CONCLUSIONI DELL'AVVOCATO GENERALE
G. FEDERICO MANCINI
del 21 maggio 1985
Signor Presidente,
signori Giudici,
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Nel quadro di una causa tra il signor Pietro Pinna e la Caisse d'allocations familiales della Savoia, la Corte di cassazione francese vi chiede d'interpretare l'articolo 73, paragrafo 2, regolamento n. 1408/71 del Consiglio 14 giugno 1971, relativo all'applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all'interno della Comunità (GU L 149, pag. 1). Questa norma stabilisce che « il lavoratore soggetto alla legislazione francese ha diritto, per i familiari residenti nel territorio di uno Stato membro diverso dalla Francia, agli assegni familiari previsti dalla legislazione dello Stato nel cui territorio risiedono tali familiari; il lavoratore deve soddisfare alle condizioni relative all'occupazione alle quali la legislazione francese subordina l'acquisto del diritto alle prestazioni ». In particolare, il giudice del rinvio vuol sapere se il disposto sia ancora valido ed efficace e come debba intendersi il concetto di residenza a cui esso fa riferimento. |
2. |
Il signor Pietro Pinna, cittadino italiano, lavora e risiede con la propria famiglia in Francia ed ¡vi gode delle locali prestazioni familiari. Nell'autunno del 1977 sua moglie e i suoi due figli si recarono in Italia. Il figlio maggiore rientrò in Francia il 31 dicembre dello stesso anno, mentre la figlia e la moglie vi fecero ritorno il 31 marzo successivo. A causa di questo soggiorno in Italia, la Caisse d'allocations familiales della Savoia rifiutò di corrispondere al Pinna le prestazioni dovute per il figlio dal 1o ottobre al 31 dicembre 1977 e per la figlia dal 1o ottobre 1977 al 31 marzo 1978. A suo avviso, infatti, il citato articolo 73, paragrafo 2, imponeva che gli assegni familiari fossero pagati dall'ente previdenziale italiano (Istituto nazionale della previdenza sociale) nel luogo di residenza dei due figli in Italia (L'Aquila). Dopo aver inutilmente contestato tale decisione dinanzi alla commission des recours gracieux, il Pinna adì la commission de première instance du contentieux de la sécurité sociale di Chambéry; ma, con pronuncia 6 gennaio 1981, anche quest'autorità respinse il ricorso del lavoratore italiano osservando che la sua situazione era espressamente contemplata dall'articolo 73, paragrafo 2, e che la Caisse si era limitata ad applicare il detto disposto. Il giudizio della Commissione fu confermato dalla corte d'appello di Chambéry con sentenza 15 maggio 1981. Il Pinna ricorse allora in cassazione avanzando i seguenti motivi:
La Corte di cassazione ritenne che per la soluzione della lite fosse indispensabile una vostra pronuncia sulla validità e sull'interpretazione di una norma del regolamento n. 1408/71. Con sentenza n. 218 dell'11 gennaio 1984, essa sospese quindi il procedimento e, ai sensi dell'articolo 177 trattato CEE, vi chiese di stabilire: a) se l'articolo 73, paragrafo 2, del regolamento n. 1408/71 sia valido e tuttora in vigore; b) quale significaio si debba attribuire al termine « residenza » contenuto in tale disposizione. |
3. |
Per ben comprendere la portata dei due quesiti è necessario esaminare più a fondo la disciplina a cui essi si riferiscono. Il regolamento n. 3 del Consiglio, del 25 settembre 1958, per la sicurezza sociale dei lavoratori migranti (GU 30, pag. 561), disponeva all'articolo 40 che « un lavoratore subordinato o assimilato, occupato nel territorio di uno Stato membro e che abbia ( ... ) figli residenti o allevati nel territorio di un altro Stato membro ha diritto, per detti figli, agli assegni familiari secondo le disposizioni della legislazione del primo Stato, fino a concorrenza dell'ammontare degli assegni attribuiti dalla legislazione del secondo Stato ». Tredici anni più tardi, tuttavia, il regolamento n. 1408/71 riformò questa norma sopprimendo la limitazione degli assegni alla misura prevista nel paese di residenza dei familiari ed estendendo il diritto del lavoratore all'intero ventaglio delle prestazioni di famiglia. Come ho già detto, infatti, il suo articolo 73, paragrafo 1, stabilisce che « un lavoratore soggetto alla legislazione di uno Stato membro diverso dalla Francia ha diritto, per i familiari residenti nel territorio di un altro Stato ( ... ), alle prestazioni familiari previste dalla legislazione del primo Stato, come se risiedessero nel territorio di quest'ultimo ». Una disciplina fortemente migliorativa, dunque; e nondimeno monca, perché il Consiglio non fu unanime nel disporre la sua estensione a tutta l'area comunitaria. E qui la causa della riserva a favore della Francia che figura nel suo testo e, insieme, del successivo paragrafo 2 in cui si prevede che ai familiari del lavoratore occupato su territorio francese, ma residenti in un altro Stato, siano erogati tínicamente gli assegni e solo nella misura prevista dalle leggi del paese di residenza. A termini dell'articolo 75, paragrafo 2, gli assegni vengono corrisposti dall'ente previdenziale del luogo in cui risiedono i familiari e a questo sono poi integralmente rimborsati dall'ente nei cui confronti il lavoratore vanta il diritto alla prestazione. Nel sistema del regolamento, dunque, debitrice è pur sempre la Francia: ma essa paga gli assegni al tasso del paese di residenza e, diversamente da tutti gli altri Stati, non esporta il complesso delle prestazioni. Gli stessi Stati membri, peraltro, ritennero che questo meccanismo dualistico dovesse essere superato e, nell'articolo 98 (ora 99) della fonte in esame, stabilirono che entro due anni il Consiglio avrebbe, su proposta della Commissione, provveduto a modificarlo. In effetti, la Commissione fece la sua parte: una prima proposta venne presentata il 10 aprile 1975 (GU C 96, pag. 4), e una seconda, che tiene conto delle modifiche suggerite dal Comitato economico e sociale (24 settembre 1975, GU C 286, pag. 19) e dal Parlamento europeo (14 ottobre 1975, GU C 257, pag. 10), fu trasmessa al Consiglio il 15 gennaio 1976. Vi si raccomanda di ricondurre l'attribuzione delle prestazioni familiari ad un sistema unico e a tal fine di adottare come criterio generale di coordinamento la legge dello Stato d'impiego. In questi termini, la proposta rimase all'ordine del giorno di diverse sessioni del Consiglio e venne da ultimo esaminata nel quadro dei Consigli informali del settembre e del novembre 1983. Ancora una volta, tuttavia, non fu possibile raccogliere su di essa l'unanimità dei consensi pretesa dall'articolo 51 del trattato. |
4. |
Seguendo l'ordine in cui è formulata la domanda pregiudiziale, affronto anzitutto la questione relativa alla validità dell'articolo 73, paragrafo 2, regolamento n. 1408/71, con riferimento al principio d'eguaglianza sancito dagli articoli 7, 48 e 51 del trattato. Per una risposta positiva (la norma è valida) si sono pronunciati il Consiglio, la Commissione e la Caisse d'allocations familiales della Savoia. Al contrario, i governi italiano ed ellenico e il ricorrente nel giudizio principale hanno sostenuto che il disposto istituisce a danno dei lavoratori comunitari in Francia una discriminazione contraria al trattato e va pertanto dichiarato invalido. Come ho già detto analizzando i motivi del ricorso per cassazione introdotto dal Pinna, tale discriminazione sarebbe duplice: nei confronti dei lavoratori soggetti alle leggi di uno Stato diverso dalla Francia e rispetto ai lavoratori di nazionalità francese impiegati nel loro Stato. Naturalmente, gli intervenuti che hanno preso partito per la validità del disposto contestano questa tesi, ma ognuno di essi con argomenti diversi per i due profili nei quali, secondo i loro contraddittori, si concreta la disparità di trattamento. Esaminiamo dunque tali argomenti cominciando con la discriminazione che sussisterebbe tra il lavoratore comunitario occupato in Francia e il suo omologo operante in uno degli altri Stati membri. Secondo la Commissione, il governo francese e la Caisse, la detta discriminazione non è oggetto del divieto posto dall'articolo 7. Essa dipende infatti dalle differenze che permangono tra i sistemi nazionali di sicurezza sociale; e tali differenze sono inevitabili dal momento che, come la Corte ha sempre affermato, l'articolo 51 del trattato e il regolamento n. 1408/71 si limitano a coordinare le legislazioni dei dieci Stati e non mirano in alcun modo ad armonizzarle (cfr., fra le altre, le sentenze 6 marzo 1979, causa 100/78, Rossi, Race. 1979, pag. 831, e 12 giugno 1980, causa 733/79, Laterza, Race. 1980, pag. 1915). Né — si aggiunge da parte della Commissione e della Caisse — quelle differenze verrebbero meno se alla norma controversa si sostituisse un regime fondato sulla lex loci laboris. Anche il lavoratore a cui si applica l'articolo 73, paragrafo 1, infatti, vede diminuire le sue prestazioni quando si trasferisce da uno Stato in cui il loro importo è elevato ad un altro che le corrisponde in misura minore. Il Consiglio va più in là. Le discriminazioni in esame — esso afferma — sono non tanto inevitabili, quanto insussistenti, per l'incomparabilità delle situazioni in cui si trovano il lavoratore non francese occupato in Francia e quello impiegato in un altro paese. Il cittadino comunitario che ha deciso di lavorare in uno Stato diverso dal suo è infatti tenuto ad accettare le. conseguenze che derivano dall'esercizio della sua libertà di circolazione. Sta cioè a lui informarsi sui vantaggi e sugli inconvenienti che la scelta a cui si accinge gli apporterà soprattutto in campo fiscale, previdenziale e scolastico; se non lo fa — o se, informatosi, opta per un paese il cui sistema gli è meno favorevole — non potrà poi dichiararsi vittima di una discriminazione e magari sostenere che il regime riservatogli scoraggia la mobilità dei lavoratori. Ma — incalzano ancora il Consiglio e, con esso, il governo francese e la Caisse — si ammetta anche che la scelta della legge dello Stato di residenza per l'identificazione del tipo e dell'importo dei benefìci spettanti ai familiari non residenti del lavoratore comunitario occupato in Francia porti a disparità di trattamento reali ed evitabili con altri sistemi. Non per questo esse sarebbero illegittime. Quella scelta, infatti, rientra nel potere discrezionale del Consiglio di attuare l'articolo 51 del trattato con «modalità obiettivamente giustificate»: un potere che al legislatore comunitario fu riconosciuto dalla sentenza 13 luglio 1976, causa 19/76, Triches, Race. 1976, pag. 1243, nel dichiarare legittimo l'articolo 42 del regolamento n. 3/58 che applica la legge dello Stato di residenza al pagamento degli assegni familiari spettanti ai titolari di pensioni o di rendite in forza di più leggi nazionali. Infine, a giudizio della Caisse, la tesi avanzata dal Pinna, per cui l'articolo 73, paragrafo 2, contrasta con l'articolo 51 è infondata. Lungi dal prescrivere l'esportazione delle prestazioni di sicurezza sociale, infatti, il disposto controverso impone solo di assicurare il loro pagamento senza prender in considerazione la residenza degli aventi diritto. Passiamo alla seconda discriminazione lamentata dal Pinna: quella che l'articolo 73, paragrafo 2, istituirebbe tra il lavoratore non francese impiegato in Francia i cui figli risiedano all'estero e il lavoratore nazionale o migrante, ma avente figli che risiedono su territorio francese. Il governo francese, la Caisse e la Commissione insistono sulla tesi della sua inevitabilità; anche in quest'ipotesi, cioè, le eventuali disparità riscontrabili nel trattamento dei vari soggetti derivano dalle differenze che tuttora esistono tra le leggi nazionali. Così, se il primo lavoratore riceve un beneficio di entità minore rispetto a quello che percepirebbe in Francia, egli dovrà imputare tale svantaggio non alla norma incriminata, ma appunto alla diversa misura in cui la legge francese e quella dello Stato di residenza determinano gli assegni. In ogni caso, le dette disparità non sono contrarie all'articolo 51 del trattato. Quest'ultimo sarebbe violato ove la diversità delle prestazioni si collegasse alla circolazione dei lavoratori; ma qui essa dipende dalla mobilità dei loro familiari che non è tutelata dal diritto comunitario. Ancora una volta più rigido è il Consiglio, a cui parere la discriminazione non sussiste. Il regolamento, anzi, favorisce il migrante perché gli accorda comunque gli assegni del paese di residenza, mentre la legge nazionale li sottrae al cittadino francese i cui figli soggiornino all'estero per più di tre mesi in un anno civile. Quanto poi ai lavoratori stranieri occupati in Francia con figli residenti in altri Stati e quelli i cui figli risiedono in territorio francese, si può ripetere che le loro situazioni sono incomparabili per le diverse esigenze di abitazione, di educazione e di sostentamento a cui essi devono far fronte. Anche se tali non fossero, tuttavia, la discriminazione che ne risulta non sarebbe in contrasto col trattato e in particolare col suo articolo 48, paragrafo 2. A tale norma interessa che il regime adottato dal legislatore comunitario non discrimini in ragione della nazionalità; e questo non è il caso del regime controverso che certo non si fonda sulla nazionalità del lavoratore, ma sulla residenza dei suoi familiari. |
5. |
Prima di esaminare gli argomenti così riassunti, è opportuno mettere in rilievo che i princìpi a cui stregua dev'essere vagliato l'articolo 73, paragrafo 2, sono quelli che governano la libera circolazione dei lavoratori e la sicurezza sociale. Nel quinto considerando del regolamento n. 1408/71, si legge infatti che un obiettivo primario della disciplina è « contribuire al miglioramento del ( ... ) tenore di vita e [delle] condizioni di lavoro, garantendo ( ... ) a tutti i cittadini degli Stati membri la parità di trattamento di fronte alle diverse legislazioni nazionali e ( ... ) ai lavoratori e ai rispettivi aventi diritto il beneficio delle prestazioni di sicurezza sociale, qualunque sia il luogo di occupazione o di residenza ». Conseguentemente, sotto la rubrica « parità di trattamento », l'articolo 3, paragrafo 1, stabilisce che le persone residenti nel territorio di uno Stato membro a cui il regolamento si applichi « sono soggette agli obblighi e sono ammesse al beneficio della legislazione di ciascuno Stato ( ... ) alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato, fatte salve le disposizioni particolari del ( ... ) regolamento ». Come afferma la sentenza 28 giugno 1978, causa 1/78 (Kenny, Race. 1978, pag. 1489), si è così inteso, parallelamente all'articolo 48 del trattato e a specificazione del suo articolo 7, assicurare « l'eguaglianza in materia di previdenza sociale, senza distinzione di nazionalità, abolendo qualsiasi discriminazione operata, a tale riguardo, dalle leggi degli Stati membri ». In questo brano, particolarmente rilevante mi sembra l'uso dell'aggettivo « qualsiasi ». Avendo natura generale e condizionando il funzionamento del sistema comunitario, il principio d'eguaglianza va infatti inteso in senso ampio: esso vieta dunque anche le disparità dissimulate, cioè prodotte mediante l'adozione di criteri diversi dalla cittadinanza (sentenze 16 febbraio 1978, causa 61/77, Commissione/Irlanda, Race. 1978, pag. 417; 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, Race. 1974, pag. 153; 3 febbraio 1982, cause riunite 62 e 63/81, Seco, Race. 1982, pag. 223). Strettamente legate al principio di eguaglianza in materia di sicurezza sociale sono l'identificazione della legge applicabile al trattamento previdenziale del lavoratore e quella dello Stato i cui enti sono tenuti a erogare le prestazioni. Al riguardo, la regola generale è dettata dall'articolo 13 del regolamento: le persone a cui quest'ultimo si applica sono soggette alla legislazione di un solo Stato da individuare di massima sulla base del locus laboris. Il criterio — si osserverà — ha una puntuale applicazione nel già citato articolo 73, paragrafo 1. Esso corrisponde comunque a quello seguito in materia di legge regolatrice del rapporto di lavoro e, sul piano previdenziale, si giustifica per il carattere territoriale della relativa disciplina. È infatti logico che la gestione dei contributi assicurativi e delle prestazioni sia affidata agli organismi previdenziali dello Stato d'impiego. Ma, come ho detto, il nostro regolamento va interpretato anche alla luce dei princìpi in materia di sicurezza sociale (articolo 51) e, più generalmente, « dello spirito e degli obiettivi del trattato » (sentenza 29 settembre 1976, causa 17/76, Brack, Race. 1976, pag. 1429, punto 19). Ora, su questo piano la Corte ha più volte stabilito che « lo scopo degli articoli da 48 a 51 ( ... ) sarebbe frustrato qualora, ( ... ), per poter fruire della libertà di circolazione ( ... ), [il lavoratore] dovesse adattarsi a perdere ( ... ) diritti già acquisiti in uno dei paesi membri, senza ricevere in cambio prestazioni per lo meno equivalenti » (sentenze 15 luglio 1964, causa 100/63, Van der Veen, Race. 1964, pag. 1091; 9 giugno 1964, causa 92/63, Nonnenmacher, Race. 1964, pag. 553; 10 dicembre 1969, causa 34/69, Caisse d'assurance vieillesse des travailleurs salariés de Paris, Racc. 1969, pag. 597; 21 ottobre 1975, causa 24/75, Petroni, Racc. 1975, pag. 1149; 3 febbraio 1977, causa 62/76, Strehl, Racc. 1977, pag. 211). Non credo che vi sareste potuti esprimere più limpidamente. Il concetto, tuttavia, è stato ulteriormente affinato e precisato in un primo momento dalla sentenza 13 luglio 1976 (causa 19/76, Triches, cit.): « i provvedimenti emanati ( ... ) per l'attuazione dell'articolo 51 — avete detto — non devono ( ... ) privare i lavoratori migranti dei diritti acquistati in forza della sola legge dello Stato ( ... ) [nel quale] essi hanno svolto la loro attività » e poi da una serie di pronunce relative ai disposti anticumulo in cui il regolamento n. 1408/71 utilizza il criterio dello Stato di residenza per la corresponsione di prestazioni familiari garantite contemporaneamente dalla legge di tale Stato e da quella dello Stato d'impiego (sentenze 6 marzo 1979, causa 100/78, Rossi, cit.; 12 giugno 1980, causa 733/79, Laterza, cit.; 9 luglio 1980, causa 807/79, Gravina, Race. 1980, pag. 2205; 19 febbraio 1981, causa 104/80, Beeck, Racc. 1981, pag. 503; 24 novembre 1983, causa 320/82, D'Amano, Racc. 1983, pag. 3811). Questa giurisprudenza ribadisce che il legislatore comunitario non può privare i lavoratori di un diritto ottenuto in base al solo ordinamento dello Stato nel quale furono impiegati. Ne viene che, quando le prestazioni familiari sono garantite da più ordinamenti, la norma regolamentare che prevede il pagamento delle prestazioni del paese di residenza non ha la forza di sopprimere il diritto al beneficio più cospicuo maturato nel paese d'impiego; al suo titolare si dovrà quindi corrispondere, se non l'intero beneficio, la somma che lo rende superiore a quello del paese di residenza. Detto altrimenti, al fine di evitare cumuli ingiustificati, il regolamento può sospendere le prestazioni in uno dei due paesi, ma non per la parte che eccede l'importo a cui il lavoratore ha diritto nell'altro Stato. |
6. |
Sulla scorta dei princìpi indicati e dell'interpretazione che ne avete fornito, mi sembra di poter escludere la fondatezza delle tesi che sostengono la validità del disposto controverso. Ecco i motivi che m'inducono a questa conclusione. A —Comincio, come ho già fatto sub n. 4, con la disparità di trattamento tra il lavoratore occupato in Francia e quello che opera in uno degli altri Stati. Agli argomenti avanzati su questo punto dai vari intervenuti va riconosciuto il merito di aver fatto emergere, in tutta la sua portata, il conflitto che sottende alla scelta tra criterio del paese d'impiego e criterio del paese di residenza nell'erogazione delle prestazioni previdenziali e segnatamente dei benefìci per carico di famiglia. Com'è noto, su tale alternativa si è a lungo interrogato il Consiglio, dapprima nell'emanare il regolamento n. 3/58, poi all'atto di riformarlo col regolamento n. 1408/71 e infine a seguito della proposta unificatrice che la Commissione gli trasmise nel 1976 (supra, n. 3). Ripercorrere quei dibattiti sarebbe interessante, ma non è qui opportuno. Basterà dunque ricordare che il legislatore del '71 adottò in via generale il criterio del paese d'impiego e all'altro fece ricorso nei soli casi in cui, per la natura della prestazione o per il modo di determinarla, esso poteva apparire più pratico. Si tratta infatti: a) delle prestazioni in natura dell'assicurazione malattia dei paesi diversi dal paese debitore, che si equivalgono in tutta l'area comunitaria e non sono comunque materialmente « esportabili »; b) delle prestazioni familiari versate ai titolari di pensioni o di rendite a carico di più Stati, per le difficoltà che s'incontrerebbero nel dividere pro rata anche le aggiunte di famiglia; e) di alcune prestazioni a favore dei lavoratori frontalieri. Ciò premesso, contesto con forza che la discriminazione da cui ho preso le mosse sia, come afferma il Consiglio, insussistente. Di questa tesi — e in particolare delle ragioni portate a suo sostegno — dirò solo che è in netto o, meglio, brutale contrasto col principio per cui il lavoratore migrante dev'essere trattato secondo regole comunitarie uniformi ovunque decida di stabilirsi. Altri e più pungenti rilievi critici sarebbero forse opportuni; ma — ritengo — non consoni alla funzione dell'avvocato generale. Più dignitosa è l'opinione secondo cui la disparità in esame è dovuta unicamente alle differenze che si registrano nelle legislazioni dei dieci Stati. Più dignitosa, ma anch'essa da respingere. Tali differenze, infatti, possono produrre discriminazioni; il disposto controverso le produce inevitabilmente. Esaminiamo il suo modo di operare. Esso fa dipendere l'erogazione degli assegni da un concorso di leggi: la legge francese regola la titolarità del diritto, mentre mediante un rinvio alla legge dello Stato di residenza si definisce la natura e l'entità del beneficio. Il rinvio serve dunque a determinare la prestazione e, com'è avvenuto nella vicenda che dà origine al presente giudizio, il suo effetto sta nel ridurre la consistenza del diritto acquisito in base alla legge francese. Ecco il punto, allora: a generare la disparità non è l'eventuale differenza fra le due leggi, ma il modo in cui l'articolo 73, paragrafo 2, le coordina. È questo coordinamento che sopprime la prestazione concessa dalla sola legge dello Stato d'impiego per crearne artificiosamente un'altra, regolata secondo la legge dello Stato di residenza dei familiari. Orbene, è ammissibile una simile soppressione? Io credo che non lo sia e a convincermene sono le vostre sentenze Rossi, Laterza, Gravina, Beeck e D'Amario. Certo, in quei casi, si trattava di prestazioni concorrenti, sorte in base a più leggi nazionali, mentre nel nostro la prestazione è unica, benché disciplinata da un concorso di leggi. Com'è ovvio, peraltro, una differenza di questo genere non può giungere fino a impedire che il principio da voi posto (il lavoratore non dev'essere svantaggiato per effetto del luogo in cui risiedono i suoi familiari) si applichi anche alla situazione de qua. Del resto — osservano il governo ellenico, il governo italiano e il ricorrente nella causa principale -, se esso non vi si applicasse, ci troveremmo dinanzi a un'evidente violazione dell'articolo 51 trattato CEE, che — ricorderò alla Commissione e alla Caisse — menziona altresì gli aventi diritto dei lavoratori migranti e impone il pagamento (dunque l'esportazione) delle prestazioni, quale che sia lo Stato membro in cui risiedono i loro beneficiari. Né si dica che discriminatorio può essere anche il criterio dello Stato d'impiego qualora il migrante si trasferisca da un paese in cui le prestazioni sono ingenti a un altro che le conceda in misura più limitata. A quest'argomento possono muoversi due obiezioni. Nel caso dell'articolo 73, paragrafo 1, che appunto fa leva sul locus laboris, la situazione è diversa perché la riduzione del beneficio dipende dal trasferimento del lavoratore e non, come nel paragrafo 2, dalla residenza dei suoi familiari. D'altro canto, calcolare i vantaggi e gli svantaggi comparando in entrambi i casi le « prestazioni » è scorretto; il calcolo va fatto tenendo presente che il lavoratore occupato in Francia a cui si applichi il paragrafo 2 percepisce i soli «assegni familiari », mentre negli altri nove Stati il paragrafo 1 impone di erogare la totalità delle «prestazioni familiari ». B —Veniamo alla discriminazione tra il lavoratore comunitario impiegato in Francia e il suo collega di nazionalità francese. Agli argomenti della Commissione, della Caisse e del governo francese, che non si differenziano da quelli or ora criticati, è superfluo rispondere. Due appunti, invece, vanno rivolti alla tesi del Consiglio. In primo luogo, non è sempre esatto che la norma controversa favorisca il lavoratore comunitario. Il diritto francese, infatti, ammette che il soggiorno all'estero si prolunghi oltre i tre mesi se lo richiedono la salute o gli studi del familiare [vedasi l'articolo 6 del decreto 10 dicembre 1946, come modificato dal decreto 17 aprile 1972, il decreto 14 maggio 1968 e, per la giurisprudenza, Cassazione (sezione sociale) 27 gennaio 1972 e 22 marzo 1973, in Droit social, 1972, pag. 530, e 1973, pag. 537]. Falso, poi, è che la discriminazione non sussista. La discriminazione c'è, ma è dissimulata perché, come rileva il governo italiano, il parametro « residenza » opera diversamente a seconda della nazionalità del lavoratore. In altri termini, il nucleo familiare di chi lavora nel paese d'origine è di regola unito; la famiglia del migrante è di regola smembrata. La residenza di alcuni familiari in paesi diversi da quello d'impiego è insomma un effetto normale dello spostamento del lavoratore sul territorio della Comunità. C —Infine, la discriminazione fra i lavoratori non francesi occupati in Francia, a seconda che i figli vivano con loro o risiedano all'estero. Si è visto che, per il Consiglio, essa non è incompatibile con l'articolo 48, paragrafo 2, del trattato. A mio parere, lo è. Vietando ogni discriminazione in materia di impiego, infatti, tale norma intende riferirsi al complesso di condizioni che costituiscono lo status del lavoratore subordinato, e perciò anche alla sua posizione previdenziale. Ora, se questo è vero, non si comprende perché, a parità di contributi corrisposti agli enti di sicurezza sociale e/o di imposte pagate al fisco dello stesso paese, alcuni lavoratori comunitari debbano, a causa della residenza dei loro familiari, essere trattati in modo meno favorevole; o addirittura essere equiparati, come ha messo in rilievo il Pinna, ai cittadini extracomunitari per cui un accordo bilaterale non preveda una disciplina più vantaggiosa. |
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Sull'attitudine dell'articolo 73, paragrafo 2, a sfavorire i lavoratori comunitari occupati in Francia i cui familiari risiedano in un altro paese non è dunque possibile nutrire dubbi. Resta allora da accertare se la scelta operata dal legislatore rientri fra le « modalità obiettivamente giustificate » con cui, secondo la sentenza Triches, egli può dar applicazione all'articolo 51 del trattato. Dico subito che a mio avviso la risposta dev'essere negativa. Quali giustificazioni vengono invocate nel nostro caso? La sola a cui si richiami esplicitamente il legislatore figura nel dodicesimo considerando del regolamento: la previsione di norme comuni a tutti gli Stati — vi si legge — non è opportuna là dove si tratti di benefici « che presentano un carattere preponderante d'incremento demografico ». A me sembra che l'argomento abbia una sua plausibilità; ma, come osserva la stessa Commissione, la vostra sentenza 12 luglio 1979 gli ha tolto la terra sotto i piedi stabilendo che il regolamento 1408/71 « non distingue tra i regimi di sicurezza sociale (...) a seconda che ( ... ) perseguano o meno scopi di politica demografica » (causa 237/78, CRAM/Toia, Race. 1979, pag. 2645, n. 15 della motivazione). Vengono poi — e sono tutte meno plausibili — le giustificazioni proposte dagli intervenuti nella procedura scritta e orale. Addirittura insussistente, per esempio, è alla luce delle sentenze Rossi e Laterza quella che fa leva sulla natura e sul carattere territoriale delle prestazioni; né molto più solido risulta l'argomento secondo cui il regime dualistico in esame tutela gli interessi finanziari dello Stato d'impiego. Da un lato, infatti, quel regime non libera il detto Stato dal carico del beneficio poiché esso deve rimborsarlo al paese di residenza; dall'altro, le finanze della Repubblica francese non sembrano minacciate al punto da esigere una disciplina derogatoria o quanto meno la sua perdurante vigenza. Può darsi che la misura delle prestazioni francesi fosse particolarmente elevata nel 1971; come prova la tabella prodotta dalla Commissione, non lo è più al giorno d'oggi. Ancora: si è detto che il meccanismo dell'articolo 73, paragrafo 2, favorisce la mobilità dei lavoratori perché, restando la prestazione determinata dallo Stato di residenza, offre loro una più grande libertà di scelta. Dubito, come del resto fa la Commissione, che un simile vantaggio sia sufficiente a giustificare un trattamento differenziato per sé incompatibile col diritto comunitario; ma dubito soprattutto che a incentivare la mobilità sia solo il criterio del paese di residenza. Con eguale se non maggiore fondatezza, si potrebbe sostenere che il criterio del paese d'impiego stimola il lavoratore a muoversi per ricercare, quale che sia il luogo in cui risiedono i familiari, le prestazioni a lui più favorevoli. Inaccoglibile è anche l'ultimo argomento: il criterio del paese di residenza — si afferma — è più equo perché consente di adeguare il livello delle prestazioni al costo di sostentamento dei familiari nei vari Stati, così assicurando l'eguaglianza dei familiari che risiedono nel medesimo Stato. In realtà, come ha detto assai bene il governo italiano, nessuno dei dieci paesi commisura direttamente e specificamente le prestazioni al costo che impone il sostentamento della famiglia. Tra quelle e questo c'è, sì, una tendenziale corrispondenza; ma essa è solo un effetto secondario dei princìpi di solidarietà a cui s'ispira l'intera disciplina dei rapporti di lavoro e di sicurezza sociale. Le prestazioni familiari, in particolare, sono un elemento integrativo della paga-base; l'effettiva condizione economico-sociale del lavoratore dipende dunque dal concorso di entrambe le « voci ». Ora, si supponga che un certo Stato compensi il basso livello dei salari o (è accaduto in Italia) l'adozione di misure limitative della scala mobile con un forte aumento dei benefici familiari; in una situazione del genere, il criterio del paese di residenza opererebbe in modo tutt'altro che equo. Al contrario, esso darebbe luogo ad effetti ingiusti e irrazionali privando della misura compensativa il lavoratore i cui familiari risiedano in un paese nel quale a salari più bassi corrispondano benefici meno elevati. E lo stesso accadrebbe negli Stati che concedono prestazioni familiari ingenti, ma non prevedono detrazioni d'imposta per carichi di famiglia. Applicando il criterio del paese di residenza, il lavoratore correrebbe il rischio di pagare integralmente le imposte e, al contempo, di percepire benefìci più esigui. In definitiva, l'articolo 73, paragrafo 2, del regolamento n. 1408/71 è: a) discriminatorio rispetto ai lavoratori comunitari soggetti all'ordinamento francese i cui familiari risiedano in altri Stati membri; b) contrastante per ciò stesso con le regole del trattato; e) sprovvisto di qualsiasi giustificazione obiettiva. Esso va dunque dichiarato invalido. Io vi raccomando di adottare questa soluzione, naturalmente attenuandone gli effetti coi correttivi che, a fini di certezza del diritto, avete disposto in una serie di pronunce e da ultimo nella sentenza 27 febbraio 1985 (causa 112/83, Société des produits de maïs SA). |
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Restano da esaminare gli altri due problemi — l'efficacia attuale del disposto controverso e il significato del concetto di residenza che esso impiega — su cui v'interroga il giudice del rinvio. Per la verità, essi sono superati dalla conclusione a cui sono appena giunto; ma l'avvocato generale è tenuto a svolgere una trattazione completa e io non intendo sottrarmi a questo dovere. Sul primo punto, il Pinna ha affermato che la norma è venuta meno per la scadenza del termine stabilito nell'articolo 98 del regolamento n. 1408/71, così facendo posto all'operatività della lex loci laboris (articolo 73, paragrafo 1) in tutta l'area comunitaria. Confermano quest'interpretazione le sentenze 8 aprile 1976 (causa 43/75, Defrenne, Race. 1976, pag. 455) e 29 marzo 1979 (causa 231/78, Commissione/Regno Unito, Race. 1979, pag. 1447). Analogo, ma più elaborato è l'argomento proposto dal governo italiano. L'articolo 98 — ha sostenuto il suo rappresentante — non prevede la pura e semplice emanazione di una nuova disciplina; esige invece che il « riesame » della disciplina vigente, da iniziare prima del 1o gennaio 1973, « superi » il dualismo su cui essa è fondata. Nella sua logica, dunque, il 1o gennaio 1973 ha il valore di un termine finale riferito non alla durata del riesame, ma all'efficacia della norma da riesaminare. Il governo ellenico, dal canto suo, perviene al medesimo risultato osservando che tale norma ha carattere non solo derogatorio, ma anche e soprattutto transitorio. Contro la tesi della caducazione si schierano invece il Consiglio, la Commissione, il governo francese e la Caisse. A loro avviso, la clausola di riesame su cui si discute non è una novità. Essa figura in altri atti comunitari e, come in questi, non implica alcun limite temporale all'efficacia della norma che ne è oggetto. La norma resta dunque applicabile fin quando non sia modificata o abrogata; e ciò (il rilievo è del Consiglio) anche perché la sua inefficacia darebbe luogo a un vuoto di diritto, non avendo l'articolo 98 prestabilito se il riesame debba mettere capo all'applicazione generalizzata della lex loci laboris o del criterio dello Stato di residenza. Inconferenti, d'altra parte, sono le sentenze invocate dal Pinna. La Defrenne, infatti, si riferisce a un obbligo di risultato per il cui adempimento l'articolo 119 del trattato prevede un termine imperativo; e nella pronuncia in causa 231/78 si trattava di identificare la portata di una disposizione transitoria dell'atto con cui la Gran Bretagna aderì alla Comunità. Si aggiunga — conclude la Commissione — che il legislatore, se avesse voluto apporre un termine al disposto, avrebbe impiegato la formula a cui, per lo stesso problema, è ricorso nell'atto di adesione della Grecia. Stabilisce infatti l'articolo 48 di questa fonte che « sino al 31 dicembre 1983 le disposizioni dell'articolo 73, paragrafi 1 e 3 ( ... ) non si applicano ai lavoratori greci occupati in uno Stato membro che non sia la Grecia i cui [familiari] risiedono in Grecia. Le disposizioni dell'articolo 73, paragrafo 2 ( ... ) si applicano per analogia a tali lavoratori ». Sono dell'avviso che all'articolo 98 (ora 99) non possa essere riconosciuta una forza sufficiente a far cadere automaticamente il paragrafo 2 dell'articolo 73 in data 1o gennaio 1973. Depone in tal senso la lettera del disposto, che le tesi dei governi italiano ed ellenico, per quanto ingegnose, ignorano o distorcono; né può sottovalutarsi il fatto che, agli occhi del legislatore (cioè in concreto, dei dieci Stati), l'articolo 73, paragrafo 2, continuasse ad essere vigente nelle molte occasioni in cui il Consiglio ne discusse e durante la redazione del trattato con la Grecia. In quest'ottica, bisogna ammetterlo, l'ultimo argomento della Commissione ha un peso tutt'altro che trascurabile. Ma, attenzione: tutto ciò non equivale a dire che l'articolo 98 (99) possieda un valore meramente ottativo o che abbia un contenuto neutro. Non è vero, infatti, che esso sia assimilabile alle tante clausole di riesame di cui v'è traccia nella legislazione comunitaria: queste mirano solo ad assicurare un' evoluzione « fisiologica » del sistema prevedendone adattamenti o perfezionamenti tecnici; quella è formulata in modo da persuadere che i suoi autori fossero consapevoli di aver dato vita a un sistema zoppo e di doverlo quanto prima raddrizzare. In secondo luogo, dubito fortemente che nel 1971 la soluzione a cui il riesame avrebbe dovuto condurre fosse, come afferma il Consiglio, impregiudicata. Ne dubito perché mi sembra inconcepibile che il legislatore potesse pensare di estendere all'intera Comunità un criterio, com'è quello dello Stato di residenza, per cui il contenuto di diritti acquisiti in base agli ordinamenti nazionali viene ad essere più o meno incisivamente ridotto. In ogni caso, ammesso che impregiudicata fosse allora, la riforma che l'articolo 98 preconizza ha cessato di esserlo il 13 luglio 1976, e cioè dalla data della prima sentenza (Triches) in cui la Corte chiarì che quella riduzione è incompatibile col diritto comunitario. |
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Poche parole, per finire, sul concetto di residenza. Nel senso che per la sua determinazione si debba far riferimento alla legge dello Stato competente si sono pronunciati il governo francese e la Caisse. A giudizio di tutti gli altri intervenuti (salvo il Consiglio che sul punto non ha preso posizione), quel concetto — impiegato fra l'altro dall'articolo 51 del trattato a cui il regolamento n. 1408/71 intende dar attuazione — ha carattere comunitario. Io sono di quest'ultimo avviso. Il regolamento, infatti, non si limita a richiamare la nozione di residenza, ma all'articolo 1, lettera h), la definisce affermando che essa indica la « dimora abituale » (mentre — vedasi lettera i) — la dimora in senso proprio è « temporanea »). Si aggiunga che tale definizione corrisponde a quella che dello stesso termine ha dato la Corte in una serie di pronunce relative alla sicurezza sociale dei lavoratori migranti. Residenza — essa afferma — è « il centro abituale o permanente degli interessi di un soggetto »; risiede in un certo luogo chi ha con esso legami professionali o affettivi e la durata del soggiorno che vi effettua conta solo in quanto permetta di far luce su tali legami (cfr. sentenze 12 luglio 1973, causa 13/73, Angenieux/Hakenberg, Racc. 1973, pag. 935, e 17 febbraio 1977, causa 76/76, Di Paolo/Office national de l'emploi, Racc. 1977, pag. 315). La residenza, in altri termini, non si fonda semplicemente su un dato materiale com'è la fissazione della dimora; più importante è la volontà di dar a quest'ultima carattere stabile. Ne viene che si può risiedere in un posto anche se vi si trascorrono pochi mesi; e, viceversa, che una dimora durevole può non tradursi in residenza, come accade quando l'interessato la prolunghi per ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago, ma non intenda conferirle stabilità. Ciò premesso, spetterà al giudice nazionale accertare, in rapporto alla specie sottopostagli, se il soggiorno che i familiari del lavoratore migrante abbiano effettuato in un altro paese presenti aspetti tali da lasciar presumere l'intento di spostarvi il centro dei loro interessi e perciò di modificare la loro residenza. |
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Per tutte le considerazioni fin qui svolte, concludo suggerendo alla Corte di rispondere come segue ai quesiti formulati dalla Corte di cassazione della Repubblica francese, con sentenza 11 gennaio 1984, n. 218, nella causa tra il signor-Pietro Pinna e la Caisse d'allocations familiales della Savoia: L'articolo 73, paragrafo 2, regolamento del Consiglio n. 1408/71 è incompatibile con gli articoli da 48 a 51 del trattato CEE perché viola il principio di eguaglianza di trattamento in materia di lavoro e di sicurezza sociale. Tenuto conto di questa risposta, propongo alla Corte di non pronunciarsi sulle rimanenti domande. |