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Document 61981CC0006

    Conclusioni dell'avvocato generale VerLoren van Themaat del 25 novembre 1981.
    BV Industrie Diensten Groep contro J.A. Beele Handelmaatschappij BV.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Gerechtshof 's-Gravenhage - Paesi Bassi.
    Libera circolazione delle merci - Imitazione servile.
    Causa 6/81.

    Raccolta della Giurisprudenza 1982 -00707

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1981:281

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

    PIETER VERLOREN VAN THEMAAT

    DEL 25 NOVEMBRE 1981 ( 1 )

    Signor Presidente,

    signori Giudici,

    I — Introduzione

    Con sentenza 11 dicembre 1980, il Gerechtshof dell'Aia ha chiesto a questa Corte di pronunziarsi:

    «sull'interpretazione delle norme del Trattato CEE relative alla libera circolazione delle merci, nonché degli artt. 85 e 86 dello stesso Trattato, con riguardo alle seguenti questioni:

    Dato che

    a)

    un commerciante distribuisce nei Paesi Bassi prodotti non più tutelati da brevetto i quali, senza alcuna necessità, sono quasi identici ai prodotti che già da tempo vengono distribuiti nei Paesi Bassi da un altro commerciante e che si differenziano da altri prodotti di tipo analogo, di guisa che il primo commerciante crea in tal modo inutile confusione;

    b)

    secondo la legge olandese, così facendo, il primo commerciante tiene nei confronti del secondo un comportamento illecito, qualificabile come concorrenza sleale;

    e)

    la legge olandese attribuisce perciò al secondo commerciante il diritto di ottenere un provvedimento giurisdizionale col quale si vieti al primo commerciante di continuare a distribuire i prodotti in questione nei Paesi Bassi;

    d)

    i prodotti del secondo commerciante vengono fabbricati in Svezia e quelli del primo commerciante nella Repubblica federale di Germania;

    e)

    il primo commerciante importa i suoi prodotti dalla Repubblica federale di Germania, ove gli stessi vengono regolarmente posti in commercio da un soggetto che non è né il secondo commerciante, né il fabbricante svedese, né qualsiasi persona a costoro vincolata o da essi a ciò autorizzata,

    se in tal caso le norme del Trattato relative alla libera circolazione delle merci, salvo restando quanto disposto dall'art. 36, ostino a che il secondo commerciante ottenga dal giudice un siffatto provvedimento inibitorio nei confronti del primo commerciante».

    Con tale questione, per la prima volta, un giudice nazionale sottopone a questa Corte un problema attinente ai riflessi in diritto comunitario della nozione di «imitazione servile» (atto illecito). Nell'autorevole studio comparativo di Ulmer ed altri sulla disciplina della concorrenza sleale negli Stati membri della CEE (Ulmer-Reimer, Das Recht des unlauteren Wettbewerbs in den Mitgliedstaaten der EWG, vol. III, Monaco di Baviera, 1968, pag. 190), tale nozione viene definita come uno dei temi più ardui nell'ambito del diritto della concorrenza sleale. Da un'analisi aggiornata di diritto comparato risulta che la relativa fattispecie è contemplata in tutti e dieci gli Stati che sono attualmente membri della Comunità e che il giudizio formulato da Ulmer e Reimer, quanto alle difficoltà di questo tema, con riferimento al diritto tedesco, è altrettanto valido con riferimento alla maggior parte degli altri Stati membri.

    Solamente l'Italia ha, con l'art. 2598 del codice civile, una norma che vieta espressamente l'imitazione servile. In tutti gli altri Stati membri tale divieto deriva o dalla legislazione specifica in materia di concorrenza sleale, o da principi generali come la responsabilità per fatto illecito. L'espressione «imitazione servile», dominante nella dottrina, sembra d'altronde un po' ingannatrice, in quanto (1) nemmeno l'imitazione integrale del prodotto altrui rientra automaticamente nell'ambito di applicazione del divieto e (2) gli ordinamenti di tutti gli Stati membri partono dal presupposto che, in assenza di uno specifico diritto di proprietà industriale, quale il diritto di brevetto, ciascuno è libero di ispirarsi, nell'esercizio di un'attività industriale o artigianale, alle realizzazioni altrui. Tale libertà comprende, in linea di principio, la facoltà di imitare i prodotti dei concorrenti. L'imitazione è vietata, in tutti gli Stati membri, solamente con riferimento al caso in cui essa possa dare luogo a confusione, da parte della clientela, in merito all'identità o all'origine del prodotto. In questa materia, l'elaborazione giurisprudenziale ha dato origine ad una ricca casistica, con riferimento alla natura del prodotto e delle caratteristiche o dei componenti di questo che costituiscono oggetto di imitazione, alla necessità od al carattere funzionale dell'imitazione, nonché al maggiore o minore grado di competenza tecnica dei clienti abituali. Si possono riscrontrare differenze, più o meno marcate, fra i criteri adottati dalla giurisprudenza nei vari Stati membri. Tali differenze spiegano forse, tra l'altro, perché, nel caso delle cassette per la posa di cavi, alle quali la presente controversia si riferisce, non è stata intentata, nella Repubblica federale di Germania, un'azione volta alla repressione dell'imitazione, da parte del fabbricante tedesco, del prodotto svedese, Risulta, anzi, dagli atte che, al contrario, in tale paese è stato l'imitatore ad esperire un'azione per concorrenza sleale — risultata poi vittoriosa — contro il prodottore svedese, contestando a questi la formulazione di un testo pubblicitario con cui esso reclamizzava un determinato brevetto già scaduto al momento della pubblicazione del testo in questione. Per questo motivo, il Gerechtshof dell'Aia basa la questione pregiudiziale, com è detto espressamente al punto e) di questa, sull'ipotesi che il prodotto di cui trattasi sia stato regolarmente posto in commercio in un altro Stato membro, e precisamente nella Repubblica federale di Germania. Mi riservo di ritornare in seguito sull'importanza di tale circostanza ai fini della decisione che questa Corte è chiamata ad adottare.

    Il criterio del rischio di confusione, utilizzato in tutti gli Stati membri per stabilire se vi sia imitazione servile, trova conferma anche nell'art. 10 bis della «Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 20 marzo 1883», modificata a Stoccolma il 14 luglio 1967 (cfr. Tractatenblad del Regno dei Paesi Bassi, 1970, n. 187).

    In base all'art. 1, 2o comma, della convenzione, nella protezione della proprietà industriale rientra anche la repressione della concorrenza sleale. Non è chiaro se, per questo motivo, vada attribuito lo stesso significato all'identica espressione impiegata nell'art. 26 del Trattato CEE. Ritornerò più tardi anche su tale questione, nonché sulla sua eventuale rilevanza ai fini della decisione della Corte.

    Come ho già avuto modo di osservare, maggiore rilievo mi sembra avere, al fine di accertare se la violazione del principio della libera circolazione delle merci possa trovare giustificazione in considerazioni di interesse generale, come vogliono l'art. 36 e la giurisprudenza sviluppata da questa Corte a proposito dell'art. 30, l'art. 10 bis della convenzione. Il terzo comma di questo articolo stabilisce che (in attuazione dell'obbligo di carattere generale, imposto ai paesi unionisti dal primo e dal secondo comma, di garantire una protezione efficace contro la concorrenza sleale) «devono in particolare essere vietati :

    1)

    tutti i fatti suscettibili di ingenerare confusione, con qualunque mezzo, con l'azienda, con i prodotti o con l'attività industriale o commerciale di un concorrente;

    ...

    3)

    le indicazioni o asserzioni che, nell'esercizio di un'attività commerciale, possano indurre in errore il pubblico sulla natura, il modo di fabbricazione, le caratteristiche, le possibilità di destinazione o la quantità delle merci».

    Il criterio del rischio di confusione ha un peso determinante anche in materia di marchio, come è dimostrato non solo dalla giurisprudenza di questa Corte, ma anche dall'art. 6 bis della suddetta Convenzione di unione. Sotto questo punto di vista, si potrebbe affermare che la forma data al prodotto ha una funzione quasi identica a quella del marchio; il prodotto risulta protetto in tali casi dalle disposizioni in materia di imitazione servile (illecita).

    Cercherò di precisare in seguito in che misura da quanto precede si possa desumere la possibilità di applicare anche alla materia di cui trattasi i principi giurisprudenziali affermati da questa Corte in materia di confondibilità con riferimento all'istituto del marchio.

    Molto più difficile è stabilire in che misura si possa attribuire alla fattispecie «imitazione servile» (illecita) una funzione quasi identica, oltre che a quella del marchio, anche a quella del brevetto. I fatti che sono al centro della causa principale dimostrano che anche tale punto è importante ai fini della soluzione della questione pregiudiziale sottoposta a questa Corte. Non solo questo punto è messo in questione nell'ambito del presente procedimento; esso è stato altresì affrontato nell'ambito di altre controversie dinanzi ai giudici nazionali. È infatti evidente che, allo scadere del brevetto, il titolare si vedrà ben presto esposto al rischio che l'utilizzazione, da parte dei terzi, dell'invenzione precedentemente protetta dal brevetto, dia luogo a confusione. A questo proposito si può unicamente osservare, in linea generale, che il divieto dell'imitazione servile (illecita) non potrà essere opposto alla facoltà di utilizzare liberamente l'invenzione precedentemente protetta dal brevetto scaduto. A tale concezione corrisponde, in una certa misura, nella giurisprudenza di molti Stati membri, la distinzione fra gli elementi necessari, dal punto di vista tecnico, per rendere possibile al prodotto l'assolvimento della sua funzione, o per lo meno aventi carattere funzionale, che possono essere imitati da un prodotto concorrente, e le caratteristiche esteriori non necessarie dal punto di vista tecnico né funzionali, le quali non possono essere imitate. La tutela del brevetto sarà infatti possibile, in linea di principio, a certe condizioni stabilite dalla legislazione sui brevetti che si applica nel caso in questione, solamente per gli elementi del primo tipo. Il parallelismo non è peraltro perfetto, in quanto la nozione di imitazione servile può trovare applicazione anche in materie diverse da quella brevettuale. La questione di fatto se, nel caso in esame, il prodotto SVT incriminato si sia limitato a riprodurre aspetti del prodotto imitato MCT che sono necessari dal punto di vista tecnico, o se abbia riprodotto anche caratteristiche esteriori non necessarie da questo punto di vista, non ha rilevanza per questa Corte nell'ambito di un procedimento pregiudiziale. Altrettanto irrilevante, da tale punto di vista, è la circostanza che il caso in esame sarebbe stato probabilmente esaminato, nella Repubblica federale di Germania, alla luce del precedente stabilito con la sentenza 3 maggio 1968, nella causa «Pulverbehälter» (pubblicata da Droste, con un'interessante panoramica della giurisprudenza del Bundesgerichtshof, in GRUR 1968, 1, pagg. 591 e segg.), in base a criteri diversi da quelli a cui fa riferimento il punto a) della questione pregiudiziale sollevata dal Gerechtshof dell'Aia. Una situazione di fatto molto simile a quella in esame (in una causa relativa a lampade incorporate) era stata all'origine della sentenza del Bundesgerichtshof 11 febbraio 1977 (GRUR 1977, pag. 642). Anche i giudici francesi (cfr., fra l'altro, la sentenza della Cour de Cassation 25 gennaio 1977, Ann. 1977, pag. 63) lasciano aperto all'imitatore un margine di libertà ben maggiore di quello ammesso dai giudici olandesi. Come avete già avuto occasione di affermare in passato, con la sentenza 119/75 (Terrapin-Terranova, Race. 1976, pag. 1039), non spetta a questa Corte, nell'ambito degli artt. 30 e 36 del Trattato, tentare di realizzare l'armonizzazione dei diritti nazionali per quanto riguarda la nozione di «rischio di confusione»: Si può tuttavia osservare in proposito che il fatto che, nelle ipotesi alla quali si riferisce la questione pregiudiziale, non si richieda la quasi completa identità con il prodotto imitato, né la conseguente inutile confusione, deriva dall'interpretazione data alle espressioni «necessità», «inutile» e «confusione» in una lunga serie di sentenze dello Hoge Raad (HR 26 giugno 1953, NJ 1954, pag. 90; HR 21 dicembre 1956, NJ 1960, pag. 414; HR 8 febbraio 1960, NJ 1960, pag. 415; HR 15 marzo 1968, NJ 1968, pag. 268; HR 12 giugno 1970, NJ 1970, pag. 434; HR 22 novembre 1974, NJ 1975, pag. 176). Tale giurisprudenza non può evidentemente vincolare questa Corte, anche perché i concetti di «necessità» e di «giustificazione», o espressioni analoghe, sono impiegate, nell'art. 36 del Trattato e nella giurisprudenza della Corte stessa, con riferimento all'art. 30. L'interpretazione delle disposizioni comunitarie da applicarsi in proposito si pone infatti in una prospettiva ben diversa da quella adottata nei vari diritti nazionali in materia di concorrenza sleale. La Corte ha attribuito costantemente la prevalenza, in altri settori del diritto della concorrenza sleale e del diritto della proprietà industriale, agli interessi tutelati da tali branche del diritto rispetto a quello della libera circolazione delle merci. Pur nel rispetto dell'esistenza, dell'oggetto o delle finalità essenziali dei diritti nazionali in questione, essa non ha mai esitato a svolgere un controllo, ispirato alle finalità del diritto comunitario, sul modo in cui tali diritti vengono esercitati. Ritengo superfluo rammentare le numerose sentenze pronunziate in materia. Ritornerò in seguito, nel corso della mia esposizione, su tali sentenze, nella misura in cui esse presentano un interesse più diretto ai fini della questione pregiudiziale.

    Dopo queste considerazioni introduttive di carattere generale, esaminerò una serie di punti nell'ordine qui di seguito precisato.

    Nella seconda parte della mia esposizione, formulerò ancora alcune osservazioni complementari sulla questione sollevata dal Gerechtshof dell'Aia. In tale occasione esaminerò anche in che misura gli artt. 85 e 86 del Trattato CEE, che sono menzionati all'inizio della questione pregiudiziale, possano rilevare ai fini della soluzione della stessa.

    Nella terza pane, esaminerò il problema, di grande importanza ai fini della soluzione della suddetta questione, della possibilità che tale soluzione si basi esclusivamente sull'art. 30, ovvero della necessità ch'essa sia basata anche sull'art. 36 del Trattato CEE, come sembrano ritenere tanto il giudice di rinvio quanto la Commissione ed il Governo del Regno Unito (quest'ultimo, peraltro, solamente per il caso in cui la Corte ritenesse, a differenza di quanto esso stesso ritiene, che questi aspetti della disciplina della concorrenza sleale sono compresi nel campo di applicazione dell'art. 30). In questa terza parte riesaminerò anche il problema, già ricordato, delle similarità e delle divergenze esistenti sotto questo profilo nell'ambito della problematica relativa alla delimitazione, da un lato, del diritto comunitario, e, dall'altro, delle diverse branche del diritto nazionale della proprietà industriale, inteso in senso stretto, e delle norme nazionali in materia di imitazione servile e, più in generale, in materia di concorrenza sleale.

    Sempre in questa terza parte, esaminerò le conseguenze che discendono dalle due diverse ipotesi dell'applicazione congiunta degli artt. 30 e 36 e dell'applicazione del solo art. 30. Studierò inoltre in qual misura possano emergere differenze importanti sul piano dei risultati e si possa ovviare a tali eventuali differenze. Infine, in questa stessa parte indicherò i motivi per cui, in definitiva, si potrebbe scegliere l'una o l'altra soluzione.

    Nell'ultima parte, delineerò la mia posizione, illustrandone le motivazioni.

    Come si può vedere, non mi propongo di dedicare un'apposita parte della mia esposizione agli antefatti della causa.

    Oggetto del contendere è un certo tipo di cassette per la posa di cavi che, inizialmente, erano state fabbricate, in base a brevetto, solamente in Svezia, ma, in seguito, dopo la scadenza del brevetto stesso, erano state imitate da un costruttore tedesco. Fuori della Germania, le cassette SVT di produzione tedesca erano state messe in vendita, fra l'altro, nei Paesi Bassi. Per il resto degli antefatti, credo di poter fare in gran parte rinvio — come di consueto — alla relazione d'udienza. Poiché, però, questa è stata redatta al termine della fase orale del procedimento, mi risulta necessario integrarla con un ulteriore elemento di fatto. Le cassette per la posa di cavi sono utilizzate, oltre che negli edifici, sulle imbarcazioni, le quali ultime — contrariamente agli immobili — sono, in genere, in movimento. Si è pertanto indotti a chiedersi in qual misura la pronunzia del giudice di prima istanza contro cui è stato proposto appello dinanzi al Gerechtshof dell'Aia possa trovare applicazione anche alla fornitura dei pezzi di ricambio delle cassette SVT di cui trattasi per l'impiego sulle imbarcazioni che subiscono riparazioni in porti olandesi e sulle quali sia stata altrove installata una cassetta SVT acquistata legittimamente in un altro Stato membro della Comunità. La sentenza del tribunale dell'Aia, impugnata dinanzi al Gerechtshof della stessa città, non è chiara su questo punto, in quanto con essa «si fa divieto alla convenuta di produrre e/o distribuire o far distribuire nei Paesi Bassi le cassette per la posa di cavi in precedenza descritte con la condanna della convenuta a pagare all'attrice una penale... per ogni unità o frazione di cassetta per la posa di cavi che la convenuta, in violazione dell'emanando divieto, distribuisca o faccia distribuire...» ecc. Nel corso della breve fase orale del procedimento, è risultato chiaro, per ciò che riguarda questo aspetto, che l'ammissibilità, dal punto di vista del diritto comunitario, di una restrizione della libera distribuzione dei pezzi di ricambio, degli accessori o, nel caso di specie, di materiali accessori come le vernici, non costituisce una conseguenza necessaria, né automatica, della soluzione prescelta per ciò che riguarda il prodotto finale al quale tali pezzi o materiali sono destinati. In realtà, il mercato dei pezzi di ricambio e dei materiali accessori costituisce solamente un aspetto di dettaglio della presente causa, relativamente secondario. In altri casi, come quello della distribuzione di pezzi di ricambio per automobili o di componenti dei registratori di cassa, al quale si riferiva la sentenza di questa Corte nella causa Hugin c/ Commissione (causa 22/78, Race. 1979, pag. 1869), la valutazione delle restrizioni messe in opera su questo mercato può essere molto più importante. Ai fini dell'applicazione degli artt. 85 e 86, grande importanza sembra avere l'accertare in quale misura sussista uno specifico «mercato rilevante» della distribuzione dei singoli componenti. La stessa questione potrebbe avere un qualche rilievo, nei casi citati a titolo esemplificativo, ai fini dell'applicazione degli artt. 30 e 36, nell'ipotesi dell'importazione di prodotti ai quali sia precluso l'accesso al paese di importazione in base alle disposizioni nazionali in materia di imitazione servile (illecita). Certo, qualora vi sia uno specifico «mercato rilevante» dei pezzi di ricambio, non è affatto pacifico che possa essere vietata automaticamente l'importazione di tali pezzi nell'ipotesi in cui venga eventualmente considerata ammissibile la restrizione delle importazioni del prodotto finito. Nel caso di specie, è improbabile che possa individuarsi un «mercato rilevante» specifico dei pezzi di ricambio delle cassette. Il commercio dei pezzi di ricambio deve probabilmente, in questo caso, essere controllato dagli stessi soggetti che controllano la distribuzione del prodotto finito. Neppure in tal caso è comunque pacifico che il divieto della vendita del prodotto finale, eventualmente considerato ammissibile, giustifichi automaticamente anche il divieto della vendita dei pezzi di ricambio. Perciò ritornerò ancora brevemente su questo punto nell'ultima parte della mia esposizione.

    II — Osservazioni sulla formulazione della questione pregiudiziale

    La questione proposta comprende un'esemplare qualificazione in astratto dei fatti, dal punto di vista giuridico, in base al diritto olandese (ipotesi sub a)), come pure l'enunciazione dei principi riconosciuti in materia da questo stesso diritto (punti b) e e)), nonché delle circostanze di fatto che il Gerechtshof dell'Aia considera particolarmente rilevanti dal punto di vista del diritto comunitario (ipotesi sub d) ed e)).

    La formulazione dell'ultima parte della questione pregiudiziale è altrettanto esemplare, in quanto si tratta di un testo chiaro ed astratto, che rende superflua una nuova formulazione da parte di questa Corte, onde evitare di pronunziarsi sul caso concreto. Il fatto che la formulazione, adottata del Gerechtshof presuppone evidentemente la possibilità di applicare nel caso di specie l'art. 36 del Trattato CEE non può impedire a questa Corte di verificare, tenuto conto degli altri punti della questione pregiudiziale, se non possano essere efficacemente invocate quelle eccezioni alla rigorosa applicazione del principio di base della sentenza Dassonville (causa 8/74, Race. 1974, pag. 837), che questa Corte ha ritenuto ammissibili, in precedenti sentenze, ai fini dell'interpretazione dell'art. 30. Non è invece chiaro quale significato questa Corte debba dare, nella sua pronunzia, alla prima parte della questione pregiudiziale, nella quale si chiede anche di interpretare gli artt. 85 e 86.

    Dalla sentenza di rinvio risulta chiaramente che l'attrice (appellata) nella causa principale è l'importatrice esclusiva del prodotto svedese MCT, della cui imitazione si controverte. Inoltre, dal punto 16 della motivazione di tale sentenza risulta che il Gerechtshof ha respinto il mezzo difensivo, fatto valere in prima istanza nel corso del procedimento principale dalla convenuta IDG, secondo cui l'azione promossa dall'attrice Beele sarebbe incompatibile con gli artt. 85 e 86 del Trattato CEE, «in quanto la IDG non ha sostenuto, né si può desumere dai fatti, che nella fattispecie si tratti o possa trattarsi di un accordo fra imprese, di una decisione di un'associazione d'imprese o di una pratica concordata, ai sensi dell'art. 85, ovvero di una posizione dominante sul mercato comune o su una parte sostanziale di questo, ai sensi dell'art. 86». Tuttavia, giacché il Gerechtshof chiede anche, nella prima parte della questione pregiudiziale, con riferimento all'ultima parte di questa, l'interpretazione degli artt. 85 e 86 del Trattato CEE, mi sembra opportuno dire qualche cosa anche su questo punto.

    Non è stato sostenuto — né, alla luce dei fatti, sarebbe stato neppure probabile — che la qualità di importatore esclusivo, spettante alla ditta attrice nella causa principale probabilmente in forza di un contratto di concessione esclusiva, non implichi l'applicazione del regolamento (CEE) della Commissione n. 67/67, relativo all'applicazione dell'art. 85, n. 3, a categorie di accordi di distribuzione esclusiva (GU 1967, n. 59, pag. 849). In particolare, non sembra si possano applicare nel caso di specie le eccezioni dell'art. 3 all'esenzione sancita dall'art. 1 del regolamento. A meno che, in base a circostanze che non risultano agli atti, si dovesse pervenire a conclusioni diverse, si direbbe che il giudice nazionale possa ritenere pacifica la validità del contratto di esclusiva di cui trattasi. Per quanto, dunque, sia probabile che ci si trovi veramente di fronte — contrariamente a quanto ritenuto dal Gerechtshof — ad un accordo ai sensi dell'art. 85, quanto risulta accertato non sembra rivelare l'esistenza di un accordo vietato dall'art. 85. Tale conclusione non è inficiata nemmeno dal fatto che, in base all'art. 7 del regolamento (CEE) del Consiglio n. 19/65 (GU 1965, n. 36, pag. 533), la Commissione può por fine alla validità di un accordo di concessione esclusiva rientrante nell'ambito di applicazione del regolamento di esenzione summenzionato, quando risulta che, nel caso concreto, non ricorrono le condizioni prescritte dall'art. 85, n. 3 Ciò può verificarsi, ad esempio, allorquando, specie nell'esercizio di diritti che trovano origine in un atto di concorrenza sleale, l'accordo di concessione esclusiva di cui trattasi dà all'impresa la possibilità di eliminare la concorrenza sul mercato dei prodotti in esame per una parte sostanziale di questo (art. 85, n. 3, lett. b)). Giacché nulla rivela la sussistenza di una decisione di questo genere, e l'applicazione dell'art. 85, n. 3, nonché del summenzionato art. 7 del regolamento del Consiglio n. 19/65, è riservata alla Commissione, il giudice di rinvio non deve tener conto, a mio avviso, di questa eventualità.

    Facendo riferimento, nel testo della questione pregiudiziale, agli artt. 85 e 86, il giudice di rinvio ha esteso a tali articoli l'ambito della questione interpretativa avente per oggetto le disposizioni in materia di libera circolazione delle merci. Ci si domanda allora se, in un caso del genere, possa invocarsi come precedente la sentenza di questa Corte nella causa 13/77 (INNO c/ATAB, Race. 1977, pag. 2115).

    In quella sentenza, dopo aver constatato che lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante, anche se favorito da una norma nazionale, è vietato dall'art. 86, la Corte aveva affermato tra l'altro:

    «per accertare se l'emanazione o il mantenimento in vigore d'una norma nazionale che imponga, in occasione della vendita al consumo dei tabacchi manifatturati, il rispetto dei prezzi fissati dal produttore o dall'importatore sia compatibile col combinato disposto dell'art. 86 e degli artt. 3, lett. f), e 5, 2o comma, del Trattato, occorre stabilire, tenuto conto degli ostacoli agli scambi eventualmente risultanti dalla natura del sistema fiscale cui tali prodotti sono sottoposti, se fuori dell'ipotesi di uno sfruttamento abusivo di posizione dominante che esso può casomai agevolare, detto regime sia ancora atto a pregiudicare il commercio fra Stati membri». Più oltre, la Corte affermava: «una normativa di uno Stato membro che imponga, per la vendita al consumo di tabacchi manifatturati sia importati sia nazionali, un prezzo fisso corrispondente a quello liberamente scelto dal produttore o dall'importatore costituisce una misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione solo se... risulta atta ad ostacolare direttamente o indirettamente, effettivamente o potenzialmente, le importazioni fra Stati membri».

    Nel caso di specie occorre accertare, seguendo le indicazioni fornite da questa sentenza, se un divieto di contraffazione come quello in esame possa favorire lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante ai sensi dell'art. 86, ovvero, in un caso come quello di cui trattasi, l'applicazione del divieto di contraffazione imponga all'impresa un comportamento di per sé incompatibile con gli artt. 85 e 86. Come abbiamo già avuto modo di constatare, nulla ci induce a riconoscere la sussistenza di un comportamento imposto alle imprese, comportamento che sarebbe di per sé incompatibile coll'art. 85. L'accordo di concessione esclusiva di cui trattasi potrebbe infatti, tutt'al più, essere dichiarato vietato dalla Commissione in base al regolamento n. 19/65. Dal punto di vista dell'art. 86, il divieto di contraffazione potrebbe certo favorire il costituirsi di una posizione dominante dell'attrice nella causa principale. Tuttavia, l'art. 86 non vieta la costituzione di una posizione dominante, bensì solamente lo sfruttamento abusivo di questa, e solo nel caso in cui esso sia pregiudizievole al commercio tra Stati membri. Giacché, diversamente da quanto era accaduto nella causa INNO e/ ATAB, la questione sollevata dal giudice di rinvio non fa cenno alla concreta possibilità dello sfruttamento abusivo di una posizione dominante ai sensi dell'art. 86, sfruttamento che sarebbe favorito o imposto dall'applicazione del divieto di contraffazione, sono del parere che, in definitiva, la Corte, nell'ambito della pronunzia interpretativa che essa è chiamata ad emettere, non dovrebbe fare applicazione, nel caso di specie, dei principi affermati nella sentenza INNO e/ATAB.

    III — Sulla conformità del divieto di contraffazione in esame agli artt. 30 e 36 del Trattato CEE

    a)

    La Commissione rileva giustamente, nelle sue osservazioni, che disposizioni nazionali in materia di concorrenza sleale che permettano ad un fabbricante di ottenere in uno Stato membro un provvedimento giurisdizionale inibitorio della vendita di prodotti importati, con la motivazione che tali prodotti costituiscono un'imitazione servile dei prodotti da esso fabbricati, possono costituire una misura d'effetto equivalente ai sensi dell'art. 30 del Trattato. Lo stesso può affermarsi, evidentemente, per l'ipotesi in cui, come nel caso di specie, il divieto di vendita sia ottenuto dall'importatore esclusivo dei prodotti imitati di cui trattasi. Alla luce dei principi essenziali enunziati nella sentenza di questa Corte nella causa 8/74 (Dassonville, Race. 1974, pag. 837), non possono ragionevolmente sorgere dubbi a questo riguardo. In questa sentenza, si parla espressamente di una «normativa commerciale di uno Stato membro che può ostacolare direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, gli scambi intracomunitari». Nell'intervento del Regno Unito si esprime il convincimento che una disciplina come quella in esame non costituisce, di per sé, una misura di effetto equivalente. Non ritengo necessario pronunziarmi qui su questo punto. L'elemento decisivo è costituito dalla questione se la disciplina nazionale sia, o possa essere, in conflitto con il principio fondamentale summenzionato, affermato nella sentenza Dassonville. La soluzione della questione formale relativa al se la disciplina nazionale, in sé considerata, ovvero l'interpretazione e l'applicazione di tale disciplina da parte del giudice, provochino in concreto un conflitto del genere dipenderà dalle circostanze del caso. Ritengo superfluo, nel presente procedimento, approfondire questo punto, in quanto l'applicazione fatta della normativa in esame nel caso di specie è comunque incompatibile col principio fondamentale affermato nella sentenza Dassonville.

    La questione decisiva, nel caso di specie, consiste nel determinare se, date le circostanze, un siffatto provvedimento giurisdizionale inibitorio della vendita possa risultare giustificato o dall'art. 36, e dalle eccezioni che la Corte ha ammesso al principio fondamentale — tra l'altro con le sentenze nelle cause 8/74 (Dassonville, Race. 1974, pag. 837), e 120/78 (Cassis de Dijon, Race. 1979, pag. 649). Mi occuperò ora di queste varie cause giustificative del divieto di vendita in caso di imitazione servile, cause che debbono essere tenute ben distinte ad un primo esame. Vorrei tuttavia subito osservare che la seconda delle deroghe ha portata meno ampia della prima. Mi permetterò di rinviare, in proposito, ai punti 9-18 della sentenza da voi emessa il 17 giugno 1981 (causa 113/80, Commissione e/ Irlanda, non ancora pubblicata). Citando la propria precedente giurisprudenza in materia, la Corte ha specialmente chiarito, in questa parte della motivazione, che la «rule of reason» proclamata nella sentenza Dassonville non potrebbe in alcun caso giustificare una discriminazione a danno dei prodotti importati.

    b)

    U applicazione dell'art. 36 in questa materia può trovare due giustificazioni.

    Si potrebbe anzitutto sostenere, in base agli ara. 1, 2o comma, e 10 bis della surricordata Convenzione di unione di Parigi, nella nuova versione, che la nozione di «tutela della proprietà industriale» richiamata dall'art. 36 comprende altresì la protezione contro la concorrenza sleale. Questo primo argomento non mi sembra decisivo. Infatti, non è possibile far discendere dalla Convenzione di Parigi un divieto di dare alla protezione contro la concorrenza sleale una disciplina separata, del tutto distinta dalle disposizioni volte alla tutela della proprietà industriale in senso stretto. L'esame della legislazione degli Stati membri dimostra, del resto, che tale è la situazione normale. Data questa situazione, è senz'altro molto probabile che l'art. 36, laddove parla della tutela della proprietà industriale e commerciale, si riferisca unicamente alla legislazione specifica volta a tutelare i veri e propri diritti di proprietà industriale e commerciale. Si tratta, in particolare, del diritto di brevetto, del diritto al marchio, del diritto di autore e, eventualmente, del diritto sui modelli di utilità, nonché di diritti specifici, analoghi ai precedenti, a proposito dei quali è possibile distinguere nettamente l'oggetto tutelato dal diritto di proprietà industriale.

    Ritengo però che, a favore dell'applicazione dell'art. 36 in materia di imitazione servile, risulti più persuasivo un altro argomento. In base alla giurisprudenza di tutti gli Stati membri, infatti, la giustificazione specifica o l'oggetto del divieto di imitazione servile possono determinarsi nel modo più efficace con riferimento alle affinità ed alle difformità esistenti fra tale divieto ed i divieti di vendita fondati sul diritto di brevetto, sul diritto sui modelli di utilità, sul diritto di autore o sul diritto al marchio. Nel caso di specie, sembra avere particolare rilievo l'analogia con il diritto di brevetto, il diritto sui modelli di utilità ed il diritto al marchio.

    Occorre intanto osservare che non si può tentare di giustificare il divieto di imitazione con la protezione, nei riguardi di tale imitazione, di elementi tecnici di carattere funzionale o di quegli aspetti del prodotto che non sono, o non sono più, suscettibili di tutela brevettuale. Non è un caso, infatti, che la legislazione in materia di brevetti richieda che l'invenzione, per poter beneficiare della tutela brevettuale, soddisfi determinate condizioni. Non è un caso che il diritto esclusivo, così riconosciuto all'inventore, di mettere per primo in commercio il prodotto di cui trattasi, sia limitato nel tempo. Inoltre, il monopolio legale temporaneamente attribuito all'inventore costituisce una controprestazione rispetto al contributo che la sua invenzione dà al progresso tecnologico ed economico, e, in particolare, rispetto all'obbligo di pubblicazione dell'invenzione. Proprio nel caso in cui il prodotto sia stato tutelato nel passato da un brevetto, come nel caso di specie, è particolarmente probabile che si arrivi ad una forma di standardizzazione di fatto del prodotto. Occorrerà dunque vegliare a che un'interpretazione estensiva del divieto di imitazione non provochi la sopravvivenza de facto della preesistente protezione brevettuale. La distinzione, consueta nella giurisprudenza, fra gli elementi funzionali del prodotto, che debbono essere considerati necessari per garantire l'eguaglianza delle posizioni concorrenziali nei confronti degli acquirenti, ed ai quali non può riferirsi il divieto di imitazione, e gli altri elementi, non funzionali, che possono cadere sotto tale divieto, sembra trovare la propria giustificazione in tali considerazioni. Il divieto di imitazione non ha, e non deve nemmeno avere, una funzione analoga a quella del brevetto, giacché gli effetti economici di tale divieto sono, in generale, non già più ampi, bensì più circoscritti rispetto ai vantaggi economici derivanti dalla protezione brevettuale, vantaggi che sono già stati in ogni caso messi in dubbio da molti economisti.

    Allorché un prodotto non risponde ai requisiti richiesti per poter ottenere la protezione prevista dal diritto per i modelli di utilità, non sarà nemmeno possibile attribuire al divieto di imitazione una funzione quasi identica a quella del modello di utilità; questo duplice concetto fondamentale si ritrova anche nella sentenza dello Hoge Raad nella causa Thole-Hijster (HR 26 giugno 1953, NJ 1954, pagg. 90 e segg.). Esso è stato però formulato in termini particolarmente chiari nella sentenza 10 aprile 1962 della Corte d'appello di Parigi (Ann. 1962, pagg. 240 e segg.): «Considérant que le fait de reproduire des objets qui ne sont protégés ni par un brevet ni par un dépôt de modèle n'est que l'exercice d'un droit dans le cadre de la liberté du commerce et de l'industrie...».

    La sola possibile giustificazione del divieto di imitazione sarà allora la sussistenza di un rischio — inutile — di confusione, il quale è stato considerato per questo motivo rilevante ai fini della questione proposta dal giudice di rinvio. Ho già avuto modo di osservare in precedenza che anche l'art. 10 bis, 3o comma, della Convenzione di Parigi, nella sua attuale versione, parla espressamente di questo rischio di confusione come della ragion d'essere delle norme di divieto. Il fatto che in un certo numero di ordinamenti siano stabiliti anche presupposti diversi per il divieto di cui trattasi, quali l'illecita appropriazione dei risultati degli sforzi compiuti da altri, oppure lo sfruttamento del prestigio e della buona reputazione dell'opera di un terzo, non ha rilevanza ai fini della presente questione. Questo fatto costituisce però una messa in guardia contro il tentativo di elaborare una teoria generale in materia di condizioni per il divieto di imitazione servile. Ad esempio, il Bundesgerichtshof ha sempre rifiutato di dare a questo concetto una definizione di carattere generale.

    Il presupposto che ricorre nel caso di specie, vale a dire il rischio di confusione, presenta una certa qual analogia con un presupposto ammesso in materia di marchio. Questa Corte ha infatti già dichiarato, al punto 6 della sentenza nella causa 119/75 (Terrapin c/ Terranova, Race. 1976, pag. 1039), che la funzione essenziale del marchio consiste «nel garantire al consumatore la provenienza del prodotto». In base a considerazioni analoghe, la Commissione ha dunque concluso, a mio parere con ragione, per ciò che riguarda la giustificazione del divieto di imitazione, che anche tale giustificazione va individuata nella preoccupazione «di evitare che si ingeneri nel pubblico una inutile confusione quanto all'origine di determinati prodotti». Per i motivi già indicati, ritengo però che sarebbe stato più corretto che la Commissione limitasse questa giustificazione a casi come quello sul quale la Corte è ora chiamata a pronunciarsi. Anche la Commissione invoca, fra l'altro, a sostegno della propria tesi, l'art. 10 bis della Convenzione di unione di Parigi, nella nuova versione. In questo ambito, si potrebbe affermare che il divieto di imitazione ha una funzione praticamente identica a quella del marchio e soggetto se non altro a limiti analoghi a quelli entro i quali è circoscritta la funzione del vero e proprio diritto al marchio. L'affinità esistente, dal punto di vista della «ratio», fra il divieto di imitazione servile ed il diritto al marchio, è stata messa in rilievo anche nelle osservazioni scritte del Governo inglese.

    Oltre a questa affinità della «ratio» o della funzione, occorre rilevare l'esistenza di un'importante differenza, dal punto di vista economico, fra il divieto di contraffazione del marchio ed il divieto di imitazione di un prodotto. Il produttore o il commerciante può evitare, in genere, la contraffazione senza affrontare investimenti produttivi, scegliendo, per il mercato nazionale di cui trattasi, un diverso marchio, che non faccia sorgere rischi di confusione. Salva restando l'eventuale esigenza dell'approvazione da parte del produttore titolare del marchio, l'importatore potrà, nella maggior parte dei casi, scegliere esso stesso un altro marchio e depositarlo. Il divieto di imitazione servile rende invece necessario in ogni caso, per il produttore che imita il prodotto, apportare al proprio sistema di produzione modifiche che non sempre si possono ragionevolmente pretendere da parte sua. Sopprattutto quando il produttore che imita il prodotto ha messo legittimamente in commercio il proprio prodotto in un altro Stato membro, come il giudice di rinvio ipotizza — con riferimento al caso di specie — nella questione da esso proposta, possono sorgere ostacoli molto gravi per gli scambi fra gli Stati. Il produttore di cui trattasi può infatti essere costretto, in questi casi, ad investimenti talvolta proibitivi per poter predisporre una linea di produzione destinata alla vendita in un paese di importazione che adotti, in tema di imitazione servile, criteri più rigorosi che non il paese di produzione. L'azione di contraffazione del marchio non produce così rapidamente l'effetto di bloccare l'importazione dei prodotti di cui trattasi, poiché l'adozione di un diverso marchio ai fini delle attività di «marketing» comunque necessarie, non comporterà, a breve termine, costi eccessivi. Inoltre, come ho già detto, in generale può essere l'importatore stesso ad assumersene l'onere.

    Non diversamente da quanto è avvenuto per la nozione di «rischio di confusione» nell'ambito del diritto al marchio, neppure nel caso di specie la Corte potrà risolvere il problema imponendo l'armonizzazione delle norme relative alla protezione contro la concorrenza sleale, che vengono qui in considerazione. Per questo motivo ritengo che, nello stadio attuale del diritto comunitario, la questione in esame non possa essere risolta nel senso proposto dalla Commissione. Ciò non esclude tuttavia che, in base alla seconda frase dell'art. 36, vada considerata inammissibile la completa chiusura di taluni mercati nazionali all'importazione di prodotti legalmente fabbricati e messi in commercio in un altro Stato membro. Entro questi limiti, il principio sancito all'art. 85, secondo cui non deve aversi l'eliminazione della concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti di cui trattasi, mi sembra anche esso importante per definire i limiti posti dal diritto comunitario all'applicazione della nozione di imitazione servile. Nell'ipotesi in cui l'art. 36 si applichi nel caso di specie, vi propongo pertanto di risolvere come segue la questione sollevata dal Gerechtshof dell'Aia:

    «Si può parlare di restrizione dissimulata al commercio tra gli Stati membri, ai sensi dell'art. 36, seconda frase, del Trattato CEE, qualora nell'accertamento, da effettuarsi ai. fini del diritto nazionale, della possibilità, per l'imitatore, di adottare un diverso procedimento senza compromettere la qualità e la possibilità di utilizzazione del prodotto, non si tenga conto dei costi supplementari che una siffatta organizzazione alternativa della produzione comporterebbe, per il produttore di cui trattasi, in un altro Stato membro in cui il prodotto è stato legalmente fabbricato e messo in commercio».

    In altri termini, la diversa organizzazione della produzione dev'essere possibile, in una situazione del genere, non solamente dal punto di vista tecnico, bensì anche dal punto di vista economico. Tale soluzione è del tutto conforme ai principi fondamentali del diritto nazionale, ma obbliga il giudice nazionale a prendere in considerazione, nell'interpretare le espressioni «inutilmente», ovvero «senza alcuna necessità» anche la situazione esistente dall'altra parte della frontiera, ed a tener conto, oltre che dei vincoli tecnici, anche delle esigenze economiche. Fornirò ulteriori indicazioni a questo proposito nell'ultima parte della mia esposizione.

    e)

    Valide ragioni possono essere addotte anche a favore dell'applicazione, nel caso di specie, non già dell'art. 36, bensì solamente dell'art. 30 con la relativa «clausola di equità». Come risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, la «rule of reason» da voi applicata in questo ambito vale unicamente, per quanto riguarda la presente causa, fintantoché non vi sarà una disciplina comunitaria della materia, e nella misura in cui si tratti di provvedimenti ragionevoli volti a prevenire la concorrenza sleale, i quali non costituiscano, inoltre, né un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al commercio fra gli Stati membri. Nella giurisprudenza di questa Corte, la protezione contro la concorrenza sleale è sempre stata considerata, in sé, come un interesse pubblico prevalente, che può giustificare provvediménti coercitivi, atti a porre in essere nuovi ostacoli per gli scambi intracomunitari. Rinviamo nuovamente, a questo proposito, alla summenzionata sentenza di questa Corte nella causa 8/74 (Dassonville, Race. 1974, pag. 837), nonché a quelle emesse nelle cause 120/78 (Cassis de Dijon, Race. 1979, pag. 649); 788/79 (Gilli e/ Andres, Race. 1980, pag. 2071), e 113/80 (Commissione e/ Irlanda, non ancora pubblicata). Nell'ultima di tali sentenze, avete inoltre precisato che il provvedimento in questione doveva applicarsi nello stesso modo ai prodotti importati ed ai prodotti nazionali. Dal punto di vista dell'interesse generale tutelato, l'origine dei prodotti non ha alcuna rilevanza. Provvedimenti di interesse generale, riguardanti specificamente le importazioni, possono tutt'al più essere giustificati alla luce dell'art. 36, che però, per ipotesi, non si applica nella fattispecie.

    Già nella sentenza Dassonville, ma ancor più chiaramente nelle due sentenze da me indicate successivamente, questa Corte ha inoltre attribuito grande importanza — nell'effettuare il confronto fra la «ratio» di un provvedimento, come quello di cui trattasi, ragionevole e volto alla tutela di un interesse generale, e gli ostacoli per gli scambi che da tale provvedimento derivano — anche alla questione se il prodotto di cui trattasi sia stato fabbricato e messo in commercio lecitamente in un altro Stato membro. Dalle sentenze della Corte nelle cause 22/71 (Béguelin, Race. 1971, pag. 949) e 58/80 (Dansk Supermarked c/ Imerco, Race. 1981, pag. 181), è possibile desumere una posizione ancora più netta. Ciò significa, per quanto riguarda la presente causa, che il diritto alla protezione contro la concorrenza sleale non può avere in nessun caso l'effetto di rendere impossibile l'importazione, in quanto tale, del prodotto imitato, qualora questo sia stato lecitamente fabbricato e messo in commercio in un altro Stato membro. Solamente quando circostanze esterne all'importazione propriamente detta, e anche, nel caso del prodotto imitato, alla composizione ed alla forma dello stesso, come il materiale promozionale, la forma delle offerte e l'assenza di una chiara indicazione dell'origine, fanno sorgere un rischio di confusione con il prodotto imitato, deve essere possibile opporvisi in base alla legislazione nazionale in materia di imitazione servile del paese importatore. A favore di questa soluzione si può richiamare in particolare il punto 16 della sentenza nella causa Dansk Supermarked c/ Imerco, il quale a sua volta rinviava al punto 15 della motivazione della sentenza Béguelin. In quel passo, la Corte aveva infatti affermato quanto segue: «E cionondimeno opportuno sottolineare, come la Cone ha posto in risalto in un altro contesto con la sentenza 25 novembre 1971(Béguelin, causa 22/71, Race. 1981, pag. 949), che il fatto stesso dell'importazione di una merce, legittimamente posta in commercio in un altro Stato membro, non può considerarsi come un atto commerciale scorretto o sleale, dato che una qualifica del genere può attribuirsi alla messa in vendita solo in considerazione di circostanze distinte dall'imponazione propriamente detta». L'interpretazione logica di questo punto della motivazione mi sembra essere che l'importatore di tale prodotto importato legittimamente può essere dichiarato responsabile solo di ciò che egli fa, o non fa, nell'ambito della propria attività commerciale, per evitare il rischio di confusione. La panoramica della giurisprudenza della Corte che si trova al punto 10 della motivazione della sentenza nella causa 113/80 (Commissione e/Irlanda, non ancora pubblicata) mi sembra dia adito perfino alla conclusione che, nell'ambito dell'art. 30, questa Corte non ritenga in alcun caso di considerare ammissibili ostacoli indiretti all'importazione, come quelli di cui trattasi nel caso di specie. Se l'importatore ufficiale del prodotto imitato nello Stato membro potesse bloccare tutte le importazioni dei prodotti imitati fabbricati o venduti lecitamente altrove nella Comunità, si potrebbe anche parlare, come ho già rilevato, di una «restrizione dissimulata al commercio», secondo la formulazione della sentenza Dassonville.

    Come risulta dalla recente sentenza 23 gennaio 1981 del Bundesgerichtshof (causa «Rollhocker», in Monatsschrift für Deutsches Recht, 1981, pag. 821), un'interpretazione come quella che desumo da questi precedenti della Corte circoscriverebbe con precisione l'ambito di libertà lasciato al diritto nazionale. Nella sentenza summenzionata, le disposizioni in materia di imitazione servile sono state infatti dichiarate applicabili, espressamente e senza alcuna restrizione, anche agli importatori. Il limite posto dal diritto comunitario all'applicazione delle disposizioni nazionali è già stato evidenziato da questa Corte in innumerevoli casi, con sentenze sia in materia di art. 30 che in materia di art. 36.

    Infine, e sempre per l'ipotesi dell'applicazione esclusiva dell'art. 30 del Trattato CEE, vorrei soffermarmi ancora un momento sulla direttiva della Commissione 22 dicembre 1969, n. 70/50/CEE, relativa alla soppressione delle misure d'effetto equivalente a restrizioni quantitative (GU 1970, n. 13, pag. 29). Ritengo in linea di principio, a questo proposito, che la direttiva della Commissione di cui trattasi non costituisca, per sua natura, un ostacolo all'efficacia diretta del divieto sancito dall'art. 30, secondo l'interpretazione datane da questa Corte.

    Questa circostanza è particolarmente importante con riferimento alla problematica un po' diversa relativa a quelle normative che si applicano indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati. In base al punto 9 del preambolo della direttiva, tali «misure... che sono indistintamente applicabili» non cadono in linea di principio sotto il divieto dell'art. 30, mentre, in base alla giurisprudenza di questa Corte, esse sfuggono al divieto solamente quando ricorrono varie condizioni, che la Corte ha precisato sempre meglio a partire dalla sentenza Dassonville. Ad esse si applica però il principio fondamentale sancito da questa sentenza. In secondo luogo, occorre rilevare in via preliminare che la direttiva citata, così come quelle precedenti (le quali non hanno però rilevanza ai nostri fini), con le quali si era data attuazione all'art. 33, n. 7, del Trattato CEE, non danno alcuna garanzia di completezza dal punto di vista della complessa casistica che si presenta nella realtà. Il preambolo della direttiva n. 70/32/CEE (GU 1970, n. 13, pag. 1) lo afferma d'altronde espressamente. Le normative in materia di protezione contro la concorrenza sleale che abbiano effetti inutilmente nocivi per gli scambi non sono prese in considerazione da alcuna delle disposizioni della direttiva. La risposta data dalla Commissione, nel corso della fase orale del procedimento, al quesito da voi posto, permette di desumere che questa circostanza è una conseguenza del convincimento della Commissione che l'art. 36 risulta, nella fattispecie, applicabile. Ciò non toglie che l'art. 3 della direttiva n. 70/50/CEE parli di un tipo di normativa che presenta una certa analogia con la problematica in esame.

    Tale articolo ha il seguente tenore:

    «La presente direttiva concerne ugualmente le misure relative alla commercializzazione dei prodotti e riguardanti, in particolare, la forma, le dimensioni, il peso, la composizione, la presentazione, l'identificazione, il condizionamento, applicabili indistintamente ai prodotti nazionali ed ai prodotti importati, i cui effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci eccedono il contesto degli effetti propri di una regolamentazione commerciale.

    Tale è, in particolare, il caso:

    quando gli effetti restrittivi sulla libera circolazione delle merci sono sproporzionati rispetto al risultato perseguito;

    quando il medesimo obiettivo può essere raggiunto con altro mezzo che intralci in minor misura gli scambi».

    Benché tale norma si riferisca manifestamente ai cosiddetti ostacoli tecnici agli scambi, non già alle disposizioni volte alle protezione contro la concorrenza sleale, si può osservare che anche il divieto di imitazione servile si riferisce, tra l'altro, alla forma, alle dimensioni, alla composizione, al condizionamento ed agli elementi di identificazione. Allorché, per via di questa analogia, ma tenendo conto delle differenze, si applichi la suddetta norma al problema attualmente in esame, occorrerà stabilire in particolare se l'effetto restrittivo della libera circolazione delle merci, prodotto dal divieto di imitazione, risulti non proporzionato, nel caso di specie, al risultato perseguito (principio di proporzionalità). Occorrerà inoltre verificare se lo stesso obiettivo non possa essere conseguito con un altro mezzo, meno restrittivo degli scambi (principio della sussidiarietà).

    A mio avviso, l'applicazione di un divieto di imitazione servile configurato in modo tale da rendere indirettamente impossibile l'importazione di prodotti legittimamente fabbricati e messi in vendita altrove è effettivamente incompatibile tanto con il principio di proporzionalità, quanto con il principio della sussidiarietà così formulati. È contrario al principio di proporzionalità perché il legittimo obiettivo di prevenire la confusione quanto all'origine e all'identità del prodotto non può giustificare una siffatta restrizione delle importazioni. È contrario al principio della sussidiarietà perché il rischio di confusione può benissimo essere eliminato esigendo, da parte dell'importatore, provvedimenti successivi all'atto dell'importazione. La valutazione complessiva potrebbe al massimo essere diversa qualora si potesse dimostrare che l'importatore non può prevenire da solo il rischio di confusione e, nello stesso tempo, siano possibili, da parte del produttore, dal punto di vista tecnico ed economico, provvedimenti atti ad evitarla.

    In definitiva, l'applicazione analogica dell'art. 3 della direttiva n. 70/50/CEE non induce, a mio avviso, a conclusioni sostanzialmente diverse da quelle da me tratte dalla giurisprudenza di questa Corte in materia di art. 30. Come ho già avuto occasione di rilevare, la suddetta disposizione si basa però, rispetto ai provvedimenti che si applicano indistintamente ai prodotti nazionali ed a quelli importati, su di un'impostazione diversa da quella che credo di poter desumere dalla giurisprudenza di questa Corte. Anche perché l'art. 3 si riferisce manifestamente a regimi commerciali del tutto diversi da quelli di cui ci occupiamo, prescinderò quindi, ai fini delle considerazioni conclusive di questa mia esposizione, dalla summenzionata direttiva.

    A favore del punto di vista secondo cui, per far valere un diritto alla protezione contro la concorrenza sleale, si può invocare solamente l'art. 30, vanno senz'altro richiamati, in particolare, i punti 7 e 8 della motivazione della sentenza, ancora non pubblicata, nella causa 113/80 (Commissione e/ Irlanda). Infatti, dopo aver constatato che l'art. 36 va interpretato restrittivamente, la Corte ha dichiarato: «né la tutela dei consumatori, né la lealtà dei negozi commerciali sono menzionati fra le deroghe ammesse dall'art. 36; è quindi evidente che queste ragioni non possono essere invocate — in quanto tali — nell'ambito del suddetto articolo».

    Come ho già detto, questa definizione del ruolo delle norme in materia di concorrenza, che mi sembra importante anche ai fini della questione in esame, non esclude necessariamente che si possano trarre delle indicazioni, ai fini della soluzione della stessa questione, anche dalle considerazioni svolte da questa Corte a proposito dell'art. 36. La Corte aveva già affermato, al punto 7 della motivazione della sentenza Dassonville, che l'applicazione dell'art. 36, seconda frase, viene in considerazione anche in relazione all'adozione di quei provvedimenti ragionevoli di cui la Corte ha riconosciuto l'ammissibilità in sede di interpretazione dell'art. 30.

    Al punto 8 della motivazione della sentenza Cassis de Dijon (causa 120/78), la Corte ha inoltre fatto riferimento ai provvedimenti a tutela della lealtà delle transazioni commerciali, che essa valuta alla stregua dell'art. 30, nonché ai provvedimenti volti alla tutela della salute pubblica, ai quali si riferisce l'art. 36.

    Con riferimento a queste due ipotesi, la Corte ha affermato, in quel punto:

    «Gli ostacoli per la circolazione intracomunitária derivanti da disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere ad esigenze attinenti, in particolare, all'efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute pubblica, alla lealtà di negozi commerciali e alla difesa dei consumatori».

    Si potrebbe tutt'al più affermare che, in materia di art. 30, la Corte attribuisce alla questione del se il prodotto sia stato fabbricato e messo in vendita legittimamente in un altro Stato membro un'importanza ancora maggiore di quanto non faccia in materia di art. 36.

    La mia opinione è, di conseguenza, che, nell'ipotesi dell'applicazione esclusiva dell'art. 30, l'analisi della giurisprudenza della Corte in materia, ai fini della questione in esame, non conduce necessariamente a conclusioni diverse da quelle cui si perviene in base ad un esame congiunto degli artt. 30 e 36, nonostante che, in particolare, le sentenze della Corte nelle cause 58/80 (Dansk Supermarked) e 113/80 (Commissione e/ Irlanda), possano dare adito a qualche dubbio sotto questo profilo. Nell'ultima parte di questa mia esposizione preciserò il mio parere per il caso in cui si applichi esclusivamente l'art. 30.

    d)

    Prima di formulare le mie considerazioni conclusive vorrei ancora esprimere il mio punto di vista quanto alle possibilità di applicazione delle due ipotesi esaminate.

    Soprattutto quanto affermato al punto 8, summenzionato, della motivazione della sentenza della Corte nella causa 120/78 (Cassis de Dijon) permette, a mio avviso, di sostenere che la giurisprudenza della Corte ha enucleato, in materia di art. 36 — per l'ipotesi di provvedimenti che si applicano tanto alla produzione nazionale quanto a quella importata — criteri non sensibilmente diversi da quelli sviluppati in materia di art. 30. Il provvedimento in esame rientra nell'ipotesi or ora indicata. A proposito dell'uno e dell'altro articolo, la Corte applica criteri quali il carattere necessario degli ostacoli opposti agli scambi in funzione di ragioni obiettive — non economiche — di interesse generale, il principio della proporzionalità, il principio della sussidiarietà, nonché l'inammissibilità delle restrizioni dissimulate negli scambi fra gli Stati membri e delle discriminazioni arbitrarie. La circostanza che il prodotto sia stato legittimamente posto in commercio in un altro Stato membro ha rilievo tanto nell'ambito della giurisprudenza in materia di art. 36, sui diritti di proprietà industriale, quanto nell'ambito di quella in materia di art. 30, sulla protezione contro la concorrenza sleale.

    Se le recenti sentenze nelle cause 58/80 (Dansk Supermarked), e 113/80 (Commissione e/ Irlanda) non avessero nel frattempo fatto nuova luce sulla problematica in cui si colloca la presente causa, avrei concluso nel senso che, come già nella causa Dassonville, non è necessario risolvere la questione dell'applicazione o no dell'art. 36. Poiché, però, al punto 8 della motivazione dell'ultima sentenza citata, la Corte ha dichiarato espressamente che le considerazioni attinenti alla lealtà delle transazioni commerciali non possono farsi rientrare fra le deroghe contemplate dall'art. 36, tale soluzione non mi sembra più ammissibile. Per questo motivo, preferisco l'applicazione esclusiva dell'art. 30. Prima della sentenza nella causa 58/80 (Dansk Supermarked), tale scelta non avrebbe portato necessariamente, come già ho osservato, nella fattispecie, ad un risultato sostanzialmente diverso da quello cui si sarebbe pervenuti in caso di applicazione dell'art. 36. Come ho già anche detto, questa ultima sentenza fa però sorgere dei dubbi sotto questo profilo. Certo, al punto 15 della relativa motivazione si afferma che la distribuzione delle merci importate può essere vietata quando le condizioni in cui la loro messa in vendita viene attuata costituiscono una trasgressione degli usi commerciali ritenuti corretti e leali nello Stato membro d'importazione. Il punto 16 prosegue, tuttavia, nei seguenti termini: «È cionondimeno opportuno sottolineare, come la Corte ha posto in risalto in un altro contesto con la sentenza 25 novembre 1971(Béguelin, causa 22/71, Race. 1971, pag. 949), che il fatto stesso dell'importazione di una merce, legittimamente posta in commercio in un altro Stato membro, non può considerarsi come un atto commerciale scorretto o sleale, dato che una qualifica del genere può attribuirsi alla messa in vendita solo in considerazione di circostanze distinte dall'importazione propriamente detta». Tale formulazione è ripetuta, in termini lievemente diversi, al punto 2o del dispositivo. In base a tale formula, è decisivo accertare, nel caso di specie, se il divieto di imitazione che si applica anche, pur se — in linea di principio — non esclusivamente, ai prodotti importati, attiene a circostanze (nella fattispecie, l'imitazione) distinte dalla vera e propria importazione. Alla luce della precedente giurisprudenza della Corte e degli antefatti della causa Dansk Supermarked, non mi sembra in fine dei conti di poter escludere una soluzione in senso affermativo. La Corte non ha infatti mai escluso assolutamente, nella sua ricca giurisprudenza in materia, l'eventualità che disposizioni di carattere generale, come quelle cui si riferisce il punto 8 della motivazione della sentenza nella causa Cassis de Dijon, implichino ostacoli indiretti per gli scambi. Tali ostacoli dovranno tuttavia essere esaminati alla stregua dei severi criteri che ho già ricordato in questa parte della mia esposizione.

    IV — Ricapitolazione e conclusione

    a)

    Nel caso in cui la questione sottoposta a questa Corte vada risolta, come ipotizza il giudice di rinvio, applicando congiuntamente gli ara. 30 e 36 del Trattato CEE, la soluzione dovrebbe, a mio avviso, essere la seguente:

    «In una situazione come quella cui si riferisce il Gerechtshof dell'Aia ai punti a)-e), gli ara. 30 e 36 del Trattato CEE vanno interpretati nel senso che un provvedimento giurisdizionale inibitorio della vendita come quello preso in considerazione dalla questione pregiudiziale può, nonostante il suo carattere di misura di effetto equivalente ad una restrizione quantitativa all'importazione ai sensi dell'art. 30, risultare giustificato in base all'art. 36 del Trattato CEE, qualora, nell'esaminare la possibilità di una diversa configurazione del prodotto, si sia tenuto conto non soltanto dello stato della tecnica, ma anche di quanto può ragionevolmente attendersi, dal punto di vista economico, da un produttore che abbia legittimamente fabbricato e messo in commercio il prodotto di cui trattasi in un altro Stato membro. Qualora i componenti del prodotto di cui trattasi vengano messi in commercio separatamente, essi debbono costituire oggetto di un esame separato alla stregua dei criteri sopra indicati. In particolare, i componenti destinati a prodotti legittimamente acquistati in un altro Stato della Comunità non possono essere sottoposti a condizioni tali che la loro distribuzione divenga praticamente impossibile».

    b)

    Se invece la soluzione della questione sottoposta alla Corte sarà basata, per i motivi sopra esposti, esclusivamente sull'art. 30, essa dovrebbe essere formulata, in base alla precedente giurisprudenza della Corte cui ho fatto riferimento, nei seguenti termini:

    «In una situazione come quella cui si riferisce il Gerechtshof dell'Aia ai punti a)-e), l'art. 30 del Trattato CEE va interpretato, nello stadio attuale del diritto comunitario, nel senso che un provvedimento giurisdizionale inibitorio della vendita come quello preso in considerazione nella questione pregiudiziale risulta incompatibile con detto articolo, qualora il prodotto di cui trattasi sia importato da un altro Stato membro, ove esso viene legittimamente fabbricato e messo in vendita. Tale incompatibilità non sussiste qualora il rischio di confusione vada attribuito esclusivamente al comportamento del commerciante nazionale e alla mancata adozione, da parte sua, di adeguati provvedimenti, e quando tale rischio possa essere evitato dal commerciante senza il concorso del produttore».

    La diversità fra i risultati cui si perviene nelle due ipotesi prospettate non sembra però del tutto soddisfacente. Ritengo, in particolare, insoddisfacente il fatto che, nella seconda ipotesi, non si tenga conto degli insegnamenti che si possono trarre dall'esame delle analogie e delle differenze esistenti fra le disposizioni in materia di imitazione, da un lato, e le disposizioni in materia di brevetto e di marchio, dall'altro, nonché dalla giurisprudenza della Corte in materia. Pur rientrando nella disciplina della concorrenza sleale, le norme che vietano l'imitazione sono infatti caratterizzate — nonostante le differenze esistenti, alcune delle quali da me or ora ricordate — da tante analogie, in particolare, con il diritto al marchio, che è possibile, nel caso di specie, sostenere un punto di vista un po' meno rigoroso di quello desumibile dalla sentenza nella causa Dansk Supermarked. Nel caso di specie, si tratta, a mio avviso, di una parte della disciplina della concorrenza sleale che si situa al confine delle norme sul diritto al marchio. Si potrà pertanto pervenire ad una sintesi delle due soluzioni aggiungendo alla formulazione suggerita per l'ipotesi — da me in ultima analisi prescelta — dell'applicazione esclusiva dell'art. 30, la proposizione seguente: «Tale incompatibilità non sussiste neppure qualora si possa ragionevolmente pretendere, tenuto conto non soltanto delle possibilità tecniche, ma anche delle possibilità economiche connesse al programma di produzione del produttore straniero, che questi dia una diversa configurazione al proprio prodotto. Qualora i componenti del prodotto di cui trattasi vengano messi in commercio separatamente, essi devono costituire oggetto di un esame separato alla stregua dei criteri sopra indicati. In particolare, i componenti destinati a prodotti legittimamente acquistati in un altro Stato della Comunità non possono essere sottoposti a condizioni tali che la loro distribuzione divenga praticamente impossibile».

    Ho già avuto modo di osservare che è lecito nutrire qualche dubbio sulla compatibilità di tale formulazione integrativa con la sentenza Dansk Supermarked. Ho comunque indicato anche le condiderazioni, suffragate dalla precedente giurisprudenza della Cone, che permettono, in definitiva, di giustificare questa formulazione. Questa mi pare sostenibile, in particolare, alla stregua del principio di proporzionalità, che la Corte ha applicato sistematicamente nelle sentenze vertenti su norme di interesse generale di cui sia riconosciuta, in linea di principio, la ragionevolezza, nonché il principio di sussidiarietà, che trova anch'esso applicazione nella giurisprudenza della Corte. Infine, la formulazione proposta mi pare compatibile anche con la seconda frase dell'art. 36, che la Corte applica anche, dopo la sentenza Dassonvifle, in materia di art. 30.


    ( 1 ) Traduzione dall'olandese.

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