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Document 61975CC0051

    Conclusioni riunite dell'avvocato generale Warner del 31 marzo 1976.
    EMI Records Limited contro CBS United Kingdom Limited.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: High Court of Justice, Chancery Division - Regno Unito.
    Causa 51-75.
    EMI Records Limited contro CBS Grammofon A/S.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Sø- og Handelsretten - Danimarca.
    Causa 86-75.
    EMI Records Limited contro CBS Schallplatten GmbH.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Landgericht Köln - Germania.
    Causa 96-75.

    Raccolta della Giurisprudenza 1976 -00811

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1976:48

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE JEAN-PIERRE WARNER

    DEL 31 MARZO 1976 ( 1 )

    Indice

     

    Osservazioni preliminari

     

    Ammissibilità delle prove

     

    Le vicende dei marchi «Columbia»

     

    I marchi che costituiscono oggetto delle cause principali

     

    Le questioni sottoposte alla Corte

     

    Le nonne del trattato relative alla libera circolazione delle merci

     

    Le norme del trattato relative alla concorrenza

     

    Sull'art. 86

     

    Sull'art. 85

     

    Considerazioni finali

    Signor presidente,

    signori giudici,

    Osservazioni preliminari

    I procedimenti odierni hanno avuto inizio con domande di pronunzia pregiudiziale proposte, a norma dell'art. 177 del trattato CEE, rispettivamente dalla Chancery Division della High Court of Justice d'Inghilterra e Galles, dal Só- og Handelsretten di Copenaghen e dal Landgericht di Colonia. Per semplicità, parleremo quindi delle causa «inglese», «danese» e «tedesca».

    In ciascuna di esse, l'attrice è la EMI Records Limited, un'affiliata della EMI Limited, interamente controllata da quest'ultima. Entrambe sono società inglesi.

    La convenuta è invece l'affiliata, per il rispettivo paese in questione, della CBS Inc. che è una società americana. Si tratta, nella causa inglese, della CBS United Kingdom Limited; nella causa danese, della CBS Records Aps (ex CBS Grammofon A/S); nella causa tedesca, della CBS Schallplatten GmbH.

    I fatti si possono, in sostanza, così riassumere:

    In seguito ad una serie di circostanze e di negozi che si può far risalire al 1894 (e sulla quale avrò occasione di ritornare), la EMI Records Limited è divenuta, in molti paesi d'Europa, Africa, Asia ed Australia, titolare di tutti i marchi registrati, per il commercio di riproduzioni sonore, rappresentati dal termine «Columbia» o comprendenti tale denominazione. Fra i suddetti paesi sono, anche tutti gli Stati membri della Comunità, ad eccezione della Francia, ove la titolarità dei marchi in questione appartiene ad un'altra affiliata della EMI Limited. I marchi «Columbia» sono di proprietà della CBS Inc. negli Stati Uniti, in altri paesi dell'America settentrionale e meridionale, ed in alcuni altri.

    Tanto la EMI Records Limited ed altre affiliate della EMI Limited, quanto la CBS Inc. e le sue affiliate producono e vendono dischi su larga scala. Ciascuno dei due gruppi, nei Paesi in cui possiede il diritto al marchio «Columbia», vende tali dischi in gran parte sotto detto marchio, ma anche sotto marchi diversi, mentre, nei paesi in cui non dispone del marchio «Columbia», ciascun gruppo ha effettuato la vendita dei propri prodotti — fino al momento in cui sono sorte le presenti controversie — sotto altri marchi. In particolare, il gruppo CBS ha venduto le proprie registrazioni nella Comunità sotto il marchio «CBS».

    In taluni casi, tuttavia, il gruppo CBS ha importato nel Regno Unito, in Danimarca e in Germania dischi prodotti in America e recanti, sia sull'etichetta centrale del disco, sia sulla copertina, il marchio «Columbia». Su tali dischi importati, questo è stato talvolta obliterato mediante la sovrapposizione di una seconda etichetta (sulla quale figura in genere — come risulta dai documenti trasmessi a questa Corte dal tribunale marittimo e commerciale di Copenaghen — il marchio «CBS»; altre volte, invece, il marchio «Columbia» non è stato cancellato, in particolare sull'etichetta stesssa del disco. Sono le vendite di questi dischi, sui quali appare evidente il marchio «Columbia», che hanno dato adito a controversia.

    Ora, ai sensi del provvedimento di rinvio del giudice inglese, questa Corte è invitata a tener conto del «fumus boni juris» che presenta, per il diritto inglese, l'azione esperita dalla EMI Records Limited contro la CBS United Kingdom Limited per violazione dei diritti al marchio «Columbia»: l'attrice dovrebbe ottenere che alla convenuta venga ingiunto di astenersi dalla produzione e dalla vendita di dischi contrassegnati con detto marchio, in quanto — come risulta dalla motivazione dello stesso provvedimento di rinvio — l'unica linea di difesa che rimarrebbe possibile per la CBS United Kingdom Limited, in forza del diritto interno, sarebbe quella della decadenza, essendo stato provato il diritto della EMI Records Limited al marchio di cui è causa e la violazione di tale diritto da parte della CBS United Kingdom Limited.

    Al provvedimento di rinvio nella causa danese è allegata una sentenza interlocutoria del giudice proponente, nella quale si afferma che, per quanto attiene al diritto danese, la CBS Records Aps non può opporsi alle pretese della EMI Records Limited relative alla violazione dei suoi diritti al marchio.

    Analogamente, nel provvedimento di rinvio nella causa tedesca viene statuito che, in forza del diritto tedesco, l'uso del marchio «Columbia» in Germania spetta esclusivamente alla EMI Records Limited, che può opporsi all'utilizzazione fattane da altri.

    In ciascuna delle tre cause, tuttavia, la convenuta oppone che, tenuto conto delle vicende del marchio «Columbia», ed in particolare del modo in cui i relativi diritti sono giunti ad essere suddivisi, dal punto di vista geografico, fra il gruppo EMI ed il gruppo CBS, l'esercizio di tali diritti da parte della EMI Records Limited nel senso di impedire al gruppo CBS d'importare nel Regno Unito, in Danimarca ed in Germania dischi recanti il marchio in questione risulta in contrasto col diritto comunitario.

    Esaminiamo, quindi, le vicende del marchio «Columbia». Il materiale di cui la Corte dispone al riguardo si divide in due parti. In primo luogo vi sono i fatti che risultano dai provvedimenti di rinvio. In secondo luogo, una quantità di documenti prodotti dalla CBS United Kingdom Limited, dalla CBS Records Aps, dalla CBS Schallplatten GmbH, dalla EMI Records Limited (in appendice alle sue osservazioni nella causa tedesca) e dalla Commissione.

    Ammissibilità delle prove

    È stata sollevata la questione del se — ed in caso affermativo in qual misura e per quali scopi — l'assunzione di tali prove sia ammissibile nel presente procedimento.

    Ritengo opportuno trattare subito questo problema ed a mio avviso, per risolverlo, occorre tener presenti tre principi fonda-mentali.

    Primo: non esiste alcuna norma che vieti alla Corte di assumere prove in un procedimento pregiudiziale ai sensi dell'art. 177. Ciò risulta chiaramente dall'art. 103, § 1, del regolamento di procedura, secondo cui, in un procedimento del genere, si applicano gli artt. 44 e segg. del regolamento stesso e quindi, fra l'altro, gli artt. 45-53, relativi all'istruzione. Possono esservi casi, infatti, in cui la Corte non sarebbe in grado di pronunciarsi senza assumere delle prove (ad esempio, qualora sia messa in dubbio la validità di un atto di una istituzione della Comunità, per il motivo ch'esso è basato su un errore materiale). Anzi, in molti casi è apparsa evidente l'utilità di ammettere o di richiedere prove, per chiarire o completare la descrizione dei fatti contenuta nel provvedimento del giudice a quo, oppure per consentire alla Corte di comprendere meglio il senso delle questioni ivi formulate.

    Secondo: vale il principio secondo cui la competenza di questa Corte, nell'ambito dell'art. 177, si limita alla definizione di questioni di diritto comunitario. La Corte non può applicare tale diritto ad una determinata fattispecie concreta, il che significa ch'essa non può fornire soluzioni concrete, che riguardino, cioè, non già l'accertamento del diritto, bensì la sua applicazione. Negli attuali procedimenti, ad esempio, è stata fornita — soprattutto dalle convenute nelle cause principali — una abbondante documentazione relativa a questioni come la struttura commerciale del gruppo CBS, la sua politica di mercato in Europa e l'opportunità, sul piano economico, di produrre dischi per tale mercato (in ispecie, dischi in quadrifonia), il costo relativo all'obliterazione del marchio originario e la possibilità che tale operazione influisca negativamente sulla presentazione del prodotto al punto da renderlo invendibile, il rapporto qualitativo fra le registrazioni EMI e le registrazioni CBS, e così via. Tutto ciò mi sembra potersi riassumere — indipendentemente, forse, dal fatto che tali argomenti potevano essere destinati a suscitare la comprensione della Corte — nella questione del se l'esercizio, da parte della EMI Records Limited, dei suoi diritti al marchio abbia in sostanza l'effetto di limitare la concorrenza nel mercato comune. Su tale questione la decisione spetta a questa Corte, ed in proposito dovrò esprimere il mio parere. Ma, ammesso che la soluzione sia affermativa, rientra poi chiaramente nella competenza dei giudici nazionali il trarne le conseguenze concrete.

    Terzo: alla Corte non è consentito, nell'ambito di un procedimento ex art. 177, ampliare la portata della questione o delle questioni sottopostele dal giudice nazionale che ha effettuato il rinvio. Essa non può rispondere a quesiti che non le siano stati rivolti. Ciò non significa ch'essa sia rigidamente vincolata ai termini in cui si è espresso il giudice a quo. In alcuni casi, nei quali il giudice nazionale non aveva formulato alcun quesito specifico, la Corte ha invero ritenuto opportuno non considerare la domanda irricevibile, e desumere piuttosto dai fatti prospettatile le questioni di diritto comunitario cui essi davano luogo. In altri casi, in cui le questioni sottoposte dal giudice nazionale non riguardavano unicamente l'interpretazione del diritto comunitario, ma implicavano altresì problemi relativi alla sua applicazione, molto spesso con riferimento al diritto interno, la Corte ha sceverato dal resto le questioni di sua competenza. Infine, in vari casi, nel pronunziarsi sulle questioni sottopostele, questa Corte ha ritenuto più utile o più opportuno non attenersi strettamente alla formula o ai termini delle stesse.

    Di conseguenza, sono del parere che, in circostanze come quelle delle presenti cause, la Corte possa e debba prendere in considerazione le prove fornite dagli interessati soltanto per i due seguenti scopi:

    1)

    in quanto le conclusioni che da esse debbano trarsi siano pacifiche tra le parti, al fine di chiarire e completare la descrizione dei fatti che risulta dal provvedimento di rinvio;

    2)

    in quanto le parti siano in contrasto circa le conclusioni che da esse debbano trarsi, al fine di essere informata in merito ai punti sui quali le parti contendono.

    Sotto entrambi gli aspetti, lo scopo ultimo è quello di mettere la Corte in condizione di formulare la soluzione dei quesiti sottopostile nel modo più utile possibile per il giudice proponente. Cio è particolarmente auspicabile qualora, come nei casi in esame, le questioni da risolvere siano espresse in termini generali.

    Facendo queste considerazioni, non intendo sottovalutare le difficoltà che possono sorgere per gli Stati membri i quali desiderino presentare osservazioni, o perfino per quelli che, basandosi sul contenuto del provvedimento di rinvio, non abbiano presentato osservazioni. Queste difficoltà sono state messe in rilievo, durante la fase orale, dal rappresentante del Governo del Regno Unito. Ritengo, però, che si creerebbero difficoltà ancor più gravi, se la Corte, chiudendo gli occhi dinanzi a qualsiasi elemento non espressa-mente compreso nel provvedimento di rinvio, venisse a creare situazioni in cui fosse indispensabile o comunque non fosse escluso un nuovo rinvio, prima che il giudice nazionale possa decidere nel merito.

    Le vicende dei marchi «Columbia»

    Considerando le prove fornite nella fattispecie alla luce dei principi così deli neati, vorrei ora riassumere le vicende re-lative ai marchi «Columbia», quali emergono dai vari provvedimenti di rinvio e quali vengono completate dalle risultanze della documentazione prodotta dagli interessati.

    Nel 1894, veniva fondata negli Stati Uniti la società Columbia Phonograph Company General, che, nel periodo precedente la prima guerra mondiale, otteneva — negli Stati Uniti, nel Regno Unito e altrove — il brevetto per un certo numero di marchi contenenti il termine «Columbia» e destinati a contraddistinguere, fra l'altro, dischi fonografici. Nel 1913, la società mutava la propria ragione sociale in Columbia Graphophone Company.

    Nel 1917, quest'ultima costituiva in Inghilterra un affiliata da essa interamente controllata, la Columbia Graphophone Company Limited, che chiamero' «CGCL». A questa società inglese la Columbia Graphophone Company cedeva, con tre atti del 27 aprile 1917, e precisa-mente un accordo di vendita e due cessioni di proprietà, tutti i diritti e l'avviamento commerciale inerenti all'attività da essa svolta fino a quel momento attraverso l'affiliata londinese, ivi compresi i marchi brevettati per un certo numero di Paesi in Europa, Africa, Asia ed Australia, fra i quali il Belgio, la Danimarca, la Francia, l'Inghilterra, l'Italia ed i Paesi Bassi. In sostanza, la Columbia Graphophone Company s'impegnava nei confronti della CGCL a non farle concorrenza in alcuna parte del territorio in cui l'attività cedutale era stata precedente-mente svolta. Una delle clausole dell'atto di vendita prevedeva anche che ciascuna delle due società avrebbe periodicamente trasmesso all'altra degli elenchi delle proprie migliori registrazioni e, a richiesta, le matrici delle stesse.

    Nel 1919, la Columbia Graphophone Company cedeva i marchi (contenenti il termine «Columbia») di cui poteva ancora disporre e la sua partecipazione nella CGCL ad un'altra società americana, la Columbia Graphophone Manufacturing Company.

    Nel 1922, quest'ultima vendeva per 500000 $, le azioni CGCL precedente-mente in possesso della Columbia Graphophone Company ad una società inglese estranea al gruppo, la Constructive Finance Company Limited. Mediante un accordo datato 16 novembre 1922, e concluso in occasione della suddetta vendita fra la Columbia Graphophone Manufacturing Company, la Constructive Finance Company Limited e la CGCL, si conveniva che quest'ultima avrebbe avuto «libertà d'azione» in determinate zone, comprendenti la Gran Bretagne e l'Irlanda, l'Europa e l'Africa continentali, nonché taluni paesi asiatici, australasiatici e del Pacifico, mentre la Columbia Graphophone Manufacturing Company avrebbe avuto «libertà d'azione nel resto del mondo», come pure che nessuna delle due società avrebbe dovuto «vendere o svolgere attività di qualsiasi genere, né direttamente, né indirettamente, nella zona di competenza dell'altra», definita come sopra. Il suddetto accordo conteneva una clausola con la quale la Columbia Graphophone Manufacturing Company s'impegnava fra l'altro a cedere immediatamente alla CGCL tutti i suoi marchi per dischi fonografici nella zona di competenza della stessa CGCL, in quanto tale cessione non avesse già avuto luogo. L'accordo prevedeva anche l'eventuale scambio di matrici.

    Dal 1922 al 1925 cessava ogni rapporto, diretto o indiretto, quanto alla titolarità del marchi in cui appariva il termine «Columbia», fra la CGCL e le imprese degli Stati Uniti. Nel 1924, si procedeva ad una trasformazione della Columbia Graphophone Manufacturing Company, in seguito alla quale i diritti ai marchi statunitensi venivano acquistati da un'altra società americana, la Columbia Phonograph Company Inc.

    Nel 1925, la CGCL si assicurava il controllo di questa società, mediante un'operazione cui si è accennato come ad una «inversione delle parti», in quanto aveva fatto sì che la società titolare dei marchi statunitensi «Columbia» divenisse un'affiliata della CGCL.

    Nel 1931, veniva creata una nuova società inglese, la Electric and Musical Industries Limited (oggi denominata EMI Limited), che acquistava le azioni della CGCL e di un'altra società ingles, la Gramophone Company Limited (attualmente EMI Records Limited). Nell'ambito dei relativi accordi, la CGCL si disfaceva della propria partecipazione nella Columbia Phonograph Company Inc., che passava, nel corso dello stesso anno, ad una società americana denominata Grigsby-Grunow.

    Dal 1931 cessava la comune titolarità dei marchi statunitensi «Columbia» e dei marchi in possesso della CGCL.

    Nel 1932, tuttavia, la Columbia Phonograph Company Inc. e la CGCL stipulavano un contratto espressamente destinato ad «eliminare la concorrenza e permettere l'interscambio di matrici, ecc.», accordo il cui scopo consisteva — come risulta dalle considerazioni preliminari ivi contenute — nel rinnovare le intese del 1917 e del 1922 relative alla ripartizione dei mercati, in quanto la Columbia Graphophone Company, la Columbia Graphophone Manufacturing Company e la Constructive Finance Company Limited si erano frattanto estinte. Il suddetto accordo procedeva ad una nuova delimitazione delle rispettive zone di competenza delle parti, assegnando «tutta la zona compresa fra il 30o ed il 170o grado di longitudine ovest nell'emisfero boreale e fra il 30o ed il 100o grado di longitudine ovest nell'emisfero australe, escluse le Azzorre e comprese le Americhe, nonché l'intera Groenlandia, tutte le isole Alentine, le isole Sandwich e le isole Filippine» alla Columbia Phonograph Company Inc. e «il resto del mondo» alla CGCL. Ciascuna delle parti s'impegnava a non vendere nella zona così assegnata all'altra; l'accordo conteneva poi disposizioni in merito allo scambio di matrici. Esso non fa-ceva invece alcuna menzione dei marchi, se non con riferimento alla fissazione dei prezzi per la vendita di dischi prodotti con matrici fornite dall'altro contraente.

    Va osservato che né la Electric and Musical Industries Limited, né la Gramophone Company Limited erano vincolate dall'accordo del 1932.

    Nel 1934 la Grigsby-Grunow (allora in liquidazione) metteva all'asta la sua partecipazione nella Columbia Phonograph Company Inc., che veniva dapprima acquistata dalla Sacro Enterprise Inc., e poi da questa trasferita alla American Record Corporation. Nel 1938, le azioni di quest'ultima società, cui la Columbia Phonograph Company Inc. continuava ad essere affiliata, venivano acquistate dalla Columbia Broadcasting. System Inc., attualmente nota come CBS Inc.

    Nel 1940, l'attivo della Columbia Phonograph Company Inc. passava alla American Record Corporation, che successivamente mutava la propria ragione sociale in Columbia Recording Corporation. Con il consenso della CGCL, quest'ultima subentrava alla Columbia Phonograph Company Inc. nell'accordo del 1932.

    Nel 1946, fra la Columbia Recording Corporation e la CGCL veniva stipulato un nuovo accordo, che poneva fine a tutti gli accordi ed intese preesistenti fra le parti, compreso l'accordo del 1932, e stabiliva nuove intese reciproche per lo scambio di registrazioni. Ciascuna delle parti s'impegnava a fornire all'altra, a richiesta, le proprie matrici ed a non cederle a terzi, a fini di riproduzione, nella zona di competenza della controparte, che veniva definita grosso modo come nell'accordo del 1932. Non veniva tuttavia mantenuto in vigore l'impegno ad astenersi dalla concorrenza nelle rispettive zone di esclusiva. Neppure in quest'accordo si faceva menzione dei marchi, se non con riferimento ai dischi prodotti con le matrici fornite dalla controparte.

    L'accordo del 1946 scadeva nel 1952, anche se taluni dei suoi effetti relativi a matrici scambiate in precedenza si protraevano fino al 1956.

    Nel 1954 si scioglieva la Columbia Recording Corporation (che nel frattempo aveva cambiato la propria denominazione in Columbia Records Inc.) ed il suo attivo passava alla Columbia Broadcasting System Inc. (è nel 1974 che questa ha mutato la propria ragione sociale in CBS Inc.).

    A quanto mi risulta, è pacifico che, fra il 1956 ed il 1962, non esisteva alcun accordo o intesa di sorta fra le varie società del gruppo EMI e le varie società del gruppo CBS.

    Nel periodo 1962-1971, la Columbia Broadcasting System Inc., da una parte, e la Electric and Musical Industries Limited e (più tardi) la EMI Records Limited, dall'altra, concludevano una serie di accordi, che segnavano — afferma la Commissione — la ripresa dei rapporti fra le società interessate (la EMI Records Limited ha invece sostenuto che si è sempre trattato di accordi di secondaria importanza e di breve durata, per lo più aventi ad oggetto lo sfruttamento di uno specifico «repertorio», come quelli cui aderiscono tutte le imprese discografiche, pur indipendenti sul piano della concorrenza). Dato il contrasto esistente in merito all'effettiva natura dei suddetti accordi, molti dei quali sono stati resi noti solo poco prima della fase orale del procedimento, non mi soffermerò a parlarne i modo dettagliato. Dirò soltanto (1o) che, pur essendovi fatta menzione di marchi (in prevalenza, diversi dal marchio «Columbia»), nessuno di tali accordi risulta inteso a cessioni di marchi, e (2o) che alcuni di essi, in quanto riguardanti l'ambito geografico della Comunità nella sua attuale composizione, risultano interessare unicamente il territorio del Regno Unito e dell'Irlanda. È pacifico che l'ultimo di tali accordi è venuto a scadenza nel 1974.

    Durante il suddetto periodo e precisa-mente nel 1965, la CGCL cedeva i propri marchi «Columbia» alla Gramophone Company Limited (l'altra affiliata della Electric and Musical Industries Limited). Alcuni anni dopo, la Electric and Musical Industries Limited cambiava la propria ragione sociale in EMI Limited, e la Gramophone Company Limited mutava anch'essa denominazione, assumendo quella di EMI Records Limited.

    I marchi che costituiscono oggetto delle cause principali

    Ciascuno dei provvedimenti di rinvio indica quali sono, i marchi di cui è attualmente titolare la EMO Records Limited e che costituiscono oggetto della domanda.

    Nella causa inglese, la EMI Records Limited agisce per la tutela di due marchi, entrambi consistenti nella sola denominazione «Columbia». Il primo, registrato dalla CGCL nel 1920, quando, cioè, questa società era ancora affiliata alla Columbia Graphophone Company, risulta esser stato usato per la prima volta il 7 maggio 1900. Il secondo veniva registrato dalla CGCL nel 1928, vale a dire nel periodo in cui essa era controllata dalla Columbia Phonograph Company Inc., allora titolare dei marchi statunitensi «Columbia».

    Nella causa danese, il marchio per il quale la EMI Records Limited chiede la tutela è stato registrato nel 1960. Sia nelle loro osservazioni scritte, sia in udienza, le parti hanno discusso a lungo sulle precedenti vicende dei marchi «Columbia» in Danimarca, sollevando, in proposito, questioni di fatto o questioni di diritto interno estranee alla competenza di questa Corte nell'ambito del procedimento ex art. 177. Tali questioni non sono tali, a mio avviso, da influire sulla soluzione di quelle che la Corte deve prendere in esame. Stando così le cose, mi ritengo esonerato dall'obbligo di approfondirle.

    Nella causa tedesca, la EMI Records Limited agisce per la tutela di un marchio re-gistrato dalla CGCL nel 1931. Non risulta se la registrazione sia avvenuta prima o dopo che questa società aveva ceduto la propria partecipazione nella Columbia Phonograph Company Inc. Nelle loro osservazioni scritte, le parti accennano a precedenti marchi tedeschi «Columbia»: le EMI Records Limited parla di un marchio registrato nel 1907, e ceduto dalla Columbia Graphophone Manufacturing Company alla CGCL nel 1923, per adempiere l'impegno assunto nel 1922 in occasione della vendita delle azioni della CGCL alla Constructive Finance Company Limited; la CBS Schallplatten, dal suo canto, fa menzione di due marchi registrati dalla CGCL nel 1924. Non mi sembra necessario, ripeto, entrare in particolari al riguardo.

    Le questioni sottoposte alla Corte

    Nel provvedimento di rinvio adottato nella causa inglese, prima della questione sottoposta alla Corte, vengono formulate varie premesse di cui questa dovrebbe te-ner conto. Si tratta, in realtà, di un riassunto dei fatti accertati dal giudice inglese, ai quali si fa riferimento usando la lettera A per indicare il gruppo EMI, la lettera B per il gruppo CBS e la lettera X per il marchio Columbia. Fra queste premesse, ve n'è una che ha dato luogo a vivaci discussioni, e precisamente quella secondo cui

    «7)

    A e B nella loro struttura attuale non hanno mai avuto vincoli comuni, né di carattere legale, né di carattere finanziario, tecnico o economico».

    La questione sottoposta alla Corte viene poi formulata nei seguenti termini:

    «Se le disposizioni del trattato CEE ed in ispecie le disposizioni che pongono i principi del diritto comunitario, nonché le norme che disciplinano la libera circolazione delle merci e la liberta della concorrenza, vadano interpretate nel senso che A non è legittimato a far valere il proprio diritto di marchio nell'ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro onde impedire

    i)

    la vendita ad opera di B in ogni Stato membro di prodotti contrassegnati col marchio X, prodotti e distribuiti col marchio X ad opera di B sul territorio extracomunitario, ove B è titolare del marchio X oppure

    ii)

    la produzione ad opera di B in ogni Stato membro di prodotti contrassegnati col marchio X.»

    Le questioni sottoposte alla Corte nella causa danese e nella causa tedesca sono formulate più o meno negli stessi termini. Le uniche differenze degne di rilievo sono le seguenti:

    Nel provvedimento di rinvio del giudice tedesco, la suddetta premessa 7) viene modificata nel senso che

    «c)

    … da oltre 40 anni non esiste più fra i due gruppi alcun vincolo di carattere legale, economico, finanziario o tecnico.»

    Inoltre, né l'ordinanza danese né quella tedesca fanno cenno alle disposizioni del trattato «che sanciscano i principi del diritto comunitario». Nella causa danese, formulando la questione, il giudice richiama le disposizioni del trattato «ed in ispecie le norme che disciplinano la libera circolazione delle merci e quelle relative alla concorrenza». Nella causa tedesca, vengono richiamate unicamente «le disposizioni fondamentali del diritto comunitario in tema di libera circolazione delle merci e di libero esercizio della concorrenza».

    Infine, nelle cause danese e tedesca, la questione sottoposta alla Corte non comprende il paragrafo ii). Ciò è probabilmente dovuto al fatto che il gruppo CBS produce dischi in Inghilterra (e nei Paesi Bassi), ma non in Danimarca o in Germania, almeno per quantitativi di qualche rilevanza.

    Si pone quindi il problema del valore che la Corte deve attribuire alla premessa stabilita al punto 7) dell'ordinanza inglese od a quella, modificata, che si trova nel provvedimento di rinvio del giudice tedesco.

    È chiara l'origine della formula usata in proposito: questa allude alla situazione di fatto accertata dal «tribunal d'arrondissement» di Lussemburgo nella domanda di pronunzia pregiudiziale 172-73 (causa Van Zuylen Frères c. Hag AG, Racc. 1974, pag. 731) e in base alla quale questa Corte affermava che l'art. 85 del trattato non doveva applicarsi nella fattispecie (ved. punti 4 e 5 della motivazione della sentenza). Non si deve però ritenere che la possibilità o l'impossibilità di applicare l'art. 85 dipenda, in ogni caso, dal fatto che alla situazione concreta corrisponda in qualche modo la formula della inesistenza di «rapporti di carattere legale, economico, finanziario o tecnico», usata dal «tribunal d'arrondissement» di Lussemburgo per caratterizzare la fattispecie ad esso sottoposta nella causa Hag. Gli elementi da cui dipende la soluzione del probleme possono, in realtà, ricavarsi unicamente dalla lettera dello stesso art. 85.

    Vorrei poi osservare che la premessa di cui trattasi (comunque espressa) va intesa alla luce di quanto risulta dalle ordinanze di rinvio nel loro complesso. Ciascuno di questi provvedimenti contiene, per esteso o per accenni, un resoconto abbastanza esauriente, benché incompleto, delle vicende relative al marchio «Columbia». La suddetta premessa non può essere in contraddizione con tale resoconto, allorché da questo risultano vincoli esistenti in passato fra la CGCL ed i titolari pro tempore dei marchi statunitensi. Ho già detto per quale ragione, a mio avviso, la Corte non può rifiutare di prendere in considerazione le prove fomite dalle parti, in quanto servano a completare il quadro della situazione di fatto. Mi sembra, aggiungo ora, ch'essa non possa ignorare tali prove, in quanto influiscono sul valore da attribuire alla premessa in questione.

    La vera difficoltà consiste nel fatto che, a prima vista, detta premessa sembra avere lo scopo di restringere la portata della questione sottoposta alla Corte. Dopo un più attento esame, penso tuttavia ch'essa vada semplicemente considerata come elemento di un compendio dei fatti esposti nell'ordinanza, il quale è destinato ad introdurre la questione, ma non ne costituisce parte integrante.

    Ciò posto, passo all'esame delle norme del caso. Si tratta, a mio avviso, di due — e due sole — categorie di norme, e cioè delle disposizioni del trattato sulla libera circolazione delle merci e di quelle relative alla concorrenza. Le disposizioni riguardanti i «principi» del diritto comunitario sono certamente rilevanti, ma solo — mi pare — in quanto le ulteriori e più specifiche norme del trattato vanno interpretate alla luce di tali disposizioni.

    Le norme del trattato relative alla libera circolazione delle merci

    Confesso di aver trovato strano l'argomento delle convenute secondo cui le disposizioni del trattato in tema di libera circolazione delle merci dovrebbero essere interpretate nel senso che la EMI Records Limited non può far valere i propri diritti al marchio «Columbia» nella Comunità, al fine di impedire le importazioni, da paesi terzi, di prodotti recanti detto marchio. Gli artt. 30 e 36 del trattato, sui quali le convenute essenzialmente si basano per sostenere questa tesi, riguardano, infatti, soltanto restrizioni degli scambi «fra gli Stati membri». Ciò corrisponde alla circostanza che gli articoli summenzionati sono collocati fra le norme intese a dare attuazione all'art. 3, lett a) del trattato, il quale contempla «l'abolizione fra gli Stati membri dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative all' entrata e all'uscita delle merci, come pure di tutte le altre misure di effetto equivalente», il che costituisce uno degli obiettivi da raggiungere ai fini dell'instaurazione del mercato comune, cui si riferisce il precedente art. 2. La tesi delle convenute ha infatti incontrato l'unanime indignazione dei sette Stati membri che hanno partecipato al procedimento, e — a prescindere dalla EMI Records Limited — della Commissione. Essi hanno sottolineato che l'accogliere, detta tesi equivarrebbe, per la Comunità, ad attribuire unilateralmente un vantaggio ad imprese di paesi terzi, a scapito di imprese della Comunità, senza alcuna prospettiva di reciprocità.

    A sostegno della propria tesi, le convenute richiamano in primo luogo gli artt. 9, n. 2, e 10, n. 1, del trattato, che — con riguardo, tra l'altro, agli artt. 30-36 — assimilano ai prodotti originari degli Stati membri i «prodotti provenienti da paesi terzi che si trovano in libera pratica negli Stati membri» e stabiliscono che

    «Sono considerati in libera pratica in uno Stato membro i prodotti provenienti da paesi terzi per i quali siano state adempiute in tale Stato le formalità d'importazione e riscossi i dazi doganali e le tasse d'effetto equivalente esigibili e che non abbiano beneficiato di un ristorno totale o parziale di tali dazi e tasse».

    Le convenute intendono sostenere — mi pare — che i dischi prodotti in America e recanti il marchio «Columbia», una volta sdoganati in uno Stato membro e purchè non abbiano fruito di alcun rimborso, vanno considerati alla stessa stregua dei dischi originari di uno Stato membro. Da parte mia, non vedo però come questo argomento possa migliorare la posizione delle convenute. Anche nell'ipotesi che i loro dischi venissero prodotti in uno Stato membro, esse non sarebbero per questo legittimate a metterli in vendita violando i diritti di brevetto della EMI Records Limited, né in quello, né in qualsiasi altro Stato membro.

    Le convenute, poi, insistono molto sulla sentenza emessa da questa Corte nella causa Hag. Esse ammettono che allora si trattava di commercio fra Stati membri, ma fanno valere che detta sentenza do-vrebbe trovare applicazione, per analogia, nei presenti procedimenti, trattandosi anche qui di marchi aventi la stessa origine. Mi sembra che questo argomento vada disatteso, in quanto ritengo che la soluzione — come risulta chiaramente dalla sentenza Hag — fosse interamente basata, in quella causa, sul fatto che tratta-vasi di scambi fra Stati membri. Il principio al quale era informata tale soluzione è quello secondo cui i diritti di proprietà industriale e commerciale, ed in ispecie i diritti al marchio, non possono essere esercitati al fine di provocare un frazionamento del mercato comune. Tali diritti, attribuiti da norme interne, hanno necessariamente portata limitata al territorio nazionale e questa circostanza, senza le rigide disposizioni dell'art. 36, li renderebbe strumenti idonei al suddetto scopo. L'esempio di uno dei modi in cui ciò sarebbe possibile è fornito dalla causa 16-74 (Centrafarm c. Wintrop, Racc. 1974, pag. 1183). Il titolare di un marchio potrebbe creare un'affiliata in ciascuno Stato membro di cui intenda isolare il mercato, trasferendo alla stessa i diritti al marchio per quello Stato. La fattispecie presa in esame nella causa Hag differiva da questa semplice ipotesi soprattutto per due ragioni. In primo luogo, i negozi che avevano portato alla separazione della titolarità dei marchi per il Belgio ed il Lussemburgo, da un lato, e per la Germania, dall'altro, erano stati conclusi prima dell'entrata in vigore del trattato. Questa circostanza era evidentemente irrilevante, in quanto gli artt. 30-36 si applicano tanto alle restrizioni derivanti da decisioni o accordi precedenti all'entrata in vigore del trattato, quanto a decisioni o accordi successivi (l'unica differenza consiste nel fatto che, per le prime, era contemplata in alcuni casi la graduale abolizione durante il periodo transitorio). In secondo luogo, la Van Zuylen Frères non era un'affiliata della Hag AG, bensì un'impresa commerciale indipendente, che aveva acquistato i diritti al marchio spettanti in precedenza alla Hag AG nel Belgio e nel Lussemburgo mediante una serie di atti, fra i quali il sequestro delle azioni dell'affiliata belga della Hag AG in quanto beni appartenenti al nemico. La Corte affermava infatti che la Van Zuylen Frères non poteva comunque esercitare tali diritti nel senso d'impedire le importazioni, nel Belgio e nel Lussemburgo, di prodotti legalmente contrassegnati dal marchio tedesco. Come risulta chiaramente dalla sentenza, tale soluzione è stata adottata in quanto, altrimenti, si sarebbe avallato un comportamento «incompatibile con le norme relative alla libera circolazione delle merci nell'ambito del mercato comune». Essa non può quindi essere estesa ad una situazione in cui non viene compromessa l'unità di tale mercato.

    Le convenute richiamano inoltre la sentenza 8-74 (Procureur du Roi c. Dassonville, Racc. 1974, pag. 837), ma il richiamo, a mio avviso, non è. pertinente nella fattispecie. Si trattava, allora, di importazioni nel Belgio di whisky scozzese messo in libera pratica in Francia, non già di importazioni dirette di tale prodotto dal Regno Unito (che non era ancora, all'epoca in cui si verificavano i fatti allora considerati, uno Stato membro della Comunità). La sentenza Dassonville si riferisce quindi a restrizioni degli scambi fra Stati membri, non a limitazioni delle importazioni extracomunitarie.

    L'ultimo argomento dedotto dalle convenute in merito a questo punto consiste nell'affermare che, dall'esame di taluni testi che disciplinano gli scambi fra la Comunità ed i paesi terzi, risulta che, nell'ambito della politica commerciale comune, la Comunità ha adottato il principio di applicare anche alle importazioni da paesi terzi il regime stabilito dagli artt. 30 e 36 del trattato. I suddetti testi sarebbero:

    1)

    il GATT;

    2)

    il regolamento (CEE) del Consiglio 4 giugno 1974, n. 1439, relativo al re-gime comune da applicarsi alle importazioni (testo particolarmente significativo — è stato sottolineato — in quanto fra le merci cui esso si applica sono compresi i dischi fonografici provenienti dagli Stati Uniti);

    3)

    la Convenzione di Lomé, che entra in vigore in data di domani;

    4)

    gli accordi tra la Comunità e, rispettivamente, la Svezia e la Svizzera, entrambi conclusi il 22 luglio 1972, nonché l'accordo 31 marzo 1969 fra la Comunità ed il Marocco.

    Le convenute hanno sostenuto che ciascuno di tali atti contiene disposizioni letteralmente o sostanzialmente identiche a quelle degli artt. 30 e 36, di guisa che le due serie di norme vanno interpretate nello stesso modo.

    A ciò posso limitarmi a rispondere che, secondo me, un siffatto metodo per l'interpretazione di atti giuridici costituisce un eresia. Il significato delle parole dipende dal contesto in cui esse s'inseriscono, e gli stessi termini, usati in atti diversi, emanati per diversi scopi, possono avere contenuto diverso. I testi richiamati dalle convenute non sono stati posti in essere al fine di creare un mercato comune, e sarebbe scorretto interpretarli come se avessero tale scopo.

    Vorrei, peraltro, aggiungere quanto segue:

    L'art XX del GATT, che le convenute pongono sullo stesso piano dell'art. 36 del trattato CEE, implica in realtà una clausola di reciprocità. Ora, a nessuno è venuto in mente che il gruppo EMI, in forza di tale disposizione, abbia il diritto di esportare dischi recanti il marchio «Columbia» negli Stati Uniti. Al contrario, ci è stato ricordato che, di recente, la CBS Inc. ha vinto la causa da essa intentata il 16 maggio 1975, a New York, contro un importatore di dischi EMI contrassegnati col marchio «Columbia» (procedimento CBS Inc. c. Nina Record Co. Inc., dinanzi alla United States Court for the Southern District of New York).

    Il regolamento n. 1439/74, mentre fa menzione di restrizioni quantitative, non contiene invece alcun accenno a misure d'effetto equivalente. Uno degli argomenti svolti dalle convenute per superare questo ostacolo mi è parso implicare la necessità di estendere eccessivamente la reale portata del regolamento.

    Nessuno degli altri testi sopra citati si applica ad importazioni dagli Stati Uniti e, se pure è possibile che la convenzione di Lomé sia valida per taluni paesi in cui la titolarità del marchio «Columbia» spetta alla CBS Inc., ritengo che il discutere in questa sede le speciali disposizioni di tale convenzione vada ben oltre i limiti posti dai provvedimenti di rinvio.

    Di conseguenza, sono del parere che le norme del trattato relative alla libera circolazione delle merci non vietino alla EMI Records Limited di far valere i propri diritti al marchio in relazione a prodotti importati dagli Stati Uniti.

    Le norme del trattato relative alla concorrenza

    Quanto alle disposizioni del trattato che riguardano la concorrenza, la discussione si è concentrata soprattutto sull'art. 85, ma le convenute hanno chiesto che la Corte voglia pronunciarsi anche sull'eventuale applicazione dell'art. 86. Prenderò dapprima in esame quest'ultima norma.

    Sull'art. 86

    Le convenute ammettono, richiamando la sentenza 40-70 (Sirena c. Eda, Racc. 1971, pag. 84), che il gruppo EMI non potrebbe essere considerato detentore di una posizione dominante, ai sensi dell'art. 86, per il solo fatto ch'esso è titolare dei marchi «Columbia» nella Comunità. I loro argomenti consistono tuttavia nell'affermare che, in caso di sentenza ad esse favorevole da parte di questa Corte, sarebbe loro intenzione di provare ai giudici nazionali che il gruppo EMI fruisce in effetti di una posizione dominante, in ragione della sua quota del rispettivo mercato. Esse intenderebbero poi cercare di provare che la EMI Records Limited ha messo in atto una politica commerciale secondo cui, mentre si vietava al gruppo CBS di distribuire i propri dischi senza che fosse stato cancellato il marchio «Columbia», la distribuzione degli stessi dischi veniva invece permessa alle affiliate dell'attrice. Le convenute hanno chiesto alla Corte di statuire che l'ulteriore attuazione di una politica del genere costituirebbe, da parte della EMI Records Limited, un abuso della sua (pretesa) posizione dominante.

    Questo argomento non sembra esser stato trattato in sede nazionale. Ad esso non fa accenno alcuno dei provvedimenti di rinvio, se non forse l'ordinanza del giudice danese, in cui si afferma che una sola volta l'affiliata danese della EMI Records Limited ha venduto un disco CBS senza cancellare il marchio americano«Columbia». Le convenute assumono che casi simili si sono verificati in Inghilterra e in Germania ed anzi, nella causa inglese, esse forniscono talune prove in proposito. Queste, però, mi sembra riguardino un diverso aspetto della questione, e precisamente la difficoltà di procedere ad una completa obliterazione del marchio.

    A mio avviso, perciò, il punto su cui le convenute invitano la Corte a pronunziarsi esula dall'ambito delle domande proposte dai giudici nazionali. Si tratta di una questione puramente teorica e, per di più, le convenute non hanno dimostrato di prenderla seriamente in considerazione: in particolare, esse non hanno spiegato perché la politica di cui fanno carico alla EMI Records Limited costituirebbe un abuso della pretesa posizione dominante di questa società, nè in qual modo essa potrebbe influire sugli scambi fra Stati membri, sì da rendere necessaria l'applicazione dell'art. 86.

    Mi sembra quindi superfluo prendere in considerazione tale problema.

    Sull'art. 85

    Per quanto riguarda la più complessa questione dell'applicabilità dell'art. 85, le convenute trovano un'alleata nella Commissione.

    Con questa, esse ammettono che i primitivi accordi del 1917 fra la Columbia Graphophone Company e la CGCL non potrebbero ricadere sotto l'art. 85, in quanto conclusi fra la società madre e l'affiliata in circostanze tali da rendere operante il principio affermato nella sentenza 22-71 (Béguelin Import Co. c. SAGL Import Export, Racc. 1971, pag. 949; cfr. punto 8 della motivazione) e nella sentenza Centrafarm (loc. cit.; cfr. punto 32 della motivazione). Le convenute e la Commissione riconoscono poi che la situazione non mutava allorché, nel 1919, alla Columbia Graphophone Company succedeva, come capogruppo, la Columbia Graphophone Manufacturing Company. Esse sostengono però che detta situazione veniva a cessare dal 1922, con la vendita delle azioni della CGCL alla Constructive Finance Company Limited e con il rinnovo degli accordi per la ripartizione del mercato fra la Columbia Graphophone Manufacturing Company e la CGCL. Entro questi limiti, ed ammesso (e non concesso) che l'art. 85 si possa applicare a fatti avvenuti prima dell'entrata in vigore del trattato, posso condividere il loro punto di vista.

    Sono altresì d'accordo con le convenute e con la Commissione quando sostengono che l'art. 85 può applicarsi ad accordi (ed eventualmente a «decisioni di associazioni d'imprese» e «pratiche concordate») riguardanti importazioni nell'area comunitaria. Ciò è stato affermato dalla Corte nella sentenza Frubo (causa 71-74, Racc. 1975, pag. 563). Vorrei tuttavia sottolineare che, per rendere operante l'art. 85, non è sufficiente il fatto che un accordo riguardi le importazioni nella Comunità. Come risulta chiaramente dal testo dell'art. 85, l'accordo stesso deve inoltre

    1)

    avere «per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune» e

    2)

    poter «pregiudicare il commercio tra Stati membri».

    In circostanze come quelle dei presenti procedimenti, ritengo che l'esistenza di questi due presupposti debba essere accertata dal giudice nazionale. Essa non può essere senz'altro ammessa, in base al semplice fatto che, in forza dell'accordo, i diritti ad un determinato marchio nell'ambito della Comunità spettano ad un'impresa, mentre i diritti allo stesso marchio in certi paesi terzi spettano ad un'altra impresa. Ho già accennato ai fatti addotti dalle convenute per provare che l'esercizio, da parte della EMI Records Limited, dei suoi diritti al marchio «Columbia» nella Comunità limita la concorrenza nell'ambito di questa. Sulla questione del se tale comportamento possa pregiudicare il commercio fra Stati membri, le convenute non hanno dato eccessiva ampiezza alla propria argomentazione. Esse fanno valere unicamente — a quanto pare — che, se (come esse assumono) tale comportamento ha in pratica l'effetto di impedire le importazioni comunitarie di ta-luni tipi di dischi, esso è perciò necessariamente atto ad escludere qualsiasi possibilità che tali dischi costituiscano oggetto di scambi fra Stati membri. Non penso che questo sia un argomento decisivo, in quanto le interessate presuppongono, senza provarlo, che i dischi di cui trattasi, qualora venissero importati nella Comunità, possano diventare, in misura non irrilevante, oggetto di scambi fra Stati mem bri. Nella causa Frubo (si trattava naturalmente di un ricorso diretto), è soltanto in base a specifici esempi del modo in cui potevano verificarsi tali conseguenze che questa Corte ha ritenuto che l'accordo allora in esame poteva influire negativa-mente sul commercio fra Stati membri (ved. Racc. 1975, pagg. 584 e 595-596). Nella sentenza 73-74 (Groupement des Fabricants de Papiers Peints de Belgique c. Commissione, Racc. 1975, pag. 1491), anch'essa pronunziata in seguito a ricorso diretto, la Corte ha ritenuto invece che la Commissione non aveva adeguatamente motivato, con riferimento a dati di fatto, la sua decisione nel senso che l'accordo allora in causa poteva pregiudicare il commercio fra Stati membri (cfr. punti 30-35 della motivazione).

    La questione principale, nel nostro caso, è comunque quella dei limiti entro i quali, eventualmente, l'art. 85 si può applicare nell'ipotesi in cui non sussista alcun accordo o pratica concordata (non voglio parlare delle «decisioni di associazioni d'imprese», perché queste sono del tutto estranee alla fattispecie).

    Le convenute e la Commissione sostengono che l'art. 85 si applica, qualora un accordo del genere di quelli vietati da quest'articolo continui, benché scaduto, a «produrre effetti» nell'ambito della Comunità. Esse assumono che i limiti territoriali posti, quanto ai diritti ai marchi «Columbia», fra i gruppi EMI e CBS risultano da vecchi accordi per la ripartizione del mercato, aventi carattere illecito ai sensi dell'art. 85; questo stesso articolo escluderebbe, perciò, la possibilità di far valere tali diritti.

    Ad un certo punto delle sue osservazioni, la Commissione ha accennato al fatto che la Corte non dovrebbe distinguere, ai fini dell'applicazione dell'art. 85, tra l'effetto di un contratto di licenza e quello di un accordo per la cessione di un marchio. In definitiva, però, essa ha osservato che la distinzione ha scarsa importanza per quanto riguarda i trasferimenti di marchi nell'ambito della Comunità. Questa osservazione mi sembra esatta. Alla luce dei principi sanciti nelle sentenze Hag e Centrafarm, va ritenuto irrilevante il modo in cui i diritti al marchio vengono esercitati, qualora tale esercizio porti ad un frazionamento del mercato comune. In merito ad eventuali accordi che riguardino gli scambi con paesi terzi, la Commissione ha osservato che la distinzione fra quelli per la concessione di licenze di marchio e quelli aventi ad oggetto la cessione di questo costituisce un grave problema, la cui soluzione — che avrebbe ampie ripercussioni — non è, a suo avviso, necessaria per il momento. Sta di fatto che, finora, la Corte non ha mai avuto occasione di pronunziarsi in merito ad un accordo per la concessione di licenze di marchio, riguardante gli scambi fra la Comunità ed i paesi terzi e, da parte mia, non ritengo opportuno formulare congetture circa l'esito di una controversia che possa eventualmente sorgere in proposito.

    Vorrei tornare, adesso, a considerare il principale argomento svolto dalle convenute e dalla Commissione.

    Esso si basa, a quanto pare, sul «principio degli effetti», sancito dalla Corte nella sentenza Béguelin ed ampiamente illustrato dall'avvocato generale Mayras nelle conclusioni ch'egli ha presentato nelle cause riunite Coloranti (48, 49 e da 51 a 57-69, Racc. 1972, pagg. 692-702). Il richiamo a tale principio, che riguarda la competenza della Commissione e di questa Corte nei confronti di imprese estranee alla Comunità, non mi sembra pertinente nella fattispecie. Il principio stesso implica semplicemente che dette imprese non possono sottrarsi alla competenza degli organi comunitari, qualora esse siano parti contraenti di accordi che producono effetti nell'ambito della Comunità. Il vero problema non è questo nei presenti procedimenti.

    Più esatto mi sembra il richiamo che le convenute e la Commissione fanno alla sentenza emessa dalla Corte nella causa Sirena.

    La comprensione o interpretazione di questa sentenza presenta, a mio avviso, qualche difficoltà, e ciò è stato sottolineato anche dall'avvocato generale Mayras, nelle sue conclusioni nella causa Hag (Racc. 1974, pag. 750). Egli ha osservato che probabilmente, nella causa Sirena, la Corte era stata indotta a prendere la posizione che risulta dalla sentenza, in quanto si era basata, senza dirlo espressamente, su taluni dati di fatto messi in rilievo dall'avvocato generale Dutheillet de Lamothe e dai quali si desumeva che sussistevano degli accordi, o quanto meno delle pratiche concordate, fra le imprese interessate (una americana, una belga, una olandese, una francese, una tedesca ed una italiana). Sembra, del resto, che questa sia stata l'interpretazione dei fatti accolta dai giudici italiani competenti, e cioè dal tribunale di Milano, che aveva effettuato il rinvio pregiudiziale, e dalla corte d'appello di Milano, dinanzi alla quale veniva successivamente portata la controversia (cfr. CMLR 1975, 1, pag. 409 e, in particolare, pagg. 430-431; Dir. scambi internaz. 1974, pag. 105). Vi sono, d'altra parte, nella sentenza Sirena, taluni passi che potrebbero essere interpretati in senso favorevole alla tesi attualmente sostenuta dalle convenute nelle cause principali e dalla Commissione. Al punto 9 della motivazione si legge, infatti, che

    «Il diritto al marchio, come istituto giuridico, non possiede in sé le caratteristiche di contratto o di atto concordato, contemplate dall'art. 85, n. 1. Tuttavia, il suo esercizio potrebbe ricadere sotto i divieti del trattato tutte le volte che risultasse essere l'oggetto, il mezzo o la conseguenza di un intesa.»

    Il successivo punto 12 è del seguente te-nore:

    «Se le intese hanno avuto inizio anteriormente all'entrata in vigore del trattato, è necessario e. sufficiente ch'esse continuino a produrre effetti posteriormente a tale data».

    Tuttavia, in questa sentenza, mi sembra debba darsi il massimo rilievo al fatto che il principio cui essa è informata è quello dell'unita del mercato comune, con il corollario per cui l'esercizio dei diritti al marchio non può dissimulare un comportamento inteso a frazionare tale mercato. La sentenza (in particolare ai punti 10 e 11 della motivazione) non potrebbe essere più chiara al riguardo. Ritengo quindi che, se dovesse pronunziarsi oggi nella causa Sirena, la Corte lo farebbe in base agli artt. 30 e 36 del trattato; la sentenza richiamata non fornisce, a mio avviso, spunti sufficienti per sostenere la necessità di applicare l'art. 85 in circostanze come quelle ora in esame.

    La questione si risolve quindi in un problema di semplice interpretazione dell'art. 85.

    Sarebbe eccessivo, penso, affermare che l'art. 85 può applicarsi soltanto qualora sussista un accordo o una pratica concordata. Facciamo l'ipotesi che, dopo l'entrata in vigore del trattato, due imprese (con sede all'interno o all'esterno della Comunità) abbiano concluso un accordo avente incontestabilmente l'effetto di limitare la concorrenza nell'ambito del mercato comune, ed incontestabilmente atta a pregiudicare il commercio fra Stati membri. Supponiamo, poi, che uno dei mezzi scelti da dette imprese per dare esecuzione all'accordo sia una cessione di marchio o una reciproca cessione di marchi. A mio avviso, non si potrebbe affermare che, una volta posto fine all'accordo, ad esempio in seguito ad un procedimento instaurato dalla Commissione ai sensi del regolamento n. 17, ciascuna impresa sia rimasta libera di esercitare i diritti al marchio in tal modo acquistati, anche qualora tale esercizio abbia di per sé l'effetto di limitare la concorrenza nel mercato comune e sia atto a pregiudicare il commercio fra Stati membri.

    La soluzione del problema va trovata, ritengo, con l'accertare quale sia la portata del divieto di cui all'art. 85. Non sarà inutile richiamare il testo, pur ben noto, dell'art. 85, n. 1, il quale stabilisce, per quanto ora ci interessa, che:

    «Sono incompatibili con il mercato comune e vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni d'imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all'interno del mercato comune …».

    Tale divieto non può applicarsi, a mio parere, ad un accordo stipulato e scaduto prima dell'entrata in vigore del trattato, poiché quest'ultimo non ha effetto retroattivo. Non ritengo neppure, perciò, ch'esso si applichi a semplici conseguenze di un siffatto accordo, come l'esercizio, dopo l'entrata in vigore del trattato stesso, dei diritti al marchio spettanti ad un soggetto e di cui questo, date le circostanze di fatto, non avrebbe — o potrebbe non avere — la titolarità se non fosse esistito quell'accordo. (Il caso sarebbe diverso, naturalmente, qualora sussistano, anche dopo la scadenza dell'accordo, delle pratiche concordate fra le parti).

    Non ho alcun dubbio, d'altronde, sul fatto che il divieto si applica agli accordi tel tipo indicato nell'art 85, conclusi prima dell'entrata in vigore del trattato, ma ancora in essere. Tuttavia, per analogia, non mi pare che il divieto possa estendersi agli effetti di un accordo del genere, se non a quelli eventualmente derivanti dal suo mantenimento in vigore. Data la liceità dell'accordo prima dell'entrata in vigore del trattato, non può essere ritenuto illecito l'esercizio di diritti al marchio allora acquisiti in forza dell'accordo stesso.

    Naturalmente, per gli accordi che influiscano sulla concorrenza soltanto nei nuovi Stati membri (o in uno o più di tali Stati) ovvero atti a pregiudicare soltanto gli scambi tra detti Stati e gli altri Stati membri, la data da prendere in considerazione non è quella dell'entrata in vigore del trattato, bensì quella dell'adesione.

    Come ho già avuto occasione di accennare, nella fattispecie è pacifico che, fra il 1956 ed il 1962, cioè nel periodo che comprende la data d'entrata in vigore del trattato, non sussistevano accordi o intese di alcun genere fra le imprese del gruppo EMI e quelle del gruppo CBS. Stando così le cose, ritengo che l'art. 85 non possa trovare applicazione, se non forse per alcune clausole contenute in taluno degli accordi stipulati fra i due gruppi nel periodo dal 1962 al 1971. Questi, è chiaro, sono problemi di competenza dei giudici nazionali.

    Considerazione finali

    Per quanto riguarda la formulazione della risposta da dare ai quesiti posti dai giudici che hanno effettuato il rinvio, ritengo che, in considerazione del modo in cui si è svolto il procedimento, e in particolare del fatto che sono state ammesse alcune prove di cui non si disponeva in sede nazionale, si andrebbe incontro ad un rischio di ambiguità se si facesse uso dei simboli A, B e X adoperati nelle domande sottoposte alla Corte.

    Propongo di risolvere nel seguente modo le questioni sollevate nella causa inglese:

    1)

    Le disposizioni del trattato CEE che disciplinano la libera circolazione delle merci non vanno interpretate nel senso ch'esse vietino, ad un'impresa titolare di un marchio in uno Stato membro, di far valere i relativi diritti nell'ordinamento giuridico di tale Stato onde impedire

    i)

    la vendita di merci di provenienza extracomunitaria recanti tale marchio, neppure qualora si tratti di merci prodotte e contrassegnate col marchio stesso in un paese in cui il loro produttore è il titolare di questo, e neppure qualora i marchi nello Stato membro in questione e nel suddetto paese abbiano la medesima origine, ovvero

    ii)

    la produzione, nello Stato membro in questione, di merci recanti detto marchio da parte di chi abbia il diritto di usarlo in uno o più paesi terzi, neppure qualora i marchi abbiano la medesima origine.

    2)

    Le disposizioni del trattato in tema di concorrenza non vanno interpretate nel senso ch'esse vietino ad un'impresa titolare di un marchio in uno Stato membro di far valere i relativi diritti nell'ordinamento giuridico di tale Stato onde impedire

    i)

    la vendita di merci di provenienza extracomunitaria recanti tale marchio, prodotte e contrassegnate col marchio stesso in un paese in cui il loro produttore è il titolare di questo marchio,

    ii)

    la produzione, nello Stato membro in questione, di merci recanti detto marchio da parte di chi abbia il diritto di usarlo in uno o più paesi terzi,

    a meno che

    a)

    l'esercizio di tali diritti dipenda o possa dipendere da un accordo concluso dopo il 31 dicembre 1957 ovvero dal mantenimento in vigore, dopo tale data, di un accordo concluso in precedenza, accordo che abbia comunque lo scopo o l'effetto di escludere, limitare o alterare la concorrenza nell'ambito del mercato comune, e possa influire negativamente sul commercio fra Stati membri, o che

    b)

    l'esercizio di tali diritti costituisca un abuso della posizione dominante detenuta dall'impresa in questione nel mercato comune, e tale abuso possa influire negativamente sul commercio fra Stati membri.

    3)

    I precedenti riferimenti ad accordi conclusi o mantenuti in vigore dopo una certa data vanno interpretati nel senso ch'essi riguardano anche le decisioni di associazioni d'imprese o le pratiche concordate adottate e, rispettivamente, iniziate, o mantenute in vigore dopo tale data; nel caso di accordi, decisioni o pratiche concordate che influiscano unicamente sulla concorrenza in uno o più dei nuovi Stati membri o sul commercio fra uno o più di tali Stati e gli altri Stati membri, i riferimenti alla data del 31 dicembre 1957 vanno intesi come riferimenti alla data del 31 dicembre 1972.

    Nella causa danese e in quella tedesca, le questioni dovrebbero a mio avviso essere risolte nello stesso modo, tralasciando in entrambi i casi il punto ii).


    ( 1 ) Traduzione dall'inglese.

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