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Έγγραφο 61975CC0010

    Conclusioni dell'avvocato generale Mayras del 8 luglio 1975.
    Procureur près la cour d'appel d'Aix-en-Provence e Fédération nationale des producteurs de vins de table et vins de pays contro Paul Louis Lahaille ed altri.
    Domanda di pronuncia pregiudiziale: Cour d'appel d'Aix-en-Provence - Francia.
    Presunzione di arricchimento del vino.
    Cause riunite 10 a 14-75.

    Raccolta della Giurisprudenza 1975 -01053

    Αναγνωριστικό ECLI: ECLI:EU:C:1975:99

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE HENRI MAYRAS

    DELL'8 LUGLIO 1975 ( 1 )

    Signor presidente,

    signori giudici,

    Introduzione

    La Cour d'appel di Aix- en-Provence, al pari di quella di Bordeaux, vi ha sottoposto talune questioni pregiudiziali vertenti sull'interpretazione della normativa comunitaria che disciplina il mercato vitivinicolo.

    Tuttavia, le cause pendenti dinanzi alla Corte di Aix sono state originate da imputazioni formulate contro taluni commercianti marsigliesi che, fra il novembre 1970 e il novembre 1971, hanno importato in Francia del vino da pasto di origine italiana. Le questioni suddette vanno quindi analizzate sotto il profilo degli scambi intracomunitari.

    Dalle analisi effettuate dal servizio antisofisticazioni risultava che taluni quantitativi di quel vino dovevano ritenersi «arricchiti» in forza della praesumptio juris stabilita dal decreto francese 19 aprile 1898, ricalcato dall'art. 8 del «Code du vin».

    Come sapete, tali norme presumono «arricchiti» i vini rossi che presentano un rapporto fra grado alcolico ed estratto secco superiore al quoziente 4,6. Tale valore non è però tassativo, giacché può variare in caso di prodotti ottenuti con particolari metodi di vinificazione.

    I cinque imputati venivano assolti dal Tribunal correctionnel di Marsiglia; tuttavia, sia la «Fédération nationale des producteurs de vins de table et vins de pays», parte civile, sia il Pubblico Ministero, interponevano appello dinanzi alla Cour d'appel di Aix- en-Provence. Questa Corte, ritenendo che la soluzione di tali controversie fosse subordinata all'interpretazione del regolamento del Consiglio n. 816/70, relativo a disposizioni complementari in materia di organizzazione comune del mercato vitivinicolo, vi ha sottoposto i seguenti quesiti:

    1)

    se i «vini da tavola» di cui al regolamento suddetto possano fregiarsi di tale denominazione e possano essere ammessi alla libera circolazione nell'area comunitaria allorché rispondano ai requisiti stabiliti dall'allegato II, punto 10, dello stesso regolamento, oppure se debbano rispondere anche ai requisiti di produzione prescritti dalla legge interna;

    2)

    se, alla luce delle disposizioni del regolamento n. 816/70, valga anche per gli scambi intracomunitari la presunzione di. arricchimento dei vini da tavola con l'aggiunta di alcol che, in forza della legislazione interna, è anmessa quando il vino presenta un rapporto fra grado alcolico ed estratto secco superiore al valore massimo consentito.

    I — Sulla prima questione

    Il primo dei suddetti quesiti non presenta, a mio avviso, particolari difficoltà. In effetti, lo stesso regolamento n. 816/70 dispone, nell'art. 27, n. 1, che «la denominazione “vino da pasto”, è riservata al vino di cui al punto 10 dell'allegato II».

    Le disposizioni richiamate precisano che il vino deve:

    provenire esclusivamente dai vitigni di cui all'art 16 del regolamento stesso, vale e dire da vitigni la cui coltivazione è ammessa nella Comunità;

    essere d'origine comunitaria;

    avere una gradazione alcolica effettiva non inferiore a 8o,5 e una gradazione alcolica totale non superiore a 15o; tale limite può tuttavia essere portato a 17o per i vini prodotti in talune zone vinicole da determinare;

    presentare, infine, un tenore di acidità totale espressa in acido tartarico non inferiore a 4,50 grammi il litro.

    Tali requisiti, comunque, vanno integrati con le norme del regolamento n. 816/70 relative alle miscele di uve fresche, di mosto di uva, di mosto parzialmente fermentato o di vino nuovo ancora in fermentazione. Se uno solo di questi prodotti non è conforme ai requisti prescritti per la produzione del vino da pasto, il vino che ne deriva non può fregiarsi di tale denominazione comunitaria.

    Del pari, l'art. 16 dispone, in materia di «taglio» dei vini, che, a parte determinati casi eccezionali, possono considerarsi vini da pasto, ai sensi del diritto comunitario, solo i «prodotti del taglio tra vini da pasto e vini da pasto con vini atti a divenire vini da pasto».

    Infine, il regolamento n. 816/70 disciplina, o vieta, talune pratiche enologiche in particolare — per quanto qui ci interessa — negli artt. 18, 19 e 25.

    I primi due concernono l'aumento della gradazione alcolica naturale, effettiva o potenziale, che gli Stati membri possono autorizzare secondo determinate modalità e quando le condizioni climatiche in talune zone viticole lo rendano necessario. In particolare, tale aumento può venire effettuato mediante le pratiche precisate dall'art. 19, e cioè, aggiungendo all'uva fresca o al mosto saccarosio o mosto di uve concentrate, oppure mediante concentrazione parziale del mosto di uva o del vino..

    L'art. 25 vieta l'aggiunta di alcol ai vini da pasto.

    Va comunque osservato, fin d'ora, che il compito di controllare l'osservanza di tali disposizioni non spetta alle autorità comunitarie, ma incombe agli Stati membri.

    Il vino ottenuto mediante procedimenti diversi da quelli consentiti dalle norme suddette non può essere destinato al consumo umano diretto; tale divieto, che risultava già implicitamente dal testo originario del regolamento, è prescritto espressamente dall'art 28 bis, di cui al regolamento di modifica n. 2680/72.

    Ciò premesso, mi sembra non vi sia alcun dubbio che la denominazione «vino da pasto» resta disciplinata unicamente dal regolamento n. 816/70 e dalle relative disposizioni integrative, prescindendo sia dai criteri di cui al punto 10 dell'allegato II, sia dai metodi di produzione ammessi.

    Pertanto, si può rispondere al primo quesito che il «vino da pasto» viene definito tale indipendentemente dai metodi di lavorazione e dalla disciplina nazionale.

    Lo stesso vale anche per quanto riguarda gli scambi, fra gli Stati membri, dei vini da pasto di origine comunitaria. I prodotti del settore vitivinicolo contemplati dal regolamento n. 816/70 possono circolare nell'area comunitaria solo se accompagnati da un documento rilasciato dall'amministrazione dello Stato di produzione. Il regolamento n. 1022/70 della Commissione aveva istituito, per il periodo in cui vennero effettuate le importazioni dei vini italiani in causa, delle bollette di accompagnamento per taluni vini, fra cui i vini da pasto. A norma degli artt. 4 e 5 del suddetto regolamento, tali bollette vengono rilasciate dall'ufficio competente dello Stato membro di produzione previo esame analitico ed organolettico, effettuato da un laboratorio ufficiale, onde accertare che il vino in causa sia di buona qualità commerciale e possieda i requisiti stabiliti dall'art. 27, n. 2, lettera a), del regolamento n. 816/70, vale a dire, che possa essere destinato al consumo umano diretto all'interno della Comunità.

    Poiché tale controllo è effettuato sotto la responsabilità dell'ufficio competente, ne consegue, a mio avviso, che la bolletta di accompagnamento è il solo documento facente fede per l'importazione dei vini da pasto di origine comunitaria e rientranti nella nozione datane dal diritto comunitario. Questa soluzione, già desumibile dal vecchio testo dell'art. 29 del regolamento n. 816/70, è stata espressamente confermata dal regolamento del Consiglio n. 2312/71 che all'art. 1, 2o comma, così dispone:

    «Per il periodo che termina il 31 agosto 1972 e fatte salve le disposizioni nazionali relative alla circolazione dei prodotti all'interno di uno Stato membro, possono essere previste disposizioni per quanto riguarda i documenti che devono accompagnare i prodotti negli scambi fra gli Stati membri».

    Ciò significa che se, durante tale periodo transitorio, gli Stati membri potevano porre determinate condizioni per il commercio dei vini prodotti nel proprio territorio, essi dovevano invece limitarsi a richiedere, per i vini provenienti da un altro Stato membro, la sola bolletta di accompagnamento di cui al regolamento n. 1022/70. Comunque, i particolari della disciplina in materia di scambi intracomunitari dei vini da pasto devono ancora essere definiti. Al riguardo, condivido la tesi della Commissione secondo cui occorre distinguere fra il commercio dei vini comunitari nel territorio dei vari Stati membri e la loro destinazione al consumo umano diretto.

    Per quanto riguarda l'importazione in uno Stato membro di vino prodotto in un altro paese della Comunità, essa è subordinata alla sola produzione della bolletta di accompagnamento; diversamente, il regime comunitario istituito dall'art. 29 del regolamento n. 816/70 resterebbe lettera morta e la libera circolazione del prodotto in causa ne risulterebbe ostacolata.

    L'osservanza di tale principio non esclude che lo Stato importatore possa stabilire dei controlli al fine di accertare, in particolare, se il vino importato sia effettivamente idoneo al consumo diretto.

    Siffatti controlli possono intervenire in tutte le fasi della distribuzione, sia presso l'importatore che presso il dettagliante.

    Ciò è confermato dall'art 9 del regolamento n. 1022/70, che fa obbligo agli Stati membri di controllare i vini di origine comunitaria non ammessi al consumo umano diretto allo scopo di accertare che essi non siano destinati ad un uso improprio.

    Del pari, se al controllo di un vino importato, che la bolletta di accompagnamento qualifica «vino da pasto», risulta che il prodotto non può essere qualificato tale a norma del regolamento n. 816/70, l'autorità competente dello Stato importatore può — e, a mio avviso, deve — vietarne il consumo diretto, ma non già impedirne l'entrata nel suo territorio.

    La prima questione del giudice a quo deve pertanto risolversi, su questo punto, nel senso che l'interscambio dei vini da pasto nell'area comunitaria è subordinato ai soli requisiti stabiliti dal diritto comunitario, indipendentemente da quanto disposto dalla legislazione interna in materia.

    II — Sulla seconda questione

    La seconda questione verte sulla presunzione di arricchimento stabilita dalla legge francese e mira ad accertare se essa valga anche per gli scambi intracomunitari di vini da pasto.

    In caso di risposta positiva, si tratta di stabilire se essa rappresenti un ostacolo a tali scambi.

    Tuttavia, tale presunzione — che sussiste quando il rapporto fra il grado alcolico e 1 estratto secco ridotto del vino risulti superiore ad un determinato quoziente — è strettamente connessa con il metodo prescritto per calcolare tale rapporto (c.d. metodo «a 100o») e con le modalità secondo cui può, in pratica essere fornita la prova contraria.

    Vi sono quindi tre punti da esaminare:

    1)

    Se gli Stati membri possano applicare delle norme interne allo scopo di garantire il rispetto delle disposizioni comunitarie in materia di metodi di vinificazione e di analisi; in particolare, se una misura di controllo fondata su una praesumptio juris di arricchimento sia compatibile col diritto comunitario.

    2)

    In caso affermativo, se il metodo «a 100o», prescritto in Francia per calcolare il rapporto alcol-estratto secco ridotto sia compatibile con il regolamento della Commissione n. 1539/71, «che determina i metodi d'analisi comunitari applicabili nel settore del vino».

    3)

    Se le modalità secondo le quali, in pratica, deve essere fornita la prova contraria, nel caso di vini prodotti in uno Stato membro diverso dalla Francia, abbiano per effetto di ostacolare gli scambi intracomunitari e conferiscano in pratica alla presunzione suddetta un carattere assoluto, cosicchè il sistema avrebbe effetti equivalenti ad una restrizione quantitativa.

    1.

    In primo luogo, mi sembra fuor di dubbio che gli Stati membri abbiano non solo il diritto, ma addirittura il dovere di adottare tutte le misure di controllo idonee a garantire il rispetto del diritto comunitario nonchè a scoprire e reprimere le frodi risultanti da pratiche enologiche vietate. Tale obbligo è sancito espressamente, per quanto riguarda, in particolare, le operazioni di arricchimento del vino, dall'art. 9 del regolamento della Commissione n. 1594/70, in forza del quale, «fino a quando non saranno state adottate disposizioni comunitarie in materia, gli Stati membri prendono le misure necessarie per garantire l'osservanza delle disposizioni relative alle operazioni di arricchimento, di acidificazione e di disacidificazione. Essi informano immediatamente la Commissione in merito a tali misure».

    Un siffatto obbligo è stabilito, in via generale, dall'art. 39 bis del regolamento n. 816/70: «Gli Stati membri adottano tutte le misure atte a far rispettare le disposizioni del presente regolamento».

    Questa disposizione, sebbene sia formalmente un'integrazione del testo originario tramite il regolamento 27 dicembre 1972, n. 2680, ha, a mio avviso, un valore interpretativo e ribadisce un principio che era già implicito nel sistema istituito dal regolamento n. 816/70. D'altra parte, la Commissione non ha la possibilità di provvedere direttamente a siffatti controlli; essa può, tutt'al più, indicare agli Stati membri, a tal fine, i metodi da seguire e le modalità cui attenersi.

    Comunque, come vedremo, la normativa comunitaria in materia è tutt'altro che esauriente. Anche su questo punto, quindi, sono d'accordo con la Commissione nel ritenere che, in quanto misura di controllo, la presunzione di arricchimento illecito di un vino che presenta determinate caratteristiche, costituisce un criterio che uno Stato membro può adottare senza incorrere in illeciti di sorta, quindi in sostanza, il sistema della presunzione non è incompatibile con il diritto comunitario.

    D'altronde, è pacifico che gli Stati membri non possono adottare, nemmeno ai fini del controllo dei vini, dei provvedimenti che, negli scambi intracomunitari, costituirebbero misure di effetto equivalente a restrizioni quantitative. Il regime francese in causa è fondato su un quoziente parametrico del rapporto alcol-estratto secco; si presumono arricchiti tutti i vini con quoziente inferiore. L'entità del quoziente può costituire un elemento sostanziale tale da pregiudicare, in pratica, gli scambi intracomunitari; in quanto, tenuto conto essenzialmente dei fattori climatici o dei metodi di virificazione nazionale, è probabile che, a seconda del valore prescelto vengano a trovarsi in una situazione di svantaggio i vini prodotti in altri Stati membri. Com'è noto, l'art 8 del «Code du vin» fissa a 4,6 il valore massimo del rapporto alcol-estratto secco nel vino rosso. Nel corso del procedimento è stato sostenuto che, dal punto di vista del clima, ad esempio, il vino prodotto in una regione situata ad una determinata latitudine può presentare un rapporto superiore al limite suddetto.

    Del pari, è stato affermato che i valori fissati dalla legge francese non sono più adeguati ai moderni metodi di vinificazione rapida che, riducendo la quantità dei depositi di determinate sostanze nel vino, influiscono sensibilmente sul rapporto alcol-estratto secco.

    Si potrebbe certo obiettare — come ha fatto puntualmente il rappresentante del governo francese — che i valori suddetti sono validi sia per i vini prodotti nelle regioni meridionali della Comunità che per quelli nordafricani, controllati secondo detto criterio per un lunghissimo periodo di tempo; inoltre tale criterio è seguito in modo elastico, giacché, in forza di una circolare del 1965 del ministro dell'agricoltura, il quoziente di 4,6 può essere aumentato in funzione dell'indice di permanganato, risultante da taluni metodi di vinificazione. Soprattutto, la presunzione non è affatto assoluta: l'amministrazione francese cerca di far applicare il criterio elasticamente ed analizza le prove in contrario con una certa magnanimità.

    Si tratta, però di una disquisizione di carattere tecnico, nella quale la Corte non può intervenire. Da parte mia, mi limiterò ad osservare che la presunzione, in sé e per sé, costituisce uno strumento di controllo interno non vietato dall'attuale normativa comunitaria. Tuttavia, i valori del rapporto alcol-estratto secco ridotto vanno fissati ed applicati in maniera da evitare qualsiasi discriminazione fra i vini francesi e quelli prodotti in altri Stati membri; diversamente, la presunzione potrebbe risolversi in un ostacolo per gli scambi intracomunitari.

    2.

    Benché la Cour d'appel di Aix- en-Provence non abbia espressamente interpellato la Corte su questo punto, ritengo sia indispensabile, per la soluzione della seconda questione, soffermarsi sul problema del metodo da usare per determinare il rapporto alcol-estratto secco ridotto..

    Occorre infatti stabilire se il regime francese in causa, che in linea di principio non è incompatibile con il diritto comunitario, possa in pratica costituire un metodo valido anche per gli scambi fra gli Stati membri.

    Posto che il metodo «a 100o», usato per scoprire l'arricchimento illecito, è l'unico che consenta di determinare il rapporto alcol-estratto secco ridotto, e che — come sostengono le parti nella causa principale, il governo francese e la Commissione — non sono equivalenti i valori ottenuti mediante il metodo suddetto e quelli determinati mediante il metodo densimetrico, è opportuno accertare se la normativa comunitaria ammetta il metodo «a 100o». Se la risposta sarà negativa, se ne dovrà concludere che il sistema della presunzione è inefficace, se non inutile.

    Il regolamento della Commissione n. 1539/71 ha stabilito «metodi d'analisi comunitari applicabili nel settore del vino». Com'è dichiarato nella motivazione, tali metodi sono obbligatori per qualsiasi transazione commerciale e qualsiasi operazione di controllo; non è però precisato di che genere di controlli si tratti e quali ne siano le finalità.

    La sfera di applicazione del regolamento suddetto non può, necessariamente, essere più ampia di quella del regolamento di base n. 816/70. Quest'ultimo, però, se disciplina o vieta determinate pratiche enologiche — peraltro in misura incompleta — non sfiora minimamente il problema del controllo e della repressione delle sofisticazioni. L'art 39 bis, con cui il regolamento n. 2680/72 ha integrato il testo originario, non solo autorizza gli Stati membri, come si è visto, ad adottare tutti i provvedimenti idonei a garantire l'osservanza delle disposizioni ivi contenute, ma affida inoltre allo stesso Consiglio il compito di adoperarsi, a livello comunitario, per garantire l'applicazione uniforme del regolamento, specialmente in materia di controlli.

    Tuttavia, il regolamento di base, di per sé, non ha istituito alcun sistema comunitario di controllo e repressione delle sofisticazioni. Di conseguenza, il regolamento della Commissione n. 1539/71 concerne unicamente i metodi d'analisi atti a stabilire le caratteristiche dei vini prodotti nella Comunità, e sarebbe arbitrario volervi ravvisare anche la disciplina dei particolari per le operazioni antifrode.

    Va inoltre tenuto presente che, per quanto riguarda l'applicazione dei metodi d'analisi da esso elencati, il regolamento suddetto si richiama espressamente al repertorio dei metodi internazionali d'analisi dei vini, redatto nell'ambito della convenzione internazionale per l'unificazione dei metodi d'analisi e di valutazione dei vini, stipulata nel 1954.

    Siffatti metodi internazionali non devono servire nella campagna antifrode, ma semplicemente per l'accertamento delle caratteristiche dei vini. È questa la ragione per la quale l'allegato del regolamento n. 1539/71 prevede la determinazione dell'estratto secco totale mediante il metodo densimetrico, il quale consente solo di identificare talune componenti del vino, ma non contempla alcun metodo che permetta di calcolare il rapporto alcol-estratto secco ridotto, che costituisce l'unico mezzo per scoprire un eventuale arricchimento illecito.

    Peraltro, nella risposta fornita il 29 maggio 1974 ad una interrogazione scritta, la stessa Commissione ha ammesso una lacuna nella disciplina legislativa comunitaria per reprimere le sofisticazioni; essa, infatti, ha manifestato l'intenzione di sottoporre al Consiglio, sulla base dell'art 39 bis del regolamento n. 816/70, un progetto di regolamento che stabilisca metodi o criteri comuni per l'accertamento delle infrazioni alle norme comunitarie che disciplinano la produzione vinicola. Ciò dimostra, da una parte, che la Commissione stessa si riconosce incompetente ad intervenire direttamente in tale settore, e dall'altra che i metodi d'analisi prescritti dal regolamento n. 1539/71 hanno una funzione diversa e, comunque, sono insufficienti come strumento antifrode.

    Il 31 ottobre 1974, inoltre, rispondendo ad un'altra interrogazione scritta concernente il caso di specie — o un caso analogo —, la Commissione ha affermato quanto segue: «Per quanto riguarda l'instaurazione di un efficace sistema di tutela contro le infrazioni al diritto comunitario, la Commissione informa che sta attualmente elaborando, in collaborazione con gli Stati membri, un progetto di “normé comuni” per la repressione delle infrazioni commesse da privati nelle materie che costituiscono oggetto dei regolamenti, delle direttive e delle decisioni delle Comunità».

    Di conseguenza, ritengo che il regolamento della Commissione n. 1539/71, che non contempla tutti i metodi idonei a determinare le componenti del vino, non osta all'uso del metodo «a 100o», prescritto da una norma interna, nell'ambito della lotta contro le sofisticazioni.

    Resta da accertare, peraltro a titolo subordinato, se la presunzione stabilita dal «Code du vin» possa comportare una discriminazione a danno degli importatori francesi di vini di origine comunitaria rispetto ai produttori di vini francesi.

    Tale presunzione non è assoluta, giacché l'art, 8 del «Code du vin» consente agli interessati di fornire la prova contraria, cioè dimostrare, mediante il raffronto delle varie componenti del vino, mediante l'esame organolettico, ed in rapporto al metodo di vinificazione usato ed alle caratteristiche climatiche del luogo di produzione, che il vino è stato ottenuto esclusivamente dalla fermentazione di uva fresca.

    È stato sostenuto dinanzi alla Corte che l'onere posto a carico degli importatori rappresenta un ostacolo alla libertà degli scambi intracomunitari, giacché, nel caso dei vini importati, risulta in pratica particolarmente difficile fornire una prova siffatta.

    Anche la Cour d'appel di Aix- en-Provence sembra essere di tale parere, come si può arguire dai seri dubbi che essa nutre circa la compatibilità del regime francese in esame con la normativa comunitaria.

    A mio avviso, però, non spetta al giudice comunitario — perlomeno nell'ambito di un procedimento ex art. 177 del trattato — risolvere una questione siffatta, poiché una tale pronuncia implicherebbe non solo l'interpretazione, ma anche l'applicazione del diritto interno.

    Come voi stessi avete affermato nella sentenza 23 gennaio 1975 nella causa 51-74, Hulst (Racc. 1975, pag. 92) nell'ambito di un procedimento pregiudiziale, la Corte non può pronunziarsi su tale problema, riservato alla competenza del giudice nazionale come, d'altronde, deve astenersi da qualsiasi valutazione dei fatti specifici.

    Da parte mia, mi limiterò ad osservare che il ricorso alla presunzione potrebbe essere ineccepibile se:

    1)

    il servizio antisofisticazioni che raffronta i risultati dell'analisi con i requisiti stabiliti dalla legge, tiene conto delle tolleranze previste, in particolare, in considerazione del luogo d'origine del vino;

    2)

    nei confronti dei risultati delle analisi è ammesso il contraddittorio degli interessati — produttori o commercianti di vino;

    3)

    vi è la possibilità di rianalizzare il prodotto;

    4)

    infine, tutti gli operaron del settore, senza alcuna distinzione e a parità di condizioni, hanno facoltà di produrre la prova contraria.

    Vi sarebbe invece discriminazione se la produzione di tale prova si rivelasse, in pratica, più difficile per i rivenditori di vino da pasto importato e regolarmente sdoganato in uno Stato membro che per i produttori o i commercianti di vino da pasto nazionale (sentenza 11 luglio 1974 nella cause 8-74, Dassonville; Racc. 1974, pag. 852).

    Pertanto, se il metodo d'analisi su cui è fondata la presunzione, o i criteri con cui ad essa si ricorre, nonostante la possibilità della prova contraria, comportassero un effetto discriminatorio o equivalente ad una restrizione quantitativa, toccherebbe, se mai, alla Commissione contestare tale violazione nei confronti dello Stato in questione, oppure spetterebbe ai giudici nazionali — eventualmente con l'ausilio dei mezzi ex art. 177 del trattato — salvaguardare i diritti dei singoli.

    Nell'ambito della presente causa, mi pare escluso che la Corte possa sostituirsi agli organi suddetti.

    Concludendo, suggerisco che affermiate per diritto che:

    1o

    Per essere definiti «vino da pasto», secondo la denominazione comunitaria, i vini di cui al regolamento del Consiglio n. 816/70 devono rispondere ai soli requisiti stabiliti dall'allegato II, punto 10, di tale regolamento.

    2o

    Perché tali vini possano essere ammessi alla libera circolazione nell'area comunitaria, è sufficiente che essi siano muniti del «certificato di accompagnamento» come prescritto dal regolamento n. 1022/70 della Commissione, nel momento in cui sono state effettuate le importazioni di vino da pasto italiano di cui alla fattispecie.

    3o

    Per essere riconosciuto idoneo al consumo umano diretto nel territorio di uno Stato membro, un vino da pasto deve rispondere ai requisiti prescritti dalla normativa vigente in tale Stato in materia di controllo e repressione delle sofisticazioni; in proposito, né il regolamento del Consiglio n. 816/70, né le relative norme di attuazione ostano a che uno Stato membro stabilisca, a tale scopo, una presunzione di arricchimento fondata sul rapporto alcol-estratto secco ridotto.

    4o

    Il regolamento della Commissione n. 1539/71 non vieta il ricorso al metodo d'analisi «a 100o» allo scopo di determinare il suddetto rapporto.

    5o

    Il sistema della presunzione di arricchimento — per quanto concerne, in particolare, i valori massimi del rapporto alcol-estratto secco ridotto e le modalità della produzione della prova contraria — non deve implicare una discriminazione de facto fra operatori economici nè costituire una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa.


    ( 1 ) Traduzione dal francese.

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