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Document 61969CC0002

    Conclusioni dell'avvocato generale Gand del 21 maggio 1969.
    Sociaal Fonds voor de Diamantarbeiders contro S.A. Ch. Brachfeld & Sons e Chougol Diamond Co.
    Domande di pronuncia pregiudiziale: Vredegerecht Antwerpen (2e kanton) - Belgio.
    Cause riunite 2 e 3-69.

    Raccolta della Giurisprudenza 1969 -00211

    ECLI identifier: ECLI:EU:C:1969:20

    CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE JOSEPH GAND

    DEL 21 MAGGIO 1969 ( 1 )

    Signor Presidente,

    Signori Giudici,

    La domanda d'interpretazione di alcuni articoli del trattato di Roma proposta dal Vrederechter del secondo cantone di Anversa è rilevante sotto vari aspetti. Anzitutto perché scaturisce da una controversia vertente sui contributi che devono versare gl'importatori di diamanti grezzi a favore del Fondo sociale degli operai dell'industria dei diamanti, contributi istituiti dalle leggi belghe del 12 aprile 1960 e del 28 luglio 1962; il giudice proponente, prima di deferirvi le questioni, ha esaminato a lungo il problema, sovente discusso, dei rapporti tra trattato e legge posteriore e l'ha risolto nel senso suggerito dalla vostra sentenza del 15 luglio 1964 Costa/Enel (6-64, Raccolta X-964, pag. 1129). D'altro canto, a proposito di un fatto molto specifico, ritroverete nozioni già trattate in una giurisprudenza molto ricca, come la nozione di «tassa d'effetto equivalente» e di «imposizione interna» e dovrete fissare i limiti delle facoltà degli Stati. Aggiungerò ancora che le questioni dibattute in questa sede non prescindono interamente da quelle che dovrete esaminare nella causa 24-68, che vede la Commissione delle Comunità in disaccordo col governo italiano circa il diritto di statistica riscosso da quest'ultimo sulle importazioni e sulle esportazioni.

    I

    Se le questioni deferite sono e devono rimanere limitate all'interpretazione della norma comunitaria, nella fattispiecie gli articoli 9, 12, 13, 18 e 95 del trattato, la loro portata si può comprendere — e si può dare una risposta utile — solo ricollocandole nell'ambito della controversia di diritto interno da cui sono scaturite. Mi soffermerò anzitutto sul primo aspetto.

    1.

    La legge del 12 aprile 1960 ha istituito nel Belgio un fondo sociale per gli operai dell'industria dei diamanti, analogo a quelli già esistenti per altre categorie di lavoratori, e che ha come compito il finanziamento, la concessione e il pagamento di vantaggi sociali complementari a detti operai. In forza dell'articolo 2 bis della legge, come risulta dalla legge 28 luglio 1962, il Fondo è finanziato mediante contributi obbligatori a carico di ogni importatore di diamanti grezzi e l'aliquota è pari ad 1/3 % del valore del diamante importato. Tuttavia il 2o comma dello stesso articolo precisa che il re può accordare la dispensa dal contributo nel caso dei diamanti di valore inferiore a 300 franchi il carato, oppure se il diamante è importato dai Paesi Bassi nell'ambito dell'accordo di scambio tra le industrie dei diamanti belghe e olandesi.

    Quindi la tassa (o il contributo, per dirla con i termini della legge belga) è destinata ad assicurare vantaggi agli operai del settore dei diamanti, cioè a coloro che lavorano i diamanti per conto delle manifatture, degli industriali. L'onere è a carico degli importatori commercianti, che possono essere contemporaneamente industriali, ma non lo sono sempre, e comunque — nella loro qualità d'importatori — devono corrisponderlo in proporzione al valore del prodotto importato. Il governo belga, nelle sue osservazioni, ha rilevato che non era parso possibile né equo «a seguito della situazione interna» porre questi «contributi previdenziali» a carico del datore di lavoro ed era quindi stato necessario calcolarli sulla materia prima importata. Non è compito nostro approfondire tali considerazioni; indubbiamente si deve desumere da questo fatto che questo ramo d'industria costituisce un ambiente chiuso e particolarista, dotato di una struttura tale che mal si adatta all'applicazione delle leggi sociali. Si è anche allegato che gli importatori traevano un profitto, per lo meno indiretto, dal lavoro degli operai del settore.

    2.

    Le condizioni d'applicazione della legge e la situazione del mercato dei diamanti nel Belgio sono state ampiamente illustrate dai rappresentanti delle parti nel processo di merito, sia nella fase scritta che in udienza. Senza entrare nei dettagli, ricorderemo che, più che sede di un'industria dei diamanti, Anversa è il centro commerciale ove si determinano le quotizioni mondiali dei diamanti. Principale cliente della Diamond Trading Co., centro di distribuzione della De Beers, Anversa riceve pure diamanti grezzi di diversa provenienza, specie degli altri Stati della Comunità che, come il Belgio, non hanno una produzione propria. Ad Anversa viene trattata la materia prima destinata all'industria locale e la produzione della medesima industria; vengono pure venduti notevoli quantitativi di diamanti grezzi e tagliati destinati ad altri centri. La perfezione dell'organizzazione, risultato di una lunga tradizione, è tale che si possono ordinare diamanti grezzi o tagliati dietro semplice descrizione della forma desiderata.

    Il punto su cui si deve insistere è che Anversa è soprattutto un mercato del diamante industriale. Questo non è del resto che una varietà del diamante grezzo, destinata a questo uso particolare giacché non si presta al taglio e all'impiego da parte dei gioiellieri, ma che talvolta riceve una destinazione definitiva solo dopo delle operazioni di selezione.

    Ora, la legge del 1962 esenta dal versamento del contributo il diamante grezzo di valore inferiore a 300 franchi il carato, mentre il diamante cosiddetto industriale può avere un valore superiore, quindi è soggetto alla tassa anche se non viene trattato dall'industria dei diamanti. Inoltre, pare generalmente ammesso (salva la merce «in transito» o rifiutata al momento dell'importazione) che il diamante riesportato senza trasformazione viene del pari assoggettato al contributo.

    3.

    Ritenendo che il contributo istituito con legge 28 luglio 1962 rappresentasse in effetti una tassa d'effetto equivalente ad un dazio doganale ai sensi dell'articolo 12 del trattato, varie associazioni professionali e d'importatori di diamanti grezzi, alla fine dello stesso anno si rivolgevano alla Commissione, lamentando che lo Stato belga fosse venuto meno ai suoi obblighi.

    Dopo aver risposto in un primo momento che preferivano rimandare la loro presa di posizione fino al momento in cui un giudice non avesse deferito a questa Corte una questione pregiudiziale in merito, le autorità comunitarie comunicavano agli interessati, nel 1967, che il contributo litigioso non pareva loro ricadesse sotto l'articolo 12.

    Le stesse autorità hanno poi ripreso la questione sotto un altro profilo: il 2o comma dell'articolo 2 bis della legge consente di esentare dall'imposta i diamanti importati dai Paesi Bassi nell'ambito dell'accordo di scambio tra le industrie dei diamanti belga ed olandese. Ritenendo che la disposizione avesse carattere discriminatorio, in contrasto con l'articolo 7 del trattato, il 29 febbraio 1968 la Commissione invitava il governo belga, a norma dell'articolo 169, a emendare la legislazione nazionale su questa materia proponendogli l'alternativa :

    di concedere la dispensa per le importazioni di diamanti grezzi provenienti da ogni Stato membro, come già avveniva per le importazioni dai Paesi Bassi;

    oppure di sopprimere l'esenzione concessa alle importazioni dai soli Paesi Bassi.

    La scelta tra i due termini dell'alternativa implicava una presa di posizione circa la natura del contributo litigioso, atteggiamento che si rispecchia nelle osservazioni presentate in questa sede dalla Commissione. Aggiungerò che il 20 gennaio 1969 la Commissione, non avendo il governo belga presentato alcuna osservazione, ha emesso il parere motivato di cui all'articolo 169.

    4.

    Parallelamente a queste attività sul piano comunitario, dinanzi al giudice belga competente s'iniziava un altro procedimento e i circa 200 importatori cui il fondo sociale aveva intimato di pagare i contributi si opponevano a tale intimazione invocando le norme del trattato. In questa situazione il Vrede-rechter del 2o cantone di Anversa sceglieva due cause tipo, cioè la causa Brachfeld (importatore di diamanti grezzi) e Chougol (importatore di diamanti industriali), registrate in questa cancelleria coi nn. 2 e, rispettivamente, 3-69, a proposito delle quali vi chiede, con due sentenze identiche del 24 dicembre u.s., d'interpretare determinati articoli del trattato.

    Il giudice a quo ritiene intatti necessario, per la soluzione della controversia, lo stabilire se il contributo in questione rientri tra le nozioni di dazio doganale, di tassa d'effetto equivalente o d'imposizione interna, di cui rispettivamente agli articoli 9, 12 e 95 del trattato CEE, poiché il fatto che il contributo vada a vantaggio di un fondo sociale, che è pure ente pubblico, non pare debba escludere tale possibilità.

    Per ottenere una definizione di queste varie nozioni e stabilirne i limiti esatti, il giudice belga formula svariate domande, sempre più precise e sempre più particolareggiate, non tutte però della stessa importanza. Esaminiamo quindi le sei questioni, alcune delle quali sono a loro volta suddivise in sottoquestioni, tutte riportate nella relazione d'udienza. L'esame sarà condotto alla luce delle osservazioni di fatto testé indicate, ma non bisogna dimenticare che la vostra risposta servirà a risolvere la controversia di merito anche se sarà solo un'interpretazione della norma comunitaria fatta nell'ambito dell'articolo 177, mentre non siete competenti per applicare la norma alla fattispecie né tantomeno per pronunciarvi sulla conformità col trattato di una disposizione di diritto interno. Spetterà al giudice a quo desumere dalla vostra pronunzia gli elementi che gli consentiranno di pronunciarsi su questo punto.

    II

    A —

    Con la prima questione, vertente sugli articoli 9, 12, 13, 18 e 95 del trattato, vi si chiede di stabilire se gli oneri o le tasse di effetto equivalente, contemplati da detti articoli o da alcuni di essi, debbano avere «tutte le caratteristiche di un'imposizione fiscale» e, in secondo luogo, se tra questi diritti a tasse rientrino solo quelli destinati ad alimentare l'erario o a ridurne gli aneri, oppure, in via generale, tutti quelli che uno Stato membro impone al momento dell'importazione, indipendentemente dal loro scopo, fiscale, amministrativo o sociale.

    È chiaro che cosa ha indotto il giudice a quo a deferirvi la questione: il «contributo» litigioso — così lo definisce la legge belga che mai ricorre al termine di tassa o imposta — differisce infatti nella sua denominazione e nel suo scopo dai tipi classici di tributi che gravano sui prodotti. Esso è una manifestazione di quel fenomeno moderno, abbastanza diffuso, che viene chiamato col termine piuttosto vago di «parafisca-lità». Si tratta di stabilire anzitutto se l'onere possa ricadere sotto uno degli articoli sopra menzionati, senza precisare quale sia tale articolo.

    È difficile e indubbiamente inutile dare una soluzione esatta alla prima parte della questione. Se il termine tributo ricorre sovente nel trattato e nel protocollo sui privilegi e le immunità, esso non ha obbligatoriamente un senso univoco e la vostra pronunzia nella causa Klomp del 25 febbraio u.s. (23-68, Raccolta XV-1969, pag. 44) non può assolutamente, contrariamente a quanto sostiene il ricorrente nella causa di merito, venire utilizzata anche nella presente causa. D'altro canto, il giudice proponente pare riferirsi ad una nozione di «imposizione fiscale» che può avere un senso preciso nel diritto belga ed averne un altro negli altri diritti nazionali.

    Per contro, la seconda parte della questione può avere una soluzione più diretta ed esauriente che prelude a quelle dei punti successivi. Dal momento in cui lo Stato, o l'ente che esso delega, applica tasse o imposte all'importazione delle merci, sorge il problema della compatibilità tra tali gravami e il trattato. Non è necessario stabilire se lo scopo di tali tasse sia quello di alimentare l'erario oppure esse vadano ad alimentare un fondo speciale, come pure non si possono escludere dalla sfera d'applicazione degli articoli del trattato delle tasse o imposte per il fatto che hanno scopi fiscali, sociali o amministrativi (eccezion fatta tuttavia per le tasse per servizi resi che vanno intese in senso restrittivo).

    B —

    Le questioni 2, 3 e 4, sottopostevi in merito agli stessi articoli, hanno lo scopo di stabilire se sia determinante la natura dell'onere o il suo effetto; se l'effetto equivalente consista nell'identità di scopi o nell'identità delle conseguenze dell'onere; se i risultati vadano eventualmente valutati sotto l'aspetto degli importi riscossi o sotto l'aspetto dell'influenza sulla libera circolazione delle merci. In altri termini, si tratta di stabilire quali siano gli elementi determinanti per valutare, sotto il profilo del trattato, i dazi doganali, le tasse d'effetto equivalente di cui agli articoli 9, 12 e 13 e i tributi interni gravanti sui prodotti importati, come previsto dall'articolo 95. Bisogna distinguere.

    Per quanto riguarda anzitutto i dazi doganali, gli articoli del trattato che li disciplinano si applicano a tutti i dazi così definiti dalle leggi nazionali, ivi compresi i dazi doganali di carattere fiscale, ed esigibili per il fatto di aver varcato la frontiera. La loro denominazione è sufficiente, senza che sia necessario indagare sugli effetti di questi dazi, che possono essere diversi a seconda dei casi.

    Accanto ai dazi doganali il trattato menziona le tasse di effetto equivalente sulle quali avete dovuto pronunciarvi diverse volte, a cominciare dalla sentenza 14 dicembre 1962 (Commissione CEE contro Granducato di Lussemburgo e Regno del Belgio, 2 e 3-62, Raccolta VIII-1962, pag. 793). Non mi soffermerò per ora sulla vostra giurisprudenza se non per ricordare i due elementi rilevanti per la soluzione delle questioni deferite. Ne risulta che né la denominazione della tassa, né la sua struttura, né lo scopo che persegue lo Stato che l'ha istituita sono determinanti; onde stabilire se una tassa rientri in tale categoria si devono considerare i suoi effetti alla luce degli scopi del trattato, specie in relazione alla libera circolazione delle merci, ed ha scarsa rilevanza lo stabilire se tutti gli effetti di un dazio doganale siano presenti, oppure soltanto uno, ovvero ancora siano stati perseguiti altri scopi, principali o secondari.

    Restano le «imposizioni interne», cui l'articolo 95, sedes materiae, fa seguire la formula «di qualsivoglia natura». Se ne può desumere che anche qui la denominazione, la struttura, lo scopo perseguito dai pubblici poteri non sono determinanti.

    C —

    Queste considerazioni costituiscono però solo una prima presa di contatto col problema. Con la questione 5 a) e b), vi si chiede se la nozione di ostacolo agli scambi presupponga sempre che la tassa applicata abbia effetti discriminatori o protezionistici, e se vada escluso ogni ostacolo agli scambi nel caso in cui non vi siano prodotti nazionali concorrenti.

    La questione e sollevata a proposito degli articoli 9 e 12 (cioè delle tasse d'effetto equivalente); essa però riveste pure interesse per delimitare i tributi interni di cui all'articolo 95, poiché gli articoli 12 e 13, da un lato, e 95, dall'altro, non possono venire contemporaneamente applicati ad una stessa fattispecie (16 giugno 1966, Lütticke, 57-65, Raccolta XII-1966, pag. 220).

    Anzitutto un rilievo terminologico: la Commissione osserva, per quanto riguarda la formulazione della questione, che gli articoli 9 e 12 non citano alcun ostacolo agli scambi e, a certe condizioni e in virtù di altre disposizioni del trattato, si possono riscuotere imposte o tasse sui prodotti importati con la conseguenza che, seppure in misura minima, le importazioni vengono frenate. Il rilievo è esatto; cionondimeno gli articoli di cui si chiede l'interpretazione fanno tutti parte del titolo I della seconda parte intitolato «Libera circolazione delle merci», il che indica un principio e l'intenzione degli autori del trattato di far eliminare tali ostacoli agli scambi. Ciò premesso, le due parti della questione deferita sono intimamente connesse: mentre la tassa d'effetto equivalente ai sensi dell'articolo 12 sussiste solo se l'onere ha effetti protezionistici o discriminatori, la tassa gravante un prodotto importato che non ha concorrenti sul piano nazionale esula automaticamente dall'ambito dell'articolo 12.

    Ci si può chiedere se la soluzione non sia già contenuta nella vostra sentenza 2 e 3-62, di cui ricorderò questo passo :

    «La tassa d'effetto equivalente può essere considerata, indipendentemente dalla sua denominazione e dalla sua struttura, come un diritto imposto unilateralmente, sia all'atto dell'importazione, sia in un successivo momento e che, colpendo specialmente una merce importata da un paese membro, ad esclusione del corrispondente prodotto nazionale, produce il risultato di alterarne il prezzo e d'incidere così sulla libera circolazione delle merci alla stessa stregua di un dazio doganale.»

    Tale concezione è espressa in termini pressoché identici nella sentenza 8 luglio 1965 (Deutschmann, 10-65, Raccolta XI-1965, pag. 540) nonché nella sentenza 16 giugno 1966 (Repubblica federale di Germania contro Commissione della CEE, 52 e 55-65, Raccolta XII-1966, pag. 346). Essa appare dunque molto ampia, giacché l'effetto discriminatorio — «anche se lieve» afferma la sentenza 52 e 55-65 — è sufficiente a conferire alla tassa sui prodotti importati un effetto equivalente a quello di un dazio doganale, ma non si esce dall'ipotesi che vi sia un prodotto nazionale similare.

    Ritengo tuttavia che non è inutile oggi approfondire, precisare questa giurisprudenza ed eventualmente correggerla.

    Si noterà anzitutto che nelle fattispecie dalle quali sono scaturite le sentenze cui mi sono richiamato, i prodotti importati erano sempre in concorrenza coi prodotti nazionali similari; nell'ambito del problema a voi deferito, era sufficiente rilevare il carattere discriminatorio della tassa per ammettere che aveva un effetto equivalente a quello di un dazio doganale.

    D'altra parte, voi avete sempre affermato che la liceità delle tasse doveva venir controllata «alla luce degli scopi del trattato». Ora, a norma dell'articolo 3, questi sono :

    a)

    L'abolizione dei dazi doganali e delle restrizioni quantitative tra gli Stati membri applicate all'entrata e all'uscita delle merci, nonché di ogni altro provvedimento d'effetto equivalente ;

    b)

    L'istituzione di una tariffa doganale comune e di una politica commerciale comune nei confronti degli Stati terzi ;

    c)

    L'istituzione di un regime in grado di garantire che la concorrenza non venga falsata nel mercato comune.

    Per ottenere questi scopi, il trattato prescrive l'abolizione di tutti i dazi doganali e non fa distinzione a seconda che i prodotti su cui essi gravano siano o meno in concorrenza coi prodotti nazionali. Quindi, in forza dell'articolo 17, le disposizioni relative all'eliminazione dei dazi doganali sono applicabili ai dazi doganali di carattere fiscale. Nello stesso spirito, il trattato prevede la soppressione dei dazi doganali all'esportazione. Si può quindi pensare che esso miri a sopprimere non solo la discriminazione o la protezione dell'industria nazionale, ma ogni altro ostacolo agli scambi.

    Per di più tale nozione ricorre nella vostra giurisprudenza: indubbiamente vi siete richiamati anzitutto all'idea di discriminazione ed avete ritenuto che, una volta rilevata la discriminazione, la tassa aveva effetto equivalente poiché la discriminazione, anche se minima, era atta a falsare la concorrenza, ad ostacolare gli scambi, e quindi contraria agli scopi del trattato. Se però la discriminazione è la caratteristica che più sovente si rileva nella tassa d'effetto equivalente, non ne deriva obbligatoriamente che questa sia la condizione sine qua non della sua sussistenza.

    Per definizione, il dazio doganale si applica solo ai prodotti che varcano la frontiera; per giustificarne il divieto è sufficiente rilevare ch'esso costituisce un ostacolo alla libera circolazione delle merci. Lo stesso criterio può venire applicato alle tasse che, pur non avendo l'apparenza del dazio doganale, hanno anch'esse l'effetto di ostacolare questa libera circolazione, senza tuttavia far parte del sistema generale dei tributi interni di cui all'articolo 95 del trattato. Arrestandosi a questo criterio dell'ostacolo agli scambi, non VI è ragione di distinguere fra le tasse che colpiscono le merci cui corrispondono prodotti nazionali similari e quelle che colpiscono le merci esenti da tale concorrenza, poiché il fatto che alcuni beni non sono prodotti in uno Stato membro non può attribuire a questo il potere d'imporre, nell'ambito dell'articolo 12, dei dazi doganali all'importazione di tali beni. La libera circolazione delle merci, che il titolo I della seconda parte dei trattato intende garantire, dev'essere applicata in modo uniforme a tutti i prodotti all'interno della Comunità. Si potrà forse obiettare che una concezione così rigorosa della libertà degli scambi non tiene conto delle realtà e che una tassa d'importo ridotto come quello del «contributo» che ha fatto sorgere la controversia dinanzi al giudice di Anversa non può in effetti minimamente influire sull'andamento dei negozi. Si deve però evitare accuratamente tutto ciò che potrebbe aprire una breccia in un sistema fondato sul divieto dei dazi doganali e delle tasse d'effetto equivalente. La vostra sentenza 2 e 3-62 menziona già questo pericolo e la creazione di fondi speciali, alimentati mediante contributi riscossi all'importazione, sarebbe un mezzo particolarmente allettante per gli Stati che intendessero eludere gli articoli 9 e 12 del trattato.

    Per riassumere, ritengo in definitiva che può esservi ostacolo alla libera circolazione delle merci, anche se la tassa d'effetto equivalente non ha conseguenze discriminatorie o protezionistiche, anche se non vi sono prodotti nazionali concorrenti.

    Questa soluzione non è tuttavia evidente; e per l'ipotesi che la scartiate vorrei rapidamente esporre il mio punto di vista su taluni punti delle osservazioni della Commissione, che del resto esulano dalla questione formulata dal giudice belga. Considerando il problema non alla luce degli articoli 9 e 12, ma dell'articolo 95, la Commissione rileva che la vostra giurisprudenza (specie le sentenze 27-67 e 31-67 del 4 aprile 1968) riconosce la possibilità di gravare di tributi interni prodotti provenienti da altri Stati membri che non facciano concorrenza a prodotti interni similari o equivalenti. Questo è quanto avete affermato circa i tributi riscossi nell'ambito della legislazione relativa all'imposta sull'entrata, cioè di un'imposta generale gravante indistintamente su tutte le categorie di prodotti, sia nazionali che importati; avete infatti stabilito che tale imposta, se applicata all'importazione, ha lo scopo di porre in una situazione fiscale comparabile tutte le categorie di prodotti, indipendentemente dalla loro origine, e non vi è ragione che alcuni prodotti importati godano di un regime privilegiato per il fatto di non contrapporsi a prodotti nazionali che debbano venire tutelati. Avete tuttavia posto la condizione che l'aliquota stabilita per questi prodotti non esuli dall'ambito generale del sistema d'imposta considerato.

    Partendo da questo presupposto, la Commissione dichiara che, in base al trattato, non è possibile negare ad uno Stato membro il diritto di applicare tributi interni speciali ai prodotti che non hanno riscontro nella produzione nazionale. Purché in questo caso l'aliquota dell'imposta non sia superiore al complesso dei tributi interni gravanti su questi prodotti e sugli altri, un regime fiscale privilegiato per i prodotti che non vengono fabbricati nel paese non sarebbe giustificato in questo caso più di quanto non lo sia nel caso del sistema generale dell'imposta sull'entrata.

    Dirò semplicemente che l'assimilazione mi pare discutibile poiché, se il tributo è speciale, per definizione non si può collocare il prodotto che n'è gravato in una situazione comparabile a quella di altri prodotti, e se la merce importata che non è in concorrenza con un prodotto nazionale non fosse soggetta ad imposta, non godrebbe tuttavia di alcun privilegio. Ci ritroviamo però fuori dai limiti posti dal giudice belga.

    D —

    Proseguendo nella quinta questione, il giudice proponente raffronta di volta in volta l'articolo 12 con altri articoli del trattato, onde mettere in risalto la portata dell'articolo 12. Tuttavia, i diversi problemi ch'egli solleva sono presentati talvolta in modo un po' oscuro e paiono meno direttamente connessi con la controversia.

    Egli prende anzitutto in considerazione gli articoli 9 e 18 e chiede se una nuova tassa gravante sulle importazioni da tutti gli altri paesi sia sempre vietata in quanto può impedire il perseguimento degli scopi contemplati dagli articoli 9 e 18 del trattato, cioè l'adozione di una tariffa doganale comune nei rapporti coi paesi terzi e la riduzione degli oneri fiscali ad un livello inferiore al livello generale, cosicché diverrebbe irrilevante il fatto che detta tassa abbia o meno effetto discriminatorio.

    La Commissione si limita giustamente a rilevare che l'articolo 18 può essere considerato come una dichiarazione d'intenzioni o affermazione di principio. Esso riguarda la politica da seguire in materia di livello dei dazi doganali da applicarsi alle importazioni da paesi terzi; esso contempla la stipulazione di accordi su base di reciprocità, miranti a portare i dazi doganali sotto il livello generale che gli Stati protrebbero applicare dal momento che hanno formato un'unione doganale. D'altra parte l'articolo 12, che si vuole accostare qui all'articolo 18, si riferisce unicamente ai rapporti intracomu-nitari. Sono due sfere diverse. Comunque, non si vede perché la tassa contemplata dal giudice belga debba necessariamente essere in contrasto con l'articolo 18.

    Il giudice a quo esamina poi l' articolo 37: se la distinzione che vi sarebbe contenuta tra i monopoli che implicano e quelli che non implicano una discriminazione tra i cittadini degli Stati membri, in materia di approvvigionamento e di sbocchi, si debba fare anche per quanto riguarda i dazi o prelievi di cui agli articoli 9 e 12.

    Questa è la formulazione della questione deferita e confesso che non ne vedo la portata esatta. Essa pare d'altro canto presupporre che l'articolo 37 — il quale, come sapete, non è dei più chiari — distingua tra due tipi di monopolio, a seconda che essi siano o meno discriminatori, mentre esso tende a trasformare tutti i monopoli nazionali di carattere commerciale in modo da escludere, alla scadenza del periodo di transizione, qualsiasi discriminazione tra i cittadini degli Stati membri.

    Tutto ciò che si può dire in proposito è che non pare possibile trarre da detto articolo alcuna conclusione sull'interpretazione della nozione di tassa di effetto equivalente.

    In seguito il giudice esamina l'articolo 95 e chiede se il divieto sancito dagli articoli 9 e 12 abbia carattere più assoluto di quello previsto dall'articolo 95, e in particolare se il divieto distingua a seconda che i dazi considerati siano superiori o inferiori a quelli applicati ai prodotti nazionali.

    In che cosa consiste un divieto di carattere più assoluto? In questi termini la questione non può avere una soluzione precisa. Si può notare che le tasse d'effetto equivalente e i tributi interni hanno una sfera diversa e non sono disciplinate dallo stesso regime, specie circa le modalità e il ritmo stabilito per la loro soppressione o modificazione. Quanto al problema che pare porsi il giudice di Anversa, va rilevato che la tassa di effetto equivalente è illecita per il solo fatto di ostacolare gli scambi, mentre la tassa interna lo diventa se e in quanto incida in misura maggiore sui prodotti importati che sui prodotti nazionali.

    Infine, e cito ancora il provvedimento di rinvio, viene sollevata la questione del se l'articolo 12 possa considerarsi come un primo passo verso la realizzazione dello scopo degli articoli 9, n. 1, e 13, e possa essere considerato come tale in un senso così generale.

    L'articolo 12 che si concreta in un obbligo di non fare, di standstill, piuttosto che il primo passo costituisce il punto di partenza, prepara la soppressione dei dazi doganali e delle tasse d'effetto equivalente contemplata dagli articoli 9, n. 1, e 13. Tutto quello che si può aggiungere è che le nozioni che ricorrono nell'articolo 12 devono avere lo stesso senso e la stessa portata delle nozioni corrispondenti degli articoli 9 e 13.

    E —

    Sesta ed ultima questione. Il litigio, si rileva nella sentenza, presenta la particolarità che gl'importatori di una materia prima si ritengono lesi dal proprio governo senza poter dimostrare che un produttore di una materia prima analoga si trova in posizione di vantaggio entro lo Stato che ha adottato la misura contestata, poiché dal suolo belga non si ricavano diamanti; per contro, gl'importatori possono ritenersi svantaggiati nei confronti dei loro concorrenti di altri paesi non oberati dalla tassa; d'altra parte, i trasformatori belgi di diamanti sono in posizione di vantaggio rispetto ai trasformatori degli altri Stati membri, e ciò a spese degli importatori che sopportano una parte degli oneri sociali che dovrebbero essere a loro carico.

    Sulla base di questi rilievi, il giudice pone la questione del se, nel valutare gli ostacoli agli scambi contemplati dagli articoli 9 e 12, si debba tener conto del solo pregiudizio subito dagli altri Stati membri o dai loro cittadini oppure si debba considerare anche il pregiudizio che subiscono tutti i cittadini della Comunità, compresi quelli dello Stato membro che ha adottato il provvedimento in questione, anche soltanto a motivo della maggior concorrenza che possono fare loro i cittadini degli altri Stati.

    Ritengo che basti rilevare che gli articoli 9 e 12 tengono conto dei dazi doganali o delle tasse di effetto equivalente in quanto costituiscono ostacoli alla libera circolazione dei prodotti; se è soddisfatta questa condizione, non ha più rilevanza l'accertare a quale paese della Comunità appartengano le persone che subiscono il danno derivante dai provvedimenti così adottati.

    Riassumendo ora le soluzioni che si potrebbero dare alle questioni che vi sono state deferite, qualora riteniate necessario risolverle tutte, le mie conclusioni sono queste :

    I dazi e le tasse contemplate dagli articoli del trattato di cui trattasi sono tutte quelle applicate dallo Stato all'importazione, senza che sia necessario stabilire se vanno a profitto dell'erario, oppure hanno scopo fiscale, sociale o amministrativo.

    Se i dazi doganali sono quelli così denominati dalle legislazioni nazionali, la tassa d'effetto equivalente si caratterizza per la sua influenza sulla libera circolazione dei beni nel mercato comune.

    L'ostacolo agli scambi che risulta dalla tassa d'effetto equivalente è concepibile anche se non vi è concorrenza della produzione nazionale.

    Né l'articolo 18, né l'articolo 37 possono contribuire all'interpretazione degli articoli 9 e 12 del trattato.

    Questi due ultimi articoli stabiliscono un divieto di portata diversa da quella di cui all'articolo 95 e non fanno le distinzioni in materia di tasse interne che ricorrono nell'articolo ultimo menzionato.

    L'articolo 12 è il punto di partenza per il perseguimento degli scopi di cui agli articoli 9 e 13.

    Infine, per valutare gli ostacoli che i provvedimenti doganali o di effetto equivalente pongono alla libera circolazione delle merci, non si deve tener conto della nazionalità delle persone lese dai provvedimenti stessi.

    Sulle spese dovrà pronunciarsi il giudice a quo.


    ( 1 ) Traduzione dal francese.

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