CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ELEANOR SHARPSTON

presentate il 31 ottobre 2019 ( 1 )

Causa C‑507/18

NH

contro

Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford

[Domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema di cassazione (Italia)]

«Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Discriminazione fondata sull’orientamento sessuale – Articolo 3, paragrafo 1, lettera a) – Accesso al lavoro – Dichiarazioni pubbliche nel senso di escludere l’assunzione di persone omosessuali – Articolo 8, paragrafo 1 – Articolo 9, paragrafo 2 – Esecuzione e mezzi di ricorso – Legittimazione ad agire di un’associazione in assenza di una vittima identificabile – Domanda risarcitoria»

1. 

Έπεα πτερόεντα, parole alate. Il significato di tale espressione, le cui origini possono essere fatte risalire a Omero ( 2 ), è duplice: le parole volano, trasportate via dal vento ( 3 ); ma anche, le parole viaggiano veloci e si diffondono rapidamente. La presente causa, concernente dichiarazioni rese nel corso di una intervista radiofonica, è prossima al secondo significato. Oggigiorno, le parole pronunciate in radio o in televisione oppure trasmesse attraverso mezzi di comunicazione sociale si disseminano velocemente e producono conseguenze. Le dichiarazioni orali all’origine del procedimento principale sono giunte fino in Lussemburgo e offrono alla Corte l’opportunità di interpretare le disposizioni della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro ( 4 ). Ci si chiede se, nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva, che vieta discriminazioni nell’accesso all’occupazione, rientri anche una dichiarazione generale, resa in una trasmissione radiofonica, secondo la quale l’intervistato non assumerebbe persone omosessuali nel suo studio legale. Ci si chiede inoltre se un’associazione, in assenza di una vittima identificabile, possa agire al fine di far rispettare il divieto di discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro anche attraverso una domanda risarcitoria.

Contesto normativo

Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali

2.

L’articolo 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (in prosieguo: la «CEDU») prevede quanto segue:

«1.   Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. Il presente articolo non impedisce agli Stati di sottoporre a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, cinematografiche o televisive.

2.   L’esercizio di queste libertà, poiché comporta doveri e responsabilità, può essere sottoposto alle formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».

3.

L’articolo 14 sancisce il divieto di discriminazione, statuendo che «[i]l godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».

4.

Il diritto all’occupazione non rientra, tuttavia, tra i diritti specifici tutelati dalla CEDU.

Diritto dell’Unione

Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

5.

L’articolo 11, paragrafo 1, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta») ( 5 ) prevede che «[o]gni persona ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera».

6.

L’articolo 15, paragrafo 1 dichiara che «[o]gni persona ha il diritto di lavorare e di esercitare una professione liberamente scelta o accettata».

7.

L’articolo 21, paragrafo 1, vieta «qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale».

8.

L’articolo 52, paragrafo 1, afferma che «[e]ventuali limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà riconosciuti dalla presente Carta devono essere previste dalla legge e rispettare il contenuto essenziale di detti diritti e libertà. Nel rispetto del principio di proporzionalità, possono essere apportate limitazioni solo laddove siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui». L’articolo 52, paragrafo 3, stabilisce che «[l]addove la presente Carta contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla [CEDU], il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. La presente disposizione non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa».

Direttiva 2000/78

9.

I considerando della direttiva 2000/78 enunciano, in particolare, quanto segue:

«(1)

(…) l’Unione europea si fonda sui principi di libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto, principi che sono comuni a tutti gli Stati membri e rispetta i diritti fondamentali (…).

(…)

(9)

L’occupazione e le condizioni di lavoro sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini e contribuiscono notevolmente alla piena partecipazione degli stessi alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale.

(…)

(11)

La discriminazione basata su (…) tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone.

(…)

(15)

La valutazione dei fatti sulla base dei quali si può argomentare che sussiste discriminazione diretta o indiretta è una questione che spetta alle autorità giudiziarie nazionali o ad altre autorità competenti conformemente alle norme e alle prassi nazionali.

(…)

(28)

La presente direttiva fissa requisiti minimi, lasciando liberi gli Stati membri di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli. L’attuazione della presente direttiva non può servire da giustificazione per un regresso rispetto alla situazione preesistente in ciascuno Stato membro.

(29)

Le vittime di discriminazione a causa della religione o delle convinzioni personali, di un handicap, dell’età o delle tendenze sessuali dovrebbero disporre di mezzi adeguati di protezione legale. Al fine di assicurare un livello più efficace di protezione, anche alle associazioni o alle persone giuridiche dovrebbe essere conferito il potere di avviare una procedura, secondo le modalità stabilite dagli Stati membri, per conto o a sostegno delle vittime, fatte salve norme procedurali nazionali relative alla rappresentanza e alla difesa in giustizia.

(…)

(30)

L’efficace attuazione del principio di parità richiede un’adeguata protezione giuridica in difesa delle vittime.

(…)

(35)

Gli Stati membri devono prevedere sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive applicabili in caso di violazione degli obblighi risultanti dalla presente direttiva.

(…)

(37)

In base al principio di sussidiarietà (…) l’obiettivo della presente direttiva, in particolare la realizzazione di una base omogenea all’interno dell[’Unione] per quanto riguarda la parità in materia di occupazione e condizioni di lavoro, non può essere realizzato in misura sufficiente dagli Stati membri (…)».

10.

Ai sensi dell’articolo 1, l’obiettivo della direttiva è «stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».

11.

L’articolo 2 («Nozione di discriminazione») stabilisce quanto segue:

«1.   Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.

2.   Ai fini del paragrafo 1:

a)

sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b)

sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:

(…)

5.   La presente direttiva lascia impregiudicate le misure previste dalla legislazione nazionale che, in una società democratica, sono necessarie alla sicurezza pubblica, alla tutela dell’ordine pubblico, alla prevenzione dei reati e alla tutela della salute e dei diritti e delle libertà altrui».

12.

L’articolo 3 («Campo d’applicazione») prevede quanto segue:

«1.   Nei limiti dei poteri conferiti all[’Unione], la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:

a)

alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione; (…)».

13.

L’articolo 8 così dispone:

«1.   Gli Stati membri possono introdurre o mantenere, per quanto riguarda il principio della parità di trattamento, disposizioni più favorevoli di quelle previste nella presente direttiva.

2.   L’attuazione della presente direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della presente direttiva».

14.

L’articolo 9 («Difesa dei diritti») statuisce quanto segue:

«1.   Gli Stati membri provvedono affinché tutte le persone che si ritengono lese, in seguito alla mancata applicazione nei loro confronti del principio della parità di trattamento, possano accedere (…) a procedure giurisdizionali e/o amministrative (…) finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.

2.   Gli Stati membri riconoscono alle associazioni, organizzazioni e altre persone giuridiche che, conformemente ai criteri stabiliti dalle rispettive legislazioni nazionali, abbiano un interesse legittimo a garantire che le disposizioni della presente direttiva siano rispettate, il diritto di avviare, in via giurisdizionale o amministrativa, per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso, una procedura finalizzata all’esecuzione degli obblighi derivanti dalla presente direttiva.

(…)».

15.

L’articolo 17 prevede che «[g]li Stati membri determinano le sanzioni da irrogare in caso di violazione delle norme nazionali di attuazione della presente direttiva e prendono tutti i provvedimenti necessari per la loro applicazione. Le sanzioni, che possono prevedere un risarcimento dei danni, devono essere effettive, proporzionate e dissuasive (…)».

Diritto italiano

16.

Il decreto legislativo del 9 luglio 2003, n. 216 (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 216/2003») ha attuato la direttiva 2000/78. L’articolo 1 chiarisce che il decreto «reca le disposizioni relative all’attuazione della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla religione, dalle convinzioni personali, dagli handicap, dall’età e dall’orientamento sessuale, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, disponendo le misure necessarie affinché tali fattori non siano causa di discriminazione, in un’ottica che tenga conto anche del diverso impatto che le stesse forme di discriminazione possono avere su donne e uomini».

17.

L’articolo 2 definisce la nozione di discriminazione. Il suo primo comma prevede che «per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:

a)

discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;

b)

discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone (…)».

18.

L’articolo 3, primo comma, statuisce che «[i]l principio di parità di trattamento senza distinzione di religione, di convinzioni personali, di handicap, di età e di orientamento sessuale si applica a tutte le persone sia nel settore pubblico che privato ed è suscettibile di tutela giurisdizionale secondo le forme previste dall’articolo 4, con specifico riferimento alle seguenti aree:

a)

accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione (…)».

19.

L’articolo 5 concerne la legittimazione ad agire e prevede quanto segue:

«1.   Le organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso, in forza di delega, rilasciata per atto pubblico o scrittura privata autenticata, a pena di nullità, sono legittimate ad agire ai sensi dell’articolo 4, in nome e per conto o a sostegno del soggetto passivo della discriminazione, contro la persona fisica o giuridica cui è riferibile il comportamento o l’atto discriminatorio.

2.   I soggetti di cui al comma 1 sono altresì legittimati ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».

Fatti, procedimento e questioni pregiudiziali

20.

NH è un avvocato senior. Gli elementi in possesso della Corte non permettono di stabilire con precisione l’attuale posizione di NH all’interno dello studio legale di cui è socio. Durante un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica, NH ha dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di persone omosessuali nel proprio studio legale. Nel momento in cui sono state effettuate tali dichiarazioni non era in atto alcuna procedura di assunzione presso lo studio legale di NH.

21.

L’Associazione Avvocatura per i diritti LGBTI – Rete Lenford (in prosieguo: l’«Associazione») ( 6 ) è un’associazione di avvocati che, ai sensi del suo statuto, si propone lo scopo di «contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone [LGBTI]» e di creare una rete di avvocati per offrire tutela giudiziaria alle persone LGBTI e agire in giudizio per loro conto presso istanze giurisdizionali nazionali e internazionali. L’Associazione ha proposto un ricorso nei confronti di NH, chiedendo che egli fosse condannato a pubblicare un estratto dell’ordinanza su un quotidiano a tiratura nazionale, a predisporre un piano di rimozione delle discriminazioni e a risarcire l’Associazione dei danni non patrimoniali subiti.

22.

Con ordinanza del 6 agosto 2014 il Tribunale di Bergamo (Italia), in qualità di giudice del lavoro, ha dichiarato illegittima la condotta di NH. Esso ha ritenuto tale condotta illegittima in ragione del suo carattere discriminatorio, ha ordinato la pubblicazione di un estratto dell’ordinanza e ha condannato NH a versare EUR10 000 all’Associazione a titolo di risarcimento dei danni.

23.

L’impugnazione proposta da NH avverso tale ordinanza è stata respinta dalla Corte d’appello di Brescia (Italia), con sentenza del 23 gennaio 2015.

24.

NH ha proposto ricorso contro tale sentenza presso la Corte suprema di cassazione (Italia) (in prosieguo: il «giudice del rinvio»).

25.

Il giudice del rinvio esprime dubbi quanto al punto se l’Associazione sia un organismo che rappresenta interessi collettivi ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 e sia, quindi, legittimata ad agire nei confronti di NH. Esso esprime altresì dubbi in ordine al fatto che le dichiarazioni di NH rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, in quanto concernenti l’«occupazione», o se debbano essere considerate semplici manifestazioni del pensiero, avulse da qualsiasi procedura di assunzione discriminatoria.

26.

In tale contesto, il giudice del rinvio ha sottoposto alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’interpretazione dell’art[icolo] 9 della direttiva n. 2000/78/CE sia nel senso che un’associazione, composta da avvocati specializzati nella tutela giudiziale di una categoria di soggetti a differente orientamento sessuale, la quale nello statuto dichiari il fine di promuovere la cultura e il rispetto dei diritti della categoria, si ponga automaticamente come portatrice di un interesse collettivo e associazione di tendenza non profit, legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di fatti ritenuti discriminatori per detta categoria;

2) Se rientri nell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria predisposta dalla direttiva n. 2000/78/CE, secondo l’esatta interpretazione dei suoi art[icoli] 2 e 3, una dichiarazione di manifestazione del pensiero contraria alla categoria delle persone omosessuali, con la quale, in un’intervista rilasciata nel corso di una trasmissione radiofonica di intrattenimento, l’intervistato abbia dichiarato che mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di dette persone nel proprio studio professionale, sebbene non fosse affatto attuale né programmata dal medesimo una selezione di lavoro».

27.

NH, l’Associazione, i governi ellenico e italiano e la Commissione europea hanno presentato osservazioni scritte. All’udienza del 15 luglio 2019, NH, l’Associazione, il governo italiano e la Commissione europea hanno presentato osservazioni orali.

Valutazione

Osservazioni preliminari

28.

I fatti all’origine della presente causa sono pacifici. NH ha dichiarato, nel corso di un’intervista radiofonica, che non assumerebbe né vorrebbe avvalersi della collaborazione di persone omosessuali nel proprio studio legale. La controversia concerne la qualificazione giuridica di tali fatti. Ci si chiede se essi configurino una discriminazione in materia di occupazione ai sensi della direttiva 2000/78. E qualora così fosse, ci si chiede se l’Associazione sia legittimata ad agire in giudizio nei confronti di NH, in assenza di una vittima identificabile.

29.

Occorre quindi, anzitutto, verificare se la situazione di cui al procedimento principale rientri nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 e, in seguito, esaminare se l’Associazione sia legittimata ad agire ai fini dell’attuazione delle disposizioni di tale direttiva. Questo è l’ordine in cui tratterò le questioni pregiudiziali (invertendo, pertanto, l’ordine in cui figurano nell’ordinanza di rinvio).

30.

Secondo costante giurisprudenza della Corte, come risulta sia dal titolo e dal preambolo, sia dal contenuto e dalla finalità della direttiva 2000/78, quest’ultima si propone di fissare un quadro generale per garantire ad ogni individuo la parità di trattamento «in materia di occupazione e di condizioni di lavoro», offrendo una protezione efficace contro le discriminazioni fondate su uno dei motivi di cui all’articolo 1, fra i quali sono menzionati gli orientamenti sessuali ( 7 ).

31.

La direttiva mira altresì alla realizzazione di una base omogenea all’interno dell’Unione per quanto riguarda la parità in materia di occupazione e condizioni di lavoro ( 8 ). Tuttavia, la protezione offerta dalla direttiva deve essere considerata una soglia minima, sicché gli Stati membri sono liberi di introdurre o mantenere disposizioni più favorevoli ( 9 ). La direttiva 2000/78 offre una tutela di duplice livello: un livello sostanziale, vietando discriminazioni dirette e indirette fondate, inter alia, sull’orientamento sessuale; e un livello di esecuzione, prevedendo criteri minimi concernenti i mezzi di ricorso che gli Stati membri sono tenuti a rendere disponibili nei casi di discriminazione.

Seconda questione

32.

La seconda questione concerne l’ambito di applicazione della direttiva 2000/78. Ci si chiede se una dichiarazione resa nell’ambito di una trasmissione radiofonica, nel corso della quale l’intervistato abbia affermato, chiaramente e inequivocabilmente, che egli mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di persone omosessuali nel proprio studio legale rientri nell’ambito di applicazione di tale direttiva, sebbene tale dichiarazione non si riferisca ad alcuna procedura di assunzione in atto o programmata.

33.

La valutazione dei fatti che consentono di presumere la sussistenza di una discriminazione spetta all’autorità giudiziaria nazionale o ad altra autorità competente in base al diritto o alle prassi nazionali ( 10 ). Ciò premesso, mi sembra che, qualora la direttiva 2000/78 sia applicabile, i fatti della presente causa, così come presentati alla Corte, siano tali da integrare una discriminazione diretta. È evidente che una persona omosessuale interessata a lavorare nello studio legale di NH si vedrebbe accordare un trattamento meno favorevole, ossia non sarebbe assunta, a motivo del suo orientamento sessuale, rispetto ad un’altra persona in una situazione analoga ( 11 ).

34.

Ci si chiede se i fatti descritti dal giudice del rinvio rientrino nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 2000/78 e se siano inclusi nella categoria «occupazione e condizioni di lavoro» e, più specificamente, nelle «condizioni di accesso all’occupazione» di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva.

Ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78

35.

Il giudice del rinvio nutre dubbi in ordine all’esistenza di un nesso sufficiente tra le dichiarazioni rese da NH nel corso della trasmissione radiofonica e l’accesso all’occupazione, poiché, nel momento in cui tali dichiarazioni sono state rese, non era in atto alcuna procedura di assunzione, né era stato diffuso un avviso di posto vacante all’interno dello studio legale di NH. Esso rileva altresì che semplici manifestazioni del pensiero prive di un nesso minimo con una procedura di assunzione sono tutelate dalla libertà di espressione.

36.

NH sostiene che non vi era alcuna procedura di assunzione in atto o programmata. Non sussisteva dunque alcun contesto professionale. Egli aveva espresso la propria opinione personale in qualità di semplice cittadino.

37.

In udienza, il governo italiano ha posto in rilievo che deve essere tenuto in considerazione il contesto in cui le dichiarazioni sono state rese. Il nesso con l’accesso all’occupazione può mutare a seconda che le dichiarazioni siano rese nel corso di una trasmissione non di intrattenimento, che vede la partecipazione di datori di lavoro e giornalisti di cronaca, oppure nel corso di un programma di satira politica carico di ironia.

38.

Ci si chiede se sia possibile ritenere che dichiarazioni quali quelle all’origine del procedimento principale rientrino nella nozione di «accesso all’occupazione» ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 quando non vi è una procedura di assunzione in atto.

39.

Tale disposizione stabilisce che devono essere evitate discriminazioni per quanto attiene ai «criteri di selezione», alle «condizioni di assunzione» e alla «promozione». Essa non definisce, tuttavia, il significato dell’espressione «accesso all’occupazione».

40.

Dall’imperativo tanto dell’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto del principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione di diritto dell’Unione che non contenga alcun espresso richiamo al diritto degli Stati membri per quanto riguarda la determinazione del suo significato e della sua portata devono, di norma, essere oggetto nell’intera Unione di un’interpretazione autonoma e uniforme da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione e della finalità perseguita dalla normativa di cui trattasi ( 12 ).

41.

La direttiva 2000/78 concretizza, nell’ambito da essa coperto, il principio generale di non discriminazione sancito all’articolo 21 della Carta ( 13 ). La direttiva non crea, essa stessa, il principio della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La fonte del principio che vieta tali forme di discriminazione si rinviene, come risulta chiaramente dai considerando 3 e 4 della direttiva, in vari strumenti internazionali e nelle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri ( 14 ). La direttiva mira ad attuare, negli Stati membri, il principio della parità di trattamento, stabilendo un quadro generale per la lotta alle discriminazioni per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di garantire pari opportunità a tutti i cittadini e contribuire alla piena partecipazione degli stessi alla vita economica, culturale e sociale e alla realizzazione personale ( 15 ).

42.

Tenuto conto dell’obiettivo della direttiva 2000/78 e della natura dei diritti che si propone di tutelare, il suo campo di applicazione non può essere definito in modo restrittivo ( 16 ). Tale conclusione si applica anche ai termini della direttiva che definiscono il suo campo d’applicazione materiale, quale l’occupazione, l’accesso, l’orientamento e la formazione professionale, le condizioni di lavoro, la protezione e le prestazioni sociali. La parità di trattamento per quanto concerne l’accesso ad attività lavorative autonome o dipendenti comporta l’eliminazione di qualsiasi discriminazione derivante da disposizioni che impediscono l’accesso delle persone a tutte le forme di lavoro e di occupazione ( 17 ). L’occupazione e le condizioni di lavoro sono elementi chiave per garantire pari opportunità a tutti i cittadini ( 18 ).

43.

Il termine «accesso» è definito come il «mezzo o l’opportunità di avvicinarsi o entrare in un luogo» ( 19 ). Quando si tratta di «accesso all’occupazione», tale termine include le condizioni, i requisiti, i mezzi e le modalità per ottenere un lavoro. Se un datore di lavoro sceglie di non assumere determinate persone a causa del loro (presunto) orientamento sessuale, esso stabilisce un criterio (negativo) di selezione discriminatorio. Tale situazione rientra chiaramente nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78.

44.

L’accesso al lavoro e alla crescita professionale, come espresso dal mio collega avvocato generale Poiares Maduro, ha «un significato fondamentale per chiunque, non soltanto come mezzo di sostentamento ma anche come strumento importante di appagamento personale e di realizzazione delle proprie potenzialità. Il discriminatore che discrimina un individuo appartenente a una categoria sospetta lo priva ingiustamente di opzioni. Di conseguenza, la capacità di tale persona di condurre una vita autonoma risulta seriamente compromessa, in quanto un aspetto importante della sua vita viene plasmato non dalle sue proprie scelte bensì dal pregiudizio di qualcun altro. Trattando le persone appartenenti a tali gruppi in modo meno favorevole a causa delle loro caratteristiche, il discriminatore impedisce loro di esercitare la loro autonomia. A questo punto, è equo e ragionevole che intervenga la normativa antidiscriminazione. In sostanza, attribuendo valore all’uguaglianza e impegnandoci nella realizzazione dell’uguaglianza attraverso la legge, miriamo a sostenere la possibilità per ciascuno di condurre una vita autonoma ( 20

45.

Pur non affrontando direttamente la problematica di cui alla presente causa, la giurisprudenza della Corte offre già alcune indicazioni sul significato dell’espressione «accesso all’occupazione».

46.

In cause concernenti discriminazioni fondate sul sesso, la Corte ha attribuito un significato ampio all’espressione «accesso al lavoro». Così, essa ha statuito che «la nozione di accesso a un lavoro non concerne solo le condizioni esistenti prima del sorgere di un rapporto di lavoro», ma anche i fattori che influenzano la decisione di una persona di accettare o meno un’offerta di lavoro ( 21 ).

47.

Nella causa Feryn, concernente l’interpretazione della direttiva 2000/43, il direttore di un’impresa aveva dichiarato pubblicamente che l’impresa intendeva reclutare operai installatori di porte, ma che non avrebbe assunto «alloctoni» a motivo delle reticenze della clientela a farli accedere alla propria abitazione privata durante i lavori. La Corte ha statuito che «[l]e dichiarazioni con cui un datore di lavoro rende pubblicamente noto che, nell’ambito della sua politica di assunzione, non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale possono configurare tali elementi di fatto idonei a far presumere una politica di assunzione discriminatoria». La circostanza che un datore di lavoro dichiari pubblicamente che non assumerà lavoratori dipendenti aventi una certa origine etnica o razziale, circostanza che in modo evidente è idonea a dissuadere determinati candidati dal proporre le loro candidature e, quindi, a ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro, configura una discriminazione diretta nell’assunzione, che non presuppone l’identificazione di uno specifico denunciante che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione ( 22 ).

48.

Più simile alla presente causa è la causa Asociaţia Accept, che, come nel caso di specie, verteva sull’interpretazione della direttiva 2000/78. In tale causa, un importante azionista della FC Steaua, che aveva agito come «finanziatore» della società, aveva dichiarato, in occasione di un’intervista con la stampa concernente il possibile trasferimento del calciatore professionista X, che non avrebbe accettato un omosessuale nella squadra. La società calcistica non aveva avviato trattative per ingaggiare il calciatore X, che veniva presentato come omosessuale. Tuttavia, la società non ha ingaggiato tale giocatore, presumibilmente a causa del suo orientamento sessuale ( 23 ).

49.

La Corte ha stabilito che, sulla base di fatti quali quelli di cui al procedimento principale, si poteva presumere la sussistenza di una discriminazione ai sensi della direttiva 2000/78. Tale constatazione non era inficiata dalla circostanza che «il sistema di assunzione dei calciatori professionisti non si basa su un’offerta pubblica o su una trattativa diretta in seguito ad una procedura di selezione che presuppone il deposito di candidature ed una preselezione di queste in funzione dell’interesse che presentano per il datore di lavoro». Inoltre, «un datore di lavoro convenuto non può confutare l’esistenza di fatti che consentono di presumere che egli conduca una politica di assunzione discriminatoria limitandosi ad affermare che le dichiarazioni che suggeriscono l’esistenza di una politica di assunzione omofoba provengono da una persona che, pur affermando di ricoprire un ruolo importante nella gestione di tale soggetto datore di lavoro, e pur sembrando titolare di tale ruolo, non è giuridicamente titolata ad assumere decisioni che lo vincolano in materia di assunzioni». Il fatto che tale datore di lavoro «non abbia chiaramente preso le distanze dalle dichiarazioni controverse costituisce un elemento di cui il giudice adito può tener conto nella valutazione complessiva dei fatti». Anche la percezione dei gruppi protetti può costituire un indizio pertinente ai fini della valutazione complessiva delle dichiarazioni in discussione. Inoltre, la circostanza che una società calcistica professionistica non avesse avviato alcuna trattativa per l’ingaggio di uno sportivo presentato come omosessuale «non esclude la possibilità che possano essere considerati dimostrati fatti dai quali si può presumere che tale squadra professionistica abbia commesso una discriminazione» ( 24 ).

50.

Con riferimento alla portata dell’«accesso all’occupazione» di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78 ricavo, pertanto, i seguenti principi: i) tale nozione deve essere oggetto di un’interpretazione autonoma e uniforme in tutta l’Unione; ii) tenuto conto dell’obiettivo della direttiva 2000/78 e della natura dei diritti che essa mira a garantire, la portata di tale nozione non può essere definita in modo restrittivo; iii) dichiarazioni pubbliche secondo cui persone appartenenti a un gruppo protetto non saranno assunte è manifestamente idonea a dissuadere taluni candidati dal presentare la loro candidatura e ad ostacolare il loro accesso al mercato del lavoro; iv) le modalità specifiche dell’assunzione sono irrilevanti (se vi sia o meno un invito a presentare candidature, una procedura di selezione, ecc.); v) qualora l’autore delle dichiarazioni discriminatorie concernenti i criteri di selezione possa ragionevolmente essere considerato in grado di esercitare influenza sul potenziale datore di lavoro, è del pari irrilevante che esso non sia legalmente abilitato a vincolare il datore di lavoro effettivo in materia di assunzioni; vi) il fatto che il datore di lavoro possa non aver avviato trattative per assumere una persona presentata come membro di un gruppo protetto non esclude la possibilità di accertare una discriminazione; e vii) l’accertamento di una discriminazione non dipende dall’identificazione di un denunciante. Altri fattori pertinenti che possono essere tenuti in considerazione sono la questione se il datore di lavoro effettivo abbia chiaramente preso le distanze dalle dichiarazioni e la percezione dei gruppi protetti interessati.

51.

In tale contesto, ci si chiede quanto stretto debba essere il nesso con una procedura di assunzione concreta affinché dichiarazioni discriminatorie quali quelle di cui trattasi nella causa principale rientrino nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78.

52.

Mi sembra che un nesso puramente ipotetico non sia sufficiente. Si può dunque immaginare, ad esempio, una persona che dichiari: «se fossi un avvocato, non assumerei mai persone LGBTI nel mio studio legale». Se il soggetto autore di tale affermazione fosse un architetto, anziché un avvocato, e non ricoprisse alcun ruolo in uno studio legale, tale affermazione, per quanto deplorevole, non presenterebbe alcun nesso effettivo con l’accesso all’occupazione. Lo stesso dicasi nell’ipotesi in cui una persona che non possiede un giardino, né ha alcuna prospettiva di acquisirne uno in futuro affermasse che non assumerebbe mai un giardiniere LGBTI. Gli esempi sono molteplici. A seconda di come tali esempi vengono strutturati, il nesso tra le affermazioni discriminatorie e il potenziale accesso all’occupazione sarà più stretto o più labile.

53.

Tuttavia, i principi che ho ricavato dalla giurisprudenza della Corte consentono di elaborare un elenco (non esaustivo) di criteri per stabilire quando dichiarazioni discriminatorie presentano un nesso con l’accesso all’occupazione sufficiente al fine di rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78.

54.

Pertanto, devono essere esaminati lo status e il ruolo dell’autore delle dichiarazioni. Tale soggetto deve essere un effettivo potenziale datore di lavoro o una persona che, de jure o de facto, è in grado di esercitare un’influenza significativa sulla politica di assunzione del potenziale datore di lavoro o, quanto meno, può ragionevolmente essere percepita come in grado di esercitare siffatta influenza, pur non potendo vincolare giuridicamente il datore di lavoro in materia di assunzioni.

55.

Devono essere parimenti presi in considerazione la natura e il contenuto delle dichiarazioni rese. Esse devono riguardare l’occupazione nel settore di attività del potenziale datore di lavoro o del soggetto che le rende, settore, quindi, nel quale detta persona potrebbe effettuare assunzioni. Dalle dichiarazioni in parola deve constare l’intenzione del datore di lavoro di operare una discriminazione nei confronti dei membri del gruppo protetto. Esse devono, inoltre, essere tali da dissuadere gli appartenenti al gruppo protetto dal presentare la loro candidatura nell’eventualità che si renda disponibile un posto di lavoro presso siffatto potenziale datore di lavoro. Al menzionato riguardo, ritengo che si dovrebbe riconoscere l’esistenza di una presunzione relativa in base alla quale, prima o poi, il potenziale datore di lavoro desidererà effettuare delle assunzioni e, quando lo farà, applicherà il criterio discriminatorio che ha annunciato pubblicamente come facente parte della sua politica di assunzione. L’onere di confutare suddetta presunzione nell’ambito di una procedura di assunzione concreta ricadrebbe, dunque, sul potenziale datore di lavoro ( 25 ).

56.

È rilevante anche il contesto in cui sono state rese le dichiarazioni, come il fatto che si tratti di commenti in una conversazione privata (pronunciati, ad esempio, nel corso di una cena con il partner dell’autore delle dichiarazioni) o di affermazioni rese in pubblico (o peggio, andate in onda in diretta e poi riprese dai mezzi di comunicazione sociale). Ciò posto, respingo con forza l’affermazione secondo cui una dichiarazione discriminatoria «scherzosa» possa in qualche modo «non contare» o essere accettabile. L’umorismo è uno strumento potente ed è molto facile farne cattivo uso. Si può agevolmente immaginare l’effetto raggelante di «battute» omofobiche fatte da un potenziale datore di lavoro in presenza di candidati LGBTI.

57.

Infine, è importante tenere conto della misura in cui la natura, il contenuto e il contesto delle dichiarazioni rese possano dissuadere le persone appartenenti al gruppo protetto dal presentare la loro candidatura a un impiego presso tale datore di lavoro. Come l’avvocato generale Poiares Maduro ha spiegato in modo convincente nella causa Feryn, «[i]n tutte le procedure di assunzione, la principale “selezione” ha luogo tra coloro che si presentano e coloro che non lo fanno. Non ci si può legittimamente aspettare che qualcuno si candidi a un posto di lavoro se sa in anticipo che, a causa della sua origine razziale o etnica, non ha alcuna possibilità di essere assunto. Pertanto, la dichiarazione pubblica di un datore di lavoro, secondo cui le persone di una determinata origine razziale o etnica non devono presentarsi, ha un effetto tutt’altro che ipotetico. Ignorare che ciò costituisce un atto discriminatorio significherebbe ignorare la realtà sociale, in cui siffatte dichiarazioni hanno inevitabilmente un impatto umiliante e demoralizzante sulle persone aventi quell’origine che intendano accedere al mercato del lavoro e, in particolare, su quelle che sarebbero state interessate ad essere assunte presso il datore di lavoro in questione» ( 26 ).

58.

Le informazioni fornite alla Corte indicano che NH è un avvocato senior e che le dichiarazioni rese si riferivano al proprio studio legale. Egli ha chiaramente formulato un criterio (negativo) di assunzione che determinerebbe una discriminazione a scapito dei potenziali candidati omosessuali. Le dichiarazioni sono state rese pubblicamente in un programma radiofonico. Esse hanno avuto vasta diffusione; infatti, il governo italiano ha affermato, in udienza, che possono essere agevolmente reperite in Internet. È probabile che tali dichiarazioni potessero dissuadere potenziali candidati omosessuali dal presentare la propria candidatura come avvocati o personale amministrativo presso lo studio legale di cui trattasi.

59.

A mio avviso, dichiarazioni quali quelle rese nel procedimento principale sono idonee a rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78. Spetta al giudice del rinvio accertare e valutare i fatti pertinenti in modo più approfondito, conformemente a quanto necessario per giungere a una decisione definitiva ( 27 ).

Interferenza con la libertà di espressione

60.

Il giudice del rinvio si chiede se le dichiarazioni di NH possano essere protette dalla libertà di espressione, precisando al contempo che la normativa contro la discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro non può essere considerata una limitazione di tale libertà.

61.

La libertà di espressione, il diritto al lavoro e il principio di non discriminazione sono tutti diritti fondamentali riconosciuti dalla Carta (rispettivamente, agli articoli 11, paragrafo 1, 15, paragrafo 1, e 21, paragrafo 1. La libertà di espressione costituisce uno dei fondamenti essenziali di una società democratica. In quanto principio, essa non vale soltanto in relazione alle informazioni o alle idee accolte con favore o considerate come inoffensive od indifferenti, ma anche a quelle di tali informazioni o idee che disturbino, sconvolgano od inquietino ( 28 ). Tuttavia, la libertà di espressione è sottoposta a limiti ( 29 ).

62.

A mio avviso, adottando la direttiva 2000/78, il legislatore dell’Unione ha espresso una scelta chiara. Affermazioni discriminatorie e che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 non possono essere giustificate invocando la libertà di espressione. Pertanto, un datore di lavoro non può dichiarare che non assumerebbe persone LGBTI, persone con disabilità, oppure cristiani, musulmani o ebrei, e, in seguito, invocare a sua difesa la libertà di espressione. Nel pronunciare simili affermazioni, egli non esercita il suo diritto alla libertà di espressione. Egli sta esprimendo una politica di assunzione discriminatoria.

63.

Ci si chiede se il legislatore dell’Unione potesse compiere tale scelta.

64.

L’articolo 52, paragrafo 1, della Carta ammette limitazioni all’esercizio dei diritti e delle libertà ivi previsti, purché tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale di detti diritti e libertà e, nel rispetto del principio di proporzionalità, siano necessarie e rispondano effettivamente a finalità di interesse generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui ( 30 ).

65.

Nella presente causa, tali condizioni sono soddisfatte.

66.

In primo luogo, la limitazione alla libertà di espressione è prevista ex lege, ossia dalla direttiva 2000/78.

67.

In secondo luogo, come sostenuto dal governo ellenico nelle sue osservazioni scritte, le limitazioni alla libertà di espressione derivanti dalla direttiva 2000/78 possono essere giustificate con riferimento agli obiettivi della direttiva, segnatamente la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, nonché il conseguimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale; inoltre, siffatte limitazioni sono necessarie per conseguire tali obiettivi. La parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, espressione del diritto fondamentale da tutelare contro le discriminazioni, costituisce un obiettivo di interesse generale riconosciuto dall’Unione.

68.

In terzo luogo, sebbene la realizzazione degli obiettivi della direttiva possa interferire con la libertà di espressione, l’ingerenza non è tale da pregiudicare il contenuto essenziale del diritto in parola. La direttiva 2000/78 osta unicamente all’espressione di opinioni discriminatorie in un contesto circoscritto, segnatamente quello dell’occupazione e delle condizioni di lavoro.

69.

In quarto luogo, il principio di proporzionalità è rispettato. L’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 è definito dagli articoli 1 (che elenca i motivi di discriminazione vietati) e 3 (che definisce l’ambito di applicazione ratione personae e ratione materiae della direttiva). Le sole affermazioni vietate sono quelle che costituiscono una discriminazione in materia di occupazione e condizioni di lavoro. La limitazione della libertà di espressione non eccede quanto necessario e opportuno per conseguire gli obiettivi della direttiva ( 31 ).

70.

Tale interpretazione è conforme alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo ( 32 ). Poiché l’esercizio della libertà di espressione «comporta doveri e responsabilità», l’articolo 10, paragrafo 2, della CEDU autorizza restrizioni ai fini della «protezione della reputazione o dei diritti altrui», nella misura in cui siano «previste dalla legge» e costituiscano «misure necessarie, in una società democratica». Nella causa Vejdeland e a. c. Svezia, un gruppo di persone era stato detenuto per aver distribuito, in una scuola, volantini che riportavano affermazioni sprezzanti nei confronti delle persone omosessuali. La Corte di Strasburgo ha statuito che la restrizione della libertà di espressione garantita dall’articolo 10, paragrafo 1, della CEDU era giustificata ai sensi dell’articolo 10, paragrafo 2, della stessa. La Corte di Strasburgo ha posto in rilievo che le discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale sono gravi quanto le discriminazioni basate sulla razza, l’origine o il colore. Essa ha avallato le conclusioni della Corte suprema svedese, la quale ha riconosciuto il diritto dei «ricorrenti di esprimere le proprie idee, sottolineando, al contempo, che, unitamente a libertà e diritti, le persone hanno anche obblighi; uno di tali obblighi consiste nell’evitare, nella misura del possibile, affermazioni che sono ingiustificabilmente offensive nei confronti di altri, integrando una lesione dei loro diritti. [Essa ha quindi] statuito che le affermazioni contenute nei volantini erano inutilmente offensive» ( 33 ).

71.

Ritengo pertanto che il divieto, ai sensi della direttiva 2000/78, di dichiarazioni che costituiscono una discriminazione diretta in materia di accesso al lavoro non possa essere considerato una limitazione della libertà di espressione tale da violare i diritti garantiti dall’articolo 11, paragrafo 1, della Carta.

Sulla possibilità di derogare alla direttiva 2000/78

72.

Ho osservato che, a mio avviso, le dichiarazioni di NH nel corso del programma radiofonico costituiscono una discriminazione diretta fondata sull’orientamento sessuale ( 34 ). In quanto tali, si tratta di dichiarazioni vietate a norma dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78. Le sole deroghe possibili in caso di discriminazione diretta sono i requisiti per lo svolgimento dell’attività lavorativa (articolo 4), le giustificazioni delle disparità di trattamento collegate all’età (articolo 6), azioni positive e misure specifiche (articolo 7) e misure necessarie per, inter alia, la tutela dei diritti e delle libertà altrui (articolo 2, paragrafo 5).

73.

Nessuna delle parti ha invocato l’applicabilità delle deroghe di cui agli articoli 4, 6 o 7 e, per quanto mi riguarda, le ritengo manifestamente prive di pertinenza. Poiché l’articolo 2, paragrafo 5, è stato oggetto di discussione in udienza, mi soffermerò brevemente sul suo esame.

74.

La Corte ha dichiarato che «[a]dottando tale disposizione, il legislatore dell’Unione ha inteso prevenire e comporre, in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, un conflitto tra, da una parte, il principio della parità di trattamento e, dall’altra, la necessità di assicurare l’ordine, la sicurezza e la salute pubblici, la prevenzione dei reati nonché la tutela dei diritti e delle libertà individuali, che sono indispensabili al funzionamento di una società democratica. Il legislatore ha deciso che, in taluni casi elencati all’art[icolo] 2, [paragrafo] 5, della direttiva 2000/78, i principi posti da quest’ultima non si applicano a misure che contengano differenze di trattamento fondate su uno dei motivi di cui all’art[icolo] 1 di tale direttiva, a condizione tuttavia che tali misure siano “necessarie” alla realizzazione delle finalità soprammenzionate» ( 35 ). In quanto deroga al principio di non discriminazione, l’articolo 2, paragrafo 5, deve essere interpretato in maniera restrittiva ( 36 ).

75.

A mio avviso, la deroga di cui all’articolo 2, paragrafo 5, non è applicabile nel caso di specie. In primo luogo, non è stata individuata alcuna normativa nazionale pertinente che renderebbe operativa tale deroga. In secondo luogo, anche supponendo che siffatta normativa esista (quod non), non vedo in che modo permettere affermazioni discriminatorie che impediscono l’accesso all’occupazione possa essere plausibilmente interpretato come «necessario» ai fini della «tutela dei diritti e delle libertà individuali, che sono indispensabili al funzionamento di una società democratica» ( 37 ).

76.

Ne consegue che nessuna delle possibili deroghe al divieto di discriminazione diretta previste dalla direttiva 2000/78 è applicabile nel caso di specie.

77.

Alla luce di quanto precede, ritengo che le affermazioni pronunciate da un soggetto intervistato nel corso di un programma radiofonico, secondo cui egli mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di persone omosessuali nel proprio studio legale, sono tali da rientrare nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78, in quanto idonee ad ostacolare l’accesso all’occupazione. Qualora siffatte dichiarazioni non siano state rese nel contesto di una procedura di assunzione in corso, spetta al giudice nazionale valutare se il nesso con l’accesso all’occupazione non sia di natura ipotetica, tenuto conto dello status e del ruolo della persona che ha reso suddette dichiarazioni, della natura, del contenuto e del contesto delle dichiarazioni, nonché della misura in cui le menzionate dichiarazioni possano dissuadere persone appartenenti al gruppo protetto dal presentare la loro candidatura ai fini dell’assunzione da parte del datore di lavoro in parola. Il divieto, ai sensi degli articoli 2 e 3 della direttiva 2000/78, di dichiarazioni che costituiscono una discriminazione diretta in materia di accesso all’occupazione non può essere considerato una limitazione della libertà di espressione atta a violare i diritti garantiti dall’articolo 11, paragrafo 1, della Carta.

Sulla prima questione

78.

Occorre ricordare che l’Associazione è un’associazione di avvocati che, secondo quanto previsto nel suo statuto, si propone lo scopo di «contribuire a sviluppare e diffondere la cultura e il rispetto dei diritti delle persone [LGBTI]» e di creare una rete di avvocati per offrire tutela giudiziaria alle persone LGBTI e agire in giudizio per loro conto presso istanze giurisdizionali nazionali e internazionali. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio intende accertare se, ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, una simile associazione sia automaticamente legittimata ad agire in giudizio, anche con una domanda risarcitoria, in presenza di un’asserita discriminazione fondata sull’orientamento sessuale.

79.

Detta questione solleva tre problemi. In primo luogo, ci si chiede se un’associazione sia legittimata ad agire per l’esecuzione degli obblighi previsti dalla direttiva 2000/78 in assenza di una vittima identificabile. In secondo luogo, ci si chiede se vi siano criteri specifici che un’associazione debba soddisfare per essere dotata di legittimazione ad agire e, in caso affermativo, quali siano tali criteri. In terzo luogo, ci si chiede se la possibilità, per un’associazione, di agire in giudizio per l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78 in assenza di vittima identificabile comprenda anche la domanda di risarcimento dei danni.

Se un’associazione sia legittimata ad agire in giudizio per l’esecuzione degli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78 in assenza di una vittima identificabile

80.

L’articolo 9 della direttiva 2000/78 ribadisce il diritto fondamentale a un ricorso effettivo e prevede che gli Stati membri provvedano affinché tutte le persone che si ritengono lese da una discriminazione possano far valere i loro diritti ( 38 ). Tale disposizione statuisce il diritto di azionare i diritti discendenti dalla direttiva non soltanto a favore delle persone che si ritengono lese, ma anche, conformemente all’articolo 9, paragrafo 2, ad associazioni aventi un interesse legittimo, cui è riconosciuto il diritto di avviare una procedura giurisdizionale o amministrativa per conto o a sostegno della persona che si ritiene lesa e con il suo consenso.

81.

Tale formulazione non significa, tuttavia, che alle associazioni sia necessariamente preclusa l’azione in assenza di un denunciante identificabile. Sarebbe difficile raggiungere l’obiettivo perseguito dalla direttiva di promuovere le condizioni per la piena partecipazione dei cittadini alla vita economica, culturale e sociale se la direttiva 2000/78 si applicasse soltanto nel caso in cui un candidato escluso, ritenendosi vittima (nel caso di specie) di una discriminazione diretta, abbia avviato un’azione giudiziaria contro il datore di lavoro ( 39 ).

82.

L’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, relativo ai «Requisiti minimi» introduce una disposizione di «non regressione» nei confronti degli Stati membri che dispongano o intendano adottare una normativa che preveda un livello di protezione più elevato di quello garantito dalla direttiva ( 40 ). Esso dispone che l’attuazione della direttiva non può in alcun caso costituire motivo di riduzione del livello di protezione contro la discriminazione già predisposto dagli Stati membri nei settori di applicazione della direttiva ( 41 ).

83.

La Corte ha già interpretato l’articolo 8, paragrafo 1, in combinato disposto con l’articolo 9, paragrafo 2, concludendo che la direttiva 2000/78 non si oppone in alcun modo a che uno Stato membro, nella sua normativa nazionale, riconosca alle associazioni che abbiano un interesse a far garantire il rispetto di detta direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile ( 42 ). Così, nella causa Asociaţia Accept, la Corte ha dichiarato che un’organizzazione non governativa avente la finalità di promuovere e tutelare i diritti delle persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali può proporre un’azione diretta, inter alia, all’irrogazione di una sanzione pecuniaria nei confronti di una società calcistica e di uno dei suoi azionisti a motivo del fatto che un calciatore professionista non è stato assunto in quanto si presumeva fosse omosessuale.

84.

Tale approccio è conforme all’evoluzione generale della giurisprudenza della Corte. Infatti, nella causa Feryn è stata adottata la medesima soluzione. Nella causa in parola, un organismo belga deputato, in applicazione dell’articolo 13 della direttiva 2000/43, a promuovere la parità di trattamento, domandava ai giudici belgi del lavoro di dichiarare che la Feryn applicava una politica di assunzione discriminatoria. La Corte ha statuito, sulla base, in primo luogo, del fatto che l’esistenza di una discriminazione diretta non presuppone un denunciante identificabile che asserisca di essere stato vittima di tale discriminazione e, in secondo luogo, del fatto che la direttiva 2000/43 contiene una disposizione relativa alle «prescrizioni minime» (simile all’articolo 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78), che la direttiva menzionata non si oppone in alcun modo a che gli Stati membri riconoscano alle associazioni che abbiano un legittimo interesse il diritto a far garantire il rispetto di suddetta direttiva e di avviare procedure senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di una vittima identificabile ( 43 ).

85.

Dagli articoli 9, paragrafo 2, e 8, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, come interpretati nella giurisprudenza della Corte, discende che agli Stati membri non è preclusa la possibilità di garantire ulteriori mezzi giuridici di esecuzione. Dal mio punto di vista, ma tale questione rientra esclusivamente nella competenza del giudice nazionale, si tratta di ciò che l’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n. 216/2003 prevede laddove riconosce espressamente che le associazioni definite nel primo comma sono «legittimat[e] ad agire nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione».

Se vi siano criteri specifici che un’associazione deve soddisfare per essere dotata di legittimazione ad agire e, in caso affermativo, quali siano tali criteri

86.

L’ordinanza di rinvio chiarisce che la legittimazione ad agire delle associazioni nei casi di discriminazione rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/78 è disciplinata, in Italia, dall’articolo 5, primo comma, del decreto legislativo n. 216/2003, che riconosce la legittimazione ad agire alle «organizzazioni sindacali, le associazioni e le organizzazioni rappresentative del diritto o dell’interesse leso». Il giudice del rinvio precisa che il legislatore nazionale non ha previsto criteri supplementari a tal riguardo, contrariamente a quanto avviene nel caso delle associazioni attive in altri settori. Pertanto, l’interesse legittimo ad agire dell’associazione dovrebbe essere verificato caso per caso.

87.

NH sostiene che l’Associazione non può essere considerata rappresentante degli interessi delle persone LGBTI e che, pertanto, non è legittimata ad agire nella presente causa. L’Associazione è un gruppo di circa 100 avvocati, che non sono essi stessi persone LGBTI. Essa ha lo scopo di promuovere i diritti e la cultura delle persone LGBTI e di garantirne la rappresentanza legale. Il carattere non lucrativo di tale associazione non è pacifico.

88.

Ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78, l’unico requisito per il riconoscimento della legittimazione ad agire di un’associazione è il possesso di un interesse legittimo a garantire il rispetto delle disposizioni della direttiva.

89.

Nella causa Asociaţia Accept, la Corte ha esaminato l’articolo 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 alla luce dell’articolo 8, paragrafo 1, della stessa e ha concluso che tale disposizione «non si oppone in alcun modo a che uno Stato membro, nella sua normativa nazionale, riconosca alle associazioni che abbiano un legittimo interesse a far garantire il rispetto della detta direttiva il diritto di avviare procedure giurisdizionali o amministrative intese a far rispettare gli obblighi derivanti da tale direttiva senza agire in nome di un denunciante determinato ovvero in mancanza di un denunciante identificabile» ( 44 ). Siffatta statuizione traccia la linea separatrice tra il locus standi riconosciuto alle associazioni per l’esecuzione degli obblighi discendenti dalla direttiva e un’actio popularis.

90.

La direttiva rinvia espressamente, sul punto, al diritto nazionale. Pertanto, in assenza di un denunciante o di una vittima identificabile, la legittimazione ad agire delle associazioni non è disciplinata dal diritto dell’Unione ( 45 ). Tuttavia, i diritti e gli obblighi sostanziali che esse mirano a far valere discendono, in effetti, dalla direttiva 2000/78.

91.

A tal riguardo, la presente causa è diversa dalla causa Julián Hernández e a. ( 46 ). In tale causa la Corte ha preso in considerazione l’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2008/94 ( 47 ), ai sensi del quale detta direttiva «non pregiudica la facoltà degli Stati membri di applicare e di introdurre disposizioni legislative, regolamentari o amministrative più favorevoli per i lavoratori subordinati». La Corte ha statuito che tale disposizione non conferisce agli Stati membri una facoltà normativa derivante dal diritto dell’Unione, ma si limita a riconoscere il potere degli Stati membri, in forza del diritto nazionale, di prevedere siffatte disposizioni più favorevoli al di fuori del contesto del regime previsto da tale direttiva ( 48 ). Pertanto, non poteva ritenersi che una disposizione di diritto nazionale che si limitava a concedere ai lavoratori dipendenti una tutela più favorevole risultante dall’esercizio della sola competenza degli Stati membri (come confermato dall’articolo 11, paragrafo 1, della direttiva 2008/94), ricadesse nella sfera di applicazione della direttiva stessa ( 49 ).

92.

Di converso, nella presente causa, la normativa nazionale in discussione prevede un diritto procedurale (locus standi) finalizzato a ottenere il rispetto di diritti sostanziali derivanti dal diritto dell’Unione (tutela contro le discriminazioni). Tale situazione innesca l’applicazione del principio di autonomia procedurale, unitamente ai suoi corollari, i principi di equivalenza e di effettività.

93.

Conformemente a una costante giurisprudenza, in mancanza di una disciplina dell’Unione, spetta all’ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza del diritto dell’Unione, purché tali modalità, da un lato, non siano meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna (principio di equivalenza) né, dall’altro, rendano praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione (principio di effettività) ( 50 ).

94.

Il rispetto del principio di equivalenza presuppone che la norma controversa si applichi indifferentemente ai ricorsi fondati sulla violazione del diritto dell’Unione e a quelli fondati sull’inosservanza del diritto interno aventi un oggetto e una causa analoghi. Al fine di verificare se il principio di equivalenza sia rispettato nel caso di specie, spetterà al giudice nazionale, unico a disporre di conoscenza diretta delle modalità procedurali dei ricorsi nell’ambito del diritto del lavoro, esaminare tanto l’oggetto quanto gli elementi essenziali dei ricorsi di natura interna con i quali si asserisce che sussista un’analogia ( 51 ).

95.

Per quanto riguarda il principio di effettività, la Corte ha già affermato che ciascun caso in cui si ponga la questione se una norma processuale nazionale renda impossibile o eccessivamente difficile l’applicazione del diritto dell’Unione dev’essere esaminato tenendo conto del ruolo di detta norma nell’insieme del procedimento, dello svolgimento e delle peculiarità dello stesso, dinanzi ai vari organi giurisdizionali nazionali. Sotto tale profilo si devono considerare, se necessario, i principi che sono alla base del sistema giurisdizionale nazionale, quali la tutela dei diritti della difesa, il principio della certezza del diritto e il regolare svolgimento del procedimento ( 52 ).

96.

Da tutte le considerazioni che precedono risulta quanto segue: i) la definizione di associazioni portatrici di un interesse legittimo spetta al diritto nazionale; ii) tali associazioni agiscono in esecuzione di diritti e obblighi derivanti dal diritto dell’Unione; iii) i principi di equivalenza e di effettività devono quindi essere rispettati. I giudici nazionali sono i soli competenti a valutare tali aspetti.

97.

Al fine di effettuare la sua valutazione, il giudice del rinvio chiede se gli obiettivi dell’Associazione (quali richiamati supra, al paragrafo 78) corrispondano a quelli di un’associazione portatrice di un interesse legittimo a far rispettare i diritti e gli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78.

98.

Fatto salvo l’accertamento dei fatti da parte del giudice del rinvio alla luce della normativa nazionale applicabile, mi sembra che un’associazione avente tali obiettivi sia esattamente il tipo di associazione portatrice di un interesse legittimo ad agire in siffatte circostanze. Trattasi altresì del tipo di associazione alla quale la vittima di una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale è naturalmente portata a rivolgersi qualora decida di promuovere un’azione in un determinato caso.

99.

A tal riguardo, gli argomenti di NH concernenti il numero di membri dell’Associazione, il fatto che si tratti di avvocati e praticanti avvocati, nonché la circostanza che non siano essi stessi persone LGBTI sono del tutto irrilevanti. I membri di un’associazione di interesse pubblico votata alla protezione degli uccelli selvatici e dei loro habitat non sono tenuti ad avere ali, becchi e piume. Vi sono molti eccellenti avvocati nella comunità LGBTI, che possono difendere eloquentemente i diritti LGBTI, e lo fanno. Ciò non significa che altri avvocati, che non fanno parte di tale comunità, ivi compresi gli avvocati e i praticanti avvocati motivati puramente da ragioni di altruismo e da un senso della giustizia, non possano unirsi a tale associazione e partecipare ai suoi lavori senza comprometterne la legittimazione ad agire. Accogliere gli argomenti di NH pregiudicherebbe un utile contributo alla garanzia di un’adeguata tutela giurisdizionale e metterebbe in pericolo l’effetto utile della direttiva ( 53 ).

100.

Il giudice del rinvio chiede altresì se un’associazione portatrice di un interesse legittimo debba essere priva di scopo di lucro, in particolare alla luce della raccomandazione della Commissione, dell’11 giugno 2013, relativa a principi comuni per i meccanismi di ricorso collettivo di natura inibitoria e risarcitoria negli Stati membri che riguardano violazioni di diritti conferiti dalle norme dell’Unione ( 54 ).

101.

Secondo una costante giurisprudenza della Corte, anche se le raccomandazioni non sono destinate a produrre effetti vincolanti, i giudici nazionali sono tenuti a prenderle in considerazione ai fini della soluzione delle controversie sottoposte al loro giudizio, in particolare quando esse sono di aiuto nell’interpretazione di norme nazionali adottate allo scopo di garantire la loro attuazione, o mirano a completare norme dell’Unione aventi natura vincolante ( 55 ).

102.

Tuttavia, il requisito menzionato al punto 4, lettera a), della raccomandazione, secondo cui, per intentare azioni rappresentative, l’associazione non dovrebbe avere scopo di lucro, si applica qualora gli Stati membri designino organizzazioni rappresentative al fine di proporre ricorsi. Il giudice del rinvio afferma che non è il caso dell’Italia, giacché il legislatore non ha designato siffatte organizzazioni al fine di far valere i diritti derivanti dalla direttiva 2000/78.

103.

Nelle sue osservazioni scritte, il governo ellenico sottolinea il rischio (eventuale) che un’associazione a scopo di lucro possa fare un uso improprio del diritto di ricorso al fine di incrementare i propri utili, sostenendo che ciò comprometterebbe la realizzazione degli obiettivi della direttiva. La risposta più ovvia è che, tenuto conto dell’incertezza inerente al contenzioso (e, forse, in particolar modo nel contesto di un contenzioso concernente discriminazioni), un approccio fortemente incline alla proposizione di ricorsi costituirebbe, di per sé, una strategia azzardata per un’associazione guidata dalla logica del profitto. Al di là di tale constatazione, spetta al giudice nazionale verificare, ove necessario, se l’Associazione rispetti i suoi obiettivi dichiarati in materia di tutela degli interessi delle persone in questione nonché lo statuto, per quanto concerne il suo status ( 56 ).

104.

Ne deduco che spetta al diritto nazionale definire i criteri che devono essere soddisfatti affinché un’associazione sia portatrice di un interesse legittimo ad agire per garantire il rispetto dei diritti e degli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78, fatti salvi i principi di equivalenza e di effettività.

Se la possibilità, per le associazioni, di promuovere azioni finalizzate al rispetto degli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78 in assenza di una vittima identificabile includa anche la proposizione di domande risarcitorie

105.

L’articolo 17 della direttiva 2000/78 attribuisce agli Stati membri il compito di determinare il regime delle sanzioni per la violazione delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva. Esso precisa che tali sanzioni devono essere effettive, proporzionate e dissuasive e possono prevedere un risarcimento dei danni.

106.

L’articolo 17 impone dunque agli Stati membri di provvedere affinché i loro ordinamenti giuridici nazionali prevedano gli strumenti giuridici necessari per raggiungere l’obiettivo perseguito da tale direttiva, in modo che la tutela giurisdizionale dei diritti da essa garantiti sia reale ed effettiva. Tuttavia, esso non prevede una sanzione specifica, riservando agli Stati membri la libertà di scegliere fra le varie soluzioni idonee a realizzare il suo obiettivo, fatti salvi i principi di equivalenza e di effettività (v. supra, paragrafi da 89 a 93).

107.

La Corte ha chiarito che «le sanzioni che il diritto nazionale deve contemplare ex articolo 17 di tale direttiva devono essere effettive, proporzionate e dissuasive, e ciò anche qualora non vi siano vittime identificabili» ( 57 ). Esse devono «garantire, in particolare, parallelamente ai provvedimenti adottati per attuare l’articolo 9 della medesima direttiva, una tutela giuridica effettiva ed efficace dei diritti tratti da tale direttiva (…) La severità delle sanzioni deve essere adeguata alla gravità delle violazioni che esse reprimono e comportare, in particolare, un effetto realmente deterrente (…) fermo restando il rispetto del principio generale della proporzionalità» ( 58 ). Comunque sia, «una sanzione meramente simbolica non può essere considerata compatibile con un’attuazione corretta ed efficace della direttiva 2000/78» ( 59 ).

108.

La pronuncia della Corte nella causa Feryn, intervenuta nel contesto della direttiva 2000/43, offre orientamenti egualmente pertinenti e appropriati al contesto della direttiva 2000/78: in una fattispecie «(…) in cui non vi sono vittime dirette di una discriminazione, ma un organismo abilitato dalla legge chiede che venga accertata e sanzionata una discriminazione, le sanzioni che l’art[icolo] 15 della direttiva 2000/43 impone di contemplare nel diritto nazionale devono essere quindi effettive, proporzionate e dissuasive. Se del caso, e qualora ciò dovesse apparire adeguato alla situazione in esame nella causa principale, esse possono consistere nella constatazione della discriminazione da parte del tribunale o dell’autorità amministrativa competente, cui si aggiunga un adeguato rilievo pubblicitario, i cui costi siano quindi a carico della parte convenuta. Esse possono parimenti consistere nell’ingiunzione rivolta al datore di lavoro, secondo le norme del diritto nazionale, di porre fine alla pratica discriminatoria accertata, cui si aggiunga, se del caso, una sanzione pecuniaria. Esse possono inoltre consistere nella concessione di un risarcimento dei danni in favore dell’organismo che ha avviato la procedura giurisdizionale» ( 60 ).

109.

Ne consegue che: i) un’associazione abilitata dal diritto nazionale ad agire al fine di far valere diritti e obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78 può esigere che una condotta discriminatoria sia sanzionata; ii) ciò vale indipendentemente dal fatto che vi sia una vittima identificabile; iii) la direttiva 2000/78 non prevede sanzioni specifiche, ma rinvia al diritto nazionale; iv) le sanzioni previste dal diritto nazionale devono essere effettive, proporzionate e dissuasive; e v) esse possono consistere in un risarcimento dei danni. Anche la determinazione dei tipi di tutela risarcitoria disponibili spetta al diritto nazionale. Non vedo alcuna ragione di principio per cui siffatto risarcimento non possa includere tanto i danni materiali quanto quelli immateriali, ivi compresi i danni morali.

110.

Ritengo dunque che gli articoli 8, paragrafo 1, e 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 non ostino a una normativa nazionale che conferisce ad associazioni che abbiano un interesse legittimo la legittimazione ad agire per far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78/CE in mancanza di vittima identificabile. Spetta al diritto nazionale prevedere i criteri per determinare se un’associazione abbia un siffatto interesse, fatti salvi i principi di equivalenza e di effettività. Un’associazione portatrice di un interesse legittimo ad agire può richiedere che una condotta discriminatoria sia sanzionata in modo effettivo, proporzionato e dissuasivo, anche attraverso una domanda risarcitoria, alle condizioni previste dal diritto nazionale.

Conclusione

111.

Propongo quindi alla Corte di rispondere alle questioni proposte dalla Corte suprema di cassazione (Italia) nei seguenti termini:

Le dichiarazioni rese da un intervistato nel corso di un programma radiofonico secondo cui egli mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi della collaborazione di persone omosessuali nel proprio studio legale sono tali da rientrare nell’ambito di applicazione dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera a) della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, in quanto idonee ad ostacolare l’accesso all’occupazione.

Qualora siffatte dichiarazioni non siano state rese nel contesto di una procedura di assunzione in corso, spetta al giudice nazionale valutare se il nesso con l’accesso all’occupazione non sia di natura ipotetica, tenuto conto dello status e del ruolo della persona che ha reso suddette dichiarazioni, della natura, del contenuto e del contesto delle dichiarazioni, nonché della misura in cui le menzionate dichiarazioni possano dissuadere persone appartenenti al gruppo protetto dal presentare la loro candidatura ai fini dell’assunzione da parte del datore di lavoro in parola.

Il divieto, ai sensi degli articoli 2 e 3 della direttiva 2000/78, di dichiarazioni che costituiscono una discriminazione diretta in materia di accesso all’occupazione non può essere considerato una limitazione della libertà di espressione atta a violare i diritti garantiti dall’articolo 11, paragrafo 1, della Carta.

Gli articoli 8, paragrafo 1, e 9, paragrafo 2, della direttiva 2000/78 non ostano a una normativa nazionale che conferisca ad associazioni che abbiano un interesse legittimo ad agire per far rispettare gli obblighi derivanti dalla direttiva 2000/78 in mancanza di vittima identificabile. Spetta al diritto nazionale prevedere i criteri per determinare se un’associazione abbia un siffatto interesse, fatti salvi i principi di equivalenza e di effettività.

Un’associazione portatrice di un interesse legittimo ad agire può richiedere che una condotta discriminatoria sia sanzionata in modo effettivo, proporzionato e dissuasivo, anche attraverso una domanda risarcitoria, alle condizioni previste dal diritto nazionale.


( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) Detta espressione è utilizzata in varie occasioni da Omero, tanto nell’Iliade, quanto nell’Odissea. V., ad esempio, Iliade, Libro 15, versi 145 e 157.

( 3 ) In tal senso, l’espressione corrisponde alla prima parte della famosa locuzione latina «verba volant, scripta manent», che sottolinea l’importanza dei testi scritti.

( 4 ) GU 2000, L 303, pag. 16.

( 5 ) GU 2007, C 303, pag. 1.

( 6 ) «LGBTI» è un acronimo comunemente utilizzato per designare persone lesbiche, gay, bisessuali, transessuali e intersessuali. V., inter alia, Consiglio dell’Unione europea, Orientamenti per la promozione e la tutela dell’esercizio di tutti i diritti umani da parte di lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali (LGBTI), Lussemburgo, 24 giugno 2013. Tali orientamenti prevedono, al punto 13, una definizione operativa della nozione, indicando, tuttavia, che non si tratta di una definizione vincolante e che non è stata formalmente adottata da un organismo intergovernativo.

( 7 ) Sentenza del 15 gennaio 2019, E.B., C‑258/17, EU:C:2019:17, punto 40 e giurisprudenza ivi citata.

( 8 ) V. considerando 37 della direttiva 2000/78 e sentenza del 17 luglio 2008, Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:415, punto 47.

( 9 ) Considerando 28.

( 10 ) V. considerando 15 e sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 42.

( 11 ) V. per analogia, sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punto 25. Dal momento che non emerge chiaramente dalle dichiarazioni in questione quale sarebbe l’atteggiamento di NH in relazione all’assunzione di una persona bisessuale, transessuale o intersessuale, in questa sede occorre intendere l’espressione «un’altra persona» come riferito a «qualsiasi persona il cui orientamento sessuale apparente sia eterosessuale». Il punto se l’orientamento sessuale di una persona possa essere desunto dal suo aspetto e se dalle domande poste in occasione di un colloquio si evincano (o possano o debbano evincersi) elementi che consentano di dedurre un siffatto orientamento sono aspetti che esulano dalla presente causa e non mi ci soffermerò ulteriormente.

( 12 ) V., inter alia, sentenza dell’11 luglio 2006, Chacón Navas,C‑13/05, EU:C:2006:456, punto 40 e giurisprudenza ivi citata.

( 13 ) V. sentenza del 17 aprile 2018, Egenberger, C‑414/16, EU:C:2018:257, punto 47.

( 14 ) Sentenza del 22 novembre 2005, Mangold, C‑144/04, EU:C:2005:709, punto 74.

( 15 ) Considerando 9 e articolo 1 della direttiva 2000/78.

( 16 ) V., per analogia, sentenza del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria, C‑83/14, EU:C:2015:480, punto 42 e giurisprudenza ivi citata. Tale sentenza riguardava la direttiva 2000/43/CE del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GU 2000, L 180, pag. 22). L’ambito di applicazione della direttiva 2000/43 è diverso da quello della direttiva 2000/78, poiché la prima concerne le discriminazioni in un’ampia gamma di settori, come sancito al suo articolo 3, paragrafo 1, lettere da a) a h), mentre la seconda riguarda unicamente le discriminazioni in materia di occupazione e condizioni di lavoro, quali definite all’articolo 3, paragrafo 1, lettere da a) a d). Ciò premesso, la Corte ha già fatto riferimento alla sua giurisprudenza relativa alla direttiva 2000/43 quale utile fonte di ispirazione ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78: v., ad esempio, sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275.

( 17 ) V. la spiegazione dell’articolo 3, che definisce il campo di applicazione della direttiva, nella relazione alla proposta di direttiva del Consiglio che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, GU 2000, C 177 E, pag. 42 (in prosieguo: la «relazione alla proposta di direttiva»), il corsivo è mio.

( 18 ) Considerando 9.

( 19 ) Tale definizione di «accesso» si rinviene nell’Oxford English Dictionary. Il Collins English Dictionary lo definisce come «the act of approaching or entering (l’atto di avvicinarsi o di entrare)», «the condition of allowing entry (la condizione di permettere l’ingresso)», «the right or privilege to approach, reach, enter, or make use of something (il diritto o il privilegio di avvicinarsi, raggiungere, entrare o fare uso di qualcosa)», nonché «the way or means of approach or entry (il modo o i mezzi per avvicinarsi o entrare)».

( 20 ) Conclusioni presentate nella causa Coleman, C‑303/06, EU:C:2008:61, paragrafo 11.

( 21 ) V., in tal senso, sentenza del 13 luglio 1995, Meyers, C‑116/94, EU:C:1995:247, punto 22. V. anche Ellis, E. e Watson, P., EU Anti-Discrimination Law, Oxford University Press, 2012, pag. 287.

( 22 ) Sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punti 15, 16, 2531.

( 23 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punti 24, 2552. Il fatto che la società calcistica non avesse avviato alcuna trattativa al fine di ingaggiare il giocatore X risulta indirettamente dal punto 52 della sentenza.

( 24 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 45 e da 49 a 52. Rilevo che la Corte ha deciso di pronunciarsi su tale causa senza le conclusioni dell’avvocato generale.

( 25 ) Tale approccio all’onere della prova è, a mio avviso, conforme all’articolo 10 della direttiva 2000/78, ai sensi del quale «[g]li Stati membri prendono le misure necessarie, conformemente ai loro sistemi giudiziari nazionali, per assicurare che, allorché persone che si ritengono lese dalla mancata applicazione nei loro riguardi del principio della parità di trattamento espongono, dinanzi a un tribunale o a un’altra autorità competente, fatti dai quali si può presumere che vi sia stata una discriminazione diretta o indiretta, incomba alla parte convenuta provare che non vi è stata violazione del principio della parità di trattamento».

( 26 ) Conclusioni dell’avvocato generale Poiares Maduro, C‑54/07, EU:C:2008:155, paragrafo 15.

( 27 ) V. supra, paragrafo 33. Poiché il rinvio proviene da una Corte suprema nazionale in un ricorso per cassazione, potrebbe essere necessario rinviare la causa al giudice di primo grado per compiere ulteriori accertamenti di fatto.

( 28 ) Sentenza del 6 marzo 2001, Connolly/Commissione, C‑274/99 P, EU:C:2001:127, punto 39.

( 29 ) V. la formulazione dell’articolo 10 CEDU; v. anche sentenza del 6 marzo 2001, Connolly/Commissione, C‑274/99 P, EU:C:2001:127, punto 40.

( 30 ) V., inter alia, sentenza dell’8 aprile 2014, Digital Rights Ireland e a., C‑293/12 e C‑594/12, EU:C:2014:238, punto 38. La formulazione dell’articolo 52, paragrafo 1, è ampiamente ispirata alla giurisprudenza pregressa della Corte (v., inter alia, sentenza del 13 aprile 2000, Karlsson e a., C‑292/97, EU:C:2000:202, punto 45) che a sua volta, attinge alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte di Strasburgo»). V. Lenaerts, K., «Exploring the limits of the EU Charter of Fundamental Rights», European Constitutional Law Review, 2012, 8(3), pagg. da 375 a 403.

( 31 ) V., in via analogica, per un’analisi di tali fattori, sentenza del 17 ottobre 2013, Schwarz, C‑291/12, EU:C:2013:670, punto 34 e segg..

( 32 ) L’articolo 52, paragrafo 3, della Carta prevede che, laddove essa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla CEDU, il significato e la portata degli stessi, ivi comprese le loro limitazioni autorizzate, sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione. Il significato e la portata dei diritti garantiti sono determinati non soltanto dal testo di tali strumenti, ma anche dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e della Corte di giustizia. V. spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali, GU 2007, C 303, pag. 17.

( 33 ) Corte EDU, 9 febbraio 2012, Vejdeland e a. c. Svezia, CE:ECHR:2012:0209JUD000181307, §§ da 47 a 60.

( 34 ) V. supra, paragrafo 33.

( 35 ) Sentenza del 13 settembre 2011, Prigge e a., C‑447/09, EU:C:2011:573, punto 55.

( 36 ) Sentenza del 22 gennaio 2019, Cresco Investigation, C‑193/17, EU:C:2019:43, punti 5455.

( 37 ) V., per analogia, le mie conclusioni nella causa Bougnaoui e ADDH, C‑188/15, EU:C:2016:553, paragrafi 104105 (il corsivo è mio).

( 38 ) Sentenza dell’8 maggio 2019, Leitner,C‑396/17, EU:C:2019:375, punto 61.

( 39 ) V. considerando 9 della direttiva 2000/78 e, per analogia, sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punto 24.

( 40 ) V. considerando 28 della direttiva e la relazione alla proposta di direttiva.

( 41 ) Sentenza dell’8 luglio 2010, Bulicke, C‑246/09, EU:C:2010:418, punto 43.

( 42 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punti 24, 30, 3637.

( 43 ) Sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punti da 15 a 17 e da 25 a 28.

( 44 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 37.

( 45 ) Sentenza dell’8 luglio 2010, Bulicke, C‑246/09, EU:C:2010:418, punto 24, benché in riferimento alla questione specifica dei termini ai sensi dell’articolo 9, paragrafo 3, della direttiva 2000/78.

( 46 ) Sentenza del 10 luglio 2014, Julián Hernández e a., C‑198/13, EU:C:2014:2055.

( 47 ) Direttiva 2008/94/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 ottobre 2008, relativa alla tutela dei lavoratori subordinati in caso d’insolvenza del datore di lavoro (GU 2008, L 283, pag. 36).

( 48 ) Ai punti 44 e 45 della sentenza.

( 49 ) La finalità della normativa nazionale in discussione in tale causa non era il riconoscimento di un credito del lavoratore risultante dai suoi rapporti di lavoro e sussistente nei confronti del suo datore di lavoro (cui è applicabile la direttiva 2008/94, in forza del suo articolo 1, paragrafo 1), bensì il riconoscimento di un diritto di diversa natura, vale a dire quello del datore di lavoro di chiedere allo Stato spagnolo l’indennizzo del danno subìto in ragione di un «funzionamento anomalo» dell’amministrazione della giustizia: v. punto 39 della sentenza.

( 50 ) Sentenza dell’8 luglio 2010, Bulicke, C‑246/09, EU:C:2010:418, punto 25.

( 51 ) Sentenza dell’8 luglio 2010, Bulicke, C‑246/09, EU:C:2010:418, punti 2628.

( 52 ) Sentenza dell’8 luglio 2010, Bulicke, C‑246/09, EU:C:2010:418, punto 35.

( 53 ) La copiosa giurisprudenza della Corte sul locus standi delle associazioni non governative nelle azioni in materia ambientale (e le disposizioni specifiche della convenzione di Aarhus che riconoscono tale legittimazione alle organizzazioni), costituiscono un utile termine di paragone a detto riguardo. V., inter alia, sentenze del 20 dicembre 2017, Protect Natur-, Arten- und Landschaftsschutz Umweltorganisation, C‑664/15, EU:C:2017:987, punti 34 e segg., e del 15 ottobre 2009, Djurgården-Lilla Värtans Miljöskyddsförening, C‑263/08, EU:C:2009:631.

( 54 ) GU 2013, L 201, pag. 60.

( 55 ) Sentenza del 15 settembre 2016, Koninklijke KPN e a., C‑28/15, EU:C:2016:692, punto 41.

( 56 ) La Corte non è in possesso di elementi concernenti le modalità di finanziamento dell’Associazione o l’importo/gli importi che essa abbia (eventualmente) ricevuto in quanto tale (come distinti dall’importo/dagli importi ricevuti per conto dei clienti LBGTI per i quali ha promosso ricorsi) in esito a procedimenti andati a buon fine.

( 57 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 62. V. anche, in riferimento alla disposizione parallela di cui all’articolo 15 della direttiva 2000/43, sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punto 40.

( 58 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 63 e giurisprudenza ivi citata.

( 59 ) Sentenza del 25 aprile 2013, Asociaţia Accept, C‑81/12, EU:C:2013:275, punto 64.

( 60 ) Sentenza del 10 luglio 2008, Feryn, C‑54/07, EU:C:2008:397, punti 3839.