62001J0145

Sentenza della Corte (Sesta Sezione) del 5 giugno 2003. - Commissione delle Comunità europee contro Repubblica italiana. - Inadempimento di uno Stato - Assenza di regolare diffida - Irricevibilità del ricorso. - Causa C-145/01.

raccolta della giurisprudenza 2003 pagina I-05581


Massima
Parti
Motivazione della sentenza
Decisione relativa alle spese
Dispositivo

Parole chiave


1. Ricorso per inadempimento - Esame sul merito da parte della Corte - Situazione da prendere in considerazione - Situazione esistente alla scadenza del termine fissato dal parere motivato

(Art. 226 CE)

2. Ricorso per inadempimento - Procedimento precontenzioso - Diffida - Delimitazione dell'oggetto della controversia - Parere motivato riferentesi a norme diverse da quelle menzionate nella diffida - Irricevibilità del ricorso

(Art. 226 CE)

Massima


1. Nell'ambito di un ricorso ai sensi dell'art. 226 CE, l'esistenza di un inadempimento dev'essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato e, conformemente al secondo comma di tale articolo, se uno Stato membro ha posto rimedio a un inadempimento prima della scadenza di tale termine, la Commissione non può più adire la Corte.

( v. punto 15 )

2. Nel sistema istituito dall'art. 226 CE, il procedimento precontenzioso ha lo scopo di dare allo Stato membro interessato la possibilità di conformarsi agli obblighi che gli derivano dal diritto comunitario o di sviluppare un'utile difesa contro gli addebiti formulati dalla Commissione. La regolarità di tale procedimento precontenzioso costituisce così una garanzia essenziale, prevista dal Trattato a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi. Solo quando tale garanzia è rispettata il procedimento in contraddittorio dinanzi alla Corte può consentire a quest'ultima di stabilire se lo Stato membro sia effettivamente venuto meno agli obblighi che la Commissione sostiene esso abbia violato. In particolare, nel procedimento precontenzioso la lettera di diffida ha lo scopo di circoscrivere l'oggetto del contendere e di fornire allo Stato membro, invitato a presentare le sue osservazioni, i dati che gli occorrono per predisporre la propria difesa. Di conseguenza, il parere motivato e l'adizione della Corte ai sensi dell'art. 226, secondo comma, CE sono irregolari con riferimento ai diritti della difesa, poiché richiamano norme comunitarie diverse da quelle invocate nella lettera di diffida e poiché il cambiamento di contesto giuridico può aver modificato la valutazione relativa alla compatibilità della legislazione nazionale in oggetto con il diritto comunitario.

( v. punti 17-18 )

Parti


Nella causa C-145/01,

Commissione delle Comunità europee, rappresentata dal sig. A. Aresu, in qualità di agente, con domicilio eletto in Lussemburgo,

ricorrente,

contro

Repubblica italiana, rappresentata dal sig. U. Leanza, in qualità di agente, assistito dal sig. D. Del Gaizo, avvocato dello Stato, con domicilio eletto in Lussemburgo,

convenuta,

avente ad oggetto un ricorso diretto a far dichiarare che la Repubblica italiana, avendo mantenuto in vigore le disposizioni dell'art. 47, nn. 5 e 6, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, recante disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990) (Supplemento ordinario alla GURI n. 10 del 12 gennaio 1991, pag. 5),

- che consentono di non trasferire automaticamente dal cedente al cessionario tutti i contratti o i rapporti di lavoro nelle imprese che sono state oggetto di un concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni, nonché nelle imprese sottoposte al procedimento di amministrazione straordinaria, quando tali imprese continuano la loro attività dopo il trasferimento, e

- che, nel caso delle imprese dichiarate in «stato di crisi aziendale», non prevedono il trasferimento dal cedente al cessionario del personale e dei debiti risultanti da un contratto o da un rapporto di lavoro,

è venuta meno agli obblighi che le incombono ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (GU L 61, pag. 26), in particolare ai sensi dei suoi artt. 3 e 4,

LA CORTE (Sesta Sezione),

composta dal sig. J.-P. Puissochet (relatore), presidente di sezione, dai sigg. R. Schintgen e C. Gulmann, dalla sig.ra F. Macken e dal sig. J.N. Cunha Rodrigues, giudici,

avvocato generale: sig. P. Léger

cancelliere: sig. R. Grass

vista la relazione del giudice relatore,

sentite le conclusioni dell'avvocato generale, presentate all'udienza del 10 aprile 2003,

ha pronunciato la seguente

Sentenza

Motivazione della sentenza


1 Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria della Corte il 29 marzo 2001, la Commissione delle Comunità europee ha proposto, a norma dell'art. 226 CE, un ricorso diretto a far dichiarare che la Repubblica italiana, avendo mantenuto in vigore le disposizioni dell'art. 47, nn. 5 e 6, della legge 29 dicembre 1990, n. 428, recante disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1990) (Supplemento ordinario alla GURI n. 10 del 12 gennaio 1991, pag. 5; in prosieguo: la «legge n. 428/1990»),

- che consentono di non trasferire automaticamente dal cedente al cessionario tutti i contratti o i rapporti di lavoro nelle imprese che sono state oggetto di un concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni, nonché nelle imprese sottoposte al procedimento di amministrazione straordinaria, quando tali imprese continuano la loro attività dopo il trasferimento, e

- che, nel caso delle imprese dichiarate in «stato di crisi aziendale», non prevedono il trasferimento dal cedente al cessionario del personale e dei debiti risultanti da un contratto o da un rapporto di lavoro,

è venuta meno agli obblighi che le incombono ai sensi della direttiva del Consiglio 14 febbraio 1977, 77/187/CEE, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti (GU L 61, pag. 26), in particolare ai sensi dei suoi artt. 3 e 4.

Ambito normativo

2 Nella sua versione in vigore alla data in cui la Commissione ha intimato alla Repubblica italiana di presentare le proprie osservazioni in merito al presunto inadempimento, cioè il 16 luglio 1997, la direttiva 77/187 disponeva, alla sua sezione II, dal titolo: «Mantenimento dei diritti dei lavoratori»:

«Articolo 3

1. I diritti e gli obblighi che risultano per il cedente da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento (...) sono, in conseguenza di tale trasferimento, trasferiti al cessionario.

Gli Stati membri possono prevedere che il cedente, anche dopo la data del trasferimento (...), sia responsabile, accanto al cessionario, degli obblighi risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro.

2. Dopo il trasferimento (...), il cessionario mantiene le condizioni di lavoro convenute mediante contratto collettivo nei termini previsti da quest'ultimo per il cedente, fino alla data della risoluzione o della scadenza del contratto collettivo o dell'entrata in vigore o dell'applicazione di un altro contratto collettivo.

Gli Stati membri possono limitare il periodo del mantenimento delle condizioni di lavoro purché esso non sia inferiore ad un anno.

(...)

Articolo 4

1. Il trasferimento di un'impresa, di uno stabilimento o di una parte di stabilimento non è di per sé motivo di licenziamento da parte del cedente o del cessionario. Tale dispositivo non pregiudica i licenziamenti che possono aver luogo per motivi economici, tecnici o d'organizzazione che comportano variazioni sul piano dell'occupazione.

(...)».

3 La direttiva 77/187 è stata modificata dalla direttiva del Consiglio 29 giugno 1998, 98/50/CE (GU L 201, pag. 88). Ai sensi del suo art. 3, quest'ultima è entrata in vigore il 17 luglio 1998 ed era quindi applicabile alla data in cui la Commissione ha emesso il suo parere motivato relativo al presunto inadempimento, ossia il 4 agosto 1999.

4 La direttiva 98/50 ha modificato in particolare l'art. 3, n. 1, secondo comma, della direttiva 77/187, disposizione che è ora formulata come segue:

«Gli Stati membri possono prevedere che il cedente, anche dopo la data del trasferimento, sia responsabile, accanto al cessionario, degli obblighi risultanti prima della data del trasferimento da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro esistente alla data del trasferimento».

5 La direttiva 98/50 ha inoltre inserito nella direttiva 77/187 un art. 4 bis, così formulato:

«1. A meno che gli Stati membri dispongano diversamente, gli articoli 3 e 4 non si applicano ad alcun trasferimento di imprese, stabilimenti o parti di imprese o di stabilimenti nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso e che si svolgono sotto il controllo di un'autorità pubblica competente (che può essere il curatore fallimentare autorizzato da un'autorità pubblica competente).

2. Quando gli articoli 3 e 4 si applicano ad un trasferimento nel corso di una procedura di insolvenza aperta nei confronti del cedente (indipendentemente dal fatto che la procedura sia stata aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso) e a condizione che tali procedure siano sotto il controllo di un'autorità pubblica competente (che può essere un curatore fallimentare determinato dal diritto nazionale), uno Stato membro può disporre che:

a) nonostante l'articolo 3, paragrafo 1, gli obblighi del cedente risultanti da un contratto di lavoro o da un rapporto di lavoro e pagabili prima del trasferimento o prima dell'apertura della procedura di insolvenza non siano trasferiti al cessionario, a condizione che tali procedure diano adito, in virtù della legislazione dello Stato membro, ad una protezione almeno equivalente a quella prevista nelle situazioni contemplate dalla direttiva 80/987/CEE del Consiglio, del 20 ottobre 1980, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative alla tutela dei lavoratori subordinati in caso di insolvenza del datore di lavoro,

e/o

b) il cessionario, il cedente o la persona o le persone che esercitano le funzioni del cedente, da un lato, e i rappresentanti dei lavoratori, dall'altro, possano convenire, nella misura in cui la legislazione o le prassi in vigore lo consentano, modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti.

3. Uno Stato membro ha facoltà di applicare il paragrafo 2, lettera b) a trasferimenti in cui il cedente sia in una situazione di grave crisi economica quale definita dal diritto nazionale, purché tale situazione sia dichiarata da un'autorità pubblica competente e sia aperta al controllo giudiziario, a condizione che tali disposizioni esistano già nel diritto nazionale entro il 17 luglio 1998.

(...)

4. Gli Stati membri adottano gli opportuni provvedimenti al fine di impedire che l'abuso delle procedure di insolvenza privi i lavoratori dei diritti loro riconosciuti a norma della presente direttiva».

6 L'art. 2112 del Codice civile italiano, nella versione vigente all'epoca del procedimento precontenzioso, disponeva:

«Trasferimento dell'azienda

1) In caso di trasferimento dell'azienda, il rapporto di lavoro continua con l'acquirente ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano.

2) L'alienante e l'acquirente sono obbligati, in solido, per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento. Con le procedure di cui agli articoli 410 e 411 del codice di procedura civile il lavoratore può consentire la liberazione dell'alienante dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro.

3) L'acquirente è tenuto ad applicare i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi anche aziendali vigenti alla data del trasferimento, fino alla loro scadenza, salvo che siano sostituiti da altri contratti collettivi applicabili all'impresa dell'acquirente.

4) Le disposizioni di questo articolo si applicano anche in caso di usufrutto o di affitto dell'azienda».

7 L'art. 47, nn. 5 e 6, della legge n. 428/1990, oggetto del ricorso per inadempimento, dispone:

«Qualora il trasferimento riguardi aziende o unità produttive delle quali il CIPI [Comitato interministeriale per il coordinamento della politica industriale] abbia accertato lo stato di crisi aziendale a norma dell'art. 2, quinto comma, lettera c), della legge 12 agosto 1977, n. 675, o imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata e nel corso della consultazione di cui ai precedenti commi sia stato raggiunto un accordo circa il mantenimento anche parziale dell'occupazione, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'art. 2112 del codice civile, salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore. Il predetto accordo può altresì prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest'ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell'alienante.

I lavoratori che non passano alle dipendenze dell'acquirente, dell'affittuario o del subentrante hanno diritto di precedenza nelle assunzioni che questi ultimi effettuino entro un anno dalla data del trasferimento, ovvero entro il periodo maggiore stabilito dagli accordi collettivi. Nei confronti dei lavoratori predetti, che vengano assunti dall'acquirente, dall'affittuario o dal subentrante in un momento successivo al trasferimento d'azienda, non trova applicazione l'art. 2112 del codice civile».

Fase precontenziosa del procedimento

8 La lettera di diffida 16 luglio 1997, inviata dalla Commissione alla Repubblica italiana, fa valere una non corretta attuazione degli artt. 3, n. 1, e 4, n. 1, della direttiva 77/187, con riferimento al contenuto dell'art. 47, nn. 5 e 6, della legge n. 428/1990. A sostegno della propria analisi, la Commissione ha fatto riferimento in particolare all'interpretazione che di tale direttiva ha dato la Corte, segnatamente nella sua sentenza 7 dicembre 1995, causa C-472/93, Spano e a. (Racc. pag. I-4321). La Commissione ha inoltre argomentato:

«Una proposta modificata di direttiva, che modifica la direttiva 77/187/CEE [documento COM(97) 60 def.], è stata peraltro presentata dalla Commissione il 24 febbraio 1997. La proposta intende consentire una maggiore flessibilità in materia di trasferimenti effettuati nel contesto di procedure di insolvibilità, la qual cosa presenta per certi versi delle analogie con la legislazione italiana. Vorrei comunque precisare a tutti gli effetti che la legge italiana dovrà essere adattata anche se verrà adottata la modifica della direttiva proposta dalla Commissione. Il caso "di una semplice constatazione di crisi" effettuata da un'autorità amministrativa non è infatti interessato dalla proposta di direttiva e le disposizioni rivedute richiedono l'esistenza di una procedura di insolvibilità».

9 Dopo aver esaminato la risposta delle autorità italiane, trasmessa con lettera 16 settembre 1997, la Commissione ha emesso il parere motivato 4 agosto 1999. Questo conclude nei seguenti termini:

«(...) la Repubblica italiana, mantenendo in vigore le disposizioni dell'art. 47, paragrafi 5 e 6 della legge 428 del 29 dicembre 1990, che

a) permettono di non applicare il trasferimento automatico di tutti i contratti o rapporti di lavoro dal cedente al cessionario, nelle imprese che sono state oggetto di un concordato preventivo omologato consistente nella cessione dei beni, e nelle imprese soggette alla procedura d'amministrazione straordinaria allorché le imprese stesse continuano la loro attività dopo il trasferimento;

b) nel caso delle imprese dichiarate in stato di "crisi economica", non prevedono il trasferimento del personale e dei debiti risultanti da un contratto o da un rapporto di lavoro dal cedente al cessionario,

è venuta meno agli obblighi che le incombono in virtù della direttiva 77/187 (...) ed in particolare degli articoli 3 e 4.

In applicazione dell'articolo 226, secondo comma, del trattato CE, la Commissione invita la Repubblica italiana ad adottare le misure necessarie per conformarsi al presente parere motivato entro un termine di due mesi a decorrere dalla sua notifica».

10 La Commissione richiama, al punto 4 del preambolo del parere motivato, la giurisprudenza della Corte citata nella lettera di diffida e prosegue, al punto 5, nei seguenti termini:

«In secondo luogo la Commissione tiene a precisare che la nuova direttiva 98/50/CE, pur avendo conferito una certa flessibilità ai trasferimenti di imprese in difficoltà economica, non ha ravvicinato il diritto italiano in modo da renderlo integralmente conforme al diritto comunitario (...)».

11 Il parere motivato contiene, nel seguito del punto 5, nonché al punto 6, un'analisi volta a giustificare tale conclusione per quanto concerne gli effetti dell'introduzione, da parte della direttiva 98/50, dell'art. 4 bis nella direttiva 77/187.

Sulla ricevibilità del ricorso

12 Senza formalmente sollevare un incidente procedurale ai sensi dell'art. 91 del regolamento di procedura, il governo italiano sostiene, a titolo principale, che il ricorso è irricevibile. Esso rileva che, posteriormente alla diffida, ma prima della notifica del parere motivato, la direttiva 77/187 è stata sostanzialmente modificata dalla direttiva 98/50, in particolare per quanto riguarda l'applicazione degli artt. 3 e 4 nel contesto dei trasferimenti effettuati nell'ambito di procedure di liquidazione, d'insolvenza o di salvataggio delle imprese in difficoltà. Orbene, in tale parere motivato la Commissione avrebbe tenuto conto delle citate modifiche e non avrebbe limitato nel tempo le censure mosse al governo italiano. Così, il contenuto di tali censure sarebbe stato, se non ampliato, quantomeno modificato rispetto a quello esposto nella lettera di diffida.

13 La Commissione replica che le violazioni del diritto comunitario da essa invocate sono rimaste invariate nel parere motivato e nella diffida. Essa precisa che si tratta della violazione degli artt. 3 e 4 della direttiva 77/187. Il riferimento alle disposizioni della direttiva 98/50 nel parere motivato e nel ricorso non avrebbe altro oggetto che quello di rinforzare la posizione della Commissione, dimostrando che le violazioni della direttiva 77/187 non sono assolutamente venute meno in ragione dell'entrata in vigore della direttiva 98/50 e che, al contrario, esse permangono invariate. Sarebbe del resto paradossale che l'entrata in vigore di una direttiva che modifica una direttiva precedente autorizzasse uno Stato membro a persistere nella violazione delle disposizioni di quest'ultima, quando la direttiva modificativa non vi operi cambiamenti sostanziali.

14 Nella fattispecie, tale argomento della Commissione non può essere accolto.

15 Infatti, secondo costante giurisprudenza, l'esistenza di un inadempimento dev'essere valutata in relazione alla situazione dello Stato membro quale si presentava alla scadenza del termine stabilito nel parere motivato (v., segnatamente, sentenze 27 novembre 1990, causa C-200/88, Commissione/Grecia, Racc. pag. I-4299, punto 13, e 20 giugno 2002, causa C-299/01, Commissione/Lussemburgo, Racc. pag. I-5899, punto 11). Ai sensi dell'art. 226, secondo comma, CE, se uno Stato membro ha posto rimedio a un inadempimento prima della scadenza di tale termine, la Commissione non può più adire la Corte di giustizia.

16 Nella fattispecie, la Corte dovrebbe esaminare la situazione come essa si presentava nell'ottobre 1999, cioè due mesi dopo la notifica del parere motivato alla Repubblica italiana. Tuttavia, a tale data, la direttiva 98/50 era entrata in vigore da più di un anno. Orbene, come già ricordato al punto 5 della presente sentenza, tale direttiva ha introdotto un art. 4 bis nell'ambito della direttiva 77/187, consentendo a uno Stato membro, in una certa misura e in determinate circostanze, di non applicare le disposizioni degli artt. 3 e 4 di quest'ultima. Non è escluso che le disposizioni di cui all'art. 47, nn. 5 e 6, della legge n. 428/1999, oggetto del ricorso della Commissione, possano eventualmente, almeno in parte, corrispondere alle ipotesi considerate dal citato art. 4 bis. Il parere motivato contiene, peraltro, due interi punti intesi a dimostrare che, nonostante l'introduzione di tale articolo, la legge citata rimane contraria agli artt. 3 e 4 della direttiva 77/187 (v. punti 10 e 11 della presente sentenza). Invece, la lettera di diffida della Commissione, emessa nel luglio 1997, non contiene - e non potrebbe del resto contenere - elementi di analisi della legge stessa con riferimento all'art. 4 bis della direttiva 77/187, disposizione che non era ancora esistente. Come precisato al punto 8 della presente sentenza, in tale lettera la Commissione si è limitata ad evocare la sua proposta modificata di direttiva, che modifica la direttiva 77/187, il cui testo non è stato peraltro accolto integralmente dal Consiglio in sede di adozione della direttiva 98/50. Le autorità italiane, che nel settembre 1997 hanno diligentemente risposto alla lettera di diffida della Commissione, nel corso di tale fase del procedimento precontenzioso non hanno dunque potuto garantire la difesa della Repubblica italiana tenendo conto dell'art. 4 bis della direttiva 77/187, mentre tale disposizione, che ha avuto l'effetto di attenuare gli obblighi posti a carico degli Stati membri, era vigente nell'ottobre 1999, alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, e può aver modificato la valutazione della conformità della legislazione italiana alla direttiva citata.

17 Si deve ricordare che il procedimento precontenzioso ha lo scopo di dare allo Stato membro interessato la possibilità di conformarsi agli obblighi che gli derivano dal diritto comunitario o di sviluppare un'utile difesa contro gli addebiti formulati dalla Commissione (sentenza 2 febbraio 1988, causa 293/85, Commissione/Belgio, Racc. pag. 305, punto 13; ordinanza 11 luglio 1995, causa C-266/94, Commissione/Spagna, Racc. pag. I-1975, punto 16). La regolarità di tale procedimento precontenzioso costituisce così una garanzia essenziale, prevista dal Trattato a tutela dei diritti dello Stato membro di cui trattasi. Solo quando tale garanzia è rispettata il procedimento in contraddittorio dinanzi alla Corte può consentire a quest'ultima di stabilire se lo Stato membro sia effettivamente venuto meno agli obblighi che la Commissione sostiene esso abbia violato (ordinanza Commissione/Spagna, cit., punti 17 e 18). In particolare, nel procedimento precontenzioso la lettera di diffida ha lo scopo di circoscrivere l'oggetto del contendere e di fornire allo Stato membro, invitato a presentare le sue osservazioni, i dati che gli occorrono per predisporre la propria difesa.

18 Di conseguenza, il parere motivato e l'adizione della Corte ai sensi dell'art. 226, secondo comma, CE sono irregolari con riferimento ai diritti della difesa, poiché richiamano norme comunitarie diverse da quelle invocate nella lettera di diffida e poiché il cambiamento di contesto giuridico può aver modificato la valutazione relativa alla compatibilità della legislazione nazionale in oggetto con il diritto comunitario.

19 Da quanto precede risulta che il ricorso della Commissione dev'essere dichiarato irricevibile.

Decisione relativa alle spese


Sulle spese

20 Ai sensi dell'art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. Poiché la Repubblica italiana ne ha fatto domanda, la Commissione, rimasta soccombente, va condannata alle spese.

Dispositivo


Per questi motivi,

LA CORTE (Sesta Sezione)

dichiara e statuisce:

1) Il ricorso è irricevibile.

2) La Commissione delle Comunità europee è condannata alle spese.