavoratori addetti in imprese con meno di cinque dipendenti.

    34. 

    L'Italia riconosce la nozione di «piccola» impresa (quella che occupa meno di quindici lavoratori, o meno di cinque nel settore agricolo ( 24 )) ma solo per inserirla in una disciplina di tutela a carattere obbligatorio volta a favorire, in caso di licenziamento ingiustificato, qualora risulti difficile la reintegrazione nell'ambito di una struttura di lavoro ristretta, la rifusione dei danni e degli interessi.

    35. 

    Anche il diritto lussemburghese conosce tale nozione, riservandole però, in tema di licenziamento, un ruolo residuale. Infatti, il datore di lavoro che occupi meno di venti lavoratori può optare, allorché notifica il licenziamento, per il versamento di un'indennità di fine lavoro o per il prolungamento del termine di preavviso ( 25 ).

    36. 

    Il diritto portoghese considera applicabile la propria disciplina generale in materia di tutela contro il licenziamento «illegittimo» alle «piccole» imprese. Nelle imprese con meno di venti lavoratori, esso prevede tuttavia, allo scopo di semplificare il procedimento, la possibilità di non consultare i rappresentanti del personale e la facoltà del lavoratore di optare per una difesa orale o scritta ( 26 ).

    37. 

    Infine, il diritto del Regno Unito non esclude le «piccole» imprese dalla disciplina generale. Tuttavia il giudice può, senza fissare il numero minimo di lavoratori, semplificare talune prescrizioni procedurali nei loro confronti.

    38. 

    Dall'esame delle normative esistenti emerge che solo la Francia e la Germania prevedono discipline derogatorie che escludono le «piccole» imprese dalla disciplina generale in materia di tutela contro il licenziamento individuale illegittimo. Infatti, questi due Stati membri riservano ai lavoratori interessati uno statuto meno protettivo rispetto a quello di diritto comune.

    39. 

    Mentre, come si è visto, la legislazione tedesca contempla, in tema di licenziamento intervenuto in una «piccola» impresa, solo l'ipotesi dell'abuso, la legislazione francese è più complessa.

    40. 

    La disciplina francese applicabile alle imprese aventi più di dieci lavoratori con meno di due anni d'anzianità ( 27 ) è la seguente: se il Tribunale accerta che il motivo del licenziamento è arbitrario o futile e la reintegrazione è impossibile, il lavoratore può pretendere un'indennità almeno pari alle retribuzioni degli ultimi sei mesi.

    41. 

    Ma non per questo, in Francia, le «piccole» imprese si sottraggono ai vari controlli giurisdizionali sui motivi del licenziamento. Infatti, in caso di licenziamento illegittimo, i lavoratori inseriti in imprese con meno di undici dipendenti possono, a prescindere dalla loro anzianità, ottenere un indennizzo commisurato al pregiudizio subito ( 28 ), senza che sia fissata nessuna indennità minima. Spetta quindi al lavoratore l'onere di dimostrare di aver subito un danno materiale e morale. Tale indennizzo può cumularsi con quello che sanziona l'abuso commesso.

    42. 

    Dopo la descrizione d'insieme di cui sopra, tenterò ora di stabilire se una norma quale quella in esame debba, per sua natura, considerarsi vietata dall'art. 92, n. 1.

    43. 

    La norma di cui all'art. 23, n. 1, seconda frase, del KSchG si applica indistintamente al settore delle «piccole» imprese, a prescindere dalla loro produzione o dalla loro localizzazione geografica.

    44. 

    Questo tipo di norma, che non appare in modo esplicito nel Trattato in termini di eccezione, riconducibile secondo la dottrina alla categoria degli aiuti autorizzabili dalla Commissione, è stato considerato da quest'ultima in modo realistico e flessibile.

    45. 

    Per quanto riguarda, in particolare, la posizione della Commissione in materia di aiuti alle piccole e medie imprese, si deve osservare che queste ultime, considerata la loro importanza per la solidità del tessuto industriale e il mantenimento di un certo livello occupazionale, sono viste in un'ottica favorevole.

    46. 

    Per esempio, in un rapporto di ricerca «sul diritto del lavoro e sulle relazioni professionali nelle piccole e medie imprese negli Stati membri della Comunità» ( 29 ), la Commissione mette chiaramente in evidenza il loro ruolo preponderante dal punto di vista economico, sociale e dell'occupazione.

    47. 

    In materia di licenziamento individuale, questo rapporto, menzionato nella domanda di pronuncia pregiudiziale ( 30 ), precisa che:

    «in numerosi paesi della Comunità, le norme che regolano i licenziamenti non si applicano alle piccole imprese in quanto si ritiene generalmente che in queste ultime esista, fra datore di lavoro e lavoratore, un rapporto di fiducia basato sull'intuitus personae e, in secondo luogo, che i conflitti insorti nell'ambito di tali imprese riescano difficilmente a ricomporsi (...).

    Le norme sui licenziamenti hanno infatti lo scopo di limitare o, quanto meno, regolamentare tale potere del datore di lavoro, che è in genere maggiore nelle imprese piccole (e piccolissime), in quanto le leggi tendono a restringere il campo d'applicazione delle disposizioni in esse contenute soprattutto verso il basso.

    Il “limite” esiste anche in tema di licenziamenti. Di conseguenza, i lavoratori delle imprese più piccole sono meno tutelati rispetto a quelli delle imprese più grandi, se non addirittura del tutto sprovvisti di tutela, contro il licenziamento arbitrario da parte del loro datore di lavoro».

    48. 

    Le normative nazionali che accordano alle «piccole» imprese una disciplina derogatoria, tale da consentire loro di licenziare più facilmente e a minor costo i propri dipendenti, sono pertanto perfettamente note alla Commissione, la quale non ha mai preso l'iniziativa di Qualificarle aiuti.

    49. 

    Il giudice di rinvio ( 31 ) cita tre proposte di direttiva e sembra indicare che la Commissione sarebbe in procinto di modificare la sua posizione riguardo a questo problema. Faccio osservare che la sola proposta che qui ci interessa, vale a dire quella relativa a taluni rapporti di lavoro con riferimento alle distorsioni della concorrenza ( 32 ), suggerisce, all'art. 3, di consentire ai lavoratori a orario ridotto di fruire di un'indennità di licenziamento commisurata alla durata della prestazione, in considerazione del fatto che i lavoratori occupati meno di otto ore settimanali sono esclusi dalla possibilità di avvalersi di tali disposizioni. Tale testo, modificato dalla Commissione il 7 novembre 1990 ( 33 ), non è stato ancora adottato.

    50. 

    Per contro, tale istituzione ha recentemente riaffermato, in un documento del 20 maggio 1992, relativo alla disciplina comunitaria in materia di aiuti di Stato a favore delle piccole e medie imprese, tutta l'importanza che essa annette a queste ultime ( 34 ).

    51. 

    La posizione privilegiata che viene loro riservata, come del resto è stato posto in evidenza dal governo tedesco ( 35 ), trova un riscontro nell'art. 118A, n. 2, secondo comma, del Trattato, il quale recita: «Tali direttive eviteranno di imporre vincoli amministrativi, finanziari e giuridici di natura tale da ostacolare la creazione e lo sviluppo di piccole e medie imprese».

    52. 

    Favorire la nascita e lo sviluppo di queste imprese può quindi considerarsi un obiettivo comunitario ( 36 ).

    53. 

    È inoltre opportuno, al fine di dare alla questione posta dal giudice di rinvio una soluzione più precisa, esaminare se la norma controversa — a un primo sguardo di applicazione generalizzata — non dissimuli un carattere specifico che si traduca nel favorire «talune imprese o talune produzioni», consentendo loro di sottrarsi alla struttura generale del sistema rompendone l'equilibrio.

    54. 

    Quanto al primo aspetto, relativo alla selettività dell'aiuto ( 37 ), occorre stabilire se il provvedimento in questione contribuisca a privilegiare direttamente o indirettamente una categoria particolare di operatori.

    55. 

    Avete già avuto modo di occuparvi della validità di un provvedimento di aiuto «generale» nell'ambito del quale veniva operata una discriminazione nei confronti di una determinata categoria di lavoratori.

    56. 

    Ad esempio, nella causa Commissione/Italia ( 38 ), avete accertato l'inadempimento da parte di questo Stato membro, il quale non aveva adottato le norme necessarie per la soppressione di una disposizione legislativa relativa alla differenziazione del tasso di riduzione dei contributi aziendali al sistema di assicurazione contro le malattie (che può essere considerata come un provvedimento di aiuti di applicazione generale), fra la riduzione accordata al personale maschile (4 punti) e quella accordata al personale femminile (10 punti). È bensì vero che in quella causa il dibattito si incentrava soprattutto sulla mancata abrogazione della misura controversa. Ciononostante, nelle conclusioni relative a tale causa, l'avvocato generale Simone Rozèz ha osservato:

    «Tuttavia, la Commissione ha ammesso che, nella prospettiva dell'estensione della fiscalizzazione dei contributi aziendali per l'assicurazione contro le malattie al complesso ( 39 ) dell'economia italiana, il sistema istaurato con legge 29 febbraio 1980, n. 33, costituiva solo una prima tappa e presentava carattere sufficientemente generalizzato per non ricadere nel campo d'applicazione dell'art. 92, n. 1, ad eccezione del punto relativo alla maggiore riduzione consentita a favore della manodopera femminile. Tale riduzione aveva l'effetto di favorire taluni settori particolarmente attivi negli scambi fra Stati membri ed in cui è occupata essenzialmente manodopera femminile, e costituiva, perciò, un aiuto incompatibile con il mercato comune» ( 40 ).

    57. 

    Nella causa Commissione/Francia ( 41 ), vi siete espressi in termini ancora più chiari, a proposito di un provvedimento che prevedeva un tasso di risconto preferenziale all'esportazione diverso di 1,5 punti rispetto ai tassi di diritto comune, decidendo che:

    «né il fatto che il tasso preferenziale litigioso si applica a tutti i prodotti nazionali esportati e solo ad essi, né il fatto che, adottandolo, il governo francese aveva l'intenzione di ravvicinare detto tasso a quelli praticati negli altri Stati membri, possono togliere al provvedimento litigioso la caratteristica di un aiuto, vietato al di fuori dei casi e delle procedure previsti dal Trattato» ( 42 ).

    58. 

    Tuttavia non avete enunciato in quella sede alcun criterio che consenta di distinguere una misura generale di politica economica da un aiuto generalizzato. Come segnala C. Quigley, da me citato nelle conclusioni relative alla causa Sloman Neptun ( 43 ), «la linea di demarcazione fra gli aiuti generali e le misure generali di politica economica può essere alquanto indefinita». La linea di demarcazione è infatti, nel nostro caso, difficile da individuare in quanto il criterio che determina la generalità o la «normalità» dalle misure può situarsi a differenti livelli.

    59. 

    Di tal guisa, sarebbe possibile sostenere, nel caso di specie, che la regola generale è la tutela giurisdizionale accordata ai lavoratori licenziati, rispetto alla quale l'art. 23, n. 1, del KSchG costituisce una deroga.

    60. 

    Sennonché è altrettanto plausibile sostenere che quest'ultima disposizione costituisce una misura generale, all'interno della quale occorre accertare l'esistenza di eventuali deroghe, vale a dire, di particolari categorie di imprese o di lavoratori eventualmente favorite.

    61. 

    In altri termini, la generalità del sistema può essere valutata vuoi sotto il profilo del diritto del lavoro e della tutela del lavoratore licenziato, vuoi in riferimento alla disciplina specifica delle «piccole» imprese.

    62. 

    Qualunque sia, peraltro, la prospettiva adottata, una volta accertata la giustificazione della misura per la natura o la struttura del sistema, il problema perderebbe la sua ragione d'essere.

    63. 

    Ricordo che la nozione di giustificazione dell'esenzione per via della natura o della struttura del sistema, che sta alla base delle osservazioni scritte della Commissione, ricorre nella vostra citata sentenza Italia/Commissione ( 44 ). In essa eravate chiamati a pronunciarvi sulla validità di una disposizione che riduceva dal 15 al 10%, per una durata di tre anni, l'aliquota degli oneri sociali a favore delle imprese del settore tessile ed avete affermato che:

    «(...) si deve concludere che il parziale sgravio degli oneri sociali per assegni familiari a carico dei datori di lavoro del settore tessile è un provvedimento inteso ad alleviare in parte, a favore delle imprese di un particolare settore industriale, gli oneri pecuniari derivanti dalla normale applicazione del sistema generale di previdenza sociale, senza che l'esonero sia giustificato dalla natura o dalla struttura di tale sistema» ( 45 ).

    64. 

    Nel nostro caso, la deroga prevista è doppiamente giustificata: da un lato, l'intui-tus personae, che permea il rapporto di lavoro nelle «piccole» imprese, dall'altro, la concreta impossibilità di proporre al lavoratore un altro posto di lavoro all'interno della stessa struttura.

    65. 

    Come ha infatti sottolineato la Commissione ( 46 ), la struttura generale della disciplina in materia di licenziamento socialmente ingiustificato è intesa a favorire la reintegrazione del lavoratore, mentre si ricorre al versamento di un'indennità, di ammontare giudizialmente o convenzionalmente stabilito, soltanto qualora il rapporto di lavoro non possa essere proseguito.

    66. 

    Orbene, nelle «piccole» imprese tale «tutela dei diritti acquisiti» entra rapidamente in conflitto con i limiti, sopra descritti, che giustificano il carattere derogatorio della misura.

    67. 

    Da quanto sopra consegue che un provvedimento quale quello in esame non ricade, di per se stesso, nel divieto sancito dall'art. 92, n. 1.

    68. 

    Qualora tuttavia, non concordando con questa soluzione, doveste ritenere che una misura di tal genere costituisce per sua natura un aiuto, sarebbe compito della Commissione valutarne gli effetti e accertare che essa danneggia gli scambi fra gli Stati membri e falsa o minaccia di falsare la concorrenza.

    69. 

    Infatti, come avete recentemente rammentato nella vostra sentenza Société Commerciale de l'Ouest e a./Receveur principal des douanes de La Pallice Port ( 47 ),

    «(...) un tale tributo parafiscale può costituire, in funzione della destinazione del suo ricavato, un aiuto di Stato, incompatibile con il mercato comune, se sono soddisfatte le condizioni di applicazione dell'art. 92 del Trattato, restando inteso che l'accertamento del concorso di queste condizioni dev'essere effettuato seguendo il procedimento previsto a tal fine dall'art. 93 del Trattato» ( 48 ).

    70. 

    In caso di soluzione negativa della prima questione — e in tal senso è la mia proposta — il giudice di rinvio vi chiede di accertare se la terza frase dell'art. 23, n. 1, del KSchG, dia luogo a una discriminazione indiretta nei confronti delle donne, contraria agli artt. 2 e 5 della citata direttiva 76/207/CEE.

    71. 

    La norma nazionale in questione è così formulata: «Per la determinazione del numero dei lavoratori occupati ai sensi della seconda frase, si deve tener conto esclusivamente dei lavoratori il cui orario di lavoro normale sia superiore alle 10 ore settimanali o alle 45 ore mensili».

    72. 

    Nella sua ordinanza, il giudice a quo precisa quali sono le norme comunitarie alle quali esso fa riferimento, vale a dire l'art. 5, n. 1, della direttiva, in forza del quale: «L'applicazione del principio della parità di trattamento per quanto riguarda le condizioni di lavoro, comprese le condizioni inerenti al licenziamento, implica che siano garantite agli uomini e alle donne le medesime condizioni, senza discriminazioni fondate sul sesso», e l'art. 2, n. 1, il quale recita: «Ai sensi delle seguenti disposizioni il principio della parità di trattamento implica l'assenza di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso, direttamente o indirettamente, in particolare mediante riferimento allo stato patrimoniale o di famiglia».

    73. 

    In via preliminare, è opportuno valutare, come ha segnalato la Commissione nelle sue osservazioni ( 49 ), la possibilità offerta a un singolo, nel caso di specie alla signora Kirsammer-Hack, di far valere gli obblighi contenuti in una direttiva nei confronti di un altro soggetto, il suo datore di lavoro.

    74. 

    La questione relativa al punto se la direttiva sia stata attuata entro il termine previsto all'art. 9 della medesima non è stata mai sollevata nel corso del procedimento, né nella fase scritta né in quella orale.

    75. 

    Tale omissione potrebbe, a prima vista, causare dei problemi. La maggior parte delle vostre decisioni concernenti la possibilità offerta al singolo di far valere nei confronti di un altro soggetto le disposizioni di una direttiva riguardano casi di mancata attuazione.

    76. 

    Tuttavia, la mancanza di riferimenti sul punto non costituisce un ostacolo insormontabile.

    77. 

    Va ricordato, anzitutto, che avete già sottolineato il carattere preciso e incondizionato dell'art. 5, n. 1, della direttiva, in particolare nella vostra sentenza Marshall ( 50 ), ove avete statuito che:

    «Quanto alla questione, infine se, l'art. 5, n. 1, della direttiva 76/207, che dà attuazione al principio della parità di trattamento posto dall'art. 2, n. 1, della stessa direttiva, sia da ritenersi, dal punto di vista del suo contenuto, incondizionata ed adeguatamente precisa per essere fatta valere da un singolo nei confronti dello Stato, va detto che, considerata in sé stessa, detta disposizione esclude qualsiasi discriminazione basata sul sesso per quanto riguarda la condizione di lavoro, ivi comprese le ipotesi di licenziamento, in via generale ed in termini non equivoci. La disposizione è quindi adeguatamente precisa per essere fatta valere da un amministrato e applicata dal giudice» ( 51 ).

    78. 

    In quell'occasione avete anche rammentato che:

    «la direttiva non può di per sé creare obblighi a carico di un singolo e che una disposizione di una direttiva non può quindi essere fatta valere in quanto tale nei confronti dello stesso» ( 52 ).

    79. 

    Partendo dal principio che la mancata o erronea attuazione di una direttiva è imputabile solo allo Stato, il quale non potrebbe trarre vantaggio dalla propria inerzia nell'attuare il diritto comunitario, avete dato alla nozione di Stato un ampio significato, che avete riassunto nei termini seguenti nella sentenza Foster ( 53 )

    «(...) la Corte ha di volta in volta affermato che disposizioni incondizionate e sufficientemente precise di una direttiva potevano essere invocate dagli amministrati nei confronti di organismi o di enti che erano soggetti all'autorità o al controllo dello Stato o che disponevano di poteri che eccedevano i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli.

    La Corte ha così considerato che delle disposizioni di una direttiva potevano essere invocate nei confronti di autorità fiscali (sentenze 19 gennaio 1982, Becker, già citata, e 22 febbraio 1990, CEC A/Fallimento Acciaierie e Ferriere Busseni, causa C-221/88, Race. pag. I-495), di enti territoriali (sentenza 22 giugno 1989, Fratelli Costanzo/Comune di Milano, causa 103/88, Race. pag. 1839), di autorità indipendenti sotto il profilo costituzionale, incaricate di mantenere l'ordine pubblico e la pubblica sicurezza (sentenza 15 maggio 1986, Johnston/Chief Constable of the Royal Ulster Constabulary, causa 222/84, Race, pag. 1651), nonché di pubbliche autorità che prestano servizi di sanità pubblica (sentenza 26 febbraio 1986, Marshall, già citata).

    Da quanto precede emerge che fa comunque parte degli enti ai quali si possono opporre le norme di una direttiva idonea a produrre effetti diretti un organismo che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, sia stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest'ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti fra singoli» ( 54 ).

    80. 

    Un datore di lavoro privato non può in alcun modo essere equiparato ad una qualsiasi autorità pubblica che disponga di un potere d'imperio. In caso di mancata attuazione, il giudice nazionale non può quindi, a priori, applicare direttamente a un datore di lavoro le disposizioni, per quanto chiare, precise ed incondizionate, di una direttiva.

    81. 

    Le conseguenze di tale principio sono tuttavia temperate dalla nozione d'interpretazione conforme del diritto nazionale, risultante dalla vostra giurisprudenza.

    82. 

    Tale nozione è apparsa per la prima volta nella vostra sentenza 10 aprile 1984, von Colson e Kamann ( 55 ). La questione che vi era stata prospettata dal giudice nazionale mirava a stabilire se le disposizioni di una legge nazionale, che limitavano il diritto al risarcimento del danno subito dal singolo a causa di una discriminazione a un indennizzo puramente simbolico, fossero o meno conformi alle prescrizioni della direttiva. In tale sentenza avete statuito che:

    «(...) l'obbligo degli Stati membri, derivante da una direttiva, di conseguire il risultato da questa contemplato, come pure l'obbligo loro imposto dall'art. 5 del Trattato di adottare tutti i provvedimenti generali o particolari atti a garantire l'adempimento di tale obbligo, valgono per tutti gli organi degli Stati membri ivi compresi, nell'ambito di loro competenza, quelli giurisdizionali. Ne consegue che nell'applicare il diritto nazionale, e in particolare la legge nazionale espressamente adottata per l'attuazione della direttiva 76/207, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato contemplato dall'art. 189, terzo comma» ( 56 ),

    da ciò concludendo, in termini ancora più precisi, che:

    «(...). Spetta al giudice nazionale dare alla legge adottata per l'attuazione della direttiva, in tutti i casi in cui il diritto nazionale gli attribuisce un margine discrezionale, un'interpretazione ed un'applicazione conformi alle esigenze del diritto comunitario» ( 57 ).

    83. 

    Successivamente, avete ribadito questa posizione rimettendo al giudice nazionale, per quanto possibile, il compito di interpretare la norma nazionale adottata in attuazione di una direttiva alla luce dello spirito e della finalità di quest'ultima ( 58 ).

    84. 

    L'avvocato generale Van Gerven, spingendosi oltre, vi ha suggerito, nella causa Barber ( 59 ), di non limitare la facoltà d'interpretazione conforme alla sola norma nazionale adottata per l'attuazione della norma comunitaria. Egli ha rilevato in particolare che

    «In questa ipotesi, non si tratta di efficacia diretta tra privati della direttiva considerata, ma della naturale applicazione della legge nazionale interpretata dai tribunali conformemente al diritto comunitario (...). A mio parere, questo implica che detta interpretazione della normativa nazionale in conformità con la direttiva non potrebbe limitarsi all'interpretazione della normativa nazionale successiva all'adozione della direttiva considerata o della normativa nazionale che è stata adottata specificamente al fine di trasporre la direttiva considerata (...). Essa riguarda sovente una normativa nazionale di trasposizione — come pure ricorre nella sentenza Von Colson — ma non necessariamente» ( 60 ),

    ed ha precisato, in termini ancora più netti, nella causa Marleasing ( 61 ), che:

    «L'obbligo di fornire un'informazione conforme alla direttiva si impone ogni volta che la disposizione di legge nazionale può, in qualche misura, essere soggetta ad interpretazione» ( 62 ).

    85. 

    In quest'ultima sentenza, considerato che non era intervenuta nessuna trasposizione della direttiva del Consiglio 68/151/CEE e che, di conseguenza, non esisteva alcuna norma nazionale d'attuazione che potesse essere interpretata, avete stabilito che:

    «nell'applicare il diritto nazionale, a prescindere dal fatto che si tratti di norme precedenti o successive alla direttiva, il giudice nazionale deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva onde conseguire il risultato perseguito da quest'ultima e conformarsi pertanto all'art. 189, terzo comma, del Trattato ( 63 ).

    (...) la necessità di un'interpretazione del diritto nazionale conforme all'art. 11 della citata direttiva 68/151 non consente di interpretare le disposizioni del diritto nazionale in tema di società per azioni in modo tale che la nullità di una società per azioni possa essere pronunciata per motivi diversi da quelli tassativamente elencati dall'art. 11 della direttiva di cui è causa» ( 64 ),

    concludendo che:

    «La questione sollevata va pertanto risolta nel senso che il giudice nazionale cui è sottoposta una controversia in una materia che rientra nell'ambito di applicazione della direttiva 68/151 deve interpretare il proprio diritto nazionale alla luce della lettera e dello scopo della direttiva al fine di impedire la dichiarazione di nullità di una società per azioni per una causa diversa da quelle elencate all'art. 11» ( 65 ).

    86. 

    In tal modo, superando la vostra giurisprudenza von Colson, avete esteso all'insieme delle norme nazionali, pur se anteriori o estranee alla direttiva, il campo d'applicazione del principio dell'interpretazione conforme.

    87. 

    Tale posizione va confermata.

    88. 

    La Commissione solleva una seconda questione preliminare, relativa al punto se la giurisprudenza in tema di discriminazioni indirette, sviluppatasi sulla base dell'art. 119 del Trattato, possa essere applicata al caso di specie, nel quale si discute della direttiva 76/207/CEE.

    89. 

    Nella sentenza Ruzius-Wilbrink ( 66 ), in merito alla concessione ai lavoratori a orario ridotto di un assegno di inabilità al lavoro, avete ripreso nei termini seguenti, sulla base dell'art. 4, n. 1, della direttiva 79/7/CEE, la vostra giurisprudenza abituale sull'art. 119, risultante in particolare dalla vostra sentenza Jenkins ( 67 )

    «(...) l'art. 4, n. 1, della direttiva del Consiglio 19 dicembre 1978, 79/7/CEE va interpretato come contrario a che, nell'ambito di una normativa che garantisce un minimo sociale agli assicurati colpiti da inabilità al lavoro, una disposizione introduca una deroga a detto principio nei confronti degli assicurati che hanno in precedenza lavorato ad orario ridotto e limiti l'importo della prestazione alla retribuzione precedentemente percepita, qualora tale misura colpisca un numero molto più elevato di donne che di uomini, a meno che detta normativa sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso» ( 68 ).

    90. 

    Talché voi ritenete che la vostra giurisprudenza in tema di discriminazioni indirette, formatasi nell'ambito dell'art. 119, si estende alle direttive adottate in attuazione di tale norma. Analogo rilievo deve pertanto valere per quanto riguarda la direttiva 76/207/CEE.

    91. 

    Poste tali premesse, cercherò ora di fornire al giudice a quo gli elementi di cui abbisogna per stabilire se l'art. 23, n. 1, terza frase, del KSchG abbia o meno carattere discriminatorio.

    92. 

    Questo articolo, che prevede un metodo specifico di computo, non comporta nessuna discriminazione diretta basata sul sesso. La sua formulazione è, infatti, neutrale.

    93. 

    Occorrerà pertanto stabilire se il fatto che per le «piccole» imprese non si tenga conto dei lavoratori occupati per meno di dieci ore settimanali o di quarantacinque ore mensili configuri una discriminazione indiretta nei confronti delle donne. Occorre inoltre precisare che lo stesso metodo di calcolo potrebbe dar luogo a discriminazioni solo in ragione delle conseguenze eventualmente derivanti dall'appartenenza dell'impresa in questione alla categoria delle «piccole» imprese. La signora Kirsammer-Hack figura infatti fra gli effettivi dell'impresa, mentre non fa parte di coloro i quali, lavorando meno di dieci ore a settimana o di quarantacinque ore al mese, vengono esclusi dal computo degli effettivi. Cionondimeno, essa non può avvalersi del regime generale di tutela contro il licenziamento illegittimo.

    94. 

    Di conseguenza, per dare alla questione una risposta esauriente, occorre, come suggerito dalla Commissione ( 69 ), estendere l'esame allo svantaggio realmente subito dai lavoratori delle «piccole» imprese, consistente nel non potersi avvalere della tutela giurisdizionale prevista dal regime.

    95. 

    Conformemente alla vostra giurisprudenza, spetta al giudice nazionale, da un lato, accertare l'effettività della discriminazione, dall'altro, verificare se quest'ultima sia giustificata da fattori obiettivi estranei al sesso.

    96. 

    Quanto al primo punto — la valutazione dell'effettività del fenomeno discriminatorio — avete affermato in più occasioni che tale elemento di fatto rientra nella competenza del giudice a quo. Nella citata sentenza Jenkins, per esempio, che verteva sulle restrizioni dei lavoratori a orario ridotto di un'impresa di abbigliamento, il cui salario orario era inferiore del 10% rispetto alla tariffa concordata per il tempo pieno, avete stabilito che:

    «in ogni singola fattispecie, spetta al giudice nazionale valutare, in caso di differenza di retribuzione oraria fra il lavoro ad orario ridotto ed il lavoro a tempo pieno, se, tenuto conto degli elementi di fatto, degli antecedenti e delle ragioni addotte dal datore di lavoro, un sistema retributivo come quello su cui verte la causa principale, pur se la differenziazione viene giustificata con la differenza di ore lavorative settimanali prestate, si risolva o meno, in realtà, in una discriminazione a motivo del sesso dei lavoratori» ( 70 ).

    97. 

    Sotto tale aspetto, occorre rilevare che tanto i dati statistici menzionati dal giudice di rinvio quanto quelli forniti dal governo tedesco sono lacunosi.

    98. 

    Il giudice di rinvio rileva che «il 90% dei lavoratori ad orario ridotto della Repubblica federale di Germania sono donne» ( 71 ), senza precisare però la percentuale di quelli occupati nelle «piccole» imprese.

    99. 

    Il governo tedesco, in risposta ai quesiti rivolti ad esso dalla Corte, non fornisce alcuna statistica relativa alla percentuale di donne occupate nelle «piccole» imprese (comprese quelle non computate in quanto occupate meno di dieci ore a settimana o di quarantacinque ore al mese). I dati risultanti dal censimento delle aziende effettuato nel 1987 mettono in evidenza, nelle imprese aventi un numero di lavoratori compreso fra uno e quattro, una percentuale maggiore di uomini (75%) rispetto alle donne (25%).

    100. 

    Per quanto riguarda il secondo punto, relativo alla possibilità che il provvedimento sia giustificato da fattori oggettivi estranei a qualsiasi discriminazione, spetta ancora una volta al giudice a quo procedere all'accertamento dei fatti, nel caso in cui venga riscontrata l'esistenza di una discriminazione. Nella vostra sentenza Bilka ( 72 ) avete tuttavia posto dei canoni ermeneutici circa l'esame dei motivi addotti per giustificare la misura, stabilendo che:

    «(...) qualora il giudice nazionale constati che i mezzi scelti dalla Bilka rispondono ad un'effettiva esigenza dell'impresa, sono idonei a raggiungere l'obiettivo da questa perseguito e sono a tal fine necessari, il fatto che le disposizioni di cui trattasi colpiscano un numero assai più elevato di lavoratrici che di lavoratori non è sufficiente per concludere che esse implicano violazione dell'art. 119» ( 73 ).

    101. 

    Infine, nella sentenza Rinner-Kühn ( 74 ), avente ad oggetto una disposizione simile a quella oggi in esame, che era stata impugnata in quanto l'obbligo del datore di lavoro di conservare per sei settimane la retribuzione del lavoratore assente per malattia non trovava applicazione per i lavoratori il cui orario di lavoro non superava le dieci ore settimanali o le quarantacinque ore mensili, avete affermato, sul fondamento dell'art. 119, che:

    «spetta al giudice nazionale, che è il solo competente a valutare i fatti e ad interpretare il diritto nazionale, stabilire se ed entro quali limiti una disposizione di legge la quale si applichi indipendentemente dal sesso del lavoratore, ma colpisca di fatto le donne più degli uomini, sia giustificata da motivi obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione basata sul sesso» ( 75 ).

    102. 

    Nella fattispecie, le parti hanno fatto ampia menzione, nelle loro osservazioni scritte e orali, delle motivazioni del legislatore in materia di aiuti alle «piccole» imprese. Nel novero degli obiettivi perseguiti figurerebbero, ad esempio, quello di incentivare la creazione di posti di lavoro e quello di rendere dinamico un tessuto industriale, in modo da potersi maggiormente adattare alle trasformazioni economiche.

    103. 

    Vi suggerisco pertanto, in risposta a quest'ultima questione, di dichiarare che spetta al giudice a quo valutare l'eventuale esistenza di una discriminazione indiretta e stabilire, nel caso in cui egli riscontri la sussistenza di elementi tali da farlo propendere per la sua esistenza, se la disposizione controversa sia o meno giustificata in base a fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.

    104. 

    Un'ultima osservazione. Senza voler sconfinare nelle competenze del giudice a quo, mi pare che, se la misura controversa non dovesse essere considerata aiuto in quanto giustificata dalla natura o dalla struttura del sistema, simile giustificazione dovrebbe rivestire un ruolo determinante nella valutazione di questo giudice.

    105. 

    In conclusione, vi propongo di pronunciarvi nel senso che:

    1)

    Esula dall'ambito di applicazione dell'art. 92, n. 1, del Trattato CEE una norma nazionale che esclude le imprese con non più di cinque dipendenti dal regime di tutela di diritto comune in materia di licenziamento illegittimo.

    2)

    Gli artt. 2 e 5 della direttiva 9 febbraio 1976, 76/207/CEE, relativa all'attuazione del principio della parità di trattamento fra uomini e donne per quanto riguarda l'accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro, ostano a che una normativa nazionale escluda le imprese con non più di cinque dipendenti dal regime generale di tutela contro il licenziamento illegittimo, qualora risulti che tale deroga colpisce di fatto un numero ben più elevato di donne che di uomini, salvo che essa sia giustificata da fattori obiettivi ed estranei a qualsiasi discriminazione fondata sul sesso.


    ( *1 ) Lingua originale: il francese.

    ( 1 ) In forza dell'art. 1 del KSchG, un licenziamento è socialmente ingiustificato allorché non si basa «su motivi inerenti alla persona o al comportamento del lavoratore, oppure su esigenze preminenti dell'impresa che impediscano la prosecuzione del rapporto di lavoro del lavoratore con l'impresa stessa».

    ( 2 ) V. nozione di «tutela dei diritti acquisiti» sviluppata dalla Commissione al paragrafo 4 delle sue osservazioni scritte.

    ( 3 ) Artt. 9 e 10 del KSchG.

    ( 4 ) Punto 12 dell'ordinanza di rinvio pregiudiziale (traduzione francese).

    ( 5 ) Art. 23, n. 1, seconda e terza frase, dei KSchG.

    ( 6 ) Contrariamente al conteggio effettuato dal giudice di rinvio, ai punti 3 e 5 della sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il numero di lavoratori da considerare ai sensi dell'art. 23, n. 1, del KSchG dev'essere pari a 4 e non a 3.

    ( 7 ) GU L 39, pag. 40.

    ( 8 ) De gezamenlijke Steenkolenmijnen in Limburg (causa 30/59, Racc. pag. 3).

    ( 9 ) Pag. 39.

    ( 10 ) Paragrafo 4 delle sue osservazioni (traduzione francese).

    ( 11 ) Causa 78/76, Racc. pag. 595.

    ( 12 ) Sentenza 19 giugno 1973, causa 77/72, Capolongo/Maya (Racc. pag. 611, punto 6 della motivazione); v. anche ultimo capoverso del punto 10 della sentenza Steinike e Weinlig.

    ( 13 ) Punti 14 e 15 della motivazione.

    ( 14 ) Cause riunite C-72/91 e C-73/91, conclusioni del 17 marzo 1992 (v., in particolare, paragrafi 12-47).

    ( 15 ) Sentenza 30 gennaio 1985, causa 290/83, Commissione/ Francia (Racc. pag. 439, punto 14 della motivazione); v. anche sentenze 22 marzo 1977, causa 78/76, Steinike e Weinlig (Racc. pag. 595); 7 giugno 1988, causa 57/86, Grecia/Commissione (Racc. pag. 2855, punto 12 della motivazione); 2 febbraio 1988, cause riunite 67/85, 68/85 e 70/85, Van der Kooy/Commissione (Race. pag. 219, punto 35 della motivazione).

    ( 16 ) Sentenza 24 gennaio 1978, causa 82/77 (Racc. pag. 25).

    ( 17 ) Punto 24 della motivazione.

    ( 18 ) Punto 25 della motivazione.

    ( 19 ) Decisione della Commissione 85/239/CEE che chiude la procedura antisowenzioni riguardante le importazioni di panelli di soia originari dell'Argentina (GU L 108, pag. 28); v. altresì decisione della Commissione 16 aprile 1985, 85/233/CEE, che chiude la procedura antisowenzioni riguardante le importazioni di panelli di soia originari del Brasile (GU L 106, pag. 19, punto 12.3).

    ( 20 ) Sentenza 14 luglio 1988, causa 187/85 (Racc. pag. 4155).

    ( 21 ) Sentenza Stcinicke e Wenling, citata, punto 21 della motivazione.

    ( 22 ) Sentenza 22 luglio 1974, causa 173/73, Italia/Commissione (Race. pag. 709, in particolare punto 33 della motivazione).

    ( 23 ) Supra, paragrafi 2-4.

    ( 24 ) Art. 18 della legge 20 maggio 1970, n.300 («Statuto dei lavoratori»).

    ( 25 ) Art. 24, n. 3, della legge 24 maggio 1989 sul contratto di lavoro.

    ( 26 ) Art. 15 del decreto legge n. 64-A/89.

    ( 27 ) Art. L 122-14-4 del Codice del lavoro.

    ( 28 ) Art. L 122-14-5 del Codice del lavoro.

    ( 29 ) Lussemburgo 1988, pag. 51.

    ( 30 ) Paragrafo 9.

    ( 31 ) Punto 11 dell'ordinanza di rinvio.

    ( 32 ) Documento COM(90) 228 def. —SYN 280 (GU C 224 dell'8.9.1990, pag. 6). Faccio presente che le altre due proposte di direttiva, relative alle condizioni di lavoro e ai provvedimenti intesi a favorire il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori a tempo determinato, non contengono nessuna norma specifica in materia di licenziamento.

    ( 33 ) Documento COM(90) 533 def. —SYN 280 (GU C 305, pag. 8).

    ( 34 ) «I problemi specifici delle PMI (...) giustificano un'azione positiva pubblica atta a rendere comparabili le condizioni di base e, se del caso, a ribaltarle lievemente a favore delle PMI», punto 1.4 (GU C 213, pag. 2).

    ( 35 ) Paragrafo 8 delle sue osservazioni (traduzione francese).

    ( 36 ) V. decisione del Consiglio 28 luglio 1989 concernente il miglioramento del contesto dell'attività e la promozione dello sviluppo delle imprese, in particolare delle piccole e medie imprese, nella Comunità (GU L 239, pag. 33).

    ( 37 ) Espressione utilizzata in particolare da A. Matterà, in «Le marche unique européen, ses règles, son fonctionnement», Jupiter, 1990, seconda edizione, pag. 67.

    ( 38 ) Sentenza 14 luglio 1983, causa 203/82 (Racc. pag. 2525).

    ( 39 ) Il corsivo è nel testo.

    ( 40 ) Il corsivo è mio.

    ( 41 ) Sentenza 10 dicembre 1969, cause riunite 6/69 c 11/69 (Racc. pag. 523).

    ( 42 ) Punto 21 della motivazione.

    ( 43 ) Paragrafo 50.

    ( 44 ) V. supra, nota 22.

    ( 45 ) Punto 33 della motivazione, il corsivo è mio.

    ( 46 ) Paragrafi 10 e 11 delle sue osservazioni (traduzione francese).

    ( 47 ) Sentenza 11 marzo 1992, cause riunite da C-78/90 a 83/90 (Racc. pag. I-1847).

    ( 48 ) Punto 35 della motivazione, il corsivo è mio.

    ( 49 ) Paragrafi 25 e 26.

    ( 50 ) Sentenza 26 febbraio 1986, causa 152/84 (Race. pag. 723).

    ( 51 ) Punto 52 della motivazione.

    ( 52 ) Punto 48 della motivazione.

    ( 53 ) Sentenza 12 luglio 1990, causa C-188/89 (Race. pag. I-3313).

    ( 54 ) Punti 18, 19 e 20 delia motivazione.

    ( 55 ) Causa 14/83, Race. pag. 1891.

    ( 56 ) Punto 26 della motivazione, il corsivo è mio.

    ( 57 ) Punto 28 della motivazione, il corsivo è mio.

    ( 58 ) V., in particolare, sentenza 15 maggio 1986, causa 222/84, Johnston (Racc. pag. 1651, punto 53 della motivazione).

    ( 59 ) Sentenza 17 maggio 1990, causa C-262/88 (Racc. pag. I-1889).

    ( 60 ) Il corsivo è mio.

    ( 61 ) Sentenza 13 novembre 1990, causa C-106/89 (Racc. pag. I-4135).

    ( 62 ) Paragrafo 8 delle conclusioni, il corsivo è mio.

    ( 63 ) Punto 8 della motivazione.

    ( 64 ) Punto 9 della motivazione.

    ( 65 ) Punto 13 della motivazione, il corsivo è mio.

    ( 66 ) Sentenza 13 dicembre 1989, causa C-102/88 (Racc. pag. 4311).

    ( 67 ) Sentenza 31 marzo 1981, causa 96/80 (Race. pag. 911).

    ( 68 ) Sentenza Ruzius, citata, punto 17 della motivazione.

    ( 69 ) Paragrafo 30 delle sue osservazioni.

    ( 70 ) Punto 14 della motivazione.

    ( 71 ) Punto 21 della domanda di pronuncia pregiudiziale.

    ( 72 ) Sentenza 13 maggio 1986, causa 170/84 (Racc. pag. 1607).

    ( 73 ) Punto 36 della motivazione.

    ( 74 ) Sentenza 13 luglio 1989, causa 171/88 (Racc. pag. 2743).

    ( 75 ) Punto 15 della motivazione.

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