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Document 61982CC0094

Conclusioni dell'avvocato generale Mancini del 10 febbraio 1983.
Procedimento penale a carico di De Kikvorsch Groothandel-Import-Export BV.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Arrondissementsrechtbank Arnhem - Paesi Bassi.
Libera circolazione delle merci - Messa in commercio della birra.
Causa 94/82.

Raccolta della Giurisprudenza 1983 -00947

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1983:33

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

G. FEDERICO MANCINI

del 10 febbraio 1983

Signor Presidente,

Signori Giudici,

1. 

Nella presente causa pregiudiziale siete chiamati ancora una volta a identificare il contenuto e i limiti del divieto che figura nell'articolo 30 del Trattato CEE. Si tratta in questo caso di stabilire se certe disposizioni interne, riguardanti la commercializzazione della birra e applicabili ai prodotti nazionali come a quelli importati, possano, direttamente o indirettamente, provocare restrizioni all'importazione.

Riassumo i fatti. La società a responsabilità limitata De Kikvorsch Groothandel-Import-Export BV (d'ora innanzi indicata come De Kikvorsch) con sede a Deest, nel comune di Druten (Paesi Bassi), venne citata a comparire davanti al giudice di polizia economica del Tribunale di Arnhem per rispondere di varie imputazioni. Fra le accuse mossele v'era quella di aver importato dalla Repubblica federale di Germania o messo (o, quanto meno, fatto mettere) in commercio nei Paesi Bassi la birra denominata «Berliner Kindl Weiße Biere», che non possiede due dei requisiti prescritti dalla legislazione olandese. Il suo grado di acidità, infatti, è pari a 3,2 e perciò inferiore al grado minimo (3,9) previsto dall'articolo 6, n. 4, del regolamento sulla birra emanato nel 1976 (Verordeningenblad Bedrijfsorganisatie del 31 agosto 1976, n. 36); essa è inoltre confezionata in recipienti la cui etichetta riporta il valore della «densità primitiva» contro il divieto sancito nell'articolo 7, n. 3, dello stesso provvedimento.

Con sentenza del 28 dicembre 1981, il giudice olandese sospese il procedimento penale e, ai sensi dell'articolo 177 del Trattato CEE, domandò alla nostra Corte se applicare alla birra importata da un altro Stato membro, nel quale è legittimamente prodotta e messa in commercio, precetti come quelli or ora menzionati debba considerarsi «misura di effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione vietata dall'articolo 30 del Trattato CEE, in quanto il commercio della birra ne risulti ostacolato o impedito».

2. 

Per una corretta comprensione della controversia è opportuno fornire alcuni dati sulla legislazione olandese. Occorre infatti tenere presente che le domande del giudice a quo, pur essendo formulate in modo generale e con riferimento all'articolo 30, mirano in realtà ad accertare se alcune norme nazionali sulla commercializzazione della birra siano compatibili col Trattato. Ma — ecco il punto — queste norme non vengono in considerazione come tali, vale a dire nella loro concretezza; al contrario, esse fungono da parametro astratto su cui misurare l'effettiva portata della regola comunitaria. Per essere franchi, si tratta di un artificio; e — aggiungo — l'artificio non è raro. Le magistrature nazionali usano spesso il rinvio pregiudiziale in fattispecie che sarebbero oggetto di più adeguata trattazione nel quadro di ricorsi diretti contro gli Stati membri per inadempimento di obblighi imposti dai Trattati o da norme derivate; e in tal modo suppliscono — coinvolgendo la nostra Corte nella loro opera di surroga — a competenze o a iniziative che spettano essenzialmente alla Commissione.

Ora, se ha il merito di aprire spazi agli interventi della Corte e perciò di promuovere il rispetto del diritto, la supplenza giudiziaria della Commissione presenta almeno due inconvenienti. Da un lato, mette capo a decisioni che, esprimendo la particolare competenza di cui all'articolo 177, non possiedono l'efficacia di quelle pronunciate su ricorsi diretti ai sensi degli articoli 169, 170 e 171. Dall'altro, impedisce alla Corte, che in sede pregiudiziale è legata al quesito rivoltole, di esaminare le disposizioni interne di dubbia legittimità tenendo conto del quadro normativo in cui sono inserite.

Ma torniamo al caso di specie e occupiamoci dell'ordinamento olandese. Il già citato regolamento sulla birra fu adottato dal «Produktschap voor Bier» (la cui competenza in materia deriva dalla legge sull'organizzazione industriale, «Wet op de Bedrijfsorganisatie», e dal provvedimento con cui l'ente medesimo fu istituito, «Instellingswet Produktschap voor Bier»), per dar corso alla decisione assunta il 31 agosto 1973 dal Comitato dei Ministri dell'Unione economica del Benelux. Intesa ad armonizzare le legislazioni nazionali riguardanti la birra, tale decisione contiene tra l'altro il divieto di mettere in commercio birre con grado di acidità (pH = pro-idrogeno) inferiore a 3,9, mentre non proibisce di indicare la densità primitiva.

Come ho già detto, nel nostro caso il regolamento 1976 viene in rilievo per due disposizioni: l'articolo 6, n. 4, e l'articolo 7, n. 3. Il primo detta: «Fatta eccezione per la bevanda considerata all'articolo 1, lettera j)» — si tratta della birra acida — «il grado di acidità (pH) delle bevande di cui al presente regolamento dev'essere superiore a 3,9». Il secondo sancisce due divieti: quello di menzionare la densità primitiva della birra sull'imballaggio preconfezionato o sull'etichetta ad esso apposta e, al n. 2, quello di commercializzare nei Paesi Bassi birra la cui densità primitiva non rientri in una delle categorie definite al n. 1. Sulla densità primitiva la confezione deve comunque fornire ragguagli. A stabilirlo è l'articolo 9, n. 2, lettera b). Ma, anziché essere espresso in cifre, il tasso di densità va indicato con riferimento alla categoria di appartenenza e, dunque, in forma di sigle. Abbiamo così la «Cat. S», per la birra con densità pari o superiore a 15,5; la «Cat. I», per la birra con densità da 11 a 13,5; la «Cat. II», per la birra con densità da 7 a 9,5; la «Cat. III», per la birra con densità da 1 a 4.

Infine, mentre vieta di fare apparire sulle confezioni il valore specifico della densità primitiva, l'ordinamento olandese obbliga ad indicare il grado di alcool sui contenitori delle bevande alcooliche (tra cui ovviamente la birra) fornite nell'ambito di un commercio ai privati per il consumo che non ha luogo sul posto. La norma figura nell'articolo 14, n. 1, lettera b), della legge sulle bevande, i bar, gli alberghi e i ristoranti del 7 dicembre 1974 (Stbl 386), modificata da ultimo con legge 14 dicembre 1977 (Stbl 675).

3. 

Non v'è dubbio che una normativa come quella descritta è suscettibile di nuocere, almeno indirettamente, agli scambi intracomunitari. In effetti, stabilendo che, per essere commercializzata, la birra non può avere un grado di acidità inferiore a 3,9, si pone un requisito ignoto agli altri Stati membri e si impedisce l'ingresso nel mercato nazionale della birra d'importazione più acida. Quanto poi al divieto di indicare in cifre la densità primitiva, è palese la sua idoneità ad ostacolare l'importazione delle birre sulla cui confezione, per antica consuetudine, compaia il relativo valore: il produttore non olandese che voglia evitarlo, infatti, dovrà confezionare in modo diverso — e conforme alla legislazione dei Paesi Bassi — la birra destinata al commercio nei confini di tale Stato.

Gli Stati membri, naturalmente, sono liberi di regolare la produzione, la distribuzione e il consumo della birra nei rispettivi territori. Essi conservano questo potere dal momento che una disciplina comunitaria in materia fa ancora difetto. Il 26 giugno 1970 — ricordo — la Commissione presentò al Consiglio una proposta di direttiva sul ravvicinamento delle normative riguardanti la birra (GU 1970, C 105, p. 17); ma tale proposta (che peraltro non disciplinava il grado minimo di acidità e l'indicazione della densità primitiva sulle confezioni) è stata nel frattempo revocata.

Riconosciuto ciò, tuttavia, resta il fatto che la libertà degli Stati trova un limite nell'articolo 30 del Trattato CEE. La nostra Corte lo ha ribadito a più riprese. Così, nella sentenza 26 giugno 1980 relativa alla causa 788/79, Gilli ed Andres (Raccolta 1980, p. 2071) essa ha affermato: «In mancanza di una normativa comune in materia di produzione e di commercio del prodotto di cui trattasi, spetta agli Stati membri disciplinare, ciascuno nel suo territorio, tutto ciò che riguarda la produzione, la distribuzione e il consumo di tale prodotto, rispettando tuttavia la condizione che le varie normative non ostacolino direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari» (ivi, punto 5 della motivazione). Simili affermazioni si trovano nella successiva sentenza 19 febbraio 1981 in causa 130/80, Kelderman (Raccolta 1981, p. 527, punto 5 della motivazione).

Per sfuggire al divieto sancito dall'articolo 30, una normativa statale che abbia il contenuto di quella olandese dovrebbe o soddisfare le condizioni di cui all'articolo 36, e in particolare quella relativa alla tutela della salute, o rispondere a una delle esigenze imperative — la lealtà nei negozi commerciali e la difesa dei consumatori — che la vostra giurisprudenza ha dichiarato suscettibili di prevalere sull'anzidetto divieto. Ricordo a questo proposito le sentenze 20 febbraio 1979 nella causa 120/78, Rewe/Bundesmonopolverwaltung für Branntwein, Raccolta 1979, p. 649; 26 giugno 1980 nella causa 788/79, Gilli, citata; 19 febbraio 1981 nella causa 130/80, Kelderman, citata. Verifichiamo allora se, in un caso come il nostro, l'una o l'altra delle due eccezioni possa aver corso.

4. 

Comincio con l'esaminare il divieto di commercializzazione della birra con grado di acidità inferiore a 3,9, avvertendo che quanto più basso è il grado di acidità — indicato con la sigla pH —, tanto più acida è la birra.

Il giudice del rinvio, che è piuttosto avaro di informazioni, non ci dice sotto quale profilo la norma relativa potrebbe essere giustificata. Nel punto 5 della sentenza di rimessione egli si limita ad affermare che la soluzione dei problemi sottoposti alla nostra Corte «richiede l'interpretazione dell'articolo 30 ed eventualmente dell'articolo 36 del Trattato CEE». Più oltre non va. Alle eccezioni di cui ho detto, invece, si sono abbondantemente riferite le parti — il Governo olandese, la De Kikvorsch, la Commissione, il Governo francese — nella procedura scritta e ancora più chiaramente durante la fase orale. Ebbene, i dati da esse forniti e le testimonianze rese da esperti nel quadro del giudizio principale mi inducono a ritenere che l'articolo 6, n. 4, del regolamento 1976 non è ispirato all'esigenza di tutelare la salute delle persone e non è quindi giustificabile a stregua dell'articolo 36.

Come si legge nel processo verbale dell'udienza 19 ottobre 1981, un esperto del Produktschap voor Bier dichiarò che «Per sapere se il tasso di acidità più basso ha conseguenze per la conservazione della birra ...» — e quindi, indirettamente, sulla salute del consumatore — «bisognerebbe effettuare una analisi più approfondita». Nella medesima udienza, un secondo esperto affermò che il tasso di acidità era stato fissato dalla legislazione olandese con riferimento alla birra prodotta e venduta tradizionalmente nei Paesi Bassi e che «la protezione della salute pubblica non [aveva] avuto alcun ruolo nella [sua] determinazione».

Dal canto suo, il Governo olandese ha asserito nella fase scritta della procedura che la definizione dei livelli di acidità compiuta dal Comitato dei Ministri dell'Unione economica del Benelux e ripresa dal regolamento del 1976 si fonda su un'idea tradizionale di quel che dev'essere il gusto della birra. Non ha invece fatto cenno all'esistenza di nessi fra definizione del tasso di acidità e conservazione del prodotto. Nella procedura orale, poi, il rappresentante dello stesso Governo ha reso ancora più esplicita la propria posizione su questo punto, affermando che la norma sul tasso di acidità non ha il benché minimo rapporto con la tutela della salute.

Infine, nella procedura scritta come nella fase orale, la Commissione ha sempre sostenuto che la detta norma fu adottata dalle autorità olandesi per salvaguardare i tipi di birra tradizionalmente prodotti e commercializzati nel Benelux. A conferma di questo assunto essa ha tra l'altro fatto riferimento al parere espresso in una lettera del 18 novembre 1981 prodotta davanti al giudice a quo e redatta dal direttore dell'istituto CIVO-analyse TNO. In tale documento si afferma per l'appunto che «la determinazione di un pH di 3,9 all'articolo 6 del regolamento sulla birra ha in particolare lo scopo di assicurare il permanere della produzione di un certo tipo di birra, usando lieviti il più puri possibile» e che «in tal modo si può evitare una acidità eccessiva che non corrisponde al tipo di birra considerato», oltre che tutelarsi «da eventuali alterazioni che possono comportare valori di pH inferiori a 3,9».

Ma, oltre che da queste risultanze istruttorie, l'impossibilità di invocare la tutela della salute è provata in un certo senso dallo stesso ordinamento olandese il quale permette la commercializzazione di birre con grado di acidità inferiore a 3,9, purché rispondano a certi requisiti e siano designate con una speciale denominazione. Così, l'articolo 1, lettera j), del regolamento 1976 stabilisce che per birra acida si intende «la bevanda ottenuta: 1. sia per fermentazione spontanea di una densità primitiva minima di 11o Plato, di un'acidità totale minima di 30 milli-equivalenti di NaOH per litro e di un'acidità volatile minima di 2 milli-equivalenti NaOH per litro e che deve essere fabbricata a partire da un mosto di cui almeno il 30 % del peso totale di materie amilacee o zuccherine utilizzate è costituito da frumento; 2. sia per alta fermentazione e con la stessa acidità e densità primitiva della birra considerata al punto 1». Secondo l'articolo 9, n. 4, poi, la stessa bevanda «deve essere designata con una delle denominazioni seguenti: “gueuze”, “gueuze-lambic”, “lambic” o anche “kriek lambic”» quando nella lavorazione sono stati impiegati «ciliegie, succo di ciliegie o estratto di ciliegie».

Questo complesso di elementi induce a due rilievi. Il primo è patente: la disposizione sul tasso minimo di acidità della birra fu presa esclusivamente per garantire la conformità della birra prodotta e commercializzata nei Paesi Bassi (e nel resto del Benelux) a quella che tradizionalmente vi si fabbrica e vi si consuma. Val la pena a questo proposito di sottolineare che le birre si producono in due modi: la fermentazione alcoolica mediante i lieviti (che dà luogo a birre con tassi di acidità non inferiori a 3,9) e la fermentazione acida mista (che dà luogo a birre con tassi inferiori al detto grado). Inutile dire che in Olanda si privilegia il primo procedimento. Il secondo rilievo attiene al profilo «tutela della salute». È emerso che il grado di acidità può, almeno teoricamente, avere una qualche influenza sulla conservazione del prodotto, ma è risultato altrettanto evidente che il parametro 3,9 non si giustifica come tale alla luce di questo fattore. Anche valori sensibilmente più bassi garantiscono in misura non diversa la conservazione del prodotto e perciò la salute dei bevitori.

Occorre ancora domandarsi — ed esamino così il secondo dei due profili alla cui luce l'articolo 6, n. 4, del regolamento 1976 potrebbe in via di principio esser considerato legittimo — se il divieto di commercializzare birre diverse da quelle acide e aventi un pH inferiore a 3,9 possa giustificarsi in funzione della tutela del consumatore. È il Governo olandese che adombra questa tesi. A suo parere, come abbiamo visto, le disposizioni del 1976, che fissano in generale le caratteristiche della birra (ivi compreso il tasso minimo di acidità) e in particolare i requisiti (e le speciali denominazioni) delle birre acide, hanno semplicemente lo scopo di descrivere i tipi più comuni di birra esistenti nel Benelux. Ora, a parte le birre acide, il genere di birra normalmente prodotto in Olanda con fermentazione mediante lieviti ha appunto un tasso di acidità non inferiore a 3,9. Vietando, se pure con le limitate eccezioni di cui s'è detto, la commercializzazione di birre più acide, le autorità olandesi si propongono in definitiva di proteggere le abitudini del consumatore locale. Ebbene, queste abitudini sono vetuste e meritano il massimo rispetto; ma farle rientrare nella categoria dei valori imperativi la cui tutela legittima, secondo la vostra giurisprudenza, eventuali restrizioni del commercio intracomunitário è sicuramente impossibile. Del resto, neppure la difesa del Governo olandese è giunta a sostenere sino in fondo una tesi tanto spericolata. Così stando le cose, mi sembra che il divieto in esame costituisca manifestamente una misura equivalente a restrizioni quantitative all'importazione.

Su una linea diversa si è mosso il rappresentante del Governo francese. La normativa dei Paesi Bassi — egli ha ricordato — permette la produzione e la commercializzazione di birre acide, esigendo però che siano denominate in altro modo: se ne deduce, a suo avviso, che il nodo centrale della vicenda sottopostavi dal giudice di Arnhem risiede nella definizione del prodotto designabile come «birra». L'osservazione è acuta. Il problema di determinare ciò che s'intende per «birra» esiste e si porrà fin quando nel relativo settore gli ordinamenti nazionali non saranno armonizzati. Ciononostante, il quesito del giudice non vi fa cenno né, mi pare, postula necessariamente la sua trattazione. In questo senso si è espresso il rappresentante del Governo olandese ed io concordo interamente con lui.

5. 

Passo ora ad analizzare la seconda parte del detto quesito : quella in cui vi si chiede se con l'articolo 30 del Trattato sia compatibile il divieto di indicare sui contenitori e sulle etichette ad essi apposte il valore specifico della densità primitiva della birra. Il Governo dei Paesi Bassi non contesta che tale norma possa ostacolare indirettamente le importazioni, ma sostiene che a legittimarla è la tutela del consumatore. Si tratterebbe cioè di evitare che costui confonda il valore della densità primitiva con quello della gradazione alcoolica e cada così in errore su un carattere qualificante del prodotto. Una confusione del genere è infatti possibile perché, come ho già detto, la legislazione olandese, a differenza di quelle di altri Stati membri (penso, per esempio, alla tedesca), prescrive che sui contenitori di birra sia indicata la gradazione alcoolica.

In astratto l'argomento è valido. Uno Stato deve poter adottare norme specifiche, applicabili ai prodotti nazionali e a quelli importati, al fine di proteggere il consumatore dal rischio di errori. Del resto, proprio per regolare un importante aspetto dell'attività economica in funzione degli interessi del consumatore, il Consiglio emanò il 18 dicembre 1978 la direttiva 79/112/CEE, relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri sull'etichettatura e la presentazione dei prodotti alimentari destinati al consumatore finale e sulla relativa pubblicità (GU 1979, L 33, p. 1).

E tuttavia gli interventi degli Stati soggiacciono a limiti, anche quando, com'è nella specie, investono un settore che attende tuttora l'opera di armonizzazione. Legittimi, cioè, li potremo considerare solo se non si valgono di mezzi eccedenti il risultato — nel caso in esame la protezione del consumatore — a cui sono diretti. La nostra Corte ha da ultimo affrontato questa tematica nella sentenza 9 dicembre 1981, causa 193/80, Commissione/Italia (Raccolta 1981, p. 3019). Si trattava di stabilire se una norma italiana, che proibiva il commercio e l'importazione degli aceti di origine agricola diversi da quelli ottenuti con la fermentazione acetica del vino, e riservava la denominazione «aceto» all'aceto di vino, fosse conforme all'articolo 30 del Trattato. La Corte optò per l'incompatibilità, ma riconobbe che il Governo italiano ha la facoltà di tutelare i consumatori locali, «assuefatti all'uso commerciale del termine “aceto” per il solo aceto di vino», con mezzi diversi dal divieto di commercializzazione e «specialmente con l'obbligo di apporre un'etichetta appropriata, che specifichi le caratteristiche del prodotto venduto e comporti epiteti e complementi che precisino il tipo di aceto posto in vendita» (punto 27 della motivazione).

Applichiamo ora questa principio alla fattispecie. Apparirà evidente che proteggere il consumatore dal rischio di confondere densità primitiva e gradazione alcoolica si può anche senza vietare la messa in commercio del prodotto sulla cui etichetta figuri l'indicazione della densità primitiva. Basterà, a mio avviso, che la detta indicazione sia fatta in modo chiaro. Detto altrimenti, chiunque deve poterla identificare per quella che è e distinguerla agevolmente dalla menzione del grado alcoolico.

6. 

Per tutte le considerazioni fin qui svolte, suggerisco alla Corte di rispondere nel modo che segue ai quesiti formulati dal giudice di polizia economica del Tribunale di Arnhem, con sentenza in data 28 dicembre 1981, nell'ambito del procedimento penale a carico della società a responsabilità limitata De Kikvorseh: Rientrano nella nozione di «misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative all'importazione», di cui all'articolo 30 del Trattato CEE, il divieto di mettere o di far mettere in commercio birra avente un tasso di acidità (pH) inferiore a 3,9 e quello di far figurare, sui contenitori preconfezionati di birra o sulle etichette applicate ai medesimi, il valore della densità primitiva della birra. Ciò vale anche quando l'ordinamento di uno Stato membro permette la commercializzazione di birre con tasso di acidità inferiore (le cosiddette «birre acide»), subordinandola alla condizione che esse presentino determinate caratteristiche intrinseche e di presentazione.

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