Parti
Motivazione della sentenza
Dispositivo
Nella causa C‑540/03,
avente ad oggetto un ricorso d’annullamento proposto, ai sensi dell’art. 230 CE, il 22 dicembre 2003,
Parlamento europeo , rappresentato dai sigg. H. Duintjer Tebbens e A. Caiola, in qualità di agenti, con domicilio eletto a Lussemburgo,
ricorrente,
contro
Consiglio dell’Unione europea , rappresentato dal sig. O. Petersen e dalla sig.ra M. Simm, in qualità di agenti,
convenuto,
sostenuto da
Commissione delle Comunità europee , rappresentata dalla sig.ra C. O’Reilly e dal sig. C. Ladenburger, in qualità di agenti, con domicilio eletto a Lussemburgo,
interveniente,
e da
Repubblica federale di Germania , rappresentata dalla sig.ra A. Tiemann nonché dai sigg. W.-D. Plessing e M. Lumma, in qualità di agenti,
interveniente,
LA CORTE (Grande Sezione),
composta dal sig. V. Skouris, presidente, dai sigg. P. Jann, C.W.A. Timmermans, A. Rosas (relatore) e K. Schiemann, presidenti di sezione, dai sigg. J.‑P. Puissochet, K. Lenaerts, P. Kūris, E. Juhász, E. Levits e A. Ó Caoimh, giudici,
avvocato generale: sig.ra J. Kokott
cancelliere: sig.ra M. Ferreira, amministratore principale
vista la fase scritta del procedimento e in esito all’udienza del 28 giugno 2005,
sentite le conclusioni dell’avvocato generale, presentate all’udienza dell’8 settembre 2005,
ha pronunciato la seguente
Sentenza
1. Con il presente ricorso il Parlamento europeo chiede l’annullamento dell’art. 4, nn. 1, ultimo comma, e 6, nonché dell’art. 8 della direttiva del Consiglio 22 settembre 2003, 2003/86/CE, relativa al diritto al ricongiungimento familiare (GU L 251, pag. 12; in prosieguo: la «direttiva»)
2. Con ordinanza del presidente della Corte 5 maggio 2004, è stato ammesso l’intervento della Commissione delle Comunità europee e della Repubblica federale di Germania a sostegno del Consiglio dell’Unione europea.
La direttiva
3. La direttiva, fondata sul Trattato CE, e in particolare sull’art. 63, n. 3, lett. a), del medesimo, stabilisce i requisiti in presenza dei quali può essere esercitato il diritto al ricongiungimento familiare a favore dei cittadini dei paesi terzi che risiedano legalmente sul territorio degli Stati membri.
4. Il secondo ‘considerando’ della direttiva così recita:
«Le misure in materia di ricongiungimento familiare dovrebbero essere adottate in conformità con l’obbligo di protezione della famiglia e di rispetto della vita familiare che è consacrato in numerosi strumenti di diritto internazionale. La presente direttiva rispetta i diritti fondamentali ed i principi riconosciuti in particolare nell’articolo 8 della convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [GU 2000, C 364, pag. 1; in prosieguo: la «Carta»].
5. Il successivo dodicesimo ‘considerando’ della direttiva precisa quanto segue:
«La possibilità di limitare il diritto al ricongiungimento familiare dei minori che abbiano superato i dodici anni e che non risiedono in via principale con il soggiornante intende tener conto della capacità di integrazione dei minori nei primi anni di vita e assicurare che essi acquisiscano a scuola l’istruzione e le competenze linguistiche necessarie».
6. La direttiva si applica, ai termini dell’art. 3 della medesima, quando il soggiornante è titolare di un permesso di soggiorno rilasciato da uno Stato membro per un periodo di validità pari o superiore a un anno e ha fondate prospettive di ottenere il diritto di soggiornare in modo stabile, se i membri della sua famiglia sono cittadini di paesi terzi, indipendentemente dal loro status giuridico.
7. Ai sensi dell’art. 3, n. 4, della direttiva stessa:
«La presente direttiva fa salve le disposizioni più favorevoli contenute:
a) negli accordi bilaterali e multilaterali stipulati tra la Comunità o tra la Comunità e i suoi Stati membri, da una parte, e dei paesi terzi, dall’altra;
b) nella Carta sociale europea del 18 ottobre 1961, nella Carta sociale europea riveduta del 3 maggio 1987 e nella convenzione europea relativa allo status di lavoratore migrante del 24 novembre 1977».
8. Ai termini del successivo art. 4, n. 1, gli Stati membri autorizzano l’ingresso ed il soggiorno, conformemente alla direttiva stessa, segnatamente, dei figli minorenni, compresi i figli adottati, del soggiornante e del coniuge, nonché di quelli del soggiornante o di quelli del coniuge quando il genitore ne abbia l’affidamento e sia responsabile del loro mantenimento. Ai sensi del penultimo comma del n. 1 del medesimo art. 4, i figli minorenni di cui al detto articolo devono avere un’età inferiore a quella in cui si diventa legalmente maggiorenni nello Stato membro interessato e non devono essere coniugati. Il successivo ultimo comma così recita:
«In deroga alla disposizione che precede, qualora un minore abbia superato i dodici anni e giunga in uno Stato membro indipendentemente dal resto della sua famiglia, quest’ultimo, prima di autorizzarne l’ingresso ed il soggiorno ai sensi della presente direttiva, può esaminare se siano soddisfatte le condizioni per la sua integrazione richieste dalla sua legislazione in vigore al momento dell’attuazione della presente direttiva».
9. L’art. 4, n. 6, della direttiva medesima prevede quanto segue:
«In deroga alla disposizione precedente gli Stati membri possono richiedere che le domande riguardanti il ricongiungimento familiare di figli minori debbano essere presentate prima del compimento del quindicesimo anno di età, secondo quanto previsto dalla loro legislazione in vigore al momento dell’attuazione della presente direttiva. Ove dette richieste vengano presentate oltre il quindicesimo anno di età, gli Stati membri che decidono di applicare la presente deroga autorizzano l’ingresso e il soggiorno di siffatti figli per motivi diversi dal ricongiungimento familiare».
10. L’art. 5, n. 5, della direttiva stessa impone agli Stati membri di tenere nella dovuta considerazione, nell’esame della domanda, l’interesse superiore dei minori.
11. Il successivo art. 8 della direttiva così dispone:
«Gli Stati membri possono esigere che il soggiornante, prima di farsi raggiungere dai suoi familiari, abbia soggiornato legalmente nel loro territorio per un periodo non superiore a due anni.
In deroga alla disposizione che precede, qualora, in materia di ricongiungimento familiare, la legislazione in vigore in uno Stato membro al momento dell’adozione della presente direttiva tenga conto della sua capacità di accoglienza, questo Stato membro può prevedere un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione della domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai familiari».
12. L’art. 16 della direttiva medesima elenca talune circostanze in presenza delle quali gli Stati membri possono respingere una domanda di ingresso e di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare ovvero, eventualmente, revocare il permesso di soggiorno di un familiare o negarne il rinnovo.
13. Il successivo art. 17 così recita:
«In caso di rigetto di una domanda, di ritiro o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento nei confronti del soggiornante o dei suoi familiari, gli Stati membri prendono nella dovuta considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona e la durata del suo soggiorno nello Stato membro, nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo paese d’origine».
14. Ai termini dell’art. 18 della direttiva, le decisioni di rigetto di domande di ricongiungimento familiare, di revoca o di mancato rinnovo del permesso di soggiorno devono poter essere impugnate in sede giurisdizionale secondo le modalità e le competenze fissate dagli Stati membri interessati.
Sulla ricevibilità del ricorso
Sull’eccezione relativa al fatto che il ricorso non sarebbe diretto, in realtà, contro un atto delle istituzioni
15. Le disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento costituiscono deroghe agli obblighi imposti dalla direttiva agli Stati membri che consentono a questi ultimi di applicare le proprie normative nazionali le quali, ad avviso del Parlamento, non rispetterebbero i diritti fondamentali. A parere dell’istituzione tuttavia, ammettendo l’applicabilità delle dette normative nazionali, sarebbe la direttiva stessa a violare i diritti fondamentali. Il Parlamento si richiama al riguardo alla sentenza 6 novembre 2003, causa C‑101/01, Lindqvist (Racc. pag. I‑12971, punto 84).
16. Il Consiglio sottolinea, per contro, che la direttiva lascia agli Stati membri ampio margine di manovra che consente loro di mantenere in vigore o adottare disposizioni nazionali compatibili con il rispetto dei diritti fondamentali. A parere del Consiglio, il Parlamento non dimostrerebbe sotto quale profilo disposizioni eventualmente contrarie ai diritti fondamentali, adottate ed applicate dagli Stati membri, costituirebbero un atto delle istituzioni ai sensi dell’art. 46, lett. d), UE, soggetto al sindacato della Corte per quanto attiene al rispetto dei diritti fondamentali.
17. In ogni caso, il Consiglio si chiede in qual modo la Corte potrebbe esercitare un sindacato di legittimità puramente astratto con riguardo a disposizioni di diritto comunitario che si limitino a far riferimento ad ordinamenti nazionali di cui non conosce né il contenuto né le modalità di applicazione. La necessità di prendere in considerazione le circostanze concrete emergerebbe dalle sentenze 11 luglio 2002, causa C‑60/00, Carpenter (Racc. pag. I‑6279), e Lindqvist, citata supra.
18. La Commissione ritiene che il sindacato da parte della Corte sul rispetto dei diritti fondamentali, insito nei principi generali del diritto comunitario, non possa limitarsi alla sola ipotesi in cui una disposizione di una direttiva obblighi gli Stati membri ad adottare determinate misure in violazione dei diritti fondamentali stessi, bensì debba necessariamente estendersi al caso in cui la direttiva consenta espressamente misure di tal genere. Infatti, non ci si potrebbe attendere dagli Stati membri che essi stessi si rendano conto che una determinata misura, consentita da una direttiva comunitaria, sia in contrasto con i diritti fondamentali. L’istituzione conclude che il sindacato della Corte non può essere negato sulla base del rilievo che le disposizioni controverse della direttiva si limiterebbero a far rinvio alle leggi nazionali.
19. La Commissione sottolinea, tuttavia, che la Corte dovrebbe pronunciare l’annullamento di disposizioni come quelle oggetto del presente ricorso, solamente quando le risulti impossibile interpretarle in modo conforme ai diritti fondamentali. Qualora la disposizione controversa lasci, alla luce delle consuete norme di ermeneutica, un margine di discrezionalità, la Corte dovrebbe piuttosto precisarne l’interpretazione conforme ai diritti fondamentali.
20. Il Parlamento replica che un’interpretazione a priori della direttiva da parte della Corte, come quella suggerita dalla Commissione, produrrebbe l’effetto di istituire un rimedio preventivo che inciderebbe sulle competenze del legislatore comunitario.
Giudizio della Corte
21. Come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 43-45 delle conclusioni, occorre affrontare tale dibattito sotto il profilo della ricevibilità del ricorso. Il Consiglio contesta, sostanzialmente, il fatto che il ricorso è diretto contro un atto delle istituzioni, sostenendo che l’eventuale violazione dei diritti fondamentali potrebbe risultare unicamente dall’applicazione delle disposizioni nazionali mantenute in vigore o adottate conformemente alla direttiva.
22. A tal riguardo, il fatto che le disposizioni della direttiva impugnata riconoscano agli Stati membri un certo margine di discrezionalità consentendo loro di applicare, in talune circostanze, una normativa nazionale che deroghi alle regole di principio imposte dalla direttiva non può produrre l’effetto di sottrarre tali disposizioni al sindacato di legittimità della Corte previsto dall’art. 230 CE.
23. Peraltro, una disposizione di un atto comunitario potrebbe, di per sé, risultare in contrasto con i diritti fondamentali qualora imponesse agli Stati membri o autorizzasse espressamente o implicitamente i medesimi ad adottare o mantenere in vigore leggi nazionali in contrasto con i detti diritti.
24. Da tutti i suesposti elementi emerge che dev’essere respinta l’eccezione di irricevibilità relativa al fatto che il ricorso non sarebbe in realtà diretto contro un atto delle istituzioni.
Sulla separabilità delle disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento
25. La Repubblica federale di Germania sottolinea, in limine, l’importanza che, a suo parere, riveste l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, che conterrebbe uno dei punti centrali del compromesso grazie al quale sarebbe stato possibile pervenire all’adozione della direttiva, per la quale era richiesta l’unanimità dei voti. Essa rammenta che l’annullamento parziale di un atto è possibile solamente nel caso in cui l’atto sia costituito da più elementi, separabili l’uno dall’altro, e in cui solamente uno di tali elementi sia viziato da illegittimità per violazione del diritto comunitario. Nella specie, non sarebbe possibile separare la regola relativa al ricongiungimento familiare enunciata all’art. 4, n. l, ultimo comma, della direttiva dal resto della medesima. Un’eventuale sentenza di annullamento parziale inciderebbe sulle competenze del legislatore comunitario, ragion per cui sarebbe pensabile solamente l’annullamento in toto della direttiva.
26. Il Parlamento contesta la tesi secondo cui l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non costituirebbe un elemento separabile da quest’ultima unicamente in base al rilievo che la sua redazione risulterebbe da un compromesso politico che avrebbe consentito l’adozione della direttiva stessa. Secondo la detta istituzione, occorre semplicemente accertare se sia giuridicamente possibile separare un elemento della direttiva. L’annullamento delle disposizioni oggetto del ricorso, considerato che esse costituiscono deroghe alle regole generali sancite dalla direttiva, non metterebbe in discussione né l’economia né l’effettività della direttiva stessa complessivamente intesa, di cui il Parlamento riconosce l’importanza ai fini dell’attuazione del diritto al ricongiungimento familiare.
Giudizio della Corte
27. Come risulta da costante giurisprudenza, l’annullamento parziale di un atto comunitario è possibile solo se gli elementi di cui è chiesto l’annullamento siano separabili dal resto dell’atto medesimo (v., segnatamente, sentenze 10 dicembre 2002, causa C‑29/99, Commissione/Consiglio, Racc. pag. I‑11221, punti 45 e 46; 21 gennaio 2003, causa C‑378/00, Commissione/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I‑937, punto 29; 30 settembre 2003, causa C‑239/01, Germania/Commissione, Racc. pag. I‑10333, punto 33; 24 maggio 2005, causa C‑244/03, Francia/Parlamento e Consiglio, Racc. pag. I‑4021, punto 12, e 30 marzo 2006, causa C‑36/04, Spagna/Consiglio, Racc. pag. I‑2981, punto 9).
28. Parimenti, la Corte ha ripetutamente avuto modo di affermare che tale requisito della separabilità non è soddisfatto quando l’annullamento parziale di un atto produrrebbe l’effetto di modificare la sostanza dell’atto medesimo (sentenza 31 marzo 1998, cause riunite C‑68/94 e C‑30/95, Francia e a./Commissione, Racc. pag. I‑1375, punto 257, e sentenze supra citate Commissione/Consiglio, punto 46; Germania/Commissione, punto 34; Francia/Parlamento e Consiglio, punto 13, e Spagna/Consiglio, punto 13).
29. Nella specie, la verifica della separabilità delle disposizioni di cui viene chiesto l’annullamento presuppone l’esame del merito dell a controversia, vale a dire della portata di tali disposizioni, al fine di poter valutare se il loro annullamento modificherebbe lo spirito e la sostanza della direttiva.
Il ricorso
Sulle norme giuridiche con riguardo alle quali può essere verificata la legittimità della direttiva
30. Il Parlamento sostiene che le disposizioni impugnate non rispetterebbero i diritti fondamentali, e in particolare il diritto alla vita familiare ed il diritto di non discriminazione, quali garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, sottoscritta a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell’Unione europea, quali principi generali del diritto comunitario che l’Unione è tenuta a rispettare in applicazione dell’art. 6, n. 2, UE, al quale fa rinvio l’art. 46, lett. d), UE per quanto concerne l’azione delle istituzioni.
31. Il Parlamento invoca, in primo luogo, il diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall’art. 8 della CEDU, interpretato dalla Corte come comprensivo parimenti del diritto al ricongiungimento familiare (sentenze Carpenter, citata supra, punto 42, e 23 settembre 2003, causa C‑109/01, Akrich, Racc. pag. I‑9607, punto 59). Lo stesso principio è stato ripreso all’art. 7 della Carta, con riguardo alla quale il Parlamento sottolinea che, contenendo un elenco dei diritti fondamentali esistenti ancorché priva di effetti giuridici vincolanti, essa costituisce tuttavia un indice utile ai fini dell’interpretazione delle disposizioni della CEDU. Il Parlamento si richiama inoltre all’art. 24 della Carta, relativo ai diritti dei minori, il cui n. 2 prevede che «in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore dev’essere considerato preminente» ed il cui successivo n. 3, afferma che «il minore ha diritto di intrattenere regolarmente relazioni personali e contatti diretti con i due genitori, salvo qualora ciò sia contrario al suo interesse».
32. Il Parlamento invoca, in secondo luogo, il principio di non discriminazione fondata sull’età delle persone di cui trattasi, contemplato dall’art. 14 della CEDU e sancito espressamente dall’art. 21, n. 1, della Carta.
33. Il Parlamento si richiama parimenti a varie disposizioni di convenzioni internazionali sottoscritte sotto l’egida delle Nazioni Unite: l’art. 24 del patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato il 19 dicembre 1966 ed entrato in vigore il 23 marzo 1976, la convenzione sui diritti del fanciullo adottata il 20 novembre 1989 ed entrata in vigore il 2 settembre 1990, la convenzione internazionale sulla protezione dei diritti dei lavoratori migranti e dei membri della loro famiglia, adottata il 18 dicembre 1990 ed entrata in vigore il 1° luglio 2003, nonché la dichiarazione dei diritti del fanciullo, adottata dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite il 20 novembre 1959 [risoluzione 1386(XIV)]. Il Parlamento rammenta, inoltre, la raccomandazione n. R (94) 14 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa agli Stati membri, del 22 novembre 1994, riguardante le politiche familiari coerenti e integrate, nonché la raccomandazione n. R (99) 23 del Comitato medesimo agli Stati membri, del 15 dicembre 1999, sul ricongiungimento familiare per i rifugiati e le altre persone aventi necessità di protezione internazionale. Il Parlamento si richiama, infine, a varie costituzioni degli Stati membri dell’Unione europea.
34. Il Consiglio rileva che la Comunità non è parte contraente dei vari strumenti di diritto internazionale pubblico invocati dal Parlamento. In ogni caso, tali norme richiederebbero semplicemente che gli interessi dei fanciulli siano presi in considerazione e rispettati, senza peraltro stabilire alcun diritto assoluto in materia di ricongiungimento familiare. Il Consiglio rileva peraltro che, a suo parere, non occorre esaminare il ricorso alla luce della Carta, tenuto conto che essa non costituisce una fonte di diritto comunitario.
Giudizio della Corte
35. I diritti fondamentali fanno parte integrante dei principi generali del diritto dei quali la Corte garantisce l’osservanza. A tal fine la Corte si ispira alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo cui gli Stati membri hanno cooperato o aderito. La CEDU riveste, a questo proposito, un particolare significato (v., segnatamente, sentenze 18 giugno 1991, causa C‑260/89, ERT, Racc. pag. I‑2925, punto 41; parere 2/94, del 28 marzo 1996, Racc. pag. I‑1759, punto 33; sentenze 6 marzo 2001, causa C‑274/99 P, Connolly/Commissione, Racc. pag. I‑1611, punto 37; 22 ottobre 2002, causa C‑94/00, Roquette Frères, Racc. pag. I‑9011, punto 25; 12 giugno 2003, causa C‑112/00, Schmidberger, Racc. pag. I‑5659, punto 71, e 14 ottobre 2004, causa C‑36/02, Omega, Racc. pag. I‑9609, punto 33).
36. Peraltro, ai termini dell’art. 6, n. 2, UE, «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla [CEDU] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto comunitario».
37. La Corte ha già avuto modo di rammentare che il patto internazionale sui diritti civili e politici si annovera tra gli strumenti internazionali relativi alla tutela dei diritti dell’uomo di cui la Corte tiene conto per l’applicazione dei principi generali del diritto comunitario (v., in particolare, sentenze 18 ottobre 1989, causa 374/87, Orkem/Commissione, Racc. pag. 3283, punto 31; 18 ottobre 1990, cause riunite C‑297/88 e C‑197/89, Dzodzi, Racc. pag. I‑3763, punto 68, e 17 febbraio 1998, causa C‑249/96, Grant, Racc. pag. I‑621, punto 44). Ciò vale parimenti per la menzionata convenzione relativa ai diritti del fanciullo che, al pari del patto citato supra, è vincolante nei confronti di ogni singolo Stato membro.
38. Per quanto attiene alla Carta, essa è stata proclamata solennemente dal Parlamento, dal Consiglio e dalla Commissione a Nizza il 7 dicembre 2000. Se è pur vero che la Carta non costituisce uno strumento giuridico vincolante, il legislatore comunitario ha tuttavia inteso riconoscerne l’importanza affermando, al secondo ‘considerando’ della direttiva, che quest’ultima rispetta i principi riconosciuti non solamente dall’art. 8 della CEDU, bensì parimenti dalla Carta. L’obiettivo principale della Carta, come emerge dal suo preambolo, è peraltro quello di riaffermare «i diritti derivanti in particolare dalle tradizioni costituzionali e dagli obblighi internazionali comuni agli Stati membri, dalla [CEDU], dalle carte sociali adottate dall’Unione e dal Consiglio d’Europa, nonché dalla giurisprudenza della Corte (...) e da quella della Corte europea dei diritti dell’uomo ».
39. Quanto agli altri strumenti internazionali invocati dal Parlamento, con riserva per la Carta sociale europea di cui infra, al punto 107 della presente sentenza, non risulta, in ogni caso, che essi contengano disposizioni di più intensa tutela dei diritti del fanciullo rispetto a quelle contenute negli strumenti già menzionati.
Sull’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva
40. Il Parlamento sostiene che la motivazione dell’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, contenuta nel dodicesimo ‘considerando’ della medesima, non è convincente e che il legislatore comunitario ha confuso le nozioni di «criterio di integrazione» e di «obiettivo di integrazione». Atteso che uno degli strumenti più importanti di un’integrazione riuscita di un minore sarebbe costituito dal ricongiungimento con la sua famiglia, sarebbe incongruo esigere un test di integrazione prima che il minore, appartenente alla famiglia del soggiornante, si ricongiunga con quest’ultimo. Ciò renderebbe il ricongiungimento familiare irrealizzabile e costituirebbe la negazione di tale diritto.
41. Il Parlamento fa parimenti valere che, atteso che la nozione di integrazione non è definita nella direttiva, gli Stati membri sono quindi autorizzati a restringere sensibilmente il diritto al ricongiungimento familiare.
42. Tale diritto sarebbe tutelato dall’art. 8 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ed un criterio di integrazione previsto da una normativa nazionale non sarebbe ricompreso tra gli obiettivi legittimi che possono giustificare un’ingerenza come quelli previsti dall’art. 8, n. 2, della CEDU, vale a dire la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la tutela della salute o della morale, e la tutela dei diritti e libertà altrui. In ogni caso, ogni ingerenza dovrebbe essere giustificata e proporzionata. Orbene, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non esigerebbe alcuna ponderazione dei rispettivi interessi in gioco.
43. La direttiva sarebbe peraltro contraddittoria, in quanto non prevedrebbe alcuna limitazione fondata sul criterio di integrazione con riguardo al coniuge del soggiornante.
44. La direttiva stabilirebbe inoltre una discriminazione fondata esclusivamente sull’età del minore, che non sarebbe obiettivamente giustificata e risulterebbe in contrasto con l’art. 14 de la CEDU. In tal senso, l’obiettivo di incentivare i genitori a ricongiungersi con i propri figli prima dell’età di 12 anni non terrebbe conto dei vincoli di ordine economico e sociale che impediscono ad una famiglia di accogliere un figlio per un periodo più o meno lungo. L’obiettivo dell’integrazione avrebbe potuto essere peraltro realizzato con mezzi meno radicali, quali misure di integrazione del minore successivamente alla sua ammissione sul territorio dello Stato membro ospitante.
45. Il Parlamento sottolinea, infine, che la clausola di standstill è meno restrittiva delle clausole di standstill abituali, atteso che la legge nazionale deve sussistere solamente alla data di attuazione della direttiva. Il margine lasciato agli Stati membri si porrebbe in contrasto con l’obiettivo della direttiva, che è quello di prevedere criteri comuni per l’esercizio del diritto al ricongiungimento familiare.
46. Il Consiglio, sostenuto dal governo tedesco e dalla Commissione, deduce che il diritto al rispetto della vita familiare non equivale, di per sé, al diritto al ricongiungimento familiare. Secondo la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, sarebbe sufficiente che la vita familiare sia possibile, ad esempio, nello Stato di origine.
47. Il Consiglio sottolinea parimenti che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto, nella propria giurisprudenza, che taluni divieti di ricongiungimento familiare nell’ambito della politica di immigrazione erano giustificati da almeno una delle esigenze elencate all’art. 8, n. 2, della CEDU. A parere del Consiglio, un diniego di tal genere potrebbe fondarsi sull’obiettivo enunciato dall’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, vale a dire l’efficace integrazione dei minori migranti per effetto dell’incentivazione delle famiglie migranti separate a ricongiungersi con i loro figli minori nello Stato membro ospitante, quando questi siano di età inferiore a 12 anni.
48. La scelta dell’età di 12 anni non sarebbe arbitraria, bensì sarebbe stata motivata dal fatto che, prima di tale età, i minori si troverebbero in una fase di sviluppo importante per le loro facoltà di integrazione nella società, come espresso nel dodicesimo ‘considerando’ della direttiva. Il Consiglio rileva a tal riguardo che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha negato l’esistenza di una violazione dell’art. 8 della CEDU in fattispecie concernenti il ricongiungimento di minori di età inferiore a 12 anni.
49. Sarebbe giustificato applicare il criterio dell’integrazione ai minori di età superiore a 12 anni e non al coniuge del soggiornante, in considerazione del fatto che, in linea generale, i minori trascorrerebbero poi nello Stato membro ospitante un periodo più importante della loro esistenza che non i genitori.
50. Il Consiglio sottolinea che la direttiva non incide sul risultato della ponderazione degli interessi individuali e collettivi sussistenti nella specie e rammenta che gli artt. 17 e 5, n. 5, della direttiva medesima obbligano gli Stati membri a prendere in considerazione gli interessi tutelati dalla CEDU e la Convenzione relativa ai diritti del fanciullo.
51. L’istituzione fa parimenti valere che la clausola di standstill, di cui all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, non mette in discussione la legittimità di tale disposizione. Il riferimento ivi contenuto «al momento dell’attuazione» della direttiva costituirebbe una scelta politicamente legittima del legislatore comunitario, motivata dal fatto che lo Stato membro che intenda invocare tale deroga non abbia terminato il processo legislativo di adozione della normativa nazionale di cui trattasi. Sarebbe stato preferibile scegliere tale criterio, infine accolto, piuttosto che attendere la conclusione del detto procedimento legislativo prima di emanare la direttiva.
Giudizio della Corte
52. Si deve rammentare, in limine, che il diritto al rispetto della vita familiare, ai sensi dell’art. 8 della CEDU, fa parte dei diritti fondamentali che, secondo costante giurisprudenza della Corte, sono protetti nell’ordinamento giuridico comunitario (citate sentenze Carpenter, punto 41, e Akrich, punti 58 e 59). Tale diritto alla convivenza con i familiari prossimi implica per gli Stati membri obblighi che possono essere di carattere negativo, qualora uno di essi sia tenuto a non espellere un soggetto, ovvero di carattere positivo, quando l’obbligo sia quello di consentire ad un soggetto di fare ingresso e di risiedere sul proprio territorio.
53. In tal senso, come affermato dalla Corte, ancorché la CEDU non garantisca, quale diritto fondamentale a favore di uno straniero, alcun diritto di entrare o risiedere nel territorio di un paese determinato, l’esclusione di una persona da un paese in cui vivono i suoi congiunti può rappresentare un’ingerenza nel diritto al rispetto della vita familiare come tutelato dall’art. 8, n. 1, della Convenzione medesima (citate sentenze Carpenter, punto 42, e Akrich, punto 59).
54. Peraltro, come affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 21 dicembre 2001, Sen c. Paesi Bassi, paragrafo 31, «l’art. 8 [della CEDU] può far sorgere obblighi positivi inerenti ad un “rispetto” effettivo della vita familiare. I principi applicabili a tali obblighi sono analoghi a quelli che disciplinano gli obblighi di carattere negativo. In entrambi i casi, occorre tener conto del giusto equilibrio da realizzare tra i concorrenti interessi dell’individuo e della società complessivamente intesa; parimenti, nelle due ipotesi, lo Stato gode di un certo margine di discrezionalità (sentenza 19 febbraio 1996, Gül [c. Svizzera, Recueil des arrêts et décisions , 1996-I], pag. 174, paragrafo 38, e 28 novembre 1996, Ahmut [c. Paesi Bassi, Recueil des arrêts et décisions , 1996-VI, pag. 2030], paragrafo 63)».
55. Al paragrafo 36 della menzionata sentenza Sen c. Paesi Bassi, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ricordato nei seguenti termini i principi applicabili in materia di ricongiungimento familiare, principi già enunciati nelle proprie sentenze, citate supra, Gül c. Svizzera, paragrafo 38, e Ahmut c. Paesi Bassi, paragrafo 67:
«a) La portata dell’obbligo per uno Stato di consentire l’ingresso sul proprio territorio ai congiunti di persone immigrate dipende dalla situazione degli interessati e dall’interesse generale.
b) Conformemente ad un consolidato principio di diritto internazionale, gli Stati hanno il diritto – senza pregiudizio degli obblighi per essi derivanti dai Trattati – di controllare l’ingresso di cittadini non nazionali sul loro territorio.
c) In materia di immigrazione, l’art. 8 non può essere interpretato nel senso che esso implichi per uno Stato membro l’obbligo generale di rispettare la scelta, da parte di coppie coniugate, della loro comune residenza e di consentire il ricongiungimento familiare sul proprio territorio».
56. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha precisato di prendere in considerazione, nel proprio esame, l’età dei figli minori di cui trattasi, la loro situazione nel rispettivo paese di origine ed il loro grado di dipendenza rispetto ai genitori (sentenza Sen c. Paesi Bassi, citata supra, paragrafo 37; v. parimenti sentenza 31 gennaio 2006, Rodrigues da Silva c. Paesi Bassi, paragrafo 39).
57. La convenzione relativa ai diritti del fanciullo riconosce parimenti il principio del rispetto della vita familiare. Essa è fondata sul riconoscimento, espresso nel suo sesto ‘considerando’, che il minore deve poter crescere, ai fini di un armonioso sviluppo della propria personalità, nell’ambiente familiare. L’art. 9, n. 1, della detta convenzione prevede, in tal senso, che gli Stati contraenti provvedano affinché il minore non venga separato dai genitori contro la loro volontà; da tale obbligo discende, ai termini del successivo art. 10, n. 1, che qualsiasi richiesta effettuata da un minore o dai genitori al fine di fare ingresso in uno Stato contraente o di lasciare il medesimo ai fini del ricongiungimento familiare dev’essere considerata dagli Stati contraenti, in uno spirito positivo, con umanità e diligenza.
58. L’art. 7 della Carta riconosce parimenti il diritto al rispetto della vita privata o familiare. Tale disposizione dev’essere letta in correlazione con l’obbligo di prendere in considerazione il superiore interesse del minore, sancito dall’art. 24, n. 2, della Carta medesima, tenendo conto parimenti della necessità per il minore di intrattenere regolarmente rapporti personali con i due genitori, necessità affermata dal medesimo art. 24, n. 3.
59. Le disposizioni richiamate sottolineano l’importanza, per il minore, della vita familiare e raccomandano agli Stati di prendere in considerazione l’interesse del medesimo, senza peraltro far sorgere a favore dei familiari il diritto soggettivo ad essere ammessi nel territorio di uno Stato; tali disposizioni non possono essere interpretate nel senso di privare gli Stati di un certo potere discrezionale nell’esame delle domande di ricongiungimento familiare.
60. Al di là di tali disposizioni, l’art. 4, n. 1, della direttiva impone agli Stati membri obblighi positivi precisi, cui corrispondono diritti soggettivi chiaramente definiti, imponendo loro, nelle ipotesi contemplate dalla direttiva, di autorizzare il ricongiungimento familiare di taluni congiunti del soggiornante senza potersi avvalere di discrezionalità in proposito.
61. Per quanto attiene all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, tale disposizione produce l’effetto, in presenza di circostanze tassativamente definite, vale a dire quando un minore di età superiore ai 12 anni giunga indipendentemente dal resto della famiglia, di mantenere parzialmente il margine di discrezionalità degli Stati membri consentendo loro, prima di autorizzare l’ingresso ed il soggiorno del minore in base alla direttiva, di esaminare se il minore stesso risponda ai criteri di integrazione previsti dalla legge nazionale vigente alla data di attuazione della direttiva stessa.
62. In tal modo, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non può essere considerato in contrasto con il diritto al rispetto della vita familiare. Infatti, nel contesto della direttiva, che impone agli Stati membri obblighi positivi precisi, la detta disposizione mantiene a favore degli Stati stessi un potere discrezionale limitato, non diverso da quello riconosciuto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella propria giurisprudenza in materia di diritto al rispetto della vita familiare, ponderando, in ogni singola fattispecie concreta, gli interessi in gioco.
63. Peraltro, come sancito dall’art. 5, n. 5, della direttiva, nell’ambito di tale ponderazione degli interessi gli Stati membri devono tenere nella dovuta considerazione l’interesse superiore del figlio minore.
64. Occorre inoltre tener conto dell’art. 17 della direttiva, che impone agli Stati membri di prendere debitamente in considerazione la natura e la solidità dei vincoli familiari della persona, la durata della residenza nello Stato membro interessato nonché l’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il rispettivo paese di origine. Come emerge dal punto 56 della p resente sentenza, tali criteri corrispondono a quelli presi in considerazione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito della verifica se uno Stato, che abbia respinto una domanda di ricongiungimento familiare, abbia correttamente proceduto alla ponderazione degli interessi in gioco.
65. Infine, l’età di un minore ed il fatto che questi giunga indipendentemente dalla propria famiglia costituiscono parimenti elementi presi in considerazione dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale attribuisce rilevanza ai vincoli esistenti tra il minore ed i propri familiari nel rispettivo paese di origine, ma parimenti ai vincoli esistenti con l’ambiente culturale e linguistico di tale paese (v., segnatamente, citate sentenze Ahmut c. Paesi Bassi, paragrafo 69, e Gül c. Svizzera, paragrafo 42).
66. Per quanto attiene al criterio di integrazione, non risulta che tale criterio sia di per sé contrario al diritto al rispetto della vita familiare, sancito dall’art. 8 della CEDU. Come precedentemente rammentato, tale diritto non deve essere interpretato nel senso che esso implichi necessariamente l’obbligo, per un determinato Stato membro, di consentire il ricongiungimento familiare sul proprio territorio, e l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva si limita a mantenere il potere discrezionale dello Stato membro, limitandolo all’esame di un criterio definito dalla legge nazionale, potere che lo Stato medesimo dovrà esercitare nel rispetto, segnatamente, dei principi sanciti agli artt. 5, n. 5, e 17 della direttiva. In ogni caso, la necessità dell’integrazione può emergere da più legittimi scopi tra quelli enunciati dall’art. 8, n. 2, della CEDU.
67. Contrariamente a quanto sostenuto dal Parlamento, il legislatore comunitario non ha confuso il criterio di integrazione di cui all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva e l’obiettivo di integrazione dei minori, il quale, a parere del Parlamento, potrebbe risultare pregiudicato da strumenti quali talune misure dirette a facilitare la loro integrazione successivamente alla loro ammissione. Si tratta, infatti, di due elementi differenti. Come emerge dal dodicesimo ‘considerando’ della direttiva, la possibilità di limitare il diritto al ricongiungimento familiare per i minori di età superiore a 12 anni che non abbiano inizialmente risieduto presso il soggiornante è volta a tener conto della capacità di integrazione dei minori fin dalla più giovane età e garantisce che essi acquisiscano l’educazione e le conoscenze linguistiche necessarie a scuola.
68. In tal modo, il legislatore comunitario ha ritenuto che, al di là dell’età di 12 anni, l’obiettivo dell’integrazione non possa essere raggiunto in misura altrettanto agevole e, conseguentemente, ha previsto per lo Stato membro interessato la facoltà di prendere in considerazione un livello minimo di capacità di integrazione nell’ambito della decisione di autorizzare l’ingresso e il soggiorno in base alla direttiva.
69. Il criterio di integrazione di cui all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva può essere quindi preso in considerazione nell’ambito dell’esame di una domanda di ricongiungimento familiare e il legislatore comunitario non è caduto in contraddizione laddove ha autorizzato gli Stati membri, nelle specifiche circostanze previste dalla detta disposizione, ad esaminare le domande alla luce di tale criterio nel contesto di una direttiva che, come emerge dal suo quarto ‘considerando’, si prefigge l’obiettivo generale di facilitare l’integrazione dei cittadini di paesi terzi negli Stati membri consentendo una vita di famiglia grazie al ricongiungimento familiare.
70. L’assenza di definizione della nozione di integrazione non può essere interpretata quale autorizzazione conferita agli Stati membri di avvalersi di tale nozione in modo contrario ai principi generali del diritto comunitario, e più in particolare ai diritti fondamentali. Infatti, gli Stati membri che intendono avvalersi della deroga non possono utilizzare una nozione indeterminata di integrazione, bensì devono applicare, nell’esame della specifica situazione di un minore di più di 12 anni che giunga nel paese indipendentemente dal resto della propria famiglia, il criterio di integrazione previsto dalla loro normativa vigente alla data di attuazione della direttiva.
71. Conseguentemente, l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non può essere interpretato nel senso che gli Stati membri siano autorizzati, esplicitamente o implicitamente, ad adottare disposizioni di attuazione che risultino contrarie al diritto al rispetto della vita familiare.
72. Il Parlamento non ha dimostrato sotto quale profilo la clausola di standstill di cui all’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva sarebbe in contrasto con una norma superiore di diritto. Il legislatore comunitario, dal momento che non ha pregiudicato il diritto al rispetto della vita familiare laddove ha autorizzato gli Stati membri, in presenza di talune circostanze, a tener conto del criterio di integrazione, legittimamente ha potuto fissare limiti a tale autorizzazione. Poco importa, conseguentemente, che la normativa nazionale che precisi il criterio di integrazione applicabile abbia dovuto sussistere solamente alla data di attuazione della direttiva e non alla data della sua entrata in vigore o della sua emanazione.
73. Non risulta nemmeno che il legislatore comunitario non abbia dedicato sufficiente attenzione agli interessi dei minori. Infatti, il contenuto dell’art. 4, n. 1, della direttiva dimostra che l’interesse superiore del minore ha costituito un criterio preminente nell’emanazione di tale disposizione e non risulta nemmeno che l’ultimo comma della medesima non ne tenga sufficientemente conto ovvero autorizzi gli Stati membri che optino per l’applicazione di un criterio di integrazione a non tenerne conto. Al contrario, come già rammentato supra al punto 63 della presente sentenza, l’art. 5, n. 5, della direttiva impone agli Stati membri di prendere debitamente in considerazione il superiore interesse del figlio minore.
74. In tale contesto, la scelta dell’età di 12 anni non risulta essere un criterio in contrasto con il principio di non discriminazione in base all’età, trattandosi di un criterio corrispondente ad una fase della vita di un figlio minore in cui questi ha già trascorso un periodo relativamente lungo della propria esistenza in un paese terzo senza i propri familiari, ragion per cui un’integrazione in un nuovo ambiente può risultare maggiormente fonte di difficoltà.
75. Parimenti, il fatto di non assoggettare allo stesso trattamento il coniuge ed il figlio minore di età superiore ai 12 anni non può essere considerato quale discriminazione ingiustificata nei confronti del figlio minore. Infatti, l’obiettivo stesso di un matrimonio è la costituzione di una comunità di vita durevole tra i coniugi, laddove un figlio di età superiore ai 12 anni non resterà necessariamente a lungo con i propri genitori. Legittimamente, quindi, il legislatore comunitario ha potuto tener conto di tale diversità di fattispecie, adottando una disciplina differente senza cadere in contraddizione al riguardo.
76. Da tutti i suesposti elementi emerge che l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva non può essere considerato in contrasto con il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare, con l’obbligo di prendere in considerazione il superiore interesse del figlio minore ovvero con il principio di non discriminazione in funzione dell’età, né in quanto tale, né nella parte in cui autorizzerebbe espressamente o implicitamente gli Stati membri ad agire in tal senso.
Sull’art. 4, n. 6, della direttiva
77. Per motivi analoghi a quelli indicati nell’esame dell’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, il Parlamento sostiene che l’art. 4, n. 6, della medesima – che consente agli Stati membri di disporre che le domande di ricongiungimento familiare di figli minori vengano presentate prima che questi raggiungano l’età di 15 anni – costituisce parimenti una violazione del diritto al rispetto della vita familiare e del divieto di discriminazione in funzione dell’età. Peraltro, gli Stati membri resterebbero liberi di adottare nuove disposizioni derogatorie restrittive sino alla data di attuazione della direttiva. Infine, l’obbligo, per gli Stati membri che si avvalgano di tale deroga, di esaminare le domande di ingresso e di soggiorno presentate da figli minori di età superiore a 15 anni per «altri motivi» non definiti, diversi dal ricongiungimento familiare, lascerebbe ampio margine al potere discrezionale delle autorità nazionali e creerebbe una situazione di incertezza del diritto.
78. Così come per l’art. 4, n. 1, ultimo comma, della direttiva, il Parlamento rileva che l’obiettivo dell’integrazione poteva essere realizzato con strumenti meno radicali che non una discriminazione in funzione dell’età, non giustificata oggettivamente e, conseguentemente, arbitraria.
79. Il Consiglio sostiene che l’art. 4, n. 6, della direttiva è finalizzato ad un’utilizzazione sul piano nazionale, compatibile con i diritti fondamentali e, in particolare, proporzionata agli scopi perseguiti. L’obiettivo sarebbe quello di incentivare le famiglie emigrate a ricongiungersi nel paese ospitante con i loro figli minori fin dalla loro più giovante età, al fine di facilitare la loro integrazione. Si tratterebbe di un obiettivo legittimo, inserito nella politica di immigrazione e ricompreso nella sfera di applicazione dell’art. 8, n. 2, della CEDU.
80. L’ampia formula «altri motivi» non dovrebbe essere censurata quale fonte di incertezza del diritto, in quanto essa sarebbe diretta a favorire una decisione positiva nella maggior parte delle domande di cui trattasi.
81. L’età di 15 anni sarebbe stata prescelta al fine, da un lato, di ricomprendere il maggior numero di casi, senza frapporre ostacoli, dall’altro, ad una scolarizzazione del minore nello Stato membro ospitante. Non sussisterebbe quindi alcuna discriminazione arbitraria. Il Consiglio sostiene che tale scelta ricade nella sua discrezionalità di legislatore.
82. La Commissione ritiene che l’art. 4, n. 6, della direttiva non costituisca violazione dell’art. 8 della CEDU, in quanto i diritti derivanti per gli interessati dalla Convenzione resterebbero conservati in toto. Infatti, tale disposizione imporrebbe agli Stati membri di esaminare tutti gli altri possibili fondamenti normativi di una domanda di ammissione del minore interessato sul loro territorio e di concedere l’ammissione ove sussistano i relativi requisiti giuridici. Ciò dovrebbe ricomprendere un diritto fondato direttamente sull’art. 8 della CEDU e consentire in tal modo un esame, caso per caso, delle domande di ammissione proposte da minori di età pari o superiore a 15 anni.
83. Quanto al limite di età fissato a 15 anni, si tratterebbe di un limite non irragionevole che troverebbe la sua spiegazione nella connessione esistente tra l’art. 4, n. 6, della direttiva e il periodo di attesa di tre anni di cui all’art. 8 della direttiva medesima. Si tratterebbe, infatti, di non rilasciare permessi di soggiorno a persone che, nel frattempo, abbiano raggiunto la maggiore età.
Giudizio della Corte
84. Si deve rammentare che, nell’ambito del presente ricorso, il sindacato della Corte verte sulla questione se la disposizione impugnata rispetti, di per sé, i diritti fondamentali, e in particolare il diritto al rispetto della vita familiare, l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore dei minori ed il principio di non discriminazione in funzione dell’età. Occorre, segnatamente, verificare se l’art. 4, n. 6, della direttiva consenta espressamente o implicitamente agli Stati membri di sottrarsi al rispetto di tali principi fondamentali consentendo loro, in deroga alle altre disposizioni dell’art. 4 della direttiva, di stabilire un requisito in funzione dell’età di un figlio minore per il quale venga fatta richiesta di ingresso e soggiorno sul territorio nazionale nell’ambito di un ricongiungimento familiare.
85. Non risulta che la disposizione impugnata violi il diritto al rispetto della vita familiare sancito dall’art. 8 della CEDU come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’art. 4, n. 6, della direttiva attribuisce, infatti, agli Stati membri la facoltà di riservare l’applicazione dei requisiti del ricongiungimento familiare previsti dalla direttiva alle domande proposte prima che i minori abbiano raggiunto l’età di 15 anni. Tale disposizione non può essere tuttavia interpretata nel senso che essa vieterebbe agli Stati membri di prendere in considerazione una domanda relativa ad un minore di età superiore a 15 anni ovvero che li autorizzerebbe a non farlo.
86. A tal riguardo, è irrilevante che l’ultimo periodo della disposizione impugnata preveda che gli Stati membri che decidano di avvalersi della deroga autorizzino l’ingresso e il soggiorno di minori per i quali venga fatta richiesta successivamente al compimento dei 15 anni «per motivi diversi dal ricongiungimento familiare». Il termine «ricongiungimento familiare» dev’essere, infatti, interpretato nel contesto della direttiva nel senso di ricongiungimento familiare nelle ipotesi in cui è imposto dalla direttiva medesima. Tale termine non può essere interpretato nel senso che faccia divieto ad uno Stato membro, che si avvalga della deroga, di consentire l’ingresso e il soggiorno ad un minore al fine di consentirgli di ricongiungersi con i genitori.
87. L’art. 4, n. 6, della direttiva dev’essere inoltre letto alla luce dei principi enunciati dai successivi artt. 5, n. 5, che impone agli Stati membri di prendere debitamente in considerazione l’interesse superiore del minore, e 17, che impone loro di tener conto di una serie di elementi tra cui figurano i vincoli familiari della persona.
88. Ne consegue che, se è pur vero che, per effetto dell’art. 4, n. 6, della direttiva, uno Stato membro può legittimamente escludere che le domande proposte per figli minori di età superiore a 15 anni siano soggette ai requisiti generali dell’art. 4, n. 1, della direttiva, lo Stato membro resta tuttavia tenuto ad esaminare la domanda nell’interesse del minore e nell’ottica di favorire la vita familiare.
89. Per il motivo esposto supra al punto 74, a fortiori, non risulta che la scelta dell’età di 15 anni costituisca un criterio contrario al principio di non discriminazione in funzione dell’età. Parimenti, per il motivo esposto supra al punto 72, non sembra che la clausola di standstill, ivi formulata, violi una qualsiasi norma superiore di diritto.
90. Da tutti i suesposti elementi emerge che l’art. 4, n. 6, della direttiva non può essere considerato in contrasto con il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare, con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del minore o con il principio di non discriminazione in funzione dell’età, né di per sé, né laddove autorizzerebbe espressamente o implicitamente gli Stati membri ad agire in tal senso.
Sull’art. 8 della direttiva
91. Il Parlamento sottolinea l’importante limitazione del diritto al ricongiungimento familiare derivante dai periodi di 2 e 3 anni previsti dall’art. 8 della direttiva. Tale articolo, che non imporrebbe un esame caso per caso delle domande, autorizzerebbe gli Stati membri a mantenere misure sproporzionate rispetto all’equilibrio che dovrebbe sussistere tra gli interessi in gioco.
92. Il Parlamento sostiene, inoltre, che la deroga concessa dall’art. 8, secondo comma, della direttiva rischia di dar luogo ad un trattamento differenziato in casi analoghi, a seconda che lo Stato membro interessato disponga o meno di una normativa che prenda in considerazione la propria capacità di accoglienza. Infine, un criterio fondato sulla capacità di accoglienza dello Stato membro sarebbe l’equivalente di un regime di quote, non compatibile con i requisiti dettati dall’art. 8 della CEDU. La detta istituzione rileva, al riguardo, che il sistema restrittivo delle quote annuali applicato dalla Repubblica d’Austria sarebbe stato ritenuto incostituzionale dal Verfassungsgerichtshof (Corte costituzionale austriaca) (sentenza 8 ottobre 2003, causa G 119,120/03-13).
93. Il Consiglio sottolinea che l’art. 8 della direttiva non impone, di per sé, periodi di attesa e che un periodo di attesa non equivale al diniego di ricongiungimento familiare. La detta istituzione fa peraltro valere che il periodo di attesa costituisce un elemento classico della politica di immigrazione esistente nella maggior parte degli Stati membri, senza che sia stato ritenuto illegittimo dalle competenti giurisdizioni. Tale periodo di attesa perseguirebbe uno scopo legittimo della politica di immigrazione, vale a dire l’integrazione efficace dei familiari nella società ospitante, garantendo che il ricongiungimento familiare abbia luogo solo dopo che il soggiornante si sia creato nello Stato ospitante una base solida, sotto il profilo tanto economico quanto familiare, per poter ivi installare una famiglia.
94. Il Consiglio rileva che la differenza di trattamento fra gli Stati membri non è che la conseguenza del processo di progressivo ravvicinamento delle legislazioni e sottolinea che, al contrario di quanto sostenuto dal Parlamento, l’art. 8 della direttiva opera un considerevole ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri, tenuto conto del carattere restrittivo della clausola di standstill ivi contenuta.
95. Il Consiglio contesta che il riferimento, di cui all’art. 8, secondo comma, della direttiva, alla capacità di accoglienza di uno Stato membro equivalga ad un regime di quote. Tale criterio servirebbe unicamente a identificare gli Stati membri che possono prolungare il periodo di attesa a tre anni. Le considerazioni del Parlamento in ordine alle modalità di applicazione di tale disposizione negli Stati membri sarebbero, inoltre, speculative.
96. Secondo la Commissione, il periodo di attesa introdotto dall’art. 8 della direttiva presenterebbe il carattere di regola procedurale amministrativa che non produrrebbe l’effetto di escludere il diritto al ricongiungimento. Tale regola perseguirebbe in maniera proporzionata un obiettivo legittimo. La Commissione sottolinea, a tal riguardo, che la durata del periodo di residenza del soggiornante nel paese ospitante costituisce un fattore importante preso in considerazione dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nell’ambito della ponderazione degli interessi, al pari della capacità di accoglienza del paese. La normativa nazionale dovrebbe in ogni caso ammettere – come riconosciuto dal Verfassungsgerichtshof – la possibilità di presentare domanda di ricongiungimento fondata direttamente sull’art. 8 della CEDU prima della scadenza del periodo di attesa.
Giudizio della Corte
97. Al pari delle altre disposizioni impugnate nell’ambito del presente ricorso, l’art. 8 della direttiva autorizza gli Stati membri a derogare alle regole del ricongiungimento familiare dettate dalla direttiva stessa. Il primo comma del detto art. 8 autorizza gli Stati membri ad esigere un soggiorno legale di due anni al massimo prima che il soggiornante possa essere raggiunto dai suoi familiari. Il secondo comma di tale articolo consente agli Stati membri la cui legislazione tenga conto della loro capacità di accoglienza di prevedere un periodo di attesa non superiore a tre anni tra la presentazione della domanda di ricongiungimento ed il rilascio del permesso di soggiorno ai familiari.
98. Tale disposizione non produce, quindi, l’effetto di impedire qualsiasi ricongiungimento familiare, bensì mantiene a favore degli Stati membri un margine di discrezionalità limitato, consentendo loro di assicurarsi che il ricongiungimento familiare abbia luogo in condizioni favorevoli, dopo un periodo di soggiorno sufficientemente lungo nello Stato membro ospitante da parte del soggiornante perché si possa presumere un insediamento stabile e un certo livello di integrazione. Pertanto, il fatto che uno Stato membro prenda in considerazione tali elementi e la facoltà di differire il ricongiungimento familiare di due anni o, secondo i casi, di tre anni non si pongono in contrasto con il diritto al rispetto della vita familiare sancito, in particolare, dall’art. 8 della CEDU come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.
99. Si deve ricordare che, come emerge dall’art. 17 della direttiva, la durata della residenza nello Stato membro costituisce solo uno degli elementi che devono essere presi in considerazione dallo Stato medesimo nell’ambito dell’esame di una domanda e che non si può imporre un periodo di attesa senza tener conto, in casi specifici, del complesso degli elementi pertinenti.
100. Le stesse considerazioni valgono p er il criterio della capacità di accoglienza dello Stato membro, che può costituire uno degli elementi presi in considerazione nell’ambito dell’esame di una domanda, ma che non può essere interpretato nel senso che autorizzi un qualsivoglia sistema di quote ovvero l’istituzione di un termine di attesa di tre anni imposto a prescindere dalle particolari circostanze dei singoli specifici casi. Infatti, l’analisi complessiva prevista dall’art. 17 della direttiva non consente di prendere in considerazione unicamente tale elemento ed impone di procedere ad un esame reale della capacità di accoglienza al momento della domanda.
101. Nell’ambito di tale analisi, gli Stati membri devono inoltre provvedere, come già rammentato al punto 63 della presente sentenza, a prendere debitamente in considerazione l’interesse superiore del minore.
102. La coesistenza di situazioni differenti, a seconda che gli Stati membri scelgano di avvalersi o meno della possibilità di imporre un periodo di attesa di due anni, ovvero di tre anni, nel caso in cui la loro legislazione vigente alla data di adozione della direttiva tenga conto della loro capacità di accoglienza, non costituisce altro che l’espressione della difficoltà di procedere ad un ravvicinamento delle legislazioni in un settore che, sino a quel momento, ricadeva unicamente nella competenza degli Stati membri. Come riconosciuto dal Parlamento stesso, la direttiva, nel suo complesso, è importante ai fini dell’attuazione armonizzata del diritto al ricongiungimento familiare. Nella specie, non risulta che il legislatore comunitario abbia oltrepassato i limiti imposti dai diritti fondamentali laddove ha consentito agli Stati membri che disponessero o intendessero adottare una normativa specifica di modulare taluni aspetti del diritto al ricongiungimento.
103. Conseguentemente, l’art. 8 della direttiva non può essere considerato in contrasto con il diritto fondamentale al rispetto della vita familiare o con l’obbligo di prendere in considerazione l’interesse superiore del minore, né di per sé, né nella parte in cui autorizzerebbe espressamente o implicitamente gli Stati membri ad agire in tal senso.
104. Infine, si deve rilevare che, se è pur vero che la direttiva lascia agli Stati membri un margine di discrezionalità, tale margine è sufficientemente ampio per consentire loro di applicare le regole della direttiva in senso conforme alle esigenze derivanti dalla tutela dei diritti fondamentali (in tal senso, sentenza 13 luglio 1989, causa 5/88, Wachauf, Racc. pag. 2609, punto 22).
105. Si deve rammentare, a tal riguardo, che, come risulta da costante giurisprudenza, le esigenze inerenti alla tutela dei principi generali riconosciuti nell’ordinamento giuridico comunitario, fra i quali vanno annoverati i diritti fondamentali, vincolano parimenti gli Stati membri quando danno esecuzione alle discipline comunitarie, ed essi sono pertanto tenuti, quanto più possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto delle dette esigenze. (v. sentenze 24 marzo 1994, causa C‑2/92, Bostock, Racc. pag. I‑955, punto 16; 18 maggio 2000, causa C‑107/97, Rombi e Arkopharma, Racc. pag. I‑3367, punto 65; in tal senso sentenza ERT, citata supra, punto 43).
106. L’attuazione della direttiva è soggetta al sindacato dei giudici nazionali in quanto, come previsto all’art. 18 della direttiva medesima, «gli Stati membri assicurano che il soggiornante e/o i suoi familiari abbiano diritto a proporre impugnativa in caso di rigetto della domanda di ricongiungimento familiare, di mancato rinnovo o di ritiro del permesso di soggiorno o di adozione di una misura di allontanamento». Ove essi incontrino difficoltà relative all’interpretazione o alla validità di tale direttiva, spetterà ai giudici stessi sottoporre alla Corte una questione pregiudiziale secondo le modalità enunciate agli artt. 68 CE e 234 CE.
107. Per quanto attiene agli Stati membri vincolati da tali strumenti, si deve peraltro rammentare che la direttiva, come affermato all’art. 3, n. 4, della medesima, non pregiudica le disposizioni più favorevoli contenute nella Carta sociale europea del 18 ottobre 1961, nella Carta sociale europea riveduta del 3 maggio 1987 e nella Convenzione europea relativa allo status di lavoratore migrante del 24 novembre 1977, nonché quelle contenute negli accordi bilaterali e multilaterali stipulati tra la Comunità o tra la Comunità e i suoi Stati membri, da una parte, e paesi terzi, dall’altra.
108. In considerazione dell’infondatezza del ricorso, non occorre esaminare se le disposizioni impugnate siano separabili dal resto della direttiva.
109. Il ricorso dev’essere conseguentemente respinto.
Sulle spese
110. Ai sensi dell’art. 69, n. 2, del regolamento di procedura, la parte soccombente è condannata alle spese, se ne è stata fatta domanda. Il Parlamento, essendo rimasto soccombente, dev’essere pertanto condannato alle spese, come richiesto dal Consiglio. Ai sensi del n. 4, primo comma, del medesimo articolo, la Repubblica federale di Germania e la Commissione, intervenute nella controversia, sopporteranno le proprie spese.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara e statuisce:
1) Il ricorso è respinto.
2) Il Parlamento europeo è condannato alle spese.
3) La Repubblica federale di Germania e la Commissione delle Comunità europee sopporteranno le proprie spese.