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Document 61980CC0157

    Conclusioni dell'avvocato generale Reischl del 8 aprile 1981.
    Procedimento penale a carico di Siegfried Ewald Rinkau.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Hoge Raad - Paesi Bassi.
    Convenzione giudiziaria 27 settembre 1968, Protocollo art. II.
    Causa 157/80.

    Raccolta della Giurisprudenza 1981 -01391

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1981:89

    CONCLUSIONI DELL' AVVOCATO GENERALE

    GERHARD REISCHL

    dell'8 aprile 1981 ( 1 )

    Signor Presidente,

    signori Giudici,

    in questo procedimento pregiudiziale si tratta di un cittadino tedesco residente nella Repubblica federale di Germania citato a comparire dal giudice di polizia di Zutphen (Paesi Bassi) per aver, il 10 marzo 1977, nel comune di Aalten guidato un autoveicolo munito di un apparecchio radioelettrico trasmittente senza essere in possesso dell'autorizzazione all'uopo prescritta nei Paesi Bassi.

    Ammesso che nella Repubblica federale di Germania sia necessaria un'autorizzazione per il possesso e per l'uso di un apparecchio del genere, pare che l'interessato ne fosse munito. Al passaggio del confine tedesco-olandese nessuno gliela chiese. Del resto in quel momento l'apparecchio non era in funzione, l'antenna era stata tolta e il microfono si trovava sul sedile posteriore.

    La comparizione personale dell'imputato non veniva ordinata, né egli si presentava spontaneamente. In suo nome compariva invece un avvocato di Maastricht (Paesi Bassi) il quale chiedeva di poterlo difendere. Contro il parere del pubblico ministero, il giudice di polizia consentiva all'avvocato di difendere l'imputato a norma dell'art. II del Protocollo allegato alla Convenzione 27 settembre 1968, concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, dato che l'interessato era domiciliato in uno Stato contraente e veniva processato in un altro Stato contraente; l'imputato veniva cionondimeno condannato.

    Il giudice disattendeva la tesi della difesa secondo cui si trattava di un errore scusabile circa il divieto e non sussisteva quindi alcuna responsabilità; esso riteneva trattarsi di un «reato commesso per negligenza» e condannava l'imputato ad una pena pecuniaria di 50 fiorini, o in caso di mancato pagamento, ad un giorno di arresto, nonché alle confisca del materiale sequestrato, il cui valore supera di molto la pena pecuniaria.

    Il pubblico ministero interponeva appello dinanzi alla Corte d'appello di Arnhem.

    Questa non accoglieva la richiesta del pubblico ministero che fosse sottoposta alla nostra Corte la questione di cosa si dovesse intendere per «infrazione non volontaria» ai sensi dell'art. II del Protocollo. Essa decideva incece in via interlocutoria che il reato ascritto all'imputato non era una «infrazione non volontaria» ai sensi di detto articolo e che a torto il giudice di polizia aveva permesso all'avvocato di difendere l'imputato non comparso. Con la sentenza definitiva veniva confermata nel merito la pronunzia del giudice di polizia.

    L'interessato ricorreva in cassazione; contro il parere del procuratore generale lo Hoge Raad ha sottoposto alla Corte di giustizia, a norma dell'art. 3, n. 1, del Protocollo 3 giugno 1971, relativo all'interpretazione da parte della Corte di giustizia della Convenzione 27 settembre 1968, le seguenti questioni:

    «1.

    Se per “infrazione non volontaria”, ai sensi dell'art. II, 1o comma, del suddetto Protocollo, debba intendersi qualsiasi reato per la cui sussistenza non sia richiesta, secondo la definizione datane dalla legge, alcuna determinata intenzione rivolta a determinati elementi costitutivi dello stesso ovvero detta espressione vada intesa in senso restrittivo, e cioè come riferentesi unicamente a reati nella cui definizione abbia in qualche modo rilevanza la colpa (culpa) dell'autore degli stessi.

    2.

    Se, qualora siano soddisfatte le condizioni stabilite dall'art. II del suddetto Protocollo, la facoltà attribuita all' “imputato” da questo articolo valga illimitatamente ovvero spetti all'imputato solo in quanto questi debba difendersi contro un'azione civile promossa nell'ambito del processo penale a suo carico, o almeno nel caso in cui la decisione in sede penale influisca sugli interessi civili dell'imputato».

    Ecco il mio punto di vista in proposito, incominciando, per motivi di opportunità, dalla seconda questione.

    I —

    L'art. II del Protocollo allegato alla Convenzione, protocollo il quale a norma dell'art. 65 della Convenzione stessa ne fa parte integrante, recita:

    «Salvo disposizioni nazionali più favorevoli, le persone domiciliate in uno Stato contraente cui venga contestata un'infrazione non volontaria davanti alle giurisdizioni penali di un altro Stato contraente di cui non sono cittadini possono, anche se non compaiono personalmente, farsi difendere dalle persone a tal fine abilitate.

    Tuttavia, la giurisdizione adita può ordinare la comparizione personale; se la comparizione non ha luogo la decisione resa nell'azione civile senza che la persona in causa abbia avuto la possibilità di farsi difendere potrà non essere riconosciuta né eseguita negli altri Stati contraenti».

    Per interpretare questa disposizione è molto utile rifarsi ai lavori preparatori.

    1.

    Il Protocollo si basa in gran parte su criteri adottati nel Benelux; ciò è particolarmente vero per l'art. II.

    Il Trattato firmato a Bruxelles il 24 novembre 1961 fra il Belgio, i Paesi Bassi e il Lussemburgo e relativo alla competenza giurisdizionale, al fallimento nonché al riconoscimento ed all'esecuzione delle decisioni giudiziarie, dei lodi arbitrali e degli atti pubblici stabilisce all'art. 13:

    «1.   I provvedimenti giudiziari adottati in materia civile e commerciale in uno dei tre Stati sono riconosciuti negli altri due anche qualora provengano dal giudice penale, alle seguenti condizioni:

    ...

    4.   Le parti erano regolarmente rappresentate o la loro contumacia è stata accertata dopo regolare citazione; se il loro domicilio era noto, la citazione era loro pervenuta tempestivamente.

    ...».

    L'art. 14 stabilisce:

    «1.   I provvedimenti giudiziari in materia civile e commerciale adottati in uno dei tre paesi possono essere eseguiti negli altri due, anche se provengono dal giudice penale ed ivi compresi i provvedimenti che infliggono pene pecuniarie, dopo esser stati ivi dichiarati esecutivi.

    ...».

    L'art. 2 del Protocollo allegato al detto Trattato recita:

    «Salve restando le disposizioni nazionali più favorevoli, i cittadini di uno dei tre paesi, domiciliati nel paese rispettivo, possono stare in giudizio dinanzi ai giudici dei due altri paesi per mezzo di un procuratore speciale qualora siano imputati di un reato non doloso».

    Secondo la relazione della legge olandese di ratifica di questo Trattato del 1961, a norma degli artt. 11 e 12 della Convenzione sull'esecuzione 28 marzo 1925, conclusa dai Paesi Bassi col Belgio, si può chiedere l'esecuzione delle decisioni giudiziarie in materia civile e commerciale: è sorta la questione se questa disposizione riguardi anche la condanna al risarcimento dei danni pronunziata dal giudice penale ad istanza della parte lesa. Con sentenza 16 marzo 1931 (Nederlandse Jurisprudentie 1931, 689) lo Hoge Raad der Nederlanden affermava che le sentenze del giudice penale di condanna al risarcimento dei danni non potevano essere considerate come decisioni giudiziarie in materia civile e commerciale ai sensi della Convenzione. Onde evitare interpretazioni discordanti della Convenzione nei vari Stati contraenti, il nuovo Trattato stabilisce espressamente che anche le pronunzie del giudice penale in materia civile e commerciale ricadono sotto il Trattato.

    La relazione prosegue:

    «Il Consiglio nazionale dell'ordine degli avvocati olandesi, che era stato sentito dalla delegazione olandese presso la Commissione di studio del Benelux, si era pronunziato a favore della pronunzia dello Hoge Raad, fra l'altro perché la normativa in progetto avrebbe obbligato un cittadino olandese che fosse stato imputato in un reato nel territorio di un altro Stato contraente a comparire personalmente dinanzi al giudice belga o lussemburghese, il che sarebbe stato in contrasto col principio generale secondo cui i cittadini olandesi non vengono estradati e sono liberi di decidere se comparire o no dinanzi al giudice penale straniero. A questa obiezione si è posto rimedio con l'art. 2 del Protocollo il quale attribuisce al cittadino di uno dei tre Stati imputato di un reato non doloso il diritto di farsi difendere dinanzi ai giudici degli altri due Stati da persone all'uopo incaricate».

    2.

    La relazione del sig. P. Jenard sulla Convenzione 27 settembre 1968 (GU n. C 59 del 5 marzo 1979, pag. 1) conferma che gli esperti che hanno elaborato il progetto di convenzione sono partiti dallo stesso principio:

    «La materia delle azioni civili proposte davanti a giudici penali rientra nel campo d'applicazione della Convenzione sia per quanto riguarda la disciplina della competenza sia per quanto concerne il riconoscimento e l'esecuzione delle sentenze pronunziate, in seguito a siffatte azioni, dai giudici penali. Tale soluzione tiene da una parte conto delle legislazioni in vigore nella maggior parte degli Stati contraenti, mentre dall'altra mira ad eliminare le divergenze d'interpretazione, come è avvenuto per l'applicazione della Convenzione belgo-olandese; essa risponde infine alle esigenze attuali, sorte dall'aumento del numero di incidenti stradali.

    ...

    La soluzione scelta dal comitato è aderente alla tendenza attuale, favorevole all'inserimento nelle convenzioni di clausole in cui si precisi che le convenzioni stesse si applicano alle sentenze pronunziate in campo civile e commerciale dal giudice penale. Questa tendenza ha trovato accoglimento soprattutto nel Trattato Benelux del 24 novembre 1961 e nei lavori della Conferenza di diritto internazionale privato dell'Aia.

    ...

    La Convenzione ha incidenza, per quanto riguarda sia la competenza sia il riconoscimento e l'esecuzione, soltanto sulle azioni civili intentate davanti a tali tribunali e sulle decisioni rese a seguito di tali azioni.

    Per rispondere tuttavia alle obiezioni secondo le quali la parte contro cui è stata intentata l'azione civile rischia di trovarsi in difficoltà nella difesa quando con lo stesso processo può esserle comminata una condanna penale, il comitato ha scelto una soluzione identica a quella ammessa dal Trattato Benelux. Il Protocollo prevede all'art. II che detta persona potrà farsi difendere o rappresentare davanti al giudice penale. Non sarà dunque costretta a comparire personalmente quanto alla difesa dei suoi interessi civili».

    Circa l'art. II del Protocollo, la relazione prosegue :

    «Anche l'articolo II del Protocollo trova la sua fonte nel Trattato Benelux. Detto Trattato è del pari applicabile alle sentenze pronunciate in materia civile dai giudici penali, e pone così fine ad una controversia a cui ha dato luogo, tra il Belgio e l'Olanda, il Trattato belgo-olandese del 1925. Come dice la relazione allegata al Trattato, la reticenza delle autorità olandesi nei confronti delle sentenze emesse dai giudici penali stranieri in merito all'azione civile è motivata dal fatto che il cittadino olandese imputato di un reato commesso all'estero può essere costretto a presentarsi personalmente davanti al giudice penale straniero per difendersi anche contro l'azione civile, mentre i Paesi Bassi non ammettono l'estradizione dei propri cittadini. Tale obiezione è meno pertinente di quanto non appaia a prima vista in quanto in alcuni ordinamenti e particolarmente in Francia, Belgio e Lussemburgo, la sentenza penale ha valore di cosa giudicata quanto alla successiva azione civile.

    In questa ipotesi, l'azione civile successivamente intentata contro un olandese condannato penalmente gli sarà necessariamente sfavorevole. È dunque d'essenziale importanza che questi possa esercitare la sua difesa fin dalla fase penale.

    Per tale ragione, al pari del Trattato Benelux, la Convenzione contiene una disposizione figurante al Protocollo con la quale si autorizza una persona domiciliata in un altro Stato contraente a farsi difendere davanti agli organi giurisdizionali penali di quest'ultimo Stato.

    In virtù dell'articolo II del Protocollo detta persona fruirà di questo diritto anche se non compare personalmente ed anche se l'ordinamento processuale dello Stato interessato non gli riconosce il diritto stesso. Tuttavia, se il giudice adito ordina espressamente la comparizione personale, la decisione che sia stata resa senza che la persona in causa abbia avuto la possibilità di farsi difendere in quanto non s'è presentata potrà non essere riconosciuta od eseguita negli altri Stati contraenti.

    Questo diritto è tuttavia riconosciuto in virtù dell'articolo II del Protocollo soltanto alle persone perseguite per una infrazione involontaria: ciò si estende quindi agli incidenti stradali».

    3.

    Da tutto questo emerge già chiaramente che l'art. II del Protocollo non vale solo per le cause penali nelle quali, in seguito alla costituzione di parte civile, ci si deve pronunziare pure sull' azione civile, ma anche per quelle in cui la sentenza penale, secondo il rispettivo diritto nazionale, costituisce giudicato per la successiva azione civile. D'altro canto questa disposizione non può venire estesa fino a comprendere tutte le cause penali. L'art. II, 1o comma, del Protocollo non può cioè essere separato dal suo contesto; esso non può essere considerato come una norma di procedura penale da applicarsi negli Stati contraenti. La sua applicazione è invece limitata alla sfera della Convenzione la quale, a norma del suo art. 1 «si applica in materia civile e commerciale», ma appunto solo in queste materie. Solo sotto questo aspetto il giudizio penale poteva interessare gli autori della Convenzione.

    L'art. II, 1o comma, del Protocollo va quindi posto in relazione col 2o comma. Se ne desume che la facoltà attribuita dal 1o comma sussiste solo quando si tratti o possa trattarsi di decidere «nell'azione civile». Quest'azione civile è intesa al risarcimento dei anni causati dal reato alla parte lesa o ai suoi aventi causa.

    La domanda di risarcimento può essere proposta dalla parte lesa

    o al giudice penale competente — in questo caso si parla di esercizio dell'azione civile nel procedimento penale (in Francia, nel Belgio e nel Lussemburgo di «constitution de partie civile»); presupposto ne è il sussistere di un danno alle cose, alla persona o morale causato alla parte lesa direttamente dal reato; non basta che si sia prodotto in occasione del reato —

    o in seguito dinanzi al giudice civile — ma anche qui si deve distinguere il risarcimento vero e proprio del danno da altre pretese civili che possono essere sorte in occasione del reato e che, ad esempio, si basano su inadempienze contrattuali.

    Ora, lo spirito della disposizione è quello di garantire il principio del contraddittorio — che è tutelato dalla Convenzione in tutti i procedimenti civili — anche qualora la pronunzia «in materia civile e commerciale» abbia luogo nell'ambito di un procedimento penale.

    Nei casi in cui l'azione civile viene esercitata solo in seguito dinanzi al giudice civile, si deve partire dal principio che valgono le norme generali della Convenzione relative alla tutela del convenuto. Il problema sopra menzionato sorge invece nel caso in cui il giudice civile debba attenersi alla precedente sentenza penale, dato che in questo caso le dette disposizioni restano lettera morta. Solo per questi casi la disposizione in esame stabilisce che l'imputato può farsi difendere, a determinate condizioni, da persone all'uopo autorizzate.

    In proposito, la Commissione sostiene potersi ritenere che tutti gli Stati firmatari della Convenzione hanno ammesso la norma non scritta secondo cui le disposizioni relative alla difesa dell'imputato vanno interpretate estensivamente ed a suo favore. A sostegno di questa tesi essa cita la relazione della Commissione belgo-olandese-lussemburghese per lo studio dell'unificazione giuridica per il Trattato del 1961.

    Circa l'art. 13 del Trattato la Relazione (pag. 63) dichiara che, secondo il diritto belga e lussemburghese «la stessa sentenza penale è vincolante per l'azione civile successiva ... Ciò premesso, l'azione civile esperita successivamente contro un olandese che sia stato condannato penalmente lo pone in una situazione sfavorevole. È quindi molto importante per lui il potersi difendere già in sede penale». Queste considerazioni sono state ripetute alla lettera nella Relazione Jenard. Nella Relazione sopra menzionata è detto inoltre, a proposito dell'art. II del Protocollo: «Questa disposizione, dato che deve tutelare i diritti della difesa, va interpretata a favore dell'imputato». Queste frasi vanno tuttavia considerate nel loro complesso; esse riguardano la «successiva azione civile». Non possono quindi essere considerate in assoluto: esse valgono solo nel caso di esercizio dell'azione civile nel procedimento penale o di azione civile successiva per risarcimento del danno recato ad un terzo dallo stesso imputato.

    L'art. II può quindi trovare applicazione solo quando il terzo che sia stato leso da un reato colposo si costituisce o può costituirsi parte civile, finché il giudice penale non si sia pronunziato definitivamente, ovvero quando perlomeno già in questo stadio sia stata fatta valere la responsabilità civile dell'imputato.

    4.

    Salvi restando gli accertamenti del giudice del fatto, nel presente caso non vedo come un terzo avrebbe potuto essere leso direttamente da un reato del genere in esame, né come egli potrebbe in seguito esperire un'azione in cui la responsabilità penale dell'imputato possa avere rilevanza decisiva per la determinazione di eventuali conseguenze civili.

    Né vale opporre che il proprietario degli oggetti confiscati installati nel veicolo potrebbe in seguito esperire un'azione qualora l'imputato avesse preso in prestito o noleggiato il veicolo stesso. Non si tratterebbe in questo caso di una «azione civile» ai sensi dell'art. II del Protocollo. Questo articolo parte dal presupposto che col reato colposo sia stata violata la sfera giuridica di un terzo e che questa violazione possa dar luogo ad un'azione civile del terzo o dei suoi aventi causa. Ora, il bene che è stato leso dal reato che ha dato luogo alla causa principale non consiste negli interessi patrimoniali di un terzo. Quella che è stata eventualmente lesa è la protezione delle comunicazioni radio, stabilita nell'interesse generale, o il monopolio postale.

    Nella causa principale nessun privato si è del resto costituito parte civile; a parte la sentenza penale stessa, non vi è alcun provvedimento giudiziario adottato o da adottarsi nei Paesi Bassi che possa essere riconosciuto o eseguito in un altro Stato membro.

    II —

    Dato questo risultato dell'esame della questione n. 2, ritengo che non sia il caso di occuparsi della prima questione. Per il caso in cui la Corte fosse di diverso parere, vorrei dire molto succintamente quanto segue:

    Date le notevoli differenze che sussistono fra le norme giuridiche degli Stati membri in questo campo, non mi sembra possibile dare una definizione esauriente di «infrazione non volontaria» ai sensi dell'art. II, 1o comma, del Protocollo.

    La Relazione Jenard tace su tale questione. L'espressione «infrazione non volontaria», che è la stessa nei Protocolli del 1961 e del 1968 (a parte la variante «niet opzettlijk/onopzettlijk»), è diversa nella versione francese: «infraction autre qu'une infraction intentionnelle» nel testo del 1961, «infraction involontaire» in quello del 1968. Secondo me, dal punto di vista giuridico è preferibile l'espressione «infraction autre qu'une infraction intentionnelle».

    Gli autori della disposizione del 1968 — come quelli della disposizione del 1961 — intendevano riferirsi ai reati meno gravi. La questione se atti del genere, che in seguito alla depenalizzazione in particolare delle trasgressioni stradali non vengono più considerati come «reati», bensì come illeciti amministrativi, ricadano ancora sotto questa disposizione non ha bisogno di essere risolta nel presente caso. Gli autori della Convenzione del 1968 paiono comunque essere partiti dal principio che — a prescindere dalle differenze fra gli ordinamenti giuridici degli Stati membri — gli atti dolosi non rientrano nell'art. II del Protocollo.

    La nozione «infrazione non volontaria» ai sensi dell'art. II, 1o comma, del Protocollo va quindi interpretata nel senso che essa comprende qualsiasi atto il quale è punibile anche se è commesso non volontariamente. Sono quindi compresi non solo i reati «colposi», ma anche quelli la cui punibilità non dipende dall'esistenza o dall'accertamento di una colpa penale.

    III —

    Vi propongo quindi di dichiarare che la facoltà di cui all'art. II, 1o comma, del Protocollo allegato alla Convenzione del 1968 concernente la competenza giurisdizionale e l'esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale sussiste solo quando chi sia stato leso da un reato non doloso si è costituito parte civile ovvero è possibile che la responsabilità civile dell'imputato sia in seguito fatta valere dalla parte lesa o dai suoi aventi causa.


    ( 1 ) Traduzione dal tedesco.

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