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Document 61982CC0149

    Conclusioni dell'avvocato generale Mancini del 16 dicembre 1982.
    Stephanie Robards contro Insurance Officer.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Social Security Commissioner - Regno Unito.
    Previdenza sociale - prestazioni di famiglia dopo il divorzio.
    Causa 149/82.

    Raccolta della Giurisprudenza 1983 -00171

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1982:447

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

    G. FEDERICO MANCINI

    DEL 16 DICEMBRE 1982

    Signor Presidente,

    Signori Giudici,

    1. 

    In questa causa pregiudiziale vi si chiede di interpretare due disposizioni (articoli 73 e 76) del regolamento del Consiglio n. 1408/71, del 14 giugno 1971, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità (GU L 149, p. 2). Sottoposto al vostro esame à anche l'articolo 10 del regolamento del Consiglio n. 574/72, del 21 marzo 1972, che disciplina le modalità esecutive del regolamento precedente (GU L 74, p. 1). Rispetto a quest'ultima norma vi si prospetta inoltre una questione di validità, mettendosi in dubbio la sua consonanza con l'articolo 51 del Trattato CEE.

    2. 

    Come vedremo, il problema da cui scaturiscono tali interrogativi ha per oggetto la corresponsione di assegni familiari secondo l'ordinamento britannico quando i beneficiari siano figli di genitori divorziati e residenti in Stati membri diversi.

    I fatti possono essere riassunti come segue.

    La signora Stephanie Robards, attrice nel processo principale, è cittadina del Regno Unito e si sposò il 7 gennaio 1967 col signor Hugh John Robards, anch'egli cittadino britannico. Dal matrimonio nacquero tre figli, Tamzin, Jason e Robin, tutti attualmente minori di anni 16. Fino al 1970 la famiglia Robards risiedette nel Regno Unito. Poi si trasferì in Irlanda. Nel 1978 i coniugi si separarono: la signora Robards tornò nel Regno Unito con i due figli minori Jason e Robin, mentre il signor Robards rimase in Irlanda assieme al figlio più grande, Tamzin. Con provvedimento emanato dalla High Court inglese il 4 febbraio 1980 i due figli minori vennero affidati alla madre ed il maggiore al padre. Quest'ultimo fu obbligato a prestare un assegno alimentare nella misura di lire sterline 9 la settimana per ciascuno degli altri due figli. All'affidamento seguì il divorzio, che fu pronunciato dallo stesso giudice il 3 giugno 1980. Dal suo ritorno nel Regno Unito e fino al 5 luglio 1980 la signora Robards percepì, come lavoratrice subordinata, gli assegni familiari dovuti secondo l'ordinamento inglese per i figli con lei conviventi. Alla Robards fu corrisposta inoltre la maggiorazione per figli a carico in qualità di genitore non residente col coniuge: una situazione che il linguaggio popolare inglese definisce «one-parent family».

    Intervenuta la pronuncia di divorzio, il signor Robards, lavoratore subordinato in Irlanda, chiese all'ente previdenziale irlandese che gli fossero attribuiti gli assegni familiari per tutti e tre i figli. Risulta che essi gli siano stati concessi dal 1o luglio 1980 sulla base della legislazione irlandese per il figlio a lui affidato e sulla base dell'articolo 73, n. 1, del regolamento 1408/71 per i due figli affidati alla madre e con lei conviventi nel Regno Unito. Nel dicembre 1980 l'ente previdenziale inglese (l'Insurance Officer) riesaminò la situazione assistenziale della signora Robards e deliberò, a far tempo dal 5 luglio 1980, di non erogarle più gli assegni per i figli di cui è affidata-ria; da un canto, infatti — così fu motivata la sua decisione —, gli assegni venivano pagati in Irlanda per gli stessi figli; dall'altro, alla signora Robards non era applicabile l'eccezione contenuta nella seconda parte dell'articolo 10, n. 1, lettera a), regolamento 574/72, non potendo la medesima, dopo il divorzio, considerarsi coniuge dell'ex marito.

    Contro tale provvedimento l'interessata introdusse un reclamo innanzi al Locai Tribunal di Hastings, il quale confermò la decisione negativa dell'Insurance Officer. Ritenne peraltro quest'ultimo che la signora Robards avesse titolo, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia comunitaria (si vedano specialmente le sentenze del 19. 2. 1981 nella causa 104/80, Kurt Beeck /Bundesanstalt für Arbeit, Raccolta 1981, p. 503, e del 6 marzo 1979 nella causa 100/78, Claudino Rossi /Caisse de compensation pour allocations familiales des régions de Charleroi et Namur, Raccolta 1979, p. 831), alla differenza tra il maggior importo delle prestazioni nel Regno Unito e quello degli assegni familiari percepiti dal marito in Irlanda. La signora Robards propose comunque ricorso al Social Security Commissioner. Con ordinanza del 5 maggio 1982, quest'organo giurisdizionale ha sospeso il procedimento e ha chiesto alla nostra Corte di pronunciarsi in via pregiudiziale su una serie di quesiti. Essi hanno per oggetto l'interpretazione del termine «familiare» di cui al regolamento 1408/71 ove a venire in questione siano figli di genitori divorziati, e l'applicabilità delle norme anticumulo, cioè degli articoli 76 dello stesso regolamento e 10 del regolamento 574/72. Di quest'ultimo disposto si vuole sapere in particolare se consenta di assimilare al coniuge il genitore divorziato e se sia valido alla luce dell'articolo 51 Trattato CEE.

    3. 

    Per rispondere ai detti quesiti occorre anzitutto far luce sulla titolarità del diritto agli assegni familiari e chiarire poi come incidano su di essa le disposizioni comunitarie che si ritengano applicabili nella fattispecie (figli di genitori divorziati) sottoposta al vostro esame dal giudice di rinvio.

    La regola generale, comune a gran parte degli Stati membri, è che i «lavoratori» percepiscono gli assegni familiari secondo l'ordinamento dello Stato nel quale prestano la loro attività. La sua ratio è chiara: lo Stato in cui il lavoratore è occupato deve sopportare i costi del relativo regime previdenziale ed è perciò tenuto, una volta che ne siano maturati i presupposti, a riconoscere il diritto agli assegni di chiunque lavori nel suo ambito.

    Solo a questo punto intervengono i regolamenti comunitari, ed in particolare il 1408/71. Emanato in applicazione dell'articolo 51 Trattato CEE, esso intende realizzare condizioni di eguaglianza sul terreno della sicurezza sociale e a tal fine assimila il lavoratore nazionale al lavoratore migrante. Ciò comporta alcuni correttivi alla regola di cui ho detto. Così, se l'articolo 13, 2° comma, lettera a), la richiama, affermando che ai lavoratori migranti si applica generalmente la legislazione dello Stato in cui prestano la loro opera, l'articolo 73, n. 1, la fa oggetto di modifiche, assimilando la residenza dei familiari in un altro Stato membro alla residenza nel territorio dello Stato di occupazione. Emerge a questo modo, in funzione emendatrice delle norme nazionali, un nuovo principio: l'irrilevanza della residenza.

    Come meglio vedremo, al fine di evitare ingiustificati arricchimenti per la duplicazione del diritto alle prestazioni, altri disposti comunitari (nella specie i già citati articoli 76 regolamento 1408/71 e 10 regolamento 574/72) vietano il cumulo degli assegni. È a stregua di questo complesso normativo che va valutata la fattispecie esposta dal giudice nazionale.

    4. 

    A me pare che, per dare a quest'ultimo una risposta utile, sia opportuno invertire l'ordine delle domande da lui avanzate ed esaminare per prima la questione n. 3 a). Il Social Security Commissioner vi chiede «se le prestazioni di famiglia previste dalla legge di uno Stato membro vadano (ai fini dell'articolo 10 regolamento 574/72) considerate dovute ai sensi dell'articolo 73, n. 1, regolamento 1408/71 per i figli abitualmente residenti fuori del territorio di uno Stato membro, se la legge di quest'ultimo legittima una persona a percepire siffatte prestazioni di famiglia solo per i figli con essa abitualmente residenti e se essa risiede abitualmente nel detto Stato membro». In altri termini, il giudice nazionale, chiamato ad applicare la norma dell'articolo 10, vuole sapere se il ricorso a quest'ultima implichi, secondo il diritto comunitario, un apprezzamento delle condizioni da cui dipende l'applicazione dell'articolo 73, n. 1, regolamento 1408/71. A tale problema, infatti, si collegano sia l'esame delle legislazioni nazionali (inglese ed irlandese) in tema di assegni familiari, sia il quesito relativo all'interpretazione del termine «familiare» di cui al regolamento 1408/71.

    Ma procediamo con ordine.

    Comincio con l'esaminare la prima frase dell'articolo 10 regolamento 574/72. Nella sua versione «codificata», essa stabilisce che «Il diritto alle prestazioni o assegni familiari dovuti ai sensi della legislazione di uno Stato membro per la quale l'acquisizione del diritto a dette prestazioni od assegni non è subordinata a condizioni di assicurazione o di occupazione è sospeso quando, durante uno stesso periodo e per lo stesso familiare: a) sono dovute prestazioni in applicazione degli articoli 73 o 74 del regolamento (1408/71)» (GU C 138, 1980, p. 71). Come ho detto, il disposto ha finalità anticumulo. La sua attuale formulazione è frutto delle modifiche apportate al testo originario il 26 marzo 1973 dal regolamento 878/73 del Consiglio per tener conto delle particolarità dei regimi di sicurezza sociale dei nuovi Stati membri.

    Il problema che ci si pone sta nell'identi-ficare gli esatti termini del rapporto fra questa norma e l'articolo 73 regolamento 1408/71 a cui essa fa richiamo. Il n. 1 dell'articolo 73 dispone infatti che «Un lavoratore soggetto alla legislazione di uno Stato membro diverso dalla Francia ha diritto, per i familiari residenti nel territorio di un altro Stato membro, alle prestazioni familiari previste dalla legislazione del primo Stato, come se risiedessero nel territorio di quest'ultimo».

    Come si vede, la norma rinvia all'ordinamento dello Stato di occupazione per quanto riguarda sia l'accertamento del diritto agli assegni, sia la nozione di «familiare». Di quest'ultima, peraltro, l'articolo 1, lettera f), regolamento 1408/71 sancisce un'estensione assimilando al convivente il vivente a carico ogniqualvolta la legge nazionale individui il «familiare» solo nel primo. «Il termine “familiare” — esso afferma — designa qualsiasi persona definita o riconosciuta come familiare, oppure designata come componente il nucleo familiare dalla legislazione secondo la quale le prestazioni sono erogate, o, nei casi di cui all'articolo 22, n. 1, lettera a), e all'articolo 31, dalla legislazione dello Stato membro nel cui territorio essa risiede; tuttavia — ecco il precetto relativo all'estensione di cui ho detto — se tali legislazioni considerano familiare o componente il nucleo familiare soltanto una persona convivente col lavoratore stesso, tale condizione è considerata soddisfatta quando la persona in questione è prevalentemente a carico del lavoratore».

    Da queste indicazioni appare chiaro che l'ente previdenziale irlandese, attribuendo al signor Robards gli assegni per i due figli non conviventi, ha ritenuto di applicargli il n. 1 dell'articolo 73; ha cioè deciso di trattare quei figli «come se» risiedessero nel territorio della Repubblica d'Irlanda. A norma del solo diritto irlandese, infatti, il signor Robards non avrebbe avuto diritto a percepire i detti assegni. Secondo l'articolo 5 del Social Welfare (Miscellaneous Provisions) Act del 1963 — che per quanto interessa in questa sede ha innovato la disciplina dettata nel 1944 dal Children's Allowances Act — solo «alla persona con cui dimora abitualmente un figlio avente diritto spettano gli assegni familiari per tale figlio». L'Irlanda, cioè, utilizza il criterio della «residenza abituale» del figlio col lavoratore.

    A questo punto, come risulta implicitamente dai quesiti del giudice di rinvio, ci si può domandare se l'applicazione dell'articolo 10 regolamento 574/72 sia, in qualche modo, «condizionata» dall'articolo 73 regolamento 1408/71; se cioè l'autorità nazionale sia chiamata a valutare la sussistenza dei presupposti sulla cui base si è ritenuto di impiegare l'articolo 73 in un diverso Stato membro. Sono persuaso che un condizionamento del genere non sussista; e ciò, come ho osservato, perché l'articolo 73 rinvia all'ordinamento nazionale per l'individua-zione degli aventi diritto alle prestazioni. D'altro canto, è pacifico che non spetta alla nostra Corte pronunciarsi sul modo in cui le autorità di uno Stato membro attuano il loro diritto. È perciò sufficiente prendere atto dell'applicazione del detto disposto, salvo poi a verificare in concreto se la fattispecie rientri nella previsione di una norma anticumulo.

    5. 

    Abbiamo visto dunque che, ai sensi del primo comma, prima frase, dell'articolo 10 regolamento 574/72, qualora nel paese di residenza del figlio il diritto agli assegni spetti indipendentemente dalle condizioni di assicurazione o di occupazione ed il coniuge del lavoratore non presti in esso la propria opera, quel diritto viene sospeso. Domina, cioè, la «lex loci laboris», per il già richiamato principio secondo cui i costi relativi al regime della securezza sociale gravano sullo Stato in cui il lavoratore è occupato e a detto regime contribuisce.

    Passiamo ora ad esaminare l'eccezione contenuta nel n. 1, lettera a), articolo 10 del regolamento 574/72. Vi si dispone che: «Peraltro se il coniuge del lavoratore o del disoccupato contemplato da tali articoli esercita un'attività professionale nel territorio di detto Stato membro, è sospeso il diritto alle prestazioni o assegni familiari dovuti in applicazione degli articoli precitati; sono corrisposte soltanto le prestazioni o assegni familiari dello Stato membro sul cui territorio risiede il familiare ed a carico di detto Stato membro». Com'è ovvio, il diritto di cui la norma sancisce la sospensione è quello previsto dall'articolo 73 regolamento 1408/71, cioè quello maturato nel paese di occupazione del lavoratore migrante. In tal modo, nell'ipotesi di coesistenza di prestazioni familiari dello stesso tipo, prevalgono sempre i diritti dello Stato di residenza del figlio, a condizione che il coniuge ivi residente eserciti un'attività professionale. Ancora una volta ci troviamo di fronte all'applicazione della «lex loci laboris», con prevalenza, in caso di cumulo, della legge vigente nello Stato ove risiedono i figli.

    Come l'articolo 73, dunque, anche il disposto anticumulo fa riferimento alla legislazione nazionale dello Stato in cui risiede il familiare per l'accertamento del diritto agli assegni; e non vi è dubbio che, secondo le leggi dello Stato di occupazione (Regno Unito), la signora Robards abbia questo diritto per i due figli con lei conviventi in quanto a lei affidati mediante provvedimento giudiziario. L'ordinamento inglese (Child Benefit Act 1975) stabilisce infatti che la prestazione è dovuta alla persona «responsabile» del figlio (articolo 1). Ora, a norma dell'articolo 3, n. 1, dell'Act, tale «responsabilità» sussiste, in una determinata settimana, a) se la persona abbia convissuto col figlio durante la settimana, o b) se essa contribuisce alle spese di mantenimento del figlio con una quota settimanale non inferiore all'importo degli assegni familiari dovuto in quella settimana. Ci si potrebbe persino domandare, come ha fatto la ricorrente, se l'articolo 73, n. 1, del regolamento 1408/71 le attribuisca questo diritto, quale lavoratrice, anche per il figlio residente con il padre in un altro Stato membro. Ma la risposta, credo, non può essere che negativa, indipendentemente dalla condizione di divorziati in cui versano i signori Robards. L'articolo 76 dello stesso regolamento e l'articolo 10 regolamento 574/72 prevedono, infatti — e lo vedremo meglio in seguito —, la sospensione del diritto previsto dall'articolo 73 quando uno dei familiari lavora nello Stato in cui risiedono i figli; ora il signor Robards vive in Irlanda, dove presta la sua opera e dove, a stregua di quella legislazione, si vede riconosciuto il diritto per il figlio di cui è affidatario.

    Sempre per quanto riguarda l'accertamento del diritto agli assegni, ricordo che il giudice nazionale ci ha chiesto se il divorzio incida sulla qualifica di «familiare» dei figli. 1° credo che, in questi termini, il problema sia insussistente o mal posto: la cessazione del vincolo matrimoniale conseguente a pronuncia di divorzio non ha, mi sembra, alcun effetto sul rapporto di filiazione. Sciolto il matrimonio, l'affidamento dei figli all'uno e/o all'altro dei genitori non impedisce che essi rimangano membri della «famiglia» di entrambi. Da qui nasce una sorta di concorrenza tra i diritti dei genitori a percepire gli assegni che va regolata a stregua delle legislazioni nazionali e delle norme anticumulo dei regolamenti comunitari.

    6. 

    Più disputabile è l'incidenza che sulla corresponsione degli assegni e sulle relative situazioni giuridiche l'Insurance Officer attribuisce al divorzio, sempre in rapporto all'applicazione dell'articolo 10 regolamento 574/72.

    Il problema di fondo che vi pone il giudice di rinvio e che è stato ampiamente discusso nelle memorie scritte e nel corso della procedura orale riguarda appunto l'interpretazione del termine «coniuge» impiegato dalla lettera a) del detto articolo. Si tratta infatti di stabilire se esso abbracci anche situazioni qualificate dalla cessazione del vincolo coniugale.

    Del concetto di «coniuge» vi sono prospettate varie interpretazioni.

    Secondo l'Insurance Officer, la questione va risolta a stregua della legge applicata dall'ente previdenziale che intende valersi dell'articolo 10. Ora l'ordinamento britannico considera coniugi solo i soggetti tra cui il vincolo matrimoniale è in atto; il divorziato, quindi, è ex coniuge, non coniuge. Un altro argomento invocato dall'Insurance Officer riguarda gli effetti dell'eventuale nuovo matrimonio contratto da un genitore divorziato. In un caso del genere, egli sostiene, l'importo complessivo da corrispondere potrebbe essere superiore all'aliquota più alta delle prestazioni considerate in ciascuno Stato membro, poiché gli assegni familiari dovuti secondo la legislazione degli Stati membri dei due genitori e del nuovo coniuge si sommerebbero.

    Contro questa lettura, che definirei restrittiva, del termine «coniuge», la Commissione ed il Consiglio vi chiedono esplicitamente di intenderlo in maniera estensiva. La Commissione fa presente che, nell'interpretare la normativa comunitaria sulla sicurezza sociale, l'accento va posto sulla situazione professionale del lavoratore piuttosto che sul suo «status familiae». Il Consiglio rileva poi che siamo di fronte ad una lacuna del regolamento. Vi propone perciò di colmarla considerando «coniuge» chiunque abbia l'affidamento legale dei figli per i quali sono dovute le prestazioni e con i quali risiede.

    La tesi dell'Insurance Officer va respinta. Essa dimentica in primo luogo che rinviata dal regolamento agli ordinamenti nazionali è la definizione di «familiare», non quella di «coniuge». Ma senza pregio è anche l'argomento fondato sull'ipotesi del nuovo matrimonio contratto dal coniuge divorziato. Supponiamo infatti che il nuovo coniuge si veda riconoscere il diritto agli assegni per i figliastri, dimostrando che essi vivono a suo carico, e ottenga l'applicazione dell'articolo 73, n. 1, regolamento 1408/71; quel diritto risulterebbe pur sempre «sospeso» per effetto dell'articolo 10 regolamento 574/72 o dell'articolo 76 regolamento 1408/71 a vantaggio del familiare che esercita attività professionale. Quanto agli eventuali assegni percepiti dal coniuge non affidatario, ritengo che essi vadano sospesi in applicazione del principio generale comune agli ordinamenti previdenziali degli Stati membri (e a livello comunitario previsto dall'articolo 12 del regolamento 1408/71), secondo cui non può farsi cumulo in capo a diversi soggetti del diritto agli assegni relativamente a un medesimo familiare.

    Ciò rilevato, reputo che la questione possa risolversi restando nella logica del sistema e nell'ambito dell'articolo 10, senza far ricorso ad interpretazioni più o meno estensive. Ho già detto che per la qualifica di «coniuge» il regolamento non rinvia alle legislazioni nazionali. Mi sembra logico verificare se un'interpretazione «utile» del termine possa essere tratta dalla normativa comunitaria. Ebbene, se leggiamo unitariamente il disposto dell'articolo 10, n. 1, lettera a), appare chiaro che il termine «coniuge» di cui alla seconda frase identifica in realtà il soggetto contemplato nella prima, e cioè l'avente diritto alle prestazioni e agli assegni familiari. Non si vede infatti il motivo per cui nella prima statuizione lo «status familiae» dell'avente diritto non dovrebbe rilevare, mentre rileva nella seconda.

    A convalidare l'interpretazione che giudico più corretta concorre poi un argomento di ordine sistematico. Ho detto che l'articolo 10 evita il cumulo di prestazioni familiari dovute secondo un ordinamento per cui la titolarità del diritto non è subordinata a condizioni di assicurazione e di occupazione. L'articolo 76, che è invece applicabile ove il diritto alle prestazioni sia dovuto per l'esercizio di un'attività professionale, non tiene conto dello «status familiae» dei genitori. Perché dunque discriminare fra due situazioni sostanzialmente identiche? Sciogliendo nel modo che ho suggerito la questione relativa al termine «coniuge», emerge — mi sembra — il diritto della ricorrente a percepire nel Regno Unito gli assegni per i figli a lei affidati ed a veder sospeso il diritto dell'ex coniuge.

    Quanto alla proposta del Consiglio — considerare «coniuge» chiunque sia affidatario dei figli con cui risiede e per cui sono dovute le prestazioni — non la ritengo accettabile in questa sede. Essa va rivolta al legislatore. Ciò non esclude la sua validità in sede di politica del diritto. Infatti, considerata la finalità degli assegni, che sta nell'integrare la mercede in funzione del carico familiare, e tenuto conto della circostanza che gli assegni sono corrisposti nell'interesse dei figli, privilegiare il soggetto a cui questi risultano affidati (che può anche non essere uno dei genitori) significa consentirne una fruizione più diretta. Il che è conforme, mi si consenta di rilevarlo, all' orientamento desumibile dalla normativa degli Stati membri in materia di prestazioni familiari.

    7. 

    Prendo infine in esame gli altri quesiti posti dal giudice nazionale. Lo faccio, tuttavia, a titolo di completezza perché essi sono ormai ininfluenti ai fini della fattispecie dedotta.

    Il Social Security Commissioner vi chiede di valutare se nel nostro caso trovi applicazione, rispetto all'articolo 73, n. 1, la norma anticumulo prevista dall'articolo 76 del regolamento 1408/71.

    Esso dispone che «Il diritto alle prestazioni o agli assegni familiari dovuti a norma degli articoli 73 o 74 è sospeso se, per l'esercizio di un'attività professionale, le prestazioni o gli assegni familiari sono dovuti anche a norma della legislazione dello Stato membro sul cui territorio risiedono i familiari». Nella regola sancita dall'articolo 73, l'articolo 76 introduce un'eccezione: più precisamente contiene, come del resto indica il suo titolo, «Regole di priorità in caso di cumulo dei diritti a prestazioni o ad assegni familiari a norma degli articoli 73 o 74 e a motivo dell'esercizio di un'attività professionale nel paese di residenza dei familiari». Perché la norma anticumulo possa operare, quindi, l'esercizio di un'attività professionale nello Stato di residenza dei familiari non è sufficiente. Occorre altresì che gli assegni siano «dovuti» secondo la legge di quello Stato, cioè che sussistano i presupposti a cui essa subordina il riconoscimento del diritto agli assegni. Voi stessi avete affermato questo principio nella sentenza 20 aprile 1978 in causa 134/77, Ragazzo-ni/«Assubel», Raccolta 1978, p. 963, punti 7 e 12 della motivazione.

    L'Insurance Officer e la Commissione hanno ritenuto che l'articolo 76 non rilevi nel nostro caso. Concordo con la loro tesi. La scelta tra le norme comunitarie anticumulo va infatti operata in rapporto al fondamento del diritto alle prestazioni nel paese di residenza; e noi sappiamo che nel Regno Unito le prestazioni familiari sono dovute non «per l'esercizio di un'attività professionale», ma in base a una disciplina secondo cui l'acquisizione del diritto è indipendente da condizioni di assicurazione o di occupazione. La lettera della norma è chiara e non mi sembra superabile. Nella fattispecie, insomma, v'è spazio per l'applicazione di un solo disposto anticumulo: l'articolo 10 del regolamento 574/72. D'altra parte, attesa l'identità di ratio tra i due disposti, gli effetti che esso produce non sono diversi da quelli che dispiegherebbe l'articolo 76. A prevalere è sempre il principio generale che vuole applicabile la «lex loci laboris» del paese di residenza dei figli.

    8. 

    Qualche parola, infine, deve essere dedicata alla pretesa invalidità dell'articolo 10 regolamento 574/72 «nella parte in cui ha l'effetto di privare un lavoratore delle prestazioni di famiglia cui avrebbe diritto a norma del solo diritto nazionale». La questione, ovviamente, è prospettata dal Social Security Commissioner sul presupposto che alla ricorrente non vada riconosciuto il diritto agli assegni familiari per i figli conviventi. Ho respinto questa tesi spiegando le modalità operative della norma anticumulo. Come gli altri disposti che evitano la duplicazione del diritto agli assegni, essa non contrasta con l'articolo 51 del Trattato CEE. La ratio dell'articolo 51 e la stessa logica della disciplina comunitaria in materia di sicurezza sociale inducono infatti a ritenere ammissibili eventuali conseguenze dannose per il lavoratore solo se sono compensate da vantaggi e comunque se sono tali da non compromettere le finalità del Trattato.

    Ricordo, a tale proposito, che tra gli obiettivi del regolamento 1408/71 vi è, come si legge nel suo settimo considerando, quello di dare applicazione all'articolo 51 del Trattato CEE, in modo da «assicurare ai lavoratori che si spostano all'interno della Comunità i diritti ed i vantaggi acquisiti».

    Questa, del resto, è la soluzione che si desume con chiarezza dalla vostra giurisprudenza. Avete infatti ripetutamente affermato l'intangibilità dei diritti acquisiti dai singoli in materia di sicurezza sociale sulla base di una legislazione nazionale. Ed avete rilevato, fin dalle prime pronunce in materia, che «Lo scopo degli articoli 48-51 del Trattato non sarebbe raggiunto, bensì frustrato, qualora il lavoratore, per poter fruire della libertà di circolazione che gli è garantita, dovesse adattarsi a perdere dei diritti già acquisiti in uno dei paesi membri, senza ricevere in cambio prestazioni per lo meno equivalenti» (sentenza 15 luglio 1964 in causa 100/63, Van der Veen, Raccolta 1964, p. 1091). Rammento, infine, che vi siete già pronunciati sull'articolo 10 del regolamento 574/72, senza adombrare alcun profilo di invalidità. Avete tuttavia precisato: la norma «si applica solamente a condizione che non privi senza motivo gli interessati del beneficio di diritti a prestazioni attribuiti dalla legislazione di uno Stato membro. Pertanto, qualora l'importo degli assegni il cui versamento è sospeso risulti superiore a quello degli assegni riscossi per l'esercizio di un'attività professionale, la norma anticumulo ... va applicata solamente in maniera parziale e va corrisposta la differenza tra tali importi a titolo di integrazione» (sentenza del 19. 2. 1981 in causa 104/80, Kurt Beeck/Bundesanstalt für Arbeit, Raccolta 1981, p. 503, punto 12 della motivazione). Io credo che quest'affermazione possa tranquillamente ribadirsi con riguardo alla fattispecie oggetto della presente causa.

    9. 

    Per tutte le considerazioni sin qui svolte, propongo di rispondere nel modo seguente ai quesiti rivolti a questa Corte dal Social Security Commissioner, con ordinanza del 5 maggio 1982:

    1.

    Il termine «coniuge» che figura nella seconda frase dell'articolo 10, n. 1, lettera a), del regolamento del Consiglio 574/72, nel testo modificato, si riferisce all'avente diritto alle prestazioni o agli assegni familiari di cui alla prima frase del medesimo articolo. Ai fini di dette prestazioni, infatti, non rileva lo «status familiae» come astratta situazione legale, ma la qualità di genitore che permane nonostante lo scioglimento del matrimonio.

    2.

    L'interpretazione del termine «familiare» di cui al regolamento del Consiglio 1408/71 dipende essenzialmente dalla legislazione dello Stato membro a stregua della quale sono dovute le prestazioni. Tuttavia, ov'essa identifichi il familiare nel solo convivente, la disciplina comunitaria assimila a quest'ultimo il vivente a carico.

    3.

    Il disposto anticumulo previsto dall'articolo 76 regolamento del Consiglio 1408/71 non trova applicazione quando l'acquisizione del diritto alle prestazioni o assegni familiari sia indipendente da condizioni di assicurazione o di occupazione, ancorché l'avente diritto eserciti un'attività professionale.

    4.

    L'articolo 10, n. 1, lettera a) del regolamento del Consiglio 574/72, nel testo modificato, non è incompatibile con l'articolo 51 del Trattato CEE nella misura in cui non privi una persona di un diritto attribuitogli dalla legislazione di uno Stato membro indipendentemente dal diritto comunitario. Pertanto, quando gli assegni familiari per i figli, corrisposti in base ad un diritto acquisito secondo l'articolo 73, n. 1, del regolamento del Consiglio 1408/71, siano di ammontare superiore a quello degli assegni erogati nello Stato dove l'altro genitore svolge attività professionale, quest'ultimo avrà titolo ad una quota integrativa pari alla differenza fra il maggior importo degli assegni previsti per la legge dello Stato in cui è maturato il diritto ex articolo 73 e il minore importo degli assegni versati nello Stato di residenza dei figli.

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