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Document 61979CC0098

Conclusioni dell'avvocato generale Capotorti del 31 gennaio 1980.
Josette Pecastaing contro Stato belga.
Domanda di pronuncia pregiudiziale: Tribunal de première instance de Liège - Belgio.
Diritto di dimora e ordine pubblico.
Causa 98/79.

European Court Reports 1980 -00691

ECLI identifier: ECLI:EU:C:1980:32

CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE

FRANCESCO CAPOTORTI

DEL 31 GENNAIO 1980

Signor Presidente,

signori Giudici,

1. 

Le norme comunitarie che vi è stato chiesto di interpretare in questa causa pregiudiziale sono gli articoli 8 e 9 della direttiva del Consiglio 64/221 del 25 febbraio 1964, sul coordinamento dei provvedimenti speciali riguardanti il trasferimento e il soggiorno degli stranieri, giustificati da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Nell'esaminare tali disposizioni bisognerà tener conto anche dei principi inerenti all'equo processo, desumibili dall'articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, trattandosi di stabilire quali strumenti processuali di tutela debbano essere a disposizione dei cittadini di Stati membri, che siano colpiti da misure di allontanamento dal territorio di uno Stato membro diverso dal proprio, dove soggiornino od abbiano richiesto di stabilirsi.

I fatti di causa possono essere riassunti come segue.

La signora Josette Pecastaing, cittadina francese, si recò in Belgio nell'ottobre del 1977 e fissò la sua residenza ad Awans. L'8 novembre dello stesso anno, ella richiese alle autorità belghe l'autorizzazione a stabilirsi in quello Stato per svolgere un lavoro di cameriera in bar o caffè. L'Amministrazione della pubblica sicurezza, con atto del 3 maggio 1978, notificato il 16 successivo, respinse questa domanda, affermando che il comportamento della richiedente rendeva non desiderabile, per ragioni di ordine pubblico, che ella rimanesse in Belgio. Nella motivazione del provvedimento di rigetto si precisava tra l'altro, circa il comportamento della signora Pecastaing: «In Belgio ha lavorato in un bar sospetto dal punto di vista dei costumi. Dalla metà del gennaio 1978 non ha più mezzi di sussistenza personali; l'attestato del datore di lavoro da lei esibito va considerato come un attestato di favore. In Francia e in Germania: segnalata per prostituzione».

Il provvedimento in questione, oltre a negare alla richiedente l'autorizzazione a stabilirsi in Belgio, le ingiungeva di lasciare il paese entro 15 giorni, e aggiungeva che «in caso di inottemperanza» la destinataria dell'ordine «si esponeva, salve le azioni giudiziarie, ad essere arrestata e incarcerata in vista della sua consegna alla frontiera a cura della forza pubblica».

Il 24 maggio 1978, cioè entro gli otto giorni dalla notifica dell'atto sopra menzionato, la signora Pecastaing presentò ricorso al Ministero della giustizia, chiedendo che il suo caso fosse esaminato dalla Commissione consultiva per gli stranieri, a norma dell'articolo 3 bis della legge del 28 marzo 1952, modificata dalla legge del 1o aprile 1969. Dopo una serie di rinvìi, la Commissione trattò il caso nella seduta del 14 dicembre 1978, con la presenza dell'interessata, e ritenne fondato il rifiuto dell'autorità amministrativa di consentire lo stabilimento. Essa motivò il proprio parere in questi termini: «Comportamento personale pregiudizievole per l'ordine pubblico: ha lavorato in un bar sospetto dal punto di vista dei costumi; ha prodotto un attestato del datore di lavoro compiacente. In Francia e in Germania: segnalata per prostituzione nel 1977».

A seguito di questa procedura, l'Amministrazione della pubblica sicurezza fece conoscere alla signora Pecastaing, per il tramite del Sindaco del suo luogo di residenza, la conferma del rifiuto del permesso di stabilimento che già le era stato comunicato il 16 maggio 1978 e un nuovo ordine di lasciare il paese entro quindici giorni. Questa decisione fu notificata il 23 gennaio 1979.

Con atto 9 marzo 1979, la signora Pecastaing convenne in giudizio lo Stato belga davanti al Tribunale di prima istanza di Liegi, chiedendo che la decisione di allontanamento fosse revocata per illegalità e, in particolare, per incompatibilità con le norme comunitarie, e che lo Stato belga fosse inoltre condannato al risarcimento dei danni da lei subiti per effetto di tale atto illegittimo. Contemporaneamente l'attrice chiese al presidente del Tribunale adito di voler disporre, in via d'urgenza, la sospensione dell'efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.

Nell'ambito di questa seconda procedura, il presidente del Tribunale di prima istanza di Liegi ha proposto a questa Corte due gruppi di quesiti, che assumono a punto di partenza la sentenza 8 aprile 1976 della nostra Corte nel caso48/75, Royer (v. Raccolta 1976, p. 497), e precisamente il quarto punto del dispositivo di tale sentenza. La Corte dichiarò allora che «il provvedimento di espulsione non può essere eseguito, salvo in caso in urgenza comprovata, prima che l'interessato sia stato in grado di esperire i ricorsi consentitigli dagli articoli 8 e 9 della direttiva 64/221». Il giudice belga solleva ora, essenzialmente, due problemi. Il primo riguarda l'efficacia sospensiva dei ricorsi proposti dalle persone tutelate dall'ordinamento comunitario contro le misure di espulsione (o più esattamente contro il diniego di rilascio del primo documento di soggiorno e contro l'ordine di allontanamento): il giudice nazionale sembra essere convinto che i ricorsi per l'annullamento o la revoca degli atti amministrativi in questione, rientranti nell'articolo 8 della direttiva, abbiano sempre effetto sospensivo, e perciò chiede se uguale portata abbiano anche azioni giudiziarie diverse, come l'azione di responsabilità civile contro lo Stato che ha adottato il provvedimento a carico dello straniero. In tale contesto, il giudice fa riferimento sia al brano innanzi citato della sentenza Royer, sia al diritto fondamentale della persona ad un equo processo; e avanza l'ipotesi che quest'ultimo implichi non solo l'effettiva possibilità di adire personalmente i tribunali di un altro Stato, ma anche il diritto dell'interessato di rimanere, malgrado l'espulsione, nel territorio dello Stato di cui contesta il provvedimento, finché pende la causa. Il secondo problema, poi, viene posto con riguardo alle misure di espulsione con carattere di urgenza: il giudice belga si domanda se queste possano ricevere esecuzione malgrado la presentazione di un ricorso, e se la valutazione dell'urgenza sia un potere esclusivo dell'autorità che ordina l'espulsione ovvero sia deferita, in caso di controversia, al giudice dinanzi a cui l'ordine amministrativo sia stato impugnato.

2. 

Prima di affrontare l'esame dei problemi indicati, credo opportuno sottolineare che la regolamentazione della materia controversa rimane tuttora ancorata alla direttiva 64/221, la quale non si può considerare superata dalla giurisprudenza successiva della Corte, come invece sembrano suggerire la difesa della ricorrente nella causa principale e lo stesso agente della Commissione. È vero che, nella citata sentenza Royer, la Corte affermò, in termini molto netti, che «il diritto, per i cittadini di uno Stato membro, di entrare nel territorio di un altro Stato membro e di dimorarvi ... è ... attribuito direttamente dal Trattato ovvero, a seconda dei casi, dalle disposizioni adottate per la sua attuazione», e ciò «indipendentemente dal rilascio di un documento di soggiorno da parte della competente autorità di uno Stato membro» (punti 31-33 della motivazione). Questa presa di posizione rappresenta oggi senza dubbio la chiave per intendere esattamente la situazione giuridica dell'individuo appartenente ad uno Stato membro il quale si rechi in un altro paese della Comunità. Al tempo stesso, però, bisogna riconoscere che il sistema creato dalle norme della direttiva 64/221 è ancora in vigore e deve essere applicato fino a una eventuale nuova regolamentazione comunitaria. Il ruolo del giudice di fronte a situazioni del genere è necessariamente limitato: egli è chiamato ad interpretare le norme in vigore, pur sforzandosi di adattarle all'evoluzione dell'ordinamento e alle rinnovate esigenze della collettività. La nostra Corte ha già seguito questa via nella sentenza Royer e non vi sono ragioni per abbandonare quell'indirizzo.

3. 

Gli articoli 8 e 9 della direttiva 64/221 rispondono alla finalità di «offrire, in ogni Stato membro, ai cittadini degli altri Stati membri, idonei mezzi di ricorso avverso gli atti amministrativi» i quali investono il diritto di soggiorno (cfr. il terzo considerando della direttiva). Per conseguire questo scopo si stabilisce all'articolo 8 che ciascuno Stato membro debba innazitutto riconoscere ai cittadini degli altri Stati membri il diritto di valersi, contro le decisioni concernenti l'ingresso nel territorio, il rifiuto di rilascio o rinnovo del titolo di soggiorno o l'allontanamento dal territorio, dei «ricorsi consentiti ai cittadini avverso gli atti amministrativi».

È evidente che questo articolo risponde alla logica della piena equiparazione di trattamento fra cittadini e stranieri appartenenti ad altri paesi comunitari, ma non fa obbligo agli Stati membri d'introdurre nei rispettivi ordinamenti alcuna forma di ricorso contro gli atti amministrativi che essi non abbiano già adottato e messo a disposizione dei cittadini. Tanto meno, dunque, si può pensare che sia stato imposto di attribuire effetto sospensivo ai ricorsi esistenti, o ai ricorsi contro le decisioni sopra ricordate, concernenti gli stranieri. Una conferma inequivocabile è d'altronde fornita dall'articolo 9, paragrafo 1, che istituisce, come vedremo, una apposita procedura, destinata a funzionare (fra l'altro) nell'ipotesi di ricorsi giurisdizionali che non abbiano effetti sospensivi. Alla luce di questa norma, non si può dubitare che la mancanza di effetti sospensivi dei ricorsi giurisdizionali è una possibilità ammessa e compatibile con la logica della direttiva.

Il successivo articolo 9 ha una funzione che potrebbe dirsi complementare del beneficio assicurato dall'articolo 8. In effetti, il legislatore comunitario ha inteso imporre agli Stati membri, in presenza di certe carenze delle legislazioni rispettive, l'introduzione di garanzie procedurali minime a difesa dello straniero. Evidentemente la mera applicazione del principio della non discriminazione non è stata ritenuta idonea a tutelare adeguatamente gli interessi dei cittadini degli altri Stati membri, nella materia di cui trattasi. Si fanno perciò tre ipotesi, nelle quali la garanzia del trattamento nazionale è ritenuta insufficiente: che manchino possibilità di promuovere ricorsi giurisdizionali contro le decisioni sopra menzionate, o che tali ricorsi consentano solo il controllo di legittimità della decisione (escludendo il controllo di merito) o infine che essi non abbiano effetti sospensivi. Ricordo che su quest'ultimo caso si appunta l'attenzione del giudice del rinvio, giacché esso corrisponde alla situazione attuale dell'ordinamento belga, il quale offre allo straniero (in conformità dell'articolo 8 della direttiva in esame) la facoltà di impugnare gli ordini di allontanamento davanti al Consiglio di Stato o anche davanti al giudice ordinario (in connessione ad una domanda di risarcimento), ma non attribuisce né all'uno né all'altro ricorso giurisdizionale efficacia sospensiva dell'atto impugnato.

Nelle tre ipotesi dell'articolo 9, la direttiva stabilisce che il provvedimento lesivo degli interessi dello straniero debba essere esaminato da un'autorità amministrativa diversa da quella competente ad adottarlo, e stabilisce che in tale sede l'interessato ha diritto di far valere i propri mezzi di difesa.

Se si tratta del rifiuto di rinnovare il titolo di soggiorno, ovvero dell'allontanamento dal territorio di chi ne sia già munito, la decisione non può essere presa se il caso non è stato sottoposto all'esame anzidetto e se l'autorità amministrativa non ha emesso il suo parere, a meno che non vi sia urgenza. Il rifiuto di rilascio del primo titolo di soggiorno e la misura di allontanamento di chi non l'abbia ottenuto vengono invece decisi senza sollecitare d'ufficio un tale parere, ma la procedura di riesame deve aver luogo su domanda dell'interessato, che è allora autorizzato a difendersi anche di persona (salvo che non vi ostino ragioni di sicurezza dello Stato).

Il fatto che la particolare forma di tutela stabilita dall'articolo 9 rappresenti un rimedio per quei casi, in cui l'ordinamento nazionale non attribuisce ai ricorsi giurisdizionali un effetto sospensivo, induce già a riconoscere efficacia sospensiva al procedimento consultivo poc'anzi descritto. In altri termini, non avrebbe senso che la direttiva imponesse agli Stati membri di istituire tale procedimento ogni qualvolta i ricorsi giurisdizionali già previsti dall'ordinamento sono privi di carattere sospensivo, e al tempo stesso consentisse di adottare una decisione di allontanamento (o le altre sopra indicate) senza attendere l'esito della procedura. Sul punto, la Corte ha già preso chiaramente posizione con la citata sentenza Royer affermando (punto 60/61 della motivazione): «nel caso in cui il ricorso di cui all'articolo 8 non sia consentito ovvero, pur essendo possibile, non abbia effetto sospensivo, il provvedimento non può essere adottato — tranne in caso di urgenza comprovata — prima che l'interessato sia stato posto in grado di adire l'autorità indicata dall'articolo 9 della direttiva 64/221 e prima che questa si sia pronunciata». Tale giurisprudenza merita, a mio avviso, di essere confermata.

Sempre tenendo conto della sentenza Royer, si può cercare poi di ricostruire la logica dei rapporti tra l'articolo 8 e l'articolo 9 della direttiva 64/221. Conviene partire da questa alternativa delineata nel citato punto 60/61 della motivazione: può darsi che l'ordinamento di uno Stato membro preveda ricorsi giurisdizionali aventi effetto sospensivo, o che non ne preveda con tale effetto (o non ne preveda affatto). Nel primo caso, l'interessato deve essere posto in grado di proporre il ricorso prima che il provvedimento di espulsione diventi definitivo, in modo da ottenerne la sospensione (v. anche punto 56/59 della motivazione). Nel secondo caso, come si è visto, l'interessato deve fruire della garanzia del procedimento previsto dall'articolo 9, e il provvedimento di espulsione non può avere effetto prima che l'autorità amministrativa incaricata dell'esame (o del riesame) del caso non abbia pronunziato il suo parere. Solo se non si dimentica la differenza fra le due situazioni giuridiche alternative sopra indicate si riesce ad intendere esattamente il valore dell'affermazione della Corte, secondo cui la tutela costituita dall'esercizio del diritto di ricorso contro i provvedimenti di espulsione o misure affini «sarebbe puramente illusoria se gli Stati membri, dando immediata esecuzione al provvedimento di espulsione, potessero privare l'interessato della possibilità di valersi efficacemente dei rimedi garantitigli dalla direttiva 64/221» (punto 56/59 della motivazione). E ancora: solo se la differenza fra le due situazioni indicate è chiara si attribuisce il giusto significato al quarto punto del dispositivo della sentenza Royer, nel quale i mezzi di ricorso previsti dagli articoli 8 e 9 della direttiva sono congiuntamente considerati, e si afferma che non si può precluderne l'esperimento attraverso l'immediata esecuzione del provvedimento di espulsione.

Abbiamo visto precedentemente che proprio sul quarto punto del dispositivo della sentenza Royer il giudice belga di rinvio si è basato nel formulare i suoi quesiti. Risulta evidente, tuttavia, se si tiene conto delle considerazioni ora svolte, che quel giudice ha inesattamente interpretato la sentenza Royer, quando ha creduto di poterne desumere il principio del costante effetto sospensivo dei ricorsi giurisdizionali, di cui all'articolo 8 della direttiva. In realtà, altro è esigere che l'interessato sia posto in grado di esperire i ricorsi, senza esserne impedito dall'immediata esecuzione di una misura di espulsione, altro è considerare ogni ricorso giurisdizionale accompagnato da un effetto sospensivo (che dovrebbe comportare il rinvio dell'esecuzione di quella misura fino alla decisione finale sul ricorso). La Corte non ha affermato nulla di questo genere: lo prova il fatto che, in aderenza alla direttiva 64/221, essa si è pronunciata, nella sentenza Royer, sull'ipotesi in cui i ricorsi giurisdizionali non sospendono l'esecuzione (punto 60/61 della motivazione).

Ribadisco perciò che, in forza degli articoli 8 e 9 della citata direttiva, sia i ricorsi giurisdizionali esperibili davanti al giudice amministrativo e intesi ad ottenere l'annullamento dell'atto impugnato, sia quelli esperibili davanti al giudice ordinario e intesi ad ottenere il risarcimento dei danni derivanti da un atto amministrativo illegittimo, hanno effetto sospensivo rispetto al provvedimento impugnato solo quando l'ordinamento interno competente già attribuisca loro tale carattere. Il mezzo di tutela apprestato dall'articolo 9, paragrafo 2, della citata direttiva, così come la procedura consultiva prevista dall'articolo 9, paragrafo 1, hanno invece effetto sospensivo della misura di allontanamento dal territorio, che non potrà essere confermata (nel caso di cui al paragrafo 2) o adottata (nel caso di cui al paragrafo 1) se non quando l'apposita autorità amministrativa abbia emesso il suo parere.

4. 

Ritengo ora opportuno soffermarmi sulle caratteristiche salienti del procedimento amministrativo contemplato dall'articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 64/221, e mettere in luce a quali condizioni gli Stati membri dovrebbero conformarsi, nell'adeguarsi alla norma in questione, affinchè quel procedimento valga come mezzo adeguato di ricorso, secondo l'indicazione fornita dal terzo considerando della direttiva.

Osservo in primo luogo che sarebbero indubbiamente contrarie all'ordinamento comunitario eventuali prassi nazionali tendenti ad escludere l'effetto sospensivo della procedura in questione, limitandolo alla sola ipotesi contemplata dal paragrafo 1 dell'articolo 9. Anche se la disposizione del paragrafo 2 non è esplicita, per quanto riguarda l'effetto sospensivo, mi sembra che l'articolo vada letto unitariamente, essendo omogenei e sostanzialmente coincidenti gli interessi cui si riferiscono i due paragrafi della disposizione in discorso. In ogni modo, ho già avuto occasione di mettere in evidenza che scopo dell'articolo 9 è di supplire a determinate carenze dei sistemi interni — ed in particolare alla mancata previsione dell'effetto sospensivo dei ricorsi amministrativi o giurisdizionali —, sicché il procedimento ex articolo 9, paragrafo 2, non risponderebbe allo scopo per il quale è stato escogitato se non avesse il suddetto effetto sospensivo.

Allorché dunque l'interessato sollecita l'esame dell'autorità descritta nell'articolo 9, paragrafo 1, il provvedimento di allontanamento (o di rifiuto di rilascio del primo titolo di soggiorno) non può essere eseguito finché una presa di posizione di quell'autorità, coincidente con quella dell'ufficio di pubblica sicurezza che ha adottato il provvedimento, non sia stata notificata all'interessato.

Quanto alla posizione e alle funzioni dell'autorità amministrativa indicata nell'articolo 9, paragrafo 1, nei casi in cui essa esamina la domanda prevista dal paragrafo 2 di tale articolo, osservo che quest'ultima disposizione non chiarisce se l'autorità in questione sia chiamata ad emettere un parere o una vera e propria decisione. A mio avviso, tuttavia, il fatto che la funzione rimanga consultiva risulta dal collegamento fra i due paragrafi dell'articolo 9. È significativo, in particolare, che il paragrafo 2 usi l'espressione «l'autorità il cui parere preliminare è previsto al paragrafo 1» e che parli di «esame» senza indicare alcun potere decisionale. Ancora più significativo è che la medesima autorità svolga una funzione consultiva nel procedimento previsto nel paragrafo 1, in relazione alle misure «di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno o ... di allontanamento dal territorio del titolare del permesso di soggiorno»; procedimento il quale coinvolge interessi di maggiore portata, trattandosi di individui già radicati nella realtà del paese dal quale li si vuole espellere. Sembra dunque ragionevole ritenere che in entrambi i casi il ruolo della seconda autorità sia stato previsto come meramente consultivo; mentre sarebbe contraddittoria una diversa interpretazione, che riconoscesse una più intensa tutela proprio agli interessi comparativamente meno rilevanti.

Un terzo aspetto che va sottolineato è quello della indipendenza dell'autorità investita dell'esame a titolo consultivo rispetto all'autorità che ha il potere decisionale. In tal senso va interpretato il secondo comma del paragrafo 1 dell'ani-colo 9, dove si dispone che l'autorità in questione debba «essere diversa da quella cui spetta l'adozione dei provvedimenti di diniego del rinnovo del permesso o di allontanamento dal territorio». Mi sembra infatti che la diversità fra le due autorità, decidente e consultiva, risponda allo scopo di assicurare un controllo imparziale sulle scelte dell'autorità competente ad adottare la misura di espulsione (o le misure affini). Non si deve dimenticare che il procedimento ex articolo 9, paragrafo 2, è complementare rispetto ai ricorsi giurisdizionali, sicché anche sotto questo profilo sembra ragionevole che esso sia organizzato secondo una logica simile a quella della funzione giurisdizionale, e quindi garantendo l'indipendenza dell'organo chiamato ad esaminare i provvedimenti impugnati, anche se il riesame si risolve nella mera emissione di un parere. Orbene, perchè vi sia effettiva diversità fra le due autorità e quindi indipendenza dell'una rispetto all'altra è indispensabile, a mio avviso, che la persona o le persone che compongono l'organo consultivo non abbiano vincoli di sorta rispetto all'autorità chiamata a decidere. Penso, ad esempio, che sarebbe incompatibile con la funzione di componente di un organo di questo tipo la posizione di dipendente (in servizio) dell'amministrazione cui spetta il compito di decidere in via definitiva. Non mi sembrano, cioè, sufficienti a garantire l'indipendenza dell'organo, né la circostanza che i componenti vengano nominati da un'autorità diversa rispetto a quella che deve decidere, né il fatto che, nell'esercizio della funzione consultiva, essi non siano gerarchicamente subordinati all'amministrazione cui stabilmente appartengono. Soltanto l'assenza di qualsiasi legame di dipendenza di chi impersona l'organo, rispetto all'amministrazione cui compete la decisione, può, a mio parere, garantire in modo adeguato una indipendenza effettiva.

Un ultimo aspetto del procedimento contemplato dall'articolo 9 della direttiva, che merita talune precisazioni, è quello del diritto di difesa. Il paragrafo 2 dell'articolo in esame dispone che «l'interessato è ... autorizzato a presentare di persona i propri mezzi di difesa, a meno che non vi si oppongano motivi di sicurezza dello Stato». Ritengo che la presentazione di mezzi difensivi debba implicare l'accesso dell'interessato, direttamente o tramite il suo avvocato, al fascicolo processuale. Tale facoltà costituisce un aspetto essenziale dell'attività difensiva, considerato che soltanto una conoscenza esatta di tutti gli elementi su cui si è basata l'amministrazione per adottare il suo provvedimento consente di apprestare una difesa puntuale ed efficace. L'unica circostanza che può limitare l'accesso al fascicolo è l'eventuale esistenza di «motivi di sicurezza dello Stato», come si desume dall'ultima parte del paragrafo 2 dell'articolo 9.

Un procedimento configurato secondo le linee interpretative dell'articolo 9 che ora ho suggerito mi sembra idoneo a svolgere la funzione che gli è assegnata dalle norme comunitarie, nell'ambito dei mezzi di ricorso assicurati ai cittadini degli Stati membri, contro le misure di allontanamento da un altro Stato membro. Al riguardo è opportuno ribadire che tale funzione è complementare rispetto ai ricorsi giurisdizionali i quali non abbiano efficacia sospensiva ipso iure, e serve essenzialmente a garantire un riesame della decisione di allontanamento con l'intervento degli interessati, oltre che una sospensione dell'efficacia di tale decisione, pur se necessariamente limitata nel tempo.

5. 

Non penso che la soluzione da me accolta possa essere messa in discussione invocando l'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, e il diritto a un equo processo, che esso garantisce. In proposito, abbiamo visto che il giudice belga ha fatto espresso riferimento a quel diritto, e si è chiesto se esso implichi che si debba riconoscere al cittadino di uno Stato membro la possibilità di «adire personalmente» i tribunali di ogni altro Stato membro, ed eventualmente il diritto di trovarsi durante la causa nel territorio dello Stato contro il quale il ricorso è stato promosso.

Vorrei chiarire, a titolo preliminare, che secondo la giurisprudenza delle Commissione europea sui diritti dell'uomo il diritto ad un equo processo, riconosciuto nell'articolo 6 della Convenzione, riguarda soltanto il processo penale e quello civile, con esclusione quindi del processo amministrativo (v. in questo senso: X, Y, V, W c/Regno Unito, domande n. 3325/67, 15 dicembre 1967, in Annuaire de la Convention européenne des droits de l'homme, vol. 10, p. 337 e 339; Eglise de X c/Regno Unito, domanda n. 3798/67, 17 dicembre 1968, in Annuaire, vol. 12, p. 317). Vi è quindi ragione di chiedersi se l'articolo 6 possa essere applicato ai ricorsi giurisdizionali promossi dal singolo per far valere, nei confronti dell'amministrazione statale, il proprio diritto di soggiorno in base al Trattato di Roma. A prima vista, la risposta è condizionata dalla natura civile o amministrativa delle azioni esperibili dall'interessato, nella materia di cui ci stiamo occupando. Tuttavia sarei orientato a rispondere affermativamente, considerato che la posizione fatta valere è un vero e proprio diritto soggettivo, mentre la Commissione europea sembra ritenere — a mio avviso correttamente — che le situazioni giuridiche individuali dedotte in giudizio siano qualificabili come «amministrative», e comportino quindi la non applicabilità al procedimento dei principi di cui all'articolo 6, solo quando si tratti di situazioni subordinate alla valutazione discrezionale dell'autorità pubblica (in questo senso, v. la decisione della Commissione sulla già citata richiesta n. 3798/78).

Ciò premesso, rilevo che l'orientamento più recente della Corte europea dei diritti dell'uomo è certamente nel senso di riconoscere il diritto di adire il giudice civile, quale posizione soggettiva non espressamente contemplata dall'articolo 6 della Convenzione, ma scaturente dalla logica complessiva di tale disposizione (molto significativa al riguardo è la sentenza Golder del 24 febbraio 1975, Corte europea dei diritti dell'uomo, serie A, n. 18). Ma fra il diritto di adire un tribunale e quello di comparire personalmente davanti ad esso vi è una differenza, che non va dimenticata. In effetti, la giurisprudenza della stessa Corte e quella della Commissione esitano ad affermare l'esistenza di un diritto della parte a comparire di persona nel procedimento civile, e paiono piuttosto orientati nel senso che una regola generale non sia ravvisabile e si debba piuttosto risolvere la questione caso per caso. In sostanza, il diritto a comparire dovrebbe essere riconosciuto tutte le volte che, in relazione alle circostanze di causa, la presenza personale della parte sia necessaria ai fini di un'efficace difesa.

Mi sembra che una soluzione del genere, che riconduce la comparizione personale al diritto di difesa, possa essere condivisa anche sul piano comunitario. Abbiamo visto però che il giudice di rinvio si spinge oltre, facendo l'ipotesi che dal diritto all'equo processo discenda anche quello di rimanere nel paese ove il processo si svolge, per tutta la sua durata. Su questo punto la mia opinione è negativa: un tale diritto non potrebbe infatti giustificarsi facendo ancora riferimento alle necessità della difesa, come per il diritto a comparire di persona. La verità è che, attraverso il preteso diritto alla permanenza in loco per tutta la durata del processo, si vorrebbe ottenere un risultato di diritto sostanziale: permettere all'individuo di rimanere nello Stato dal quale lo si vorrebbe allontanare, per evitare il pregiudizio del cambiamento di residenza, che si afferma non sia pienamente indennizzabile in caso di conclusione favorevole della procedura. Ciò equivarrebbe a frapporre un ostacolo alla esecutività della decisione di allontanamento, in nome di un diritto che ha una portata assai più vasta, e che nei termini generali in cui merita di essere considerato non comporta la conseguenza voluta.

6. 

La soluzione da me accolta circa gli articoli 8 e 9 della direttiva 64/221 non contrasta neppure, a mio avviso, con la configurazione come diritto soggettivo della facoltà, spettante in base al Trattato ai cittadini comunitari, di soggiornare nel territorio di qualsiasi altro Stato membro. Non convince infatti l'argomento svolto in proposito dalla difesa della Commissione, secondo cui l'esistenza di un diritto implicherebbe in ogni caso l'esigenza di assicurarne la tutela giurisdizionale, con il corollario di un effetto sospensivo automatico del ricorso giurisdizionale. A mio avviso, è arbitrario sostenere che la mancanza di tale effetto equivalga a mancanza di tutela giurisdizionale. Anche a volere ammettere che le situazioni soggettive derivanti dal Trattato direttamente a favore degli individui debbano essere in ogni caso tutelabili mediante un'azione davanti all'autorità giurisdizionale, non mi sembra possa desumersi da ciò che una tale protezione verrebbe meno ogni volta che lo straniero assoggettato ad un ordine di allontanamento non avesse la possibilità di paralizzarne l'esecuzione con la semplice proposizione del ricorso giurisdizionale. La tutela della situazione di fatto di chi si trova temporaneamente in un altro Stato membro è infatti assicurata attraverso un meccanismo più agile e rapido, anche se meno efficace del ricorso giurisdizionale; e cioè attraverso l'obbligo del riesame a livello amministrativo e la sospensione dell'ordine di allontanamento limitata al tempo dell'espletamento della procedura consultiva. D'altra parte, la circostanza che l'ordine di allontanamento sia eseguito non è di ostacolo all'eventuale esperibilità dei ricorsi giurisdizionali, e quindi non esclude che, all'esito di essi, l'interessato ottenga il riconoscimento del proprio diritto di soggiornare in uno Stato membro senza esserne cittadino.

La maggiore debolezza della tutela apprestata per la conservazione, finché pendono le procedure di ricorso, della situazione esistente al momento del provvedimento di allontanamento si giustifica in considerazione degli interessi generali per la cui protezione lo Stato può negare il diritto di soggiorno. Si tratta, come è noto, di ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica che sono, riconosciute espressamente dal Trattato (articolo 48, paragrafo 3, principio) ed hanno la funzione di limitare l'ampiezza del menzionato diritto. È del tutto normale e giustificato che l'interesse del singolo a conservare inalterata la propria situazione in pendenza dei ricorsi sia destinato a cedere di fronte a ragioni di tale natura, sia pure entro certi limiti e con talune cautele essenziali destinate ad assicurare, come abbiamo visto, un duplice esame da parte di autorità diverse della posizione dello straniero, con correlativa sospensione dell'ordine di allontanamento.

Del resto, la necessità di una graduazione nelle forme di tutela idonee a salvaguardare la situazione di fatto dello straniero trova una puntuale conferma nella stessa direttiva 64/221, che all'articolo 9, paragrafo 1, esclude l'effetto sospensivo della speciale procedura amministrativa ivi prevista «in caso di urgenza». Ed è importante ricordare che questa Corte, nella sentenza Royer, ha menzionato espressamente tale eccezione senza metterne in dubbio la conformità al Trattato (cfr. punto 60/61 della motivazione, secondo periodo).

7. 

Resta da esaminare il secondo gruppo di quesiti: bisogna cioè stabilire se un provvedimento di espulsione possa essere eseguito, in caso di urgenza, anche dopo la presentazione di un ricorso giurisdizionale, e se la valutazione dell'urgenza debba essere fatta esclusivamente dall'autorità amministrativa, oppure se, una volta introdotto un ricorso, la relativa competenza spetti al giudice adito.

Osservo anzitutto che, una volta accolta la tesi secondo cui la presentazione di un ricorso giurisdizionale non ha, in base alla direttiva 64/221, un automatico effetto sospensivo rispetto all'atto amministrativo impugnato, è evidente che l'autorità statale non incontra ostacolo alla eventuale esecuzione del proprio provvedimento nella semplice pendenza del ricorso. Da questo punto di vista, il fatto che l'esecuzione sia urgente non ha alcun particolare rilievo. Trattandosi invece della procedura prevista dall'articolo 9, una esecuzione anteriore alla pronunzia del parere dell'autorità ad hoc può essere giustificata soltanto quando vi sia urgenza. Ciò risulta espressamente dall'articolo 9, paragrafo 1, e la medesima regola deve intendersi applicabile all'ipotesi configurata nell'articolo 9, paragrafo 2.

L'urgenza consente dunque che il provvedimento di espulsione sia, in entrambi i casi, eseguito prima che intervenga il parere dell'autorità consultiva competente per l'esame (o il riesame) di esso. La Corte, nella già richiamata sentenza Royer, ha riconosciuto la legittimità di questa situazione, limitandosi a richiedere che l'urgenza sia «comprovata». Non ritengo che vi siano ragioni per discostarsi da questo indirizzo.

Quanto all'individuazione dell'organo competente a valutare l'urgenza, allorché vi sia un ricorso giurisdizionale pendente, sono d'avviso che la valutazione spetti alla stessa autorità cui compete di ordinare l'allontanamento. Si tratta infatti di una scelta strettamente connessa alla decisione di disporre l'allontanamento, sicché sarebbe artificioso separare le due decisioni per la sola ragione che un ricorso è pendente. Si tratta per di più di una tipica scelta dell'amministrazione, che non mi sembra ragionevole trasferire agli organi giudiziari. A questi spetterà eventualmente di controllare ex post la decisione dell'autorità amministrativa nel caso che l'interessato si rivolga ad essi utilizzando gli ordinari mezzi di ricorso.

8. 

In conclusione propongo che la Corte, rispondendo ai quesiti ad essa rivolti dal presidente del Tribunale di prima istanza di Liegi, con l'ordinanza in data 18 giugno 1979, dichiari quanto segue:

a)

Gli articoli 8 e 9 della direttiva del Consiglio 64/221 non obbligano gli Stati membri ad attribuire effetto sospensivo alla introduzione di un ricorso giurisdizionale (dinanzi al giudice ordinario od a quello amministrativo) avverso il provvedimento di diniego di soggiorno e il connesso ordine di allontanamento. Pertanto la presentazione di un ricorso giurisdizionale che secondo l'ordinamento nazionale interessato sia privo di efficacia sospensiva non preclude l'esecuzione del provvedimento (di diniego del soggiorno e di allontanamento); e ciò indipendentemente dalla circostanza che ricorra o meno l'urgenza.

b)

In forza dell'articolo 9, paragrafo 2, della direttiva anzidetta, quando il destinatario di un provvedimento di diniego di soggiorno e di allontanamento abbia chiesto il riesame del caso da parte di un'autorità diversa, munita di funzioni consultive, tale domanda ha l'effetto di sospendere l'esecuzione della misura impugnata; questa sospensione deve durare quanto meno sino a che tale diversa autorità abbia emesso e reso noto all'interessato il proprio parere.

c)

In conformità al principio consacrato nell'articolo 6 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo, sono riconosciuti nell'ordinamento comunitario il diritto di adire i tribunali di un altro Stato membro e il diritto di chi sia parte in un giudizio civile di comparire personalmente davanti al giudice qualora la comparizione sia necessaria per l'esercizio efficace del diritto di difesa. L'ordinamento comunitario non riconosce invece a chi sia parte in un giudizio civile il diritto di permanere per l'intera durata del giudizio nel territorio dello Stato cui appartiene il giudice adito.

d)

La pendenza del particolare procedimento previsto nell'articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 64/221 non è di ostacolo all'esecuzione del provvedimento impugnato se ricorre un caso di comprovata urgenza.

e)

Spetta all'autorità statale, la quale adotta il provvedimento di diniego del soggiorno e di allontanamento, valutare se sussista l'urgenza di eseguire il provvedimento stesso prima che sia concluso il procedimento previsto nell'articolo 9 della direttiva 64/221.

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