CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE
ATHANASIOS RANTOS
presentate il 13 marzo 2025 (1)
Causa C‑38/24 [Bervidi] (i)
G.L.
contro
AB SpA
[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Corte suprema di cassazione (Italia)]
« Rinvio pregiudiziale – Politica sociale – Direttiva 2000/78/CE – Parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro – Articolo 1 – Articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b) – Divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla disabilità – Discriminazione indiretta per associazione – Lavoratore che, senza essere egli stesso disabile, sostiene di essere vittima di un particolare svantaggio sul lavoro fondato sulla disabilità del figlio, al quale presta l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui questi ha bisogno – Articolo 5 – Obbligo del datore di lavoro di adottare soluzioni ragionevoli nei confronti di tale lavoratore »
I. Introduzione
1. La sig.ra G.L., che assiste il figlio gravemente disabile in qualità di «caregiver», sostiene che il suo datore di lavoro, la società AB SpA, ha adottato un comportamento discriminatorio nei suoi confronti rifiutandosi di accogliere la sua richiesta di essere assegnata stabilmente a un turno fisso al mattino per lo svolgimento delle sue funzioni, al fine di consentirle di prestare al figlio l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui questi ha bisogno, e, contestualmente di continuare a svolgere la propria attività lavorativa in condizioni di parità rispetto agli altri dipendenti.
2. In tale contesto, la Corte suprema di cassazione (Italia) chiede alla Corte, in particolare, se la direttiva 2000/78/CE (2) debba essere interpretata nel senso che una persona quale la sig.ra G.L., che non è ella stessa disabile, possa invocare in giudizio il principio del divieto di qualsiasi discriminazione indiretta sul luogo di lavoro fondata sulla disabilità. In caso affermativo, tale giudice chiede se il datore di lavoro della sig.ra G.L. sia tenuto ad adottare nei suoi confronti soluzioni ragionevoli, ai sensi di tale direttiva, al fine di porre rimedio alla situazione discriminatoria.
3. La presente domanda di pronuncia pregiudiziale si colloca sulla scia della sentenza Coleman (3), in cui la Corte ha sancito la nozione di «discriminazione per associazione», riferendosi solo alla discriminazione diretta. Spetterà quindi alla Corte, alla luce della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, conclusa a New York il 13 dicembre 2006 (4) ed entrata in vigore il 3 maggio 2008 (in prosieguo: la «Convenzione dell’ONU»), precisare la portata della nozione di «discriminazione per associazione» nonché le conseguenze che essa comporta sulla vita lavorativa del «caregiver» di un figlio disabile.
II. Contesto normativo
A. Diritto internazionale
4. La Convenzione dell’ONU enuncia quanto segue, alla lettera e) del suo preambolo:
«Riconoscendo che la disabilità è un concetto in evoluzione e che la disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
5. Ai sensi dell’articolo 1 di tale Convenzione, intitolato «Scopo»:
«Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità.
Per persone con disabilità si intendono coloro che presentano durature menomazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali che in interazione con barriere di diversa natura possono ostacolare la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri».
6. L’articolo 2 di detta Convenzione, intitolato «Definizioni», così prevede:
«Ai fini della presente convenzione:
(...)
per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo. Essa include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole;
Per “accomodamento ragionevole” si intendono le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali.
(…)».
7. L’articolo 5 della medesima Convenzione, intitolato «Uguaglianza e non discriminazione», stabilisce quanto segue, ai suoi paragrafi da 1 a 3 che:
«1. Gli Stati Parti riconoscono che tutte le persone sono uguali dinanzi alla legge ed hanno diritto, senza alcuna discriminazione, a uguale protezione e uguale beneficio dalla legge.
2. Gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento.
3. Al fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli».
8. L’articolo 7 della Convenzione dell’ONU, intitolato «Minori con disabilità», è formulato come segue, ai suoi paragrafi 1 e 2:
«1. Gli Stati Parti adottano ogni misura necessaria a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte dei minori con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri minori.
2. In tutte le azioni concernenti i minori con disabilità, il superiore interesse del minore costituisce la considerazione preminente».
B. Diritto dell’Unione
9. Ai sensi dei considerando 12, 16, 17, 20 e 21 della direttiva 2000/78:
«(12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere (…) proibita in tutta la Comunità. (...)
(...)
(16) La messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap.
(17) La presente direttiva non prescrive l'assunzione, la promozione o il mantenimento dell'occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l'obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili.
(...)
(20) È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.
(21) Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni».
10. L’articolo 1 di tale direttiva, intitolato «Obiettivo», enuncia quanto segue:
«La presente direttiva mira a stabilire un quadro generale per la lotta alle discriminazioni fondate sulla religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali, per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento».
11. L’articolo 2 di detta direttiva, intitolato «Nozione di discriminazione», così prevede, ai suoi paragrafi 1 e 2:
«1. Ai fini della presente direttiva, per “principio della parità di trattamento” si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1.
2. Ai fini del paragrafo 1:
a) sussiste discriminazione diretta quando, sulla base di uno qualsiasi dei motivi di cui all’articolo 1, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un particolare handicap, le persone di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone, a meno che:
i) tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che
ii) nel caso di persone portatrici di un particolare handicap, il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica la presente direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi».
12. L’articolo 3 della medesima direttiva, intitolato «Campo d’applicazione», dispone quanto segue, al suo paragrafo 1, lettera c):
«Nei limiti dei poteri conferiti alla Comunità, la presente direttiva, si applica a tutte le persone, sia del settore pubblico che del settore privato, compresi gli organismi di diritto pubblico, per quanto attiene:
(...)
c) all’occupazione e alle condizioni di lavoro, comprese le condizioni di licenziamento e la retribuzione».
13. Ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, intitolato «Soluzioni ragionevoli per i disabili»:
«Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili».
C. Diritto italiano
14. Il decreto legislativo n. 216 – Attuazione della direttiva 2000/78 per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, del 9 luglio 2003 (5), nella sua versione applicabile alla controversia di cui al procedimento principale (in prosieguo: il «decreto legislativo n. 216») dispone quanto segue, al suo articolo 2, primo comma:
«Ai fini del presente decreto (...), per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della religione, delle convinzioni personali, degli handicap, dell’età o dell’orientamento sessuale. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite:
a) discriminazione diretta quando, per religione, per convinzioni personali, per handicap, per età o per orientamento sessuale, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga;
b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di handicap, le persone di una particolare età o di un orientamento sessuale in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone».
15. L’articolo 3, comma 3 bis, di tale decreto legislativo è così formulato:
«Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione [dell’ONU], ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18 nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».
III. Procedimento principale, questioni pregiudiziali e procedimento dinanzi alla Corte
16. La signora G.L. era impiegata presso la società AB come «operatore di stazione» (6). In qualità di «caregiver» familiare, ella ha chiesto al suo datore di lavoro di assegnarla stabilmente a un turno fisso di mattina per lo svolgimento delle sue mansioni o, con il suo consenso, a mansioni di livello inferiore, al fine di consentirle di assistere nelle ore pomeridiane il figlio minore, che vive con lei ed è gravemente disabile, riconosciuto invalido al 100 %, continuando al contempo a svolgere la propria attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri dipendenti.
17. Poiché AB non ha accolto le istanze della sig.ra G.L., quest’ultima ha presentato ricorso dinanzi al Tribunale di Roma (Italia) il 5 marzo 2019, chiedendo l’accertamento del carattere discriminatorio del comportamento tenuto nei suoi riguardi dal suo datore di lavoro. Ella ha chiesto di condannare quest’ultimo ad assegnarla stabilmente a un turno fisso, tra le 8.30 e le 15.00, o comunque compatibile con le esigenze del figlio, ad adottare un piano di rimozione delle discriminazioni nonché a versarle un risarcimento per il danno subito.
18. A tal proposito, la sig.ra G.L., contestando al suo datore di lavoro la mancanza di flessibilità dei suoi orari di lavoro, ha sostenuto, in particolare, in primo luogo, che AB l’aveva trattata in maniera differente rispetto ai suoi colleghi ritenuti per motivi sanitari non idonei, in via temporanea o definitiva, a rendere con le modalità ordinarie la loro prestazione lavorativa. Infatti, mentre questi sarebbero stati destinati provvisoriamente ad altri compiti in attesa di essere riqualificati in mansioni differenti, con assegnazione ad un turno agevolato o c.d. di sussidio presso una sede di lavoro fissa, a lei questa possibilità non sarebbe stata concessa, siccome la valutazione di non idoneità a svolgere le proprie mansioni sarebbe stata effettuata sulla base del proprio stato di salute e non di quello del figlio. In secondo luogo, AB avrebbe adottato nei suoi confronti, per un periodo irragionevolmente lungo, provvedimenti di natura provvisoria e non definitiva, al fine di risolvere le difficoltà di proseguire la vita professionale conseguenti agli obblighi di assistenza sulla medesima gravanti quale «caregiver» del figlio. In terzo luogo, AB non avrebbe assunto provvedimenti in ordine alla sua richiesta di essere eventualmente adibita a mansioni inferiori per attenuare tali difficoltà.
19. Il Tribunale di Roma ha respinto il ricorso della sig.ra G.L. in quanto non era lei il soggetto legittimato ad agire contro la discriminazione sul posto di lavoro, ma solo la persona disabile. La sig.ra G.L. ha presentato appello contro tale sentenza dinanzi alla Corte d’appello di Roma (Italia), che ha respinto il ricorso nel merito. Al riguardo, quest’ultimo giudice si è basato sulla sentenza Coleman per dichiarare che un «caregiver» familiare ha il diritto di avvalersi delle disposizioni nazionali che tutelano i disabili dalla discriminazione sul lavoro, in particolare l’articolo 2, primo comma, e l’articolo 3, comma 3 bis, del decreto legislativo n. 216. Tuttavia, nel caso di specie, secondo detto giudice, non era stata dimostrata l’esistenza di una condotta discriminatoria da parte di AB e, comunque, tale società aveva posto in essere «ragionevoli accomodamenti». Lo stesso giudice ha precisato che, in particolare, AB aveva in ogni caso sufficientemente agevolato il compito della sig.ra G.L., nonostante avesse adottato degli ordini di servizio sempre provvisori, e che, per ciò che concerne il trattamento riservato ai lavoratori non idonei a rendere con le modalità ordinarie le proprie prestazioni lavorative, destinati provvisoriamente ad altri compiti in attesa di essere riqualificati presso una sede di lavoro fissa, giustamente AB non aveva concesso questa possibilità alla sig.ra G.L., atteso che erano i suoi colleghi i destinatari delle prescrizioni indicate nei certificati medici prodotti.
20. La sig.ra G.L. ha proposto ricorso per cassazione dinanzi alla Corte suprema di cassazione, il giudice del rinvio, sostenendo di soddisfare i requisiti di legge per godere del diritto alla non discriminazione sul lavoro per ragioni di disabilità. A tal proposito, ella ha negato che AB avesse posto in essere «ragionevoli accomodamenti» e aggiungeva di ritenere di avere un diritto assoluto a che tali accomodamenti fossero posti in essere. La sig.ra G.L. ha inoltre sostenuto che la concessione di provvedimenti provvisori da parte di AB, limitati a pochi mesi per periodi discontinui e privi della forma scritta, non escludeva la discriminazione denunciata. Ella ha inoltre lamentato la violazione delle regole in tema di prova della discriminazione. Successivamente alla proposta del suo ricorso per cassazione, la sig.ra G.L. ha informato tale giudice di essere stata licenziata il 10 ottobre 2022.
21. Il giudice del rinvio indica che, nel diritto italiano, la prima definizione normativa di «caregiver familiare» risulta da una legge adottata nel corso dell’anno 2017 (7) e che, sebbene il diritto nazionale dia diritto a particolari benefici fiscali e previdenziali a un tale «caregiver» familiare, all’epoca dei fatti del procedimento principale questi non godeva di una tutela generale contro le discriminazioni e le molestie subite sul posto di lavoro in ragione dei compiti di assistenza e di cura su di lui gravanti (8). Il Tribunale di Roma avrebbe respinto il ricorso della sig.ra G.L. per tale ragione. Per contro, la Corte d’appello di Roma, facendo riferimento alla sentenza Coleman a sostegno del proprio ragionamento, avrebbe dichiarato che il «caregiver» familiare di una persona disabile ha diritto di godere di una tutela qualora sia oggetto di una discriminazione sul luogo di lavoro a causa della disabilità.
22. Il giudice del rinvio rileva che, tuttavia, la sentenza Coleman si riferiva espressamente e unicamente alla discriminazione diretta e non sembra, prima facie, consentire di estendere l’applicazione della direttiva 2000/78 ai «caregiver» di persone disabili che invocano la sussistenza di una discriminazione indiretta sul loro posto di lavoro. Tuttavia, sarebbe comunque possibile un’interpretazione più ampia di tale direttiva, in considerazione degli obiettivi da essa perseguiti, della sua logica complessiva e dell’evoluzione della legislazione in vigore, nonché delle dinamiche economiche e sociali.
23. Per quanto riguarda gli sviluppi giuridici, tale giudice sottolinea che la Convenzione dell’ONU è entrata in vigore il 3 maggio 2008 e che può essere invocata ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78. Orbene, tenuto conto della definizione della nozione di «discriminazione fondata sulla disabilità» di cui all’articolo 2 di tale Convenzione, questa non sembrerebbe attribuire alcuna importanza alla distinzione tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta per quanto riguarda la tutela delle persone con disabilità. Quanto all’ordinamento giuridico italiano, il Comitato sui diritti delle persone con disabilità, nell’ambito delle sue constatazioni adottate ai sensi dell’articolo 5 del Protocollo opzionale alla Convenzione dell’ONU (9), relative alla comunicazione n. 51/2018, del 26 agosto 2022 (10), avrebbe rilevato le gravi conseguenze sulle persone con disabilità assistite che derivano dal mancato riconoscimento della figura del «caregiver» e dall’assenza di misure di protezione sociale effettive a suo favore, quali l’accesso a incentivi, fondi e al sistema pensionistico, la flessibilità degli orari di lavoro e nelle vicinanze della propria abitazione.
24. Nell’ipotesi in cui il «caregiver» familiare di un figlio disabile fosse legittimato a far valere in giudizio la tutela contro la discriminazione indiretta subita sul luogo di lavoro a causa dell’assistenza prestata a tale figlio, si porrebbe la questione se tale tutela implichi l’adozione di soluzioni ragionevoli, a carico del datore di lavoro del «caregiver», al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori. In tale ipotesi, secondo detto giudice sarebbe necessario definire la nozione di «caregiver» ai fini dell’applicazione della direttiva 2000/78.
25. In tali circostanze la Corte suprema di cassazione ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:
«1) Se il diritto dell’Unione debba interpretarsi, eventualmente anche in base alla [Convenzione dell’ONU], nel senso che sussista la legittimazione del “caregiver” familiare di minore gravemente disabile, il quale deduca di avere patito una discriminazione indiretta in ambito lavorativo come conseguenza dell’attività di assistenza da lui prestata, ad azionare la tutela antidiscriminatoria che sarebbe riconosciuta al medesimo disabile, ove quest’ultimo fosse il lavoratore, dalla direttiva [2000/78].
2) Se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla [prima questione], il diritto dell’Unione vada interpretato, eventualmente in base anche alla [Convenzione dell’ONU], nel senso che gravi sul datore di lavoro del “caregiver” di cui sopra l’obbligo di adottare soluzioni ragionevoli per garantire, altresì in favore del detto “caregiver”, il rispetto del principio della parità di trattamento nei confronti degli altri lavoratori, sul modello di quanto previsto per i disabili dall’articolo 5 della direttiva [2000/78].
3) Se, nell’ipotesi di risposta affermativa alla [prima e/o alla seconda questione], il diritto dell’Unione europea vada interpretato, eventualmente in base anche alla [Convenzione dell’ONU], nel senso che per “caregiver” rilevante ai fini dell’applicazione della direttiva [2000/78] si debba intendere qualunque soggetto, appartenente alla cerchia familiare o convivente di fatto, che si prenda cura in un ambito domestico, pure informalmente, in via gratuita, quantitativamente significativa, esclusiva, continuativa e di lunga durata di una persona che, in ragione della propria grave disabilità, non sia assolutamente autosufficiente nello svolgimento degli atti quotidiani della vita o se il diritto dell’Unione europea vada interpretato nel senso che la definizione di “caregiver” in questione sia più ampia o ancora più ristretta di quella sopra riportata».
26. Osservazioni scritte sono state presentate alla Corte dalla sig.ra G.L., da AB, dai governi italiano e greco nonché dalla Commissione europea.
27. Conformemente alla richiesta della Corte, le presenti conclusioni si concentreranno sull’analisi delle prime due questioni pregiudiziali.
IV. Analisi
A. Sulla prima questione pregiudiziale
28. Con la sua prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 debbano essere interpretati nel senso che un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sostenga di essere vittima di un particolare svantaggio sul lavoro, a causa della disabilità del proprio figlio, al quale presta l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui egli ha bisogno, può far valere in giudizio il principio del divieto di qualsiasi discriminazione indiretta fondata sulla disabilità previsto da tali disposizioni.
29. Conformemente all’articolo 1 della direttiva 2000/78, e come risulta sia dal titolo e dal preambolo sia dal contenuto e dalla finalità della stessa, quest’ultima mira a stabilire un quadro generale per la lotta contro le discriminazioni fondate, segnatamente, sulla disabilità per quanto concerne l’occupazione e le condizioni di lavoro, al fine di attuare, negli Stati membri, il principio della parità di trattamento, offrendo ad ogni persona una tutela efficace contro le discriminazioni fondate, segnatamente, sul motivo di discriminazione suddetto (11). L’articolo 2, paragrafo 1, di tale direttiva definisce il principio della parità di trattamento ai fini di detta direttiva come l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 della medesima direttiva, tra i quali figura la disabilità. Lo stesso articolo 2 prevede, al suo paragrafo 2, lettera a), che sussiste discriminazione diretta quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga, in particolare a causa della disabilità, e al suo paragrafo 2, lettera b), che, salvo i casi di cui ai punti i) e ii) di tale lettera b), sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone, segnatamente portatrici di una particolare disabilità, rispetto ad altre persone.
30. Per quanto riguarda la nozione di «disabilità», occorre ricordare che l’Unione ha approvato la Convenzione dell’ONU con la decisione 2010/48/CE (12). Di conseguenza, a partire dall’entrata in vigore della suddetta decisione, le disposizioni di tale Convenzione formano parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Del resto, dall’appendice all’allegato II a detta decisione risulta che, per quanto riguarda l’autonomia e la partecipazione sociale, le condizioni di lavoro e l’occupazione, la direttiva 2000/78 figura tra gli atti dell’Unione concernenti le questioni disciplinate da detta Convenzione. Ne consegue che, secondo la giurisprudenza della Corte, la medesima Convenzione può essere invocata al fine dell’interpretazione di tale direttiva, la quale deve essere oggetto, nella maggior misura possibile, di un’interpretazione conforme alla Convenzione dell’ONU. Per tali ragioni, in seguito all’approvazione di tale Convenzione da parte dell’Unione, la Corte ha dichiarato che la nozione di «handicap», ai sensi di detta direttiva, dev’essere intesa nel senso che si riferisce a una limitazione della capacità, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori (13). Nel caso di specie, il giudice del rinvio indica che il figlio minore della sig.ra G.L. è affetto da una grave disabilità ed è riconosciuto come invalido al 100 %. Non è contestato che egli soffra di un «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78, né che la sig.ra G.L. presti l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui egli ha bisogno.
31. Nelle sue osservazioni scritte, la sig.ra G.L. sostiene di aver chiesto ad AB, in primo luogo, di essere assegnata stabilmente a un turno fisso la mattina per lo svolgimento delle sue mansioni, al fine di poter adempiere al suo dovere di assistenza nei confronti del figlio, che è costretto a seguire un programma di trattamenti essenziali che devono essere somministrati a orari fissi nel pomeriggio, come prescritto dall’azienda sanitaria locale. In secondo luogo, ella avrebbe chiesto di essere eventualmente assegnata a mansioni di livello inferiore al fine di potersi occupare del figlio. Orbene, il suo datore di lavoro non avrebbe accolto le sue richieste, così applicandole un trattamento discriminatorio (14). La controversia di cui al procedimento principale riguarda quindi l’occupazione e le condizioni di lavoro ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2000/78.
32. Con la sua questione, il giudice del rinvio chiede se il divieto di qualsiasi discriminazione indiretta fondata sulla disabilità previsto da tale direttiva sia applicabile a un lavoratore quale la sig.ra G.L., nella sua qualità di «caregiver» di un figlio disabile. Tale giudice menziona la sentenza Coleman, nella quale la Corte ha dichiarato che detta direttiva e, in particolare, l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera a), della stessa, devono essere interpretati nel senso che il divieto di discriminazione diretta ivi previsto non è limitato alle sole persone che siano esse stesse disabili, e che, qualora un datore di lavoro tratti un lavoratore, che non sia egli stesso disabile, in modo meno favorevole rispetto al modo in cui è, è stato o sarebbe trattato un altro lavoratore in una situazione analoga, e sia provato che il trattamento sfavorevole di cui tale lavoratore è vittima è causato dalla disabilità del figlio, al quale presta la parte essenziale delle cure di cui quest’ultimo ha bisogno, un siffatto trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato a tale articolo 2, paragrafo 2, lettera a).
33. Il giudice del rinvio chiede se, alla luce di tale sentenza, che ha fatto espressamente e unicamente riferimento alla discriminazione diretta, l’applicazione della direttiva 2000/78 si estenda ai «caregiver» di persone con disabilità, i quali si dichiarano vittime di una discriminazione indiretta sul luogo di lavoro. A tal proposito, occorre rilevare che, in detta sentenza, la Corte, riunita in Grande Sezione, ha dichiarato che tale direttiva ha come obiettivo, in materia di occupazione e lavoro, di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità e che il principio della parità di trattamento sancito da detta direttiva in quest’ambito si applica non in relazione ad una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo articolo 1 (15). Secondo la Corte, il fatto che la medesima direttiva contenga disposizioni volte a tener conto specificamente delle esigenze dei disabili non permette di concludere che il principio della parità di trattamento in essa sancito debba essere interpretato in senso restrittivo, vale a dire nel senso che esso vieterebbe soltanto le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguarderebbe esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili (16). La Corte ha precisato che, anche se la persona oggetto di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità non è essa stessa disabile, resta comunque il fatto che è proprio la disabilità a costituire il motivo del trattamento meno favorevole del quale tale persona afferma di essere stata vittima (17). La Corte ha aggiunto che, una volta accertato che un lavoratore che fornisca al proprio figlio disabile le cure di cui quest’ultimo ha bisogno è vittima di una discriminazione diretta fondata sulla disabilità, un’interpretazione della direttiva 2000/78 che ne limiti l’applicazione alle sole persone che siano esse stesse disabili rischierebbe di privare tale direttiva di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire (18).
34. Sottolineo che, con la sentenza Coleman, la Corte ha stabilito la nozione di «discriminazione per associazione», in base alla quale una persona può invocare la direttiva 2000/78 quando, pur non essendo essa stessa disabile, subisce un trattamento sfavorevole sul lavoro in qualità di «caregiver» di una persona disabile. Invero, nel dispositivo di tale sentenza, la Corte ha fatto riferimento solo alla discriminazione diretta, in risposta alle questioni pregiudiziali poste che menzionavano unicamente tale forma di discriminazione. Tuttavia, come enunciato dall’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, il principio della parità di trattamento è inteso come l’assenza di qualsiasi discriminazione, diretta o indiretta, basata su uno dei motivi di cui all’articolo 1 di tale direttiva (19). Dalla formulazione di tale disposizione si evince quindi che il divieto di discriminazione diretta per associazione fondata sulla disabilità implica logicamente il divieto di discriminazione indiretta per associazione. In altri termini, operare una distinzione tra tali due forme di discriminazione metterebbe in discussione la coerenza interna di detta direttiva (20). La Corte ha quindi rilevato, al punto 38 della sentenza Coleman, che la stessa direttiva ha come obiettivo di combattere ogni forma di discriminazione basata sulla disabilità. Come rilevato dal governo italiano nelle sue osservazioni scritte, emerge inoltre esplicitamente dai termini stessi di tale sentenza, e in particolare dal suo punto 43, che la direttiva 2000/78 non vieta solo le discriminazioni dirette fondate sulla disabilità e riguardanti esclusivamente le persone che siano esse stesse disabili, il che, a mio avviso, implica che tale direttiva vieti anche la discriminazione indiretta per associazione (21).
35. Inoltre, l’obiettivo di tale direttiva, come enunciato al suo articolo 1, è quello di stabilire un quadro generale al fine di rendere effettivo il principio della parità di trattamento. Orbene, il divieto di discriminazione diretta per associazione e quello di discriminazione indiretta sono strettamente collegati poiché, come sottolinea il giudice del rinvio, non vi può essere una reale tutela da trattamenti sfavorevoli sul lavoro senza una lotta sistematica contro tali due forme di discriminazione.
36. L’interpretazione secondo cui la direttiva 2000/78 si applica sia alla discriminazione diretta che alla discriminazione indiretta per associazione è corroborata dalla giurisprudenza della Corte. A tal proposito, occorre menzionare la sentenza CHEZ (22), relativa alla direttiva 2000/43/CE (23), il cui articolo 1 e articolo 2, paragrafo 1, sono formulati in termini simili a quelli dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 2000/78, per quanto riguarda la «razza o l’origine etnica», invece che l’«handicap». In tale sentenza, la Corte, parimenti pronunciatasi in Grande Sezione, ha dichiarato che la nozione di «discriminazione fondata sull’origine etnica», ai sensi della direttiva 2000/43, dev’essere interpretata nel senso che, in circostanze in cui tutti i contatori elettrici, in un quartiere urbano prevalentemente popolato da residenti di origine rom, sono collocati su pali appartenenti alla rete della linea elettrica aerea a un’altezza di sei o sette metri, mentre tali contatori sono collocati a un’altezza inferiore ai due metri negli altri quartieri, detta nozione si applica, indifferentemente, a seconda che tale misura collettiva interessi le persone che hanno una determinata origine etnica o quelle che, senza possedere detta origine, subiscono, insieme alle prime, il trattamento meno favorevole o il particolare svantaggio risultante da tale misura. Nell’ambito del suo ragionamento, la Corte, riferendosi per analogia alla sentenza Coleman, ha sottolineato che la giurisprudenza in forza della quale la sfera di applicazione di tale direttiva non può, considerato il suo oggetto e la natura dei diritti che si propone di tutelare, essere definita in modo restrittivo, è atta nella fattispecie a giustificare l’interpretazione secondo la quale il principio della parità di trattamento al quale si riferisce detta direttiva si applica non in relazione a una determinata categoria di persone, bensì sulla scorta dei motivi indicati al suo articolo 1, cosicché esso può giovare anche a coloro che, seppure non appartenenti essi stessi alla razza o all’etnia interessata, subiscono tuttavia un trattamento meno favorevole o un particolare svantaggio per uno di tali motivi (24). Di conseguenza, la Corte ha espressamente dichiarato che la discriminazione indiretta per associazione rientrava nell’ambito di applicazione della direttiva 2000/43, che è redatta secondo la stessa struttura della direttiva 2000/78 (25).
37. Il divieto, da parte di quest’ultima direttiva, di discriminazione indiretta per associazione è sostenuto anche dalla Convenzione dell’ONU che, secondo la giurisprudenza della Corte, può essere richiamata ai fini dell’interpretazione di detta direttiva, la quale deve essere interpretata, per quanto possibile, in conformità a tale Convenzione (26). Infatti, l’articolo 5, paragrafo 2, di detta Convenzione sancisce che gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento. La medesima Convenzione ha quindi adottato un’interpretazione estensiva della nozione di «discriminazione fondata sulla disabilità», da cui consegue logicamente che la Convenzione dell’ONU vieta la discriminazione indiretta per associazione.
38. In tal senso, il Comitato sui diritti delle persone con disabilità (27), istituito nell’ambito del Protocollo opzionale alla Convenzione dell’ONU, nel suo Commento generale n. 6 (2018) sull’uguaglianza e la non discriminazione, del 26 aprile 2018 (28), ha ritenuto che l’articolo 5, paragrafo 2, della Convenzione dell’ONU stabilisca i requisiti legali per la realizzazione dei diritti di uguaglianza per le persone con disabilità e le persone ad esse associate, e che l’obbligo di vietare ogni discriminazione fondata sulla disabilità è volto a proteggere le persone con disabilità e coloro che le circondano, ad esempio i genitori di minori con disabilità (29). Tale Comitato ha inoltre osservato che la discriminazione «fondata sulla disabilità» può riguardare, in particolare, le persone associate a una persona disabile e che, in tal caso, quest’ultima forma di discriminazione è definita «discriminazione per associazione», e che l’ampia portata dell’articolo 5 deriva dalla necessità di eliminare e combattere tutte le situazioni discriminatorie e/o tutti i comportamenti discriminatori legati alla disabilità (30). Sempre secondo detto Comitato, la nozione di protezione contro «ogni discriminazione qualunque ne sia il fondamento» significa che devono essere presi in considerazione tutti i possibili motivi di discriminazione e la loro interazione (31).
39. Più di recente, nell’ambito delle sue constatazioni adottate ai sensi dell’articolo 5 del Protocollo opzionale, relative alla comunicazione n. 51/2018, del 26 agosto 2022 (32), il Comitato sui diritti delle persone con disabilità ha esaminato la comunicazione di una persona nella sua qualità di «caregiver» della figlia e del suo compagno, entrambi disabili. Tale Comitato, facendo riferimento al suo Commento generale n. 6, ha applicato la nozione di «discriminazione per associazione», tenendo conto dell’affermazione dell’autrice secondo cui la lacuna presente nel sistema giuridico italiano rende i «caregiver» vulnerabili e li espone al rischio di essere vittime di discriminazione per associazione, in violazione dell’articolo 5 della Convenzione dell’ONU.
40. Ancorché l’Unione non abbia approvato il Protocollo opzionale alla Convenzione dell’ONU e il Comitato sui diritti delle persone con disabilità non sia un organo giurisdizionale, è significativo che anche tale Comitato adotti, a sua volta, un’interpretazione estensiva della nozione di «discriminazione fondata sulla disabilità» e faccia esplicito riferimento alla discriminazione per associazione, senza limitarla alla discriminazione diretta.
41. Rilevo inoltre che, secondo la giurisprudenza della Corte, la direttiva 2000/78 concretizza, nel settore da essa disciplinato, il principio generale di non discriminazione sancito dall’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in prosieguo: la «Carta»), che vieta qualsiasi discriminazione fondata, in particolare, su una disabilità. Inoltre, ai sensi dell’articolo 26 della Carta, l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (33). Ai sensi dell’articolo 52, paragrafo 3, della Carta, laddove questa contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 (in prosieguo: la «CEDU»), il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti da tale Convenzione. A tal fine, l’articolo 53 della Carta aggiunge che nessuna disposizione della stessa dev’essere interpretata come limitativa o lesiva, nell’ambito del diritto dell’Unione, dei diritti riconosciuti, in particolare, dalla CEDU.
42. Orbene, a tal proposito, occorre rilevare che la Corte europea dei diritti dell’uomo (in prosieguo: la «Corte EDU») (34), adita da un ricorrente che lamentava, in particolare, una discriminazione indiretta (35), ha dichiarato che lo stato di salute di una persona, in particolare una disabilità e vari problemi di salute, rientra nell’espressione «di altro genere» utilizzata nell’articolo 14 della CEDU (36). Tale Corte ha ricordato che l’espressione «di altro genere» ha solitamente ricevuto nella sua giurisprudenza un’interpretazione estensiva – non limitata alle caratteristiche di natura personale nel senso di essere innate o inerenti alla persona – da cui deriva che l’articolo 14 della CEDU, tenuto conto del suo scopo e della natura dei diritti che esso intende tutelare, si applica anche ai casi in cui un individuo è trattato in modo meno favorevole a causa della situazione o delle caratteristiche protette di un’altra persona. Da ciò detta Corte ha concluso che il trattamento discriminatorio denunciato dal ricorrente a causa della disabilità del figlio, con il quale ha stretti legami personali e al quale presta assistenza, costituisce una forma di discriminazione fondata sulla disabilità a cui si applica l’articolo 14 della CEDU (37). Pertanto, la medesima Corte ha sancito la nozione di «discriminazione per associazione» senza distinguere tra discriminazione diretta e discriminazione indiretta (38).
43. Ritengo pertanto che, sebbene l’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 si riferisca a «persone portatrici di un particolare handicap», tale disposizione implichi che il «caregiver» familiare di un figlio disabile sia legittimato a far valere in giudizio, in virtù del divieto di discriminazione indiretta per associazione, la protezione contro la discriminazione che sarebbe accordata alla persona disabile se fosse essa stessa il lavoratore, in quanto altrimenti si priverebbe tale direttiva di una parte del suo effetto utile. In altre parole, questa direttiva garantisce la protezione di due persone allo stesso tempo: da un lato, il minore disabile, che riceve assistenza da un «caregiver» nel contesto familiare, e dall’altro, questo «caregiver» nel contesto professionale, a causa della sua minore disponibilità a svolgere le proprie funzioni in ragione dell'assistenza fornita.
44. Nel caso di specie, il giudice del rinvio parte dal presupposto che la sig.ra G.L. possa essere vittima di una discriminazione indiretta per associazione. Al riguardo, occorre ricordare che, secondo la costante giurisprudenza della Corte, non è possibile ritenere che una disposizione o una prassi introduca una differenza di trattamento direttamente basata sulla disabilità, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 1 e dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera a), della direttiva 2000/78, ove essa si fondi su un criterio che non è inscindibilmente legato alla disabilità (39).
45. Nella causa che ha dato origine alla sentenza Coleman, la ricorrente aveva riferito di essere stata trattata dal suo datore di lavoro meno favorevolmente rispetto ai suoi colleghi genitori di bambini non disabili (40). Tale differenza di trattamento è stata considerata come riconducibile alla nozione di «discriminazione diretta per associazione», che sussiste quando una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga, in base, in particolare, alla disabilità. Infatti, una tale differenza di trattamento sembra essere inscindibilmente legata alla disabilità del figlio (41).
46. Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78, ad eccezione dei casi di cui ai punti i) e ii) di tale lettera b), una «discriminazione indiretta per associazione» può derivare da una misura che, pur formulata in modo neutro, ossia con riferimento a criteri non connessi alla caratteristica protetta, porta tuttavia a sfavorire particolarmente le persone che possiedono tale caratteristica (42). A mio avviso, l’esempio tipico di una discriminazione del genere è l’introduzione generalizzata da parte del datore di lavoro di ritmi di lavoro non flessibili. Tale regola è formulata in modo neutro, in quanto si applica a tutti i dipendenti, ma comporta un particolare svantaggio per i «caregiver» di figli disabili, per i quali sono necessari orari di lavoro più flessibili per poter fornire l’assistenza e le cure di cui tali figli hanno bisogno in considerazione del loro stato di salute (43).
47. Spetta al giudice del rinvio, che è l’unico competente a valutare i fatti, verificare se il comportamento contestato ad AB possa costituire una discriminazione diretta o una discriminazione indiretta per associazione, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, della direttiva 2000/78.
48. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo di rispondere alla prima questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78 devono essere interpretati nel senso che un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sostenga di essere vittima di un particolare svantaggio sul lavoro, a causa della disabilità del proprio figlio, al quale presta l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui egli ha bisogno, può far valere in giudizio il principio del divieto di qualsiasi discriminazione indiretta fondata sulla disabilità previsto da tali disposizioni.
B. Sulla seconda questione pregiudiziale
49. Con la sua seconda questione, posta in caso di risposta affermativa alla prima questione, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 5 della direttiva 2000/78 debba essere interpretato nel senso che, qualora un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sia il «caregiver» del figlio disabile, il datore di lavoro di tale «caregiver» è tenuto ad adottare, a titolo delle «soluzioni ragionevoli» previste da tale articolo, provvedimenti appropriati per consentirgli, in funzione delle esigenze della situazione concreta, di prestare l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui il figlio ha bisogno.
50. Ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, devono essere previste soluzioni ragionevoli. Il datore di lavoro deve quindi prendere i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato.
51. Al punto 42 della sentenza Coleman, la Corte ha rilevato che il fatto che tale articolo 5 sia specificamente rivolto alle persone con disabilità deriva dal fatto che esso riguarda misure specifiche che sarebbero private di ogni contenuto o che potrebbero rivelarsi sproporzionate se non fossero limitate alle sole persone disabili. La Corte ha aggiunto che, come risulta dai considerando 16 e 20 di tale direttiva, si tratta di misure volte a tener conto delle esigenze dei disabili sul lavoro e ad adeguare il luogo di lavoro a seconda della loro disabilità. Siffatte misure sono quindi specificamente volte a consentire e a incoraggiare l’inserimento dei disabili nel mondo del lavoro e, per questa ragione, possono riguardare soltanto questi ultimi nonché gli obblighi che incombono, nei loro confronti, ai loro datori di lavoro e, eventualmente, agli Stati membri.
52. Tuttavia, ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), punto ii), della direttiva 2000/78, sussiste discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio persone segnatamente portatrici di una particolare disabilità, rispetto ad altre persone, a meno che il datore di lavoro o qualsiasi persona o organizzazione a cui si applica tale direttiva sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare misure adeguate, conformemente ai principi di cui all’articolo 5 di detta direttiva, per ovviare agli svantaggi provocati da tale disposizione, tale criterio o tale prassi. Di conseguenza, l’adozione di soluzioni ragionevoli consente di porre rimedio a una situazione di discriminazione indiretta. Pertanto, come sottolineato dalla Commissione nelle sue osservazioni scritte, la discriminazione indiretta e le soluzioni ragionevoli la cui adozione spetta al datore di lavoro sono strettamente collegate. Nello stesso senso, ai sensi dell’articolo 2 della Convenzione dell’ONU, la discriminazione fondata sulla disabilità include ogni forma di discriminazione, compreso il rifiuto di un accomodamento ragionevole. In tali circostanze, poiché è riconosciuto che la direttiva 2000/78 vieta la discriminazione indiretta per associazione, ne consegue logicamente che soluzioni ragionevoli devono essere accordate al lavoratore vittima sul suo luogo di lavoro di discriminazione indiretta per associazione fondata sulla disabilità, al fine di dare attuazione al principio della parità di trattamento.
53. Inoltre, l’articolo 2 della Convenzione dell’ONU, che è stata approvata dall’Unione successivamente alla data di pronuncia della sentenza Coleman, definisce l’accomodamento ragionevole come «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». Da tale definizione si evince che, a differenza della formulazione dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, gli accomodamenti ragionevoli non sono limitati alle esigenze delle persone disabili sul lavoro, e che possono quindi andare a beneficio di una persona disabile che non è in grado di svolgere un’attività lavorativa, sotto forma di accomodamenti accordati al lavoratore in qualità di «caregiver». Tali accomodamenti consentono al lavoratore di prestare assistenza e le cure necessarie alla persona disabile, indipendentemente dalla sua età. In tal senso, l’articolo 5, paragrafo 3, di detta Convenzione stabilisce che «[a]l fine di promuovere l’uguaglianza ed eliminare le discriminazioni, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli», senza porre alcun limite riguardo alle persone interessate.
54. Inoltre, l’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione dell’ONU enuncia che gli «Stati Parti adottano ogni misura necessaria a garantire il pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali da parte dei minori con disabilità, su base di uguaglianza con gli altri minori». Poiché un minore disabile dipende da un’altra persona per il godimento di tali diritti e libertà, il «caregiver» di tale minore dev’essere in grado di fornirgli l’assistenza di cui quest’ultimo ha bisogno, il che può implicare un adattamento delle condizioni di lavoro di tale «caregiver». Un accomodamento ragionevole è tanto più necessario quando la persona disabile è un minore. Orbene, come è stato sottolineato, tale Convenzione può essere invocata ai fini dell’interpretazione della direttiva 2000/78, la quale deve essere interpretata, per quanto possibile, in conformità con la stessa Convenzione (44). Più in generale, l’articolo 7, paragrafo 2, della Convenzione dell’ONU, come l’articolo 24, paragrafo 2, della Carta, stabiliscono che in tutti gli atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorità pubbliche o da istituzioni private, l’interesse superiore del minore deve essere considerato preminente.
55. Per quanto riguarda il tipo di soluzioni ragionevoli invocabili dal «caregiver» di una persona disabile, occorre rilevare che il considerando 20 della direttiva 2000/78 menziona, tra le misure appropriate, «misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento». A tal proposito, la Corte ha già dichiarato che tale considerando elenca non esaustivamente le misure appropriate, potendo queste ultime essere di ordine fisico, organizzativo e/o educativo, in quanto l’articolo 5 di tale direttiva, letto alla luce dell’articolo 2 della Convenzione dell’ONU, contempla un’ampia definizione della nozione di «soluzione ragionevole» (45).
56. Come ho già indicato nelle mie conclusioni nella causa HR Rail (46), l’obiettivo dell’articolo 5 della direttiva 2000/78, letto alla luce dei considerando 17 e 20 della stessa, è in effetti, in un approccio fondato sulla nozione sociale di «disabilità», quello di adattare l’ambiente di lavoro del disabile al fine di consentirgli una piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori. Qualora il «caregiver» non sia egli stesso una persona disabile, il suo ambiente di lavoro dev’essere ugualmente adattato al medesimo scopo. I provvedimenti appropriati che il datore di lavoro può adottare, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, non riguardano quindi la sistemazione dei locali o l’adattamento delle attrezzature, ma, in particolare, i ritmi di lavoro o la ripartizione dei compiti (47). Per quanto riguarda i ritmi di lavoro, la Corte ha già dichiarato che l’articolo 5 di tale direttiva deve essere interpretato nel senso che la riduzione dell’orario di lavoro può costituire uno dei provvedimenti di adattamento di cui a tale articolo (48). Nel caso di specie, la sig.ra G.L. ha chiesto al suo datore di lavoro, in primo luogo, di essere assegnata a un turno fisso di mattina, il che pare afferire ai ritmi di lavoro e alle mansioni da svolgere. In secondo luogo, ella ha chiesto al datore di lavoro di essere eventualmente assegnata a mansioni di livello inferiore. Orbene, secondo la giurisprudenza della Corte, in determinate circostanze, l’assegnazione a un diverso posto di lavoro può rappresentare una misura appropriata nell’ambito delle «soluzioni ragionevoli» ai sensi dell’articolo 5 di tale direttiva (49).
57. Ciò premesso, tale articolo 5 non può imporre al datore di lavoro l’adozione di misure che gli impongano un onere sproporzionato. A tale proposito, dal considerando 21 della stessa direttiva discende che, per determinare se le misure in questione diano luogo a oneri sproporzionati per quest’ultimo, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni (50).
58. Nel caso di specie, nelle sue osservazioni scritte, AB sostiene in particolare che vi era una carenza di personale nella categoria degli «operatori di stazione» e che, in ogni caso, non era disponibile alcun posto vacante nella categoria degli «ausiliari del traffico», i quali appartengono a una famiglia professionale diversa. La sig.ra G.L. sarebbe stata comunque distolta dalla ciclazione ordinaria dei turni di servizio, assegnati agli operatori di stazione della linea metropolitana di appartenenza e sarebbe stata destinata, a differenza degli altri colleghi, ad una sede di lavoro fissa con un turno agevolato. AB avrebbe quindi adottato le soluzioni ragionevoli necessarie, senza riuscire ad assegnare la sig.ra G.L. a un turno fisso a tempo indeterminato.
59. A tal proposito, spetta al giudice del rinvio verificare se la richiesta della sig.ra G.L. costituisse un onere sproporzionato per il suo datore di lavoro, ai sensi dell’articolo 5 della direttiva 2000/78.
60. Alla luce di quanto precede, propongo di rispondere alla seconda questione pregiudiziale dichiarando che l’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretato nel senso che, qualora un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sia il «caregiver» del figlio disabile, il datore di lavoro di tale «caregiver» è tenuto ad adottare, a titolo delle «soluzioni ragionevoli» previste da tale articolo, provvedimenti appropriati, in particolare per quanto riguarda l’adattamento dei ritmi di lavoro e la modifica delle mansioni da svolgere, al fine di consentirgli, in funzione delle esigenze della situazione concreta, di prestare l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui il figlio ha bisogno, purché tali provvedimenti non richiedano a tale datore di lavoro un onere sproporzionato.
V. Conclusione
61. Alla luce delle considerazioni che precedono, propongo alla Corte di rispondere come segue alla prima e alla seconda questione pregiudiziale sollevate dalla Corte suprema di cassazione (Italia):
1) L’articolo 1 e l’articolo 2, paragrafo 1 e paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro,
devono essere interpretati nel senso che:
un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sostenga di essere vittima di un particolare svantaggio sul lavoro, a causa della disabilità del proprio figlio, al quale presta l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui egli ha bisogno, può far valere in giudizio il principio del divieto di qualsiasi discriminazione indiretta fondata sulla disabilità previsto da tali disposizioni.
2) L’articolo 5 della direttiva 2000/78
deve essere interpretato nel senso che:
qualora un lavoratore che, pur non essendo egli stesso disabile, sia il «caregiver» del figlio disabile, il datore di lavoro di tale «caregiver» è tenuto ad adottare, a titolo delle «soluzioni ragionevoli» previste da tale articolo, provvedimenti appropriati, in particolare per quanto riguarda l’adattamento dei ritmi di lavoro e la modifica delle mansioni da svolgere, al fine di consentirgli, in funzione delle esigenze della situazione concreta, di prestare l’assistenza e la parte essenziale delle cure di cui il figlio ha bisogno, purché tali provvedimenti non richiedano a tale datore di lavoro un onere sproporzionato.
1 Lingua originale: il francese.
i Il nome della presente causa è un nome fittizio. Non corrisponde al nome reale di nessuna delle parti del procedimento.
2 Direttiva del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (GU 2000, L 303, pag. 16).
3 Sentenza del 17 luglio 2008 (C‑303/06; in prosieguo: la «sentenza Coleman», EU:C:2008:415).
4 Recueil des traités des Nations unies, vol. 2515, pag. 3.
5 GURI n. 187, 13 agosto 2003, pag. 4.
6 Nelle sue osservazioni scritte, AB ha indicato che gli operatori di stazione operanti nel settore metro‑ferro‑tranviario non hanno una residenza lavorativa fissa e hanno una residenza di servizio, che è quella che coincide con l’intera linea metropolitana o tratta ferroviaria presso la quale sono adibiti, e una residenza di destinazione, che è quella che corrisponde ad una delle stazioni della tratta di appartenenza, dove si rende necessaria la loro presenza per l’espletamento dell’attività.
7 Legge n. 205 – Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020, del 27 dicembre 2017 (GURI n. 302, del 29 dicembre 2017, supplemento ordinario alla GURI n. 62).
8 Il giudice del rinvio precisa che l’articolo 25, comma 2 bis, del decreto legislativo n. 216, introdotto dalla legge n. 162 del 5 novembre 2021 (GURI n. 275, del 18 novembre 2021), che è stato adottato successivamente alla data dei fatti di cui al procedimento principale, dispone che «[c]ostituisce discriminazione, ai sensi del presente titolo, ogni trattamento o modifica dell’organizzazione delle condizioni e dei tempi di lavoro che, in ragione del sesso, dell’età anagrafica, delle esigenze di cura personale o familiare, dello stato di gravidanza nonché di maternità o paternità, anche adottive, ovvero in ragione della titolarità e dell’esercizio dei relativi diritti, pone o può porre il lavoratore in almeno una delle seguenti condizioni: a) posizione di svantaggio rispetto alla generalità degli altri lavoratori; b) limitazione delle opportunità di partecipazione alla vita o alle scelte aziendali; c) limitazione dell’accesso ai meccanismi di avanzamento e di progressione nella carriera».
9 Ai sensi dell’articolo 1, paragrafo 1, del Protocollo, ogni Stato Parte dello stesso riconosce la competenza del Comitato sui diritti delle persone con disabilità a ricevere ed esaminare comunicazioni presentate da individui o gruppi di individui soggetti alla sua giurisdizione che pretendano di essere vittime di violazioni delle disposizioni della Convenzione dell’ONU da parte di quello Stato Parte. L’articolo 5 di detto Protocollo enuncia che il Comitato esamina a porte chiuse le comunicazioni che gli sono state indirizzate ai sensi dello stesso Protocollo e che, dopo aver esaminato una comunicazione, trasmette i suoi suggerimenti e le sue eventuali raccomandazioni allo Stato Parte interessato e al richiedente.
10 Le conclusioni, disponibili in spagnolo, inglese e francese, possono essere consultate al seguente indirizzo: https://tbinternet.ohchr.org/_layouts/15/treatybodyexternal/SessionDetails1.aspx?SessionID=2545&Lang=fr, nella sezione «Esame dei reclami individuali», poi «Caso CRPD/C/27/D/51/2018 Maria Simona Bellini».
11 Sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie (C‑16/19, EU:C:2021:64, punto 32 e giurisprudenza citata).
12 Decisione del Consiglio, del 26 novembre 2009 (GU 2010, L 23, pag. 35).
13 V. sentenza dell’11 settembre 2019, Nobel Plastiques Ibérica (C‑397/18, EU:C:2019:703, punti da 39 a 41 e giurisprudenza citata). Sulla nozione di «handicap», ai sensi della direttiva 2000/78, v. anche sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta (C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 34).
14 V. paragrafo 18 delle presenti conclusioni.
15 V. sentenza Coleman (punto 38). V. anche sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie (C‑16/19, EU:C:2021:64, punto 34 e giurisprudenza citata).
16 V. sentenza Coleman (punto 43).
17 V., in tal senso, sentenza Coleman (punto 50).
18 V., in tal senso, sentenza Coleman (punto 51).
19 V. anche considerando 12 della direttiva 2000/78.
20 Nello stesso senso, v. conclusioni dell’avvocato generale Kokott nella causa CHEZ Razpredelenie Bulgaria (C‑83/14, EU:C:2015:170, paragrafo 106), secondo cui pare «corretto ammettere la nozione di discriminazione “per associazione” nel contesto della discriminazione indiretta nello stesso modo in cui la si ammette nel contesto della discriminazione diretta».
21 V., tuttavia, Waddington, L., «Case C‑303/06, S. Coleman v. Attridge Law and Steve Law Judgment of the Grand Chamber of the Court of Justice of 17 July 2008», Common Market Law Review, vol. 46, n. 2, 2009, pagg. da 665 a 681, in particolare pagg. 675 e 676. Secondo tale autrice, nella sentenza Coleman la Corte non si è pronunciata sulla questione della discriminazione indiretta per associazione.
22 Sentenza del 16 luglio 2015, CHEZ Razpredelenie Bulgaria (C‑83/14; in prosieguo: la «sentenza CHEZ», EU:C:2015:480). Sui collegamenti tra le sentenze Coleman e CHEZ per quanto riguarda l’ambito di applicazione della discriminazione per associazione, v. Benedi Lahuerta, S., «Ethnic Discrimination, Discrimination by Association and the Roma Community», Common Market Law Review, vol. 53, n. 3, 2016, pagg. da 797 a 817, in particolare pagg. da 809 a 812.
23 Direttiva del Consiglio, del 29 giugno 2000, che attua il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GU 2000, L 180, pag. 22).
24 Sentenza CHEZ (punto 56 e giurisprudenza citata).
25 V., in tal senso, McCrudden, C., «The New Architecture of EU Equality Law after CHEZ : Did the Court of Justice Reconceptualise Direct and Indirect Discrimination?», European equality law review, n. 1, 2016, pagg. da 1 a 10, in particolare pag. 7. Tale autore rileva che la sentenza CHEZ ha ampliato la cerchia di persone che possono avvalersi del divieto di discriminazione indiretta, ampliamento dovuto all'applicazione della nozione di «discriminazione per associazione» alla discriminazione indiretta.
26 V. paragrafo 30 delle presenti conclusioni.
27 Su tale Comitato, v. paragrafo 23 delle presenti conclusioni.
28 CRPD/C/GC/6. Tale documento, disponibile in particolare nelle lingue spagnola inglese e francese, può essere consultato al seguente indirizzo: https://www.ohchr.org/fr/documents/general-comments-and-recommendations/general-comment-no6-equality-and-non-discrimination.
29 Commento generale n. 6 (punto 17).
30 Commento generale n. 6 (punto 20).
31 Commento generale n. 6 (punto 21).
32 Su tali constatazioni v., inoltre, paragrafo 23 delle presenti conclusioni. V., in particolare, punto 7.9 di dette constatazioni.
33 V. sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta (C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 40 e giurisprudenza citata).
34 V. Corte EDU, 22 marzo 2016, Guberina c. Croazia, EC:ECHR:2016:0322JUD002368213.
35 Secondo la nota informativa sulla giurisprudenza della Corte EDU, disponibile al seguente indirizzo: https://hudoc.echr.coe.int/fre#{%22itemid%22:[%22002-11097%22]}, «[i]l ricorrente viveva con un figlio gravemente disabile di cui si prendeva cura. Al fine di fornire al figlio una situazione abitativa migliore e più adeguata, il ricorrente ha venduto l’appartamento di famiglia situato al terzo piano di un immobile senza ascensore per acquistare una casa. Ha quindi chiesto l’esenzione dall’imposta sull’acquisto, ma la sua domanda è stata respinta in quanto l’appartamento che aveva venduto rispondeva alle esigenze della famiglia. Nell’ambito del procedimento svoltosi ai sensi della Convenzione, il ricorrente ha lamentato che l’applicazione della normativa fiscale alla sua situazione aveva costituito una discriminazione fondata sulla disabilità del figlio».
36 Ai sensi di tale articolo, «[i]l godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione».
37 V. §§ da 76 a 79 di tale sentenza.
38 Occorre notare che, in detta sentenza, la Corte EDU ha, in particolare, fatto riferimento alle sentenze Coleman e CHEZ trattandosi di «documenti internazionali pertinenti» (v. §§ 41 e 42).
39 V. sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie (C‑16/19, EU:C:2021:64, punto 44 e giurisprudenza citata).
40 V. sentenza Coleman (punto 26).
41 Come ha osservato l’avvocato generale Poiares Maduro nelle sue conclusioni nella causa Coleman (C‑303/06, EU:C:2008:61, paragrafo 20), «[i]l caso della sig.ra Coleman solleva una questione di discriminazione diretta. Come risulta chiaramente dall’ordinanza di rinvio, essa non lamenta che un provvedimento neutro abbia avuto su di lei un impatto in quanto madre e persona che si prende cura di un figlio disabile, ma afferma di essere stata isolata e presa di mira dal suo datore di lavoro proprio a causa del figlio disabile. La questione che si pone alla Corte, pertanto, consiste nell’accertare se la discriminazione diretta per associazione sia vietata dalla direttiva».
42 V., in tal senso, sentenza del 26 gennaio 2021, Szpital Kliniczny im. dra J. Babińskiego Samodzielny Publiczny Zakład Opieki Zdrowotnej w Krakowie (C‑16/19, EU:C:2021:64, punto 55 e giurisprudenza citata).
43 Ad esempio, un «caregiver» familiare che dovesse lavorare tutti i giorni della settimana tra le 9 e le 18, senza alcuna flessibilità, riscontrerebbe ovviamente difficoltà a poter recarsi a una visita medica infrasettimanale con il proprio figlio, tenuto conto degli orari di apertura degli ambulatori medici.
44 V. paragrafo 30 delle presenti conclusioni.
45 V. sentenza del 10 febbraio 2022, HR Rail (C‑485/20, EU:C:2022:85, punto 40 e giurisprudenza citata).
46 C‑485/20, EU:C:2021:916, paragrafo 59.
47 Occorre precisare che la possibilità di ottenere un adeguamento dei ritmi di lavoro per i «caregiver» è ora esplicitamente prevista dal diritto dell’Unione. Infatti, la direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza e che abroga la direttiva 2010/18/UE del Consiglio (GU 2019, L 188, pag. 79), che non è applicabile ratione temporis alla controversia di cui al procedimento principale, enuncia, al suo articolo 9, paragrafo 1, che «[g]li Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che i lavoratori con figli fino a una determinata età, che non deve essere inferiore a otto anni, e i prestatori di assistenza abbiano il diritto di chiedere modalità di lavoro flessibili per motivi di assistenza. La durata di tali modalità di lavoro flessibili può essere soggetta a una limitazione ragionevole». L’articolo 3, paragrafo 1, lettera f), di tale direttiva definisce le «modalità di lavoro flessibili» come «la possibilità per i lavoratori di adattare l’organizzazione della vita professionale, anche mediante l’uso del lavoro a distanza, calendari di lavoro flessibili o una riduzione dell’orario di lavoro».
48 V. sentenza dell’11 aprile 2013, HK Danmark (C‑335/11 e C‑337/11, EU:C:2013:222, punto 64).
49 V., in tal senso, sentenza del 10 febbraio 2022, HR Rail (C‑485/20, EU:C:2022:85, punto 43).
50 V. sentenza del 18 gennaio 2024, Ca Na Negreta (C‑631/22, EU:C:2024:53, punto 45 e giurisprudenza citata).