CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

GERARD HOGAN

presentate il 10 giugno 2021 ( 1 )

Causa C‑71/20

Anklagemyndigheden

contro

VAS Shipping ApS (già Sirius Shipping ApS)

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dall’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca)]

«Rinvio pregiudiziale – Articoli 49 e 54 TFUE – Libertà di stabilimento – Obbligo imposto dal diritto nazionale di uno Stato membro ai cittadini di paesi terzi, membri dell’equipaggio di navi battenti bandiera di tale Stato membro, di ottenere un permesso di lavoro – Eccezione per le navi in traffico internazionale che non facciano scalo in porti dello Stato membro più di 25 volte all’anno – Nave di proprietà di un cittadino di un altro Stato membro – Non discriminazione – Nozione di “restrizione” – Motivi imperativi di interesse generale – Stabilità del mercato del lavoro – Proporzionalità»

I. Introduzione

1.

La domanda di pronuncia pregiudiziale in esame, proposta dall’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca) in data 10 febbraio 2020 e depositata presso la cancelleria della Corte il 12 febbraio 2020, verte sull’interpretazione dell’articolo 49 TFUE, concernente la libertà di stabilimento. Essa solleva la questione, concettualmente complessa, se una normativa che disciplina il mercato nazionale del lavoro, applicabile in via generale e senza distinzioni, possa essere considerata una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE.

2.

Tale domanda è stata presentata nell’ambito di un procedimento penale promosso dall’Anklagemyndigheden (pubblico ministero, Danimarca) nei confronti della società a responsabilità limitata danese VAS Shipping ApS (già Sirius Shipping ApS), detenuta al 100% dalla società svedese Sirius Rederi AB. Poiché il diritto danese esige che per una nave di proprietà congiunta di più caratisti sia scelto un armatore gerente, la VAS Shipping è l’armatore gerente di quattro società di navigazione di proprietà congiunta stabilite in Svezia. Le quattro società svedesi di navigazione di proprietà congiunta hanno immatricolato quattro navi nel registro navale internazionale danese (in prosieguo: il «DIS») ai fini delle loro attività in Danimarca.

3.

Conformemente alle disposizioni del diritto danese applicabili all’epoca dei fatti, un cittadino di un paese terzo deve disporre di un permesso di lavoro per svolgere un’attività lavorativa in Danimarca, ivi compresa un’attività lavorativa su una nave danese che faccia regolarmente scalo in porti danesi nell’ambito dei suoi servizi di linea. Chiunque impieghi cittadini di paesi terzi privi di un permesso di lavoro è punito con una pena pecuniaria o detentiva. I cittadini di paesi terzi impiegati su navi da carico danesi in traffico internazionale che facevano scalo in porti danesi non più di 25 volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente ( 2 ), erano dispensati dal requisito del possesso di un permesso di lavoro. Tuttavia, era richiesto un permesso di lavoro nel caso in cui tali navi avessero fatto scalo in più di 25 occasioni in porti danesi nel corso dell’anno precedente.

4.

La VAS Shipping è accusata di aver violato l’articolo 59, paragrafo 4, in combinato disposto con l’articolo 59, paragrafo 5, e con l’articolo 61 dell’Udlændingeloven (legge sugli stranieri) ( 3 ) nel periodo dal 22 agosto 2010 al 22 agosto 2011, avendo fatto scalo più di 25 volte in porti danesi con quattro navi immatricolate nel DIS con a bordo membri dell’equipaggio provenienti da paesi terzi ( 4 ) privi del permesso di lavoro e non dispensati dal requisito di essere muniti di detto permesso ai sensi dell’articolo 14 della legge sugli stranieri. La VAS Shipping è stata riconosciuta colpevole della violazione di cui trattasi dal giudice di primo grado ed è stata condannata a una sanzione pecuniaria di 1500000 corone danesi (DKK).

5.

Il giudice in questione ha ritenuto che l’obbligo del permesso di lavoro costituisse una restrizione non discriminatoria alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 54 TFUE, ma che detta restrizione fosse giustificata dall’esigenza di non pregiudicare il mercato del lavoro danese. La VAS Shipping ha impugnato tale sentenza dinanzi al giudice del rinvio.

6.

Con la sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede, in sostanza, se l’articolo 49 TFUE, concernente la libertà di stabilimento, osti a una normativa di uno Stato membro come quella di cui trattasi, ai sensi della quale i cittadini di paesi terzi, membri dell’equipaggio di una nave battente bandiera di tale Stato membro e di proprietà di un armatore cittadino di un altro Stato membro dell’Unione, devono essere muniti di permesso di lavoro, salvo che la nave faccia scalo nei porti dello Stato membro di bandiera al massimo 25 volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente.

7.

A quanto risulta, le parti nel procedimento principale concordavano, inizialmente, sul fatto che le misure danesi di cui trattasi costituissero una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Sembra che, in seguito, le parti si siano concentrate sulla questione se tali misure potessero essere giustificate da motivi imperativi di interesse generale. Tuttavia, in seguito, la Commissione ha messo in dubbio tale tesi nelle sue memorie.

8.

Occorre quindi analizzare nel dettaglio la nozione di «restrizione alla libertà di stabilimento» ai sensi dell’articolo 49 TFUE ed esaminare in che modo tale nozione possa essere applicata dal giudice del rinvio nell’ambito del procedimento principale dinanzi ad esso pendente.

9.

Prima di esaminare tale questione, occorre anzitutto illustrare gli atti normativi dell’Unione e nazionali pertinenti, nonché i fatti del procedimento principale come presentati dal giudice del rinvio.

II. Contesto normativo

A. Diritto internazionale

10.

La convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, firmata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 (in prosieguo: l’«UNCLOS»), è entrata in vigore il 16 novembre 1994. Essa è stata approvata, a nome della Comunità europea, con decisione 98/392/CE del Consiglio, del 23 marzo 1998, concernente la conclusione, da parte della Comunità europea, della convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 10 dicembre 1982 e dell’accordo del 28 luglio 1994 relativo all’attuazione della parte XI della convenzione (GU 1998, L 179, pag. 1).

11.

L’articolo 91, paragrafo 1, dell’UNCLOS così dispone:

«Ogni Stato stabilisce le condizioni che regolamentano la concessione alle navi della sua nazionalità, dell’immatricolazione nel suo territorio, del diritto di battere la sua bandiera. Le navi hanno la nazionalità dello Stato di cui sono autorizzate a battere bandiera. Fra lo Stato e la nave deve esistere un legame effettivo».

12.

Sotto la rubrica «Posizione giuridica delle navi», l’articolo 92, paragrafo 1, dell’UNCLOS dispone quanto segue:

«Le navi battono la bandiera di un solo Stato e (...) nell’alto mare sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva. (…)».

13.

L’articolo 94 dell’UNCLOS, rubricato «Obblighi dello Stato di bandiera», prevede quanto segue:

«1.   Ogni Stato esercita efficacemente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera.

2.   In particolare ogni Stato:

(…)

b)

esercita la propria giurisdizione conformemente alla propria legislazione, su tutte le navi che battono la sua bandiera, e sui rispettivi comandanti, ufficiali ed equipaggi, in relazione alle questioni di ordine amministrativo, tecnico e sociale di pertinenza delle navi».

B. Diritto danese

1.   Legge sugli stranieri

14.

L’articolo 13 della legge sugli stranieri così dispone:

«1. Gli stranieri devono avere un permesso di lavoro per esercitare un’attività lavorativa retribuita o non retribuita, per esercitare un’attività autonoma o per prestare servizi a titolo gratuito o oneroso in Danimarca. Il permesso di lavoro è richiesto anche per un’attività lavorativa su una nave o su un aeromobile danese che arriva regolarmente in un porto o in un aeroporto danese, nell’ambito di servizi di linea o altrimenti. Tuttavia, si fa riferimento all’articolo 14.

2. Il Ministero dei Rifugiati, dell’Immigrazione e dell’Integrazione stabilisce in che misura i permessi di lavoro sono richiesti per lavorare nel mare territoriale o nella piattaforma continentale».

15.

L’articolo 14 della legge sugli stranieri così dispone:

«I seguenti stranieri sono dispensati dal requisito del permesso di lavoro:

1)

gli stranieri cittadini di un altro paese nordico ai sensi dell’articolo 1.

2)

gli stranieri soggetti alla normativa dell’Unione europea, ai sensi degli articoli 2 e 6.

3)

gli stranieri titolari di un permesso di soggiorno permanente.

(…)

2. Il Ministero dei Rifugiati, dell’Immigrazione e dell’Integrazione può stabilire che altri stranieri siano dispensati dal requisito del permesso di lavoro».

16.

L’articolo 59 della legge sugli stranieri così dispone:

«(…)

4. È punito con una pena pecuniaria o con la reclusione fino a 2 anni chiunque impieghi uno straniero senza il permesso di lavoro richiesto o in violazione delle condizioni previste per un permesso di lavoro.

5. Nella determinazione della pena ai sensi del paragrafo 4 costituisce una circostanza aggravante il fatto che il reato sia stato commesso con dolo o colpa grave, che con il reato l’autore abbia ottenuto o perseguito un vantaggio economico per sé o per altri o che lo straniero non abbia il diritto di soggiornare nel territorio nazionale».

17.

L’articolo 61 della legge sugli stranieri così dispone:

«Le società (persone giuridiche) possono incorrere in responsabilità penale, secondo le norme del Capo 5 del codice penale».

2.   Decreto sugli stranieri

18.

All’epoca dei fatti che hanno dato luogo al procedimento penale, l’articolo 33 del bekendtgørelse nr. 270 af 22. marts 2010 om udlændinges adgang her til landet (decreto n. 270, del 22 marzo 2010, relativo all’ingresso degli stranieri nel territorio nazionale; in prosieguo: il «decreto sugli stranieri»), così disponeva:

«I seguenti stranieri sono dispensati dal requisito del permesso di lavoro:

(…)

4)

Il personale delle navi da carico danesi nell’ambito del traffico internazionale, che fanno scalo nei porti danesi non più di venticinque volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente, indipendentemente dall’anno civile, se a tal fine è richiesto un permesso di lavoro, conformemente all’articolo 13, paragrafo 1, seconda frase, della legge sugli stranieri.

(…)» ( 5 ).

3.   Søloven (codice della navigazione)

19.

L’articolo 103 del Søloven (codice della navigazione; consolidato, da ultimo, nella legge n. 1505 del 17 dicembre 2018) dispone quanto segue:

«Per una nave di proprietà congiunta di più caratisti deve essere scelto un armatore gerente.

2. Può essere scelto come armatore gerente una persona fisica, una società per azioni o una società responsabile che soddisfi i requisiti di cui, rispettivamente, all’articolo 1, paragrafo 2, punti 1 e 3».

20.

L’articolo 104 del codice della navigazione prevede quanto segue:

«Nei confronti dei terzi, l’armatore gerente è autorizzato, in forza della sua qualità, a concludere tutti gli atti giuridici che un’attività di navigazione abitualmente comporta. Quest’ultimo può così assumere, licenziare e dare direttive al capitano della nave, sottoscrivere le assicurazioni abituali e ricevere denaro versato alla società di navigazione. L’armatore gerente non può, senza specifica autorizzazione, vendere la nave o darla in pegno per un periodo superiore a un anno».

4.   Norme sul registro navale internazionale danese (DIS)

21.

Le norme che disciplinavano il DIS all’epoca dei fatti che hanno dato luogo al procedimento penale risultavano dalla legge n. 273 dell’11 aprile 1997, come modificata dalle leggi n. 460 del 31 maggio 2000, n. 526 del 7 giugno 2006, e n. 214 del 24 marzo 2009. L’articolo 10 della legge n. 273, come modificata, così dispone:

«1. I contratti collettivi relativi alla retribuzione e alle condizioni di lavoro dei dipendenti delle navi immatricolate nel registro devono indicare espressamente che essi si applicano soltanto a tale occupazione.

2. I contratti collettivi di cui al paragrafo 1, conclusi da un’organizzazione sindacale danese, possono riguardare soltanto persone che risiedono in Danimarca o che, in forza del diritto dell’Unione o di altri obblighi internazionali assunti, devono essere equiparate a persone considerate residenti in Danimarca.

(…)».

III. Fatti del procedimento principale e questioni pregiudiziali

22.

La VAS Shipping è accusata di aver impiegato, tra il 22 agosto 2010 e il 22 agosto 2011, facendo scalo più di 25 volte in porti danesi con quattro navi immatricolate nel DIS, lavoratori provenienti da paesi terzi privi di un permesso di lavoro e non dispensati dal requisito di possedere siffatto permesso ai sensi dell’articolo 14 della legge sugli stranieri.

23.

La VAS Shipping è l’armatore gerente ai sensi dell’articolo 103 del codice della navigazione di quattro società di navigazione di proprietà congiunta. I caratisti sono società per azioni svedesi.

24.

La VAS Shipping, registrata in Danimarca, è detenuta al 100% dalla società svedese Sirius Rederi AB. La VAS Shipping è stata costituita il 16 marzo 2010 ed è gestita da un direttore residente in Svezia e da tre amministratori, di cui due residenti in Danimarca. Secondo le informazioni fornite, tutte le riunioni del consiglio di amministrazione della società si tengono in Danimarca e tutte le riunioni delle società di navigazione di proprietà congiunta si sono tenute in Danimarca dopo l’immatricolazione nel DIS delle quattro navi di cui trattasi.

25.

Le quattro società di navigazione di proprietà congiunta hanno scelto di esercitare un’attività di navigazione in Danimarca, immatricolando nel DIS le quattro navi di cui trattasi e designando la VAS Shipping come armatore gerente. Di conseguenza, in forza dell’articolo 104 del codice della navigazione, la VAS Shipping disponeva di autorità precettiva per compiere tutti gli atti giuridici abitualmente compiuti da una società di navigazione.

26.

Secondo il giudice del rinvio, le società di navigazione di proprietà congiunta esercitano un’attività economica in Danimarca mediante le quattro navi di cui trattasi, e l’immatricolazione nel DIS non può, quindi, essere scissa dall’esercizio della libertà di stabilimento ( 6 ). La VAS Shipping ha dichiarato che nessun marinaio, cittadino di un paese terzo, lascia la nave in nessun momento durante gli scali nei porti danesi e che tutti i lavori sulla terraferma sono svolti da personale danese in loco, dipendente del porto di scalo ( 7 ).

27.

Il 4 maggio 2018, il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense, Danimarca) ha ritenuto che la VAS Shipping avesse violato le disposizioni della legge sugli stranieri. Esso ha altresì dichiarato che le disposizioni della legge sugli stranieri costituivano una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE, in combinato disposto con l’articolo 54 TFUE, ma che detta restrizione era giustificata da motivi imperativi di interesse generale e non si spingeva oltre quanto necessario. Secondo tale giudice, le norme della legge sugli stranieri riguardanti gli equipaggi di paesi terzi erano giustificate dall’esigenza di non pregiudicare il mercato del lavoro danese, dato che la manodopera di paesi terzi dispone di un vantaggio concorrenziale rispetto a quella danese a causa del livello dei salari. Il requisito del permesso di lavoro è uno strumento efficace per garantire la stabilità del mercato del lavoro ed evitare così perturbazioni nel mercato del lavoro nazionale. Di conseguenza, il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense) ha constatato la legittimità di tali restrizioni e condannato la VAS Shipping a una sanzione pecuniaria pari a DKK 1500000 conformemente all’articolo 59, paragrafi 4 e 5, e all’articolo 61 della legge sugli stranieri ( 8 ).

28.

Il giudice del rinvio rileva che è pacifico tra le parti che il requisito del permesso di lavoro previsto all’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri, in combinato disposto con l’articolo 33, paragrafo 4, del decreto sugli stranieri, può costituire una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE. L’intento di garantire la stabilità del mercato del lavoro ed evitare così perturbazioni può, in linea di principio, giustificare restrizioni alla libera circolazione ( 9 ). Il giudice del rinvio dichiara che, in una serie di sentenze, la Corte si è pronunciata sugli elementi da prendere in considerazione, alla luce delle norme del trattato FUE, nell’ambito dell’esame della proporzionalità delle restrizioni alla libertà di un datore di lavoro di scegliere i propri lavoratori. Tuttavia, tale giurisprudenza riguarda principalmente i rapporti con le norme in materia di servizi. Di conseguenza, le decisioni pregresse della Corte non forniscono indicazioni attendibili per valutare il rapporto tra la normativa danese di cui trattasi e l’articolo 49 TFUE relativo alla libertà di stabilimento. Il giudice del rinvio ritiene, pertanto, che una decisione sulla questione se l’articolo 49 TFUE osti a norme analoghe alle norme danesi sul requisito del permesso di lavoro in relazione ai cittadini di paesi terzi che lavorano su navi battenti bandiera danese e di proprietà di armatori cittadini di un altro Stato membro dell’Unione sia necessaria per consentirgli di pronunciarsi nell’ambito del procedimento di cui è investito.

29.

In tali circostanze, l’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca) ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia la seguente questione pregiudiziale:

«Se l’articolo 49 TFUE osti a una normativa di uno Stato membro che prevede che i cittadini di paesi terzi, membri dell’equipaggio di una nave battente bandiera di tale Stato membro e di proprietà di un armatore cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea, debbano essere muniti di permesso di lavoro, salvo che la nave faccia scalo nei porti dello Stato membro al massimo venticinque volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente».

IV. Procedimento dinanzi alla Corte

30.

La VAS Shipping, i governi danese e dei Paesi Bassi, nonché la Commissione europea, hanno presentato osservazioni scritte.

31.

Nonostante l’affermazione del giudice del rinvio secondo cui è pacifico tra le parti che il requisito del permesso di lavoro può costituire una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE, la Commissione si è interrogata, nelle sue osservazioni, sulla questione se il requisito previsto dalla normativa danese, ai sensi del quale i membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, a bordo di una nave battente bandiera di uno Stato membro e di proprietà di un armatore cittadino di un altro Stato membro dell’Unione devono possedere un permesso di lavoro, salvo che la nave faccia scalo in porti dello Stato membro al massimo 25 volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno anteriore, costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento.

32.

Il 15 dicembre 2020 la Corte ha deciso, sulla base dell’articolo 61, paragrafo 1, del suo regolamento di procedura, di invitare le parti e gli interessati di cui all’articolo 23 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, diversi dalla Commissione, a prendere posizione per iscritto sulla tesi di quest’ultima, espressa nelle sue osservazioni scritte, secondo cui la normativa danese di cui trattasi nel procedimento principale non costituisce una «restrizione» ai sensi dell’articolo 49 TFUE.

33.

La VAS Shipping e i governi danese e dei Paesi Bassi hanno presentato ulteriori osservazioni o osservazioni aggiuntive al riguardo. Mentre la VAS Shipping conferma la sua posizione secondo cui le misure nazionali in questione costituiscono una restrizione alla libertà di stabilimento, i governi danese e dei Paesi Bassi sono ora dell’avviso che tali misure non costituiscano una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE ( 10 ). È in tale contesto che posso accingermi ad esaminare i problemi sollevati.

V. Analisi

A. Sull’esistenza di una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE

1.   Sull’applicabilità dell’articolo 49 TFUE

34.

Nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice del rinvio chiede l’interpretazione dell’articolo 49 TFUE e delle norme in materia di libertà di stabilimento. Tale giudice non mira a ottenere l’interpretazione dell’articolo 56 TFUE, concernente la libera prestazione dei servizi, né, di fatto, di alcuna altra disposizione del trattato FUE. Inoltre, il giudice del rinvio non ha chiesto, ad esempio, un’interpretazione dell’articolo 79, paragrafo 5, TFUE ai sensi del quale l’articolo 79 TFUE «non incide sul diritto degli Stati membri di determinare il volume di ingresso nel loro territorio dei cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, allo scopo di cercarvi un lavoro dipendente o autonomo». Inoltre, le parti e gli interessati non hanno presentato osservazioni al riguardo, ad eccezione del governo dei Paesi Bassi. Non è stata neppure sollevata alcuna questione per quanto concerne i diritti dei lavoratori marittimi, ad esempio il loro diritto di circolazione all’interno dell’Unione e i loro diritti e obblighi all’atto dell’attraversamento delle sue frontiere esterne ( 11 ).

35.

L’articolo 49 TFUE impone la soppressione delle restrizioni alla libertà di stabilimento dei cittadini di uno Stato membro nel territorio di un altro Stato membro. Tale disposizione, in combinato disposto con l’articolo 54 TFUE, accorda il beneficio della libertà di stabilimento alle società costituite in conformità alla legislazione di uno Stato membro e con la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno dell’Unione europea ( 12 ).

36.

Poiché la libertà di stabilimento intende permettere a un cittadino dell’Unione di partecipare, in maniera stabile e continuativa, alla vita economica di uno Stato membro diverso dal proprio Stato di origine e di trarne vantaggio, la nozione di «stabilimento» di cui alle disposizioni del trattato FUE relative alla libertà di stabilimento implica l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile in un altro Stato membro. Secondo la Corte, tale libertà presuppone un insediamento effettivo della società interessata nello Stato membro ospite e l’esercizio quivi di un’attività economica reale ( 13 ).

37.

La Corte ha statuito che l’immatricolazione di una nave non implica necessariamente uno stabilimento a norma del trattato FUE, specie ove la nave non venga utilizzata per l’esercizio di un’attività economica o quando la domanda d’immatricolazione sia proposta da una persona, o per conto di una persona, che non si è stabilita né si stabilirà nello Stato membro considerato. Tuttavia, nell’ipotesi in cui la nave costituisca un mezzo per l’esercizio di un’attività economica, implicante un insediamento in pianta stabile nello Stato membro considerato, la sua immatricolazione non può essere scissa dall’esercizio della libertà di stabilimento ( 14 ).

38.

Dagli elementi di fatto esposti dal giudice del rinvio sembrerebbe quindi emergere che gli articoli 49 e 54 TFUE siano applicabili nel caso di specie. A tal riguardo, le quattro società svedesi di proprietà congiunta hanno immatricolato quattro navi nel DIS e hanno designato la VAS Shipping, una società con sede in Danimarca e detenuta al 100% da una società svedese, quale armatore gerente delle navi. Inoltre, le quattro navi di cui trattasi sono utilizzate dalle quattro compagnie di navigazione di proprietà congiunta per esercitare un’attività economica.

39.

Nonostante l’affermazione, contenuta nella domanda di pronuncia pregiudiziale, relativa all’esistenza di una restrizione alla libertà di stabilimento ( 15 ), è ora opportuno esaminare se detta restrizione esista. Anzitutto, esporrò le osservazioni presentate alla Corte e, in seguito, la giurisprudenza sulla nozione di «restrizione». In seguito, suggerirò di esaminare tale nozione nel contesto della presente causa.

2.   Nozione di «restrizione»

a)   Argomenti

40.

Suggerisco, anzitutto, di riassumere le osservazioni della Commissione al riguardo. Infatti, tali osservazioni hanno dato luogo a un quesito scritto della Corte e, in seguito, alle osservazioni delle altre parti e degli interessati al riguardo.

41.

La Commissione ritiene che, per valutare se una misura nazionale costituisca una restrizione alla libertà di stabilimento, occorra stabilire se un obbligo imposto dal diritto nazionale a nuovi operatori, nella fattispecie un permesso di lavoro per i cittadini di paesi terzi, crei ostacoli all’accesso al mercato e se li privi della possibilità di competere efficacemente con gli operatori stabiliti ( 16 ). Secondo la Commissione, una misura non costituisce necessariamente una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE per il solo fatto che il vantaggio economico e l’incentivo a esercitare un’attività economica sono minori rispetto a quanto accadrebbe se la misura non trovasse applicazione. In assenza di armonizzazione, gli Stati membri sono competenti, in linea di principio, a disciplinare l’esercizio delle attività economiche nel loro territorio, e se una misura non opera alcuna discriminazione, di diritto o di fatto, essa dovrebbe essere considerata una restrizione alla libertà di stabilimento soltanto qualora incida sull’accesso al mercato ( 17 ). A tale riguardo, la Commissione richiama la sentenza del 14 luglio 1994, Peralta (C‑379/92, EU:C:1994:296, punto 34), nella quale la Corte ha dichiarato che, in mancanza di armonizzazione, uno Stato membro può, direttamente o indirettamente, imporre regole tecniche, che sono proprie ad esso e che non si ritrovano necessariamente negli altri Stati membri. Secondo la Corte, «le difficoltà che possono derivarne per queste imprese non pregiudicano la libertà di stabilimento (...). Infatti, queste difficoltà non hanno in via di principio una natura diversa da quelle che possono avere la loro origine nelle disparità tra le legislazioni nazionali, relative ad esempio al costo del lavoro, agli oneri sociali o al regime fiscale».

42.

Nelle sue osservazioni iniziali, la VAS Shipping ha affermato che, poiché la normativa danese in questione riguarda soltanto le navi battenti bandiera danese, tali norme ostacolano o rendono meno attrattivo l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della loro libertà di stabilimento garantita dal trattato FUE. Essa sostiene che una misura nazionale che imponga, pena sanzioni penali, un limite massimo al numero di scali che possono essere effettuati annualmente in un porto di tale Stato membro da una nave ivi immatricolata, di proprietà di persone stabilite in un altro Stato membro e con un equipaggio composto da cittadini di paesi terzi, non può essere scissa dalle condizioni di immatricolazione di una nave in tale Stato membro. Ciò vale, in particolare, quando la norma nazionale si applica soltanto alle navi immatricolate nello Stato membro in questione, mentre le navi non immatricolate in tale Stato possono fare scalo liberamente e senza restrizioni nei porti di quest’ultimo, indipendentemente dalla cittadinanza dei membri dell’equipaggio.

43.

La VAS Shipping ritiene che la restrizione imposta dall’articolo 13, paragrafo 1, seconda frase, della legge sugli stranieri, in combinato disposto con l’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri sia equivalente alla restrizione constatata dalla Corte nella sua sentenza del 14 ottobre 2004, Commissione/Paesi Bassi (C‑299/02, EU:C:2004:620), poiché tali disposizioni implicano che gli armatori stabiliti in Svezia che intendano immatricolare la loro nave nel DIS ed esercitare un’attività di navigazione marittima in Danimarca, facendo scalo in porti danesi più di 25 volte all’anno, non avrebbero altra scelta se non quella di modificare la loro politica di assunzione in modo tale da escludere dall’equipaggio della nave tutti i cittadini di Stati che non appartengono all’Unione europea o al SEE. Ne conseguirebbe un cambiamento radicale e sostanziale della loro politica di assunzione, che determinerebbe uno svantaggio e un’ingerenza economica notevoli.

44.

Nelle sue osservazioni iniziali, nonché nella sua risposta al quesito posto dalla Corte, la VAS Shipping sostiene che il salario netto versato da quest’ultima ai cittadini di paesi terzi è conforme alle norme stabilite dalla normativa danese per quanto concerne una nave immatricolata nel DIS e che non si tratta di un salario inferiore a quello fissato nel contratto collettivo.

45.

Nella sua risposta al quesito posto dalla Corte, la VAS Shipping osserva che i comproprietari svedesi delle navi di cui trattasi operano in numerosi altri Stati membri, tra cui la Svezia. Inoltre, la VAS Shipping ritiene che le osservazioni della Commissione in merito all’esistenza di una restrizione e alla sua giustificazione si basino su un’interpretazione fondamentalmente errata dell’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri. Pertanto, la VAS Shipping insiste sul fatto che l’immatricolazione nel DIS o in qualsiasi altro registro navale danese non è pertinente ai fini della regola dei 25 scali prevista all’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri. Conformemente a tale disposizione, soltanto le navi in traffico internazionale potrebbero beneficiare della regola dei 25 scali, indipendentemente dalla loro immatricolazione nel DIS. Una nave non sarebbe considerata impiegata nel traffico internazionale per effetto della sua immatricolazione nel DIS.

46.

Secondo la VAS Shipping, una nave impiegata nel traffico internazionale è definita, in particolare, dalla circostanza che attraversa regolarmente frontiere internazionali e, quindi, non si potrebbe parlare, di fatto, di un «luogo di lavoro in Danimarca», né si potrebbe operare un’analogia con le attività lavorative di terra. Poiché la nave è qualificata come impiegata nel traffico internazionale, essa non naviga esclusivamente in acque danesi, sicché non vi è alcuna ragione per ritenere che vi sia un nesso stabile o duraturo con la Danimarca. Pertanto, anche supponendo che le navi restino qualificate come impiegate nel traffico internazionale, l’elemento di collegamento per ciascuno scalo sarebbe temporaneo. Inoltre, la regola dei 25 scali non si applica al traffico nazionale.

47.

La VAS Shipping ritiene che, conformemente alla sentenza del 14 ottobre 2004, Commissione/Paesi Bassi (C‑299/02, EU:C:2004:620, punti 1932), la nozione di «restrizione alla libertà di stabilimento» si estenda al di là del momento dell’immatricolazione di una nave, come sostenuto dalla Commissione. Anche gli ostacoli che incidono sulla gestione corrente di una nave possono costituire una restrizione.

48.

Nelle sue osservazioni iniziali, il governo danese ha ritenuto che, nella presente causa, la questione si spingesse oltre la mera applicazione dell’articolo 49 TFUE e vertesse sulla circostanza se gli Stati membri possano esigere dai cittadini di paesi terzi l’ottenimento di un permesso di lavoro nel caso in cui lavorino durevolmente nello Stato di origine. Secondo tale governo, il numero e la frequenza di scali in porti danesi di una nave stabilita in Danimarca riveste notevole importanza per valutare in quale misura i membri dell’equipaggio esercitino attività lavorative in Danimarca. Se gli scali sono rari, non si può ritenere che essi producano un impatto significativo sul mercato del lavoro danese. Di converso, quando i membri dell’equipaggio della nave svolgono regolarmente compiti quali il carico e lo scarico di merci durante scali in porti danesi, il fatto che i membri dell’equipaggio siano cittadini di paesi terzi può compromettere la stabilità del mercato del lavoro danese. Il requisito di un permesso di lavoro sorge per effetto del numero di volte che ciascuna nave effettua scali in porti danesi, e non tanto del numero di volte che ogni singolo membro dell’equipaggio, cittadino di uno paese terzo, si trova a bordo di una nave che fa scalo in porti danesi. Ciò poiché il numero di volte che una nave con membri dell’equipaggio di un paese terzo effettua uno scalo incide sul momento in cui la nave acquisisce un nesso sufficientemente stabile e regolare con il mercato del lavoro danese come luogo di lavoro e, dunque, tale da esigere che i lavoratori di tale nave siano muniti di un permesso di lavoro conformemente alla normativa danese. Inoltre, la verifica del numero di scali di membri dell’equipaggio che potrebbero aver lavorato su diverse navi nel corso dell’anno richiederebbe iscrizioni dettagliate e superflue. Tale governo ritiene che la soglia minima di 25 scali annuali rappresenti una definizione equilibrata della regolarità degli scali di una nave in porti danesi, idonea a presumere che i suoi membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, siano collegati al mercato del lavoro danese in modo sufficientemente stabile e, quindi, siano soggetti al requisito del permesso di lavoro.

49.

Il governo danese, nella sua risposta al quesito posto dalla Corte, condivide la posizione della Commissione, esposta al paragrafo 41 delle presenti conclusioni. Inoltre, esso ritiene che la sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 12), possa essere interpretata nel senso che, ai fini della constatazione di una restrizione alla libertà di stabilimento, richiede un serio ostacolo all’esercizio di attività che incidono sull’accesso al mercato. Pertanto, secondo tale governo, poiché gli Stati membri sono, in linea di principio, competenti a disciplinare l’esercizio di un’attività economica nel loro territorio, se una misura non è discriminatoria, in diritto o in fatto, essa dovrebbe essere considerata un ostacolo alla libertà di stabilimento soltanto qualora incida sull’accesso al mercato. Il governo danese ritiene che la sentenza del 29 marzo 2011, Commissione/Italia (C‑565/08, EU:C:2011:188), relativa alle tariffe massime praticate dagli avvocati, dimostri che norme nazionali che non incidono sulla possibilità di esercitare una concorrenza non costituiscono una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Secondo tale governo, se un operatore ha avuto ( 18 ) accesso al mercato, esso deve operare alle stesse condizioni degli altri operatori. Una volta ottenuto accesso al mercato, un operatore potrebbe essere tutelato soltanto contro le discriminazioni dirette e indirette ( 19 ). Il governo danese ritiene quindi che la misura nazionale di cui trattasi nel procedimento principale non impedisca ai nuovi operatori di competere efficacemente con le imprese marittime danesi e che essa non costituisca una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE.

50.

Anche il governo dei Paesi Bassi, nella sua risposta al quesito posto dalla Corte, condivide la posizione della Commissione sull’esistenza di una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Nelle sue osservazioni iniziali, il governo dei Paesi Bassi ha ritenuto che l’articolo 79, paragrafo 5, TFUE autorizzi la Danimarca a esigere un permesso di lavoro al momento dell’ingresso dei membri dell’equipaggio nel mercato del lavoro danese, ossia quando questi arrivano regolarmente in porti danesi, e che ciò permetta di controllare il numero di cittadini di paesi terzi nel suo territorio. Poiché il requisito di un permesso di lavoro per l’attività di cui trattasi è disciplinato dal diritto nazionale, il governo dei Paesi Bassi si chiede se un esame alla luce dell’articolo 49 TFUE sia appropriato.

b)   Osservazioni preliminari

51.

Tengo anzitutto a sottolineare che la presente causa non riguarda il diritto tributario, che, evidentemente, segue regole in una certa misura differenti per quanto attiene alla nozione di «restrizione alla libertà di stabilimento» ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Come rilevato dalla Commissione nelle sue osservazioni ( 20 ), mi riferisco a quel filone giurisprudenziale nel quadro del quale la Corte, talora, non rinvia al criterio enunciato nelle sue sentenze del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32) e del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 11), ma effettua un confronto fra gli effetti delle misure sugli operatori nazionali e non nazionali. Di fatto, tuttavia, la maggior parte delle misure fiscali costituisce (almeno sotto un determinato profilo) una restrizione allo stabilimento poiché, per definizione, l’esistenza di una misura fiscale, anche se di applicazione generale, incide sulla capacità di un’impresa di esercitare le sue attività in tale Stato membro. Sotto tale profilo, dunque, i casi concernenti misure fiscali possono essere considerati sui generis per quanto concerne la libertà di stabilimento.

52.

Sebbene, attualmente, nel settore della libertà di stabilimento non vi sia un equivalente all’approccio basato sul «criterio di ragionevolezza» adottato dalla Corte nella sua sentenza del 24 novembre 1993, Keck e Mithouard (C‑267/91 e C‑268/91, EU:C:1993:905) ( 21 ) in materia di libera circolazione delle merci, nell’ambito della quale è operata una distinzione tra le normative che incidono sui prodotti e quelle che incidono sulle loro modalità di vendita ( 22 ), nella giurisprudenza della Corte relativa alla libertà di stabilimento è tuttavia possibile rinvenire talune distinzioni relative alla nozione di «restrizione», in funzione della natura delle norme di cui trattasi.

53.

A tal riguardo, la Corte ha precisato che, allo stato attuale dell’armonizzazione del diritto tributario dell’Unione, gli Stati membri godono di una certa autonomia. L’autonomia fiscale implica, ad esempio, che gli Stati membri sono liberi di determinare i presupposti ed il livello di imposizione delle diverse forme di centri di attività delle società nazionali operanti all’estero, salvo accordare loro un trattamento che non sia discriminatorio rispetto ai centri di attività nazionali comparabili ( 23 ).

c)   Misure che ostacolano o scoraggiano l’esercizio della libertà di stabilimento

54.

In settori diversi da quello fiscale, secondo una giurisprudenza costante, l’articolo 49 TFUE osta a qualsiasi provvedimento nazionale che, anche se si applica senza discriminazioni in base alla cittadinanza, può ostacolare o scoraggiare, l’esercizio, da parte dei cittadini dell’Unione, della libertà di stabilimento garantita dal trattato FUE ( 24 ).

55.

Ciò su cui si interrogano, in particolare, la Commissione e il governo danese, è la portata della nozione di «misure che ostacolano o scoraggiano» l’esercizio della libertà di stabilimento e la sua applicazione concreta nell’ambito della presente causa.

56.

Occorre sottolineare sin dall’inizio che le norme di uno Stato membro non costituiscono una restrizione ai sensi del trattato FUE per il solo fatto che altri Stati membri applichino norme meno restrittive o economicamente più favorevoli nei loro territori ( 25 ). Inoltre, in assenza di armonizzazione delle attività di cui trattasi nel procedimento principale, gli Stati membri restano, in linea di principio, competenti a disciplinare l’esercizio di tali attività. Tuttavia, essi devono esercitare i loro poteri in tale settore nel rispetto delle libertà fondamentali garantite dal trattato FUE ( 26 ).

57.

La Corte ha precisato che nella nozione di «restrizione» ai sensi dell’articolo 49 TFUE rientrano, in particolare, le misure adottate da uno Stato membro che, pur applicabili indistintamente ( 27 ), pregiudicano l’accesso al mercato ( 28 ). La questione che occorre porsi nella presente causa, in particolare alla luce delle osservazioni del governo danese e della Commissione ( 29 ), è se soltanto le misure che ostacolano o scoraggiano l’accesso iniziale o l’accesso di nuovi operatori al mercato o che siano discriminatorie costituiscano una restrizione alla libertà di stabilimento.

58.

Restrizioni evidenti alla libertà di stabilimento e, di fatto, all’accesso a qualsiasi mercato, sono i requisiti previsti dal diritto nazionale al fine di ottenere l’autorizzazione a stabilirsi in uno Stato membro o a esercitarvi una determinata attività. A tal riguardo, secondo una giurisprudenza costante, costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE, in particolare, una normativa nazionale che subordini lo stabilimento di un’impresa di un altro Stato membro al rilascio di un’autorizzazione preventiva, poiché essa può ostacolare l’esercizio, da parte di questa impresa, della libertà di stabilimento, impedendole di esercitare liberamente le proprie attività tramite una stabile organizzazione ( 30 ). Rilevo che tali requisiti potrebbero parimenti pregiudicare cittadini o persone giuridiche dello Stato membro di stabilimento. Tuttavia, in tali casi, la Corte non ha richiesto l’esistenza di una forma di discriminazione per accertare una restrizione a tale riguardo ( 31 ).

59.

La sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586), citata dalla Commissione e dal governo danese, offre utili chiarimenti sulla nozione di «restrizione» nel settore della libertà di stabilimento ( 32 ).

60.

In tale causa, la Corte ha dichiarato che il divieto di remunerazione dei conti di deposito a vista ( 33 ), previsto dal diritto francese, costituiva, per le società di altri Stati membri, un serio ostacolo all’esercizio delle loro attività in Francia tramite filiali e, dunque, pregiudicava il loro accesso al mercato. Secondo la Corte, tale divieto impediva alle filiali di società straniere di raccogliere capitali presso il pubblico, privandole della possibilità di porre in essere una concorrenza più efficace, mediante la remunerazione dei conti di deposito a vista, nei confronti degli enti creditizi tradizionalmente operanti nello Stato membro di stabilimento, dotati di una rete di agenzie estesa e che disponevano, conseguentemente, di maggiori capacità, rispetto a dette filiali, nella raccolta di capitali presso il pubblico. Tale divieto costituiva, pertanto, una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE, poiché privava gli enti creditizi di un altro Stato membro che intendevano fare ingresso sul mercato di uno Stato membro della possibilità di competere per mezzo del tasso di remunerazione dei conti di deposito a vista, che costituiva uno dei metodi più efficaci a tal fine ( 34 ). Tale misura è stata censurata poiché aveva effettivamente operato, in concreto, a discapito dei nuovi operatori sul mercato provenienti da altri Stati membri.

61.

A mio avviso, la Corte, basandosi sulla sua giurisprudenza tradizionale ( 35 ), ha esaminato se le norme nazionali di cui trattasi impedissero o ostacolassero lo stabilimento nello Stato membro in questione. L’esistenza di un siffatto impedimento o ostacolo è necessariamente accertata nei casi in cui un’impresa non può competere efficacemente con le imprese già presenti a causa delle misure imposte dallo Stato membro in questione, che creano un serio ostacolo al suo accesso al mercato ( 36 ).

62.

Tuttavia, a mio avviso, dalla giurisprudenza della Corte risulta chiaramente che, anche in assenza di una discriminazione di fatto o di diritto, la nozione di «restrizione» non è limitata alle misure che ostacolano l’accesso al mercato di nuovi operatori. Pertanto, con tutto il rispetto, non condivido, in particolare, le osservazioni del governo danese e della Commissione al riguardo. La sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586), rappresenta un’applicazione specifica, sulla base delle circostanze di cui a tale causa ( 37 ), dell’ampio criterio concernente la nozione di «restrizione» menzionato al paragrafo 53 delle presenti conclusioni e precisato in modo ancor più chiaro dalla Corte nella sua sentenza del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32). Orbene, non vedo alcuna ragione cogente per discostarsi da tale criterio.

63.

Così, mentre la sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586) verte specificamente sulla questione dell’accesso al mercato di uno Stato membro da parte di un nuovo operatore ( 38 ), la nozione di «restrizione» è una nozione dinamica, che si estende oltre l’affermazione iniziale nel mercato di uno Stato membro e si riferisce anche all’esercizio effettivo di un’attività ( 39 ). Nella sua sentenza del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32), la Corte ha sancito un criterio unico, ampio e dinamico ai fini della nozione di «restrizione», che si estende a tutti gli aspetti e alle fasi ( 40 ) dello stabilimento in un altro Stato membro ( 41 ).

64.

Ritengo, quindi, che la Corte dovrebbe usare una certa cautela nel accettare l’invito ( 42 ) ad applicare, in sostanza, due criteri diversi ( 43 ) per quanto attiene alla nozione di «restrizione» in funzione della fase dello stabilimento di cui trattasi. A tal riguardo, ritengo che la linea di demarcazione tra l’accesso iniziale, lo svolgimento di un’attività e l’espansione in un dato mercato sia concettualmente sfocata, e qualsiasi tentativo di distinguere dette situazioni sarebbe, nella pratica, alquanto complesso, poiché si tratta, in tutti i casi, di situazioni idonee a rientrare nell’espressione «accesso al mercato» o, meglio ancora, nella nozione di «stabilimento» ( 44 ).

65.

Inoltre, l’esistenza di un ostacolo a una concorrenza effettiva non costituisce un criterio necessario ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Così, nella sua sentenza del 27 febbraio 2019, Associação Peço a Palavra e a. (C‑563/17, EU:C:2019:144, punti da 55 a 62), la Corte ha dichiarato che l’obbligo di mantenere il principale centro di attività nel territorio dello Stato membro interessato costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento di una società costituita in conformità alla legislazione di uno Stato membro. In tale causa, la Corte, anziché constatare una limitazione della possibilità di competere in maniera (più) efficace, ha ritenuto che la libertà di stabilimento comprendesse il diritto di trasferire il principale centro di attività della società in un altro Stato membro, il che impone, se tale trasferimento implica la trasformazione della società in una società rientrante nel diritto di quest’ultimo Stato membro e la perdita della sua cittadinanza d’origine, che siano soddisfatte le condizioni per la costituzione definite dalla legislazione di tale Stato membro di ricollocazione.

66.

Peraltro, nonostante il riferimento, nella sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 12), al fatto che la misura nazionale che vietava la remunerazione dei depositi a vista costituiva un «serio ostacolo» all’esercizio di un’attività ( 45 ), nel settore della libera circolazione la Corte ha evitato, a mio avviso, di adottare un approccio de minimis, ai sensi del quale una restrizione, per essere rilevante, dovrebbe produrre un certo specifico impatto o raggiungere una determinata soglia.

67.

Occorre tuttavia sottolineare il fatto che una misura non costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento qualora i suoi effetti su tale libertà ( 46 ) siano troppo aleatori, indiretti, vaghi, remoti o ipotetici ( 47 ). Inoltre, occorre ricordare che la libertà di stabilimento non si applica a questioni puramente interne ( 48 ).

d)   Applicazione della giurisprudenza in materia di restrizioni alla presente causa

1) Osservazioni preliminari

68.

Dal fascicolo dinanzi alla Corte sembra emergere, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che, conformemente all’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri, in combinato disposto con l’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri, se una nave da carico danese e, quindi, una nave da carico immatricolata in un registro marittimo danese ( 49 ), in traffico internazionale, fa scalo in porti danesi più di 25 volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente, i membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, a bordo della nave cessano di essere dispensati dal requisito di possedere un permesso di lavoro. A tal riguardo, il fatto che singoli membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, non siano stati presenti su tale nave nel corso dei 25 scali nei porti in questione appare irrilevante. Di conseguenza, sembra che la regola e le relative sanzioni penali siano incentrate sulla circostanza dell’ingresso in porti danesi, in un determinato numero di occasioni, di navi in traffico internazionale immatricolate in Danimarca, aventi a bordo membri dell’equipaggio cittadini di paesi terzi privi di un permesso di lavoro danese ( 50 ). A tale riguardo, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale il giudice del rinvio ha osservato che, secondo il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense), «[n]el modo in cui la normativa è stata applicata, solo gli scali delle navi erano decisivi».

69.

Peraltro, sebbene la VAS Shipping si sia impegnata molto, nelle sue osservazioni presentate alla Corte, per dimostrare che i salari netti pagati a bordo delle quattro navi di cui trattasi non sono inferiori a quelli versati conformemente ai contratti collettivi sulle retribuzioni e sulle condizioni di lavoro per quanto concerne le navi immatricolate nel DIS ( 51 ), non mi sembra, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che vi sia alcun nesso diretto tra il livello delle retribuzioni e il requisito del possesso del permesso di lavoro imposto ai cittadini di paesi terzi, in determinate circostanze, ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri, in combinato disposto con l’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri ( 52 ).

70.

Nessun elemento del fascicolo dinanzi alla Corte suggerisce che società marittime quali la VAS Shipping siano tenute a ricorrere a una determinata manodopera ( 53 ). Tuttavia, le misure in questione hanno prodotto l’effetto di obbligare tali società, in determinate circostanze, ad astenersi dall’assumere o impiegare come membri dell’equipaggio cittadini di paesi terzi privi di un permesso di lavoro. A mio avviso, un siffatto requisito potrebbe aumentare i costi di gestione, non da ultimo a causa dell’onere amministrativo da esso derivante.

71.

Infine, l’espressione «nell’ambito del traffico internazionale» figura all’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri. Tuttavia, nel fascicolo dinanzi alla Corte non è fornita alcuna spiegazione circa il suo significato. Posso soltanto supporre, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che essa sia collegata, in qualche modo, alla nozione di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettera e), del modello OCSE di convenzione fiscale sul reddito e sul patrimonio ( 54 ), ai sensi del quale «l’espressione “traffico internazionale” indica qualsiasi attività di trasporto effettuato per mezzo di una nave (...), ad eccezione del caso in cui la nave (...) operi esclusivamente tra località situate in uno Stato contraente e l’impresa che effettua l’attività di trasporto per mezzo della nave (...) non sia un’impresa di detto Stato» ( 55 ).

2) Analisi

72.

Occorre osservare che la VAS Shipping non ha sostenuto affatto il carattere direttamente o indirettamente discriminatorio di tali misure. A tale riguardo, esse risultano applicabili indipendentemente, ad esempio, dalla cittadinanza dei proprietari o dell’armatore gerente delle navi. Piuttosto, la VAS Shipping ritiene che l’effetto delle misure in questione sia tale per cui società di armamento svedesi che intendano immatricolare le loro navi nel DIS ed esercitare attività di navigazione in Danimarca, ivi compreso fare scalo in porti danesi più di 25 volte nel corso di un anno, non hanno altra scelta se non adeguare la loro politica di assunzione.

73.

La VAS Shipping non pone in discussione il procedimento di immatricolazione in sé, per quanto concerne l’iscrizione delle quattro navi di cui trattasi nel DIS.

74.

A tal riguardo, secondo una giurisprudenza costante, gli Stati membri sono tenuti al rispetto delle norme dell’Unione nell’esercizio della loro competenza a determinare le condizioni per l’iscrizione di una nave nei loro registri e per la concessione a detta nave del diritto di battere la loro bandiera ( 56 ). In proposito, nella sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a. (C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 23), la Corte ha precisato che condizioni prescritte per l’immatricolazione di una nave non devono creare ostacoli alla libertà di stabilimento. In tale causa, la Corte ha statuito che una condizione ai sensi della quale i proprietari o i noleggiatori di una nave devono essere cittadini di un determinato Stato o società costituite in tale Stato e, in quest’ultimo caso, i relativi azionisti e amministratori devono essere cittadini di detto Stato è in contrasto con l’articolo 49 TFUE.

75.

La VAS Shipping ritiene, tuttavia, che le misure di cui trattasi non possano essere dissociate dalle condizioni relative all’immatricolazione di una nave in un registro marittimo di uno Stato membro e al suo impiego in tale Stato. Ciò è particolarmente evidente, secondo la VAS Shipping, poiché tali misure riguardano soltanto le navi immatricolate in un registro marittimo dello Stato membro in questione, mentre le navi immatricolate in un altro Stato membro possono fare scalo liberamente in porti danesi, e la questione se il loro equipaggio includa cittadini di paesi terzi è irrilevante. La VAS Shipping ritiene quindi che le misure in questione costituiscano una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE.

76.

A mio avviso, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, l’immatricolazione di una nave nel DIS garantisce soltanto che tale nave acquisisca la nazionalità danese e batta bandiera danese. La nave e il suo equipaggio sono quindi sottoposti alla giurisdizione danese ( 57 ), in particolare, per quanto concerne il diritto del lavoro e le condizioni sociali, ivi comprese le norme applicabili all’assunzione e all’impiego di cittadini di paesi terzi.

77.

Infatti, nella sua sentenza del 25 febbraio 2016, Stroumpoulis e a. (C‑292/14, EU:C:2016:116, punto 65), la Corte ha ricordato che, conformemente all’articolo 94, paragrafi 1, e 2, lettera b), dell’UNCLOS, ogni Stato esercita effettivamente la propria giurisdizione e il proprio controllo su questioni di carattere amministrativo, tecnico e sociale sulle navi che battono la sua bandiera e che ogni Stato esercita, in particolare, la propria giurisdizione conformemente alla propria legislazione su tutte le navi che battono la sua bandiera, e sui rispettivi comandanti, ufficiali ed equipaggi, in relazione alle questioni di ordine amministrativo, tecnico e sociale di pertinenza delle navi.

78.

In altri contesti, com’è ovvio, la Corte ha seguito i precetti ordinari del diritto internazionale pubblico e ha ritenuto determinante il diritto dello Stato di bandiera. Così, ad esempio, nella sentenza del 5 febbraio 2004, DFDS Torline (C‑18/02, EU:C:2004:74, punto 44), la Corte ha dichiarato che, in presenza di un fatto illecito commesso a bordo di una nave danese immatricolata nel DIS (come le navi di cui trattasi nella presente causa), «lo Stato di bandiera dovrebbe necessariamente essere considerato come il luogo in cui l’evento dannoso ha cagionato i danni», ai sensi dell’articolo 5, paragrafo 3, della Convenzione di Bruxelles, che ha preceduto il regolamento di Bruxelles ( 58 ). Lo stesso ragionamento è applicabile, in via analogica, per quanto concerne i contratti e i permessi di lavoro, poiché il diritto danese segue la bandiera.

79.

Inoltre, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, sembrerebbe doversi ritenere che i membri dell’equipaggio, cittadini di un paese terzo, facciano ingresso nel mercato del lavoro danese e necessitino quindi di un permesso di lavoro per effetto del loro impiego a bordo delle quattro navi di cui trattasi, nel caso in cui tali navi facciano regolarmente scalo in porti danesi ( 59 ).

80.

In assenza di armonizzazione, e conformemente all’articolo 79, paragrafo 5, TFUE, gli Stati membri restano competenti a determinare il volume di ingresso nel loro territorio di cittadini di paesi terzi, provenienti da paesi terzi, al fine di cercarvi un lavoro.

81.

Ritengo pertanto che la Danimarca abbia il diritto, in linea di principio, di esigere, in forza dell’articolo 79, paragrafo 5, TFUE, il possesso di un permesso di lavoro dai membri dell’equipaggio di paesi terzi impiegati su navi battenti bandiera danese e sottoposte alla sua giurisdizione che, nell’ambito di servizi di linea o altrimenti, facciano regolarmente scalo in porti danesi. Infatti, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, sembra che, in questa situazione, detti membri dell’equipaggio accedano al mercato del lavoro danese ( 60 ). Tuttavia, in linea di principio, e con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, il mero fatto che cittadini di paesi terzi lavorino su una nave immatricolata in un registro navale danese e battente bandiera danese è sufficiente, di per sé, a far sorgere il diritto di tale Stato membro di imporre l’applicazione a tali lavoratori della normativa generale danese in materia di lavoro, condizioni di lavoro e permesso di lavoro. Ciò anche nel caso in cui detti cittadini di paesi terzi non abbiano mai navigato nel Kattegat o visto l’Øresund nel corso del loro impiego a bordo di tale nave immatricolata in Danimarca.

82.

Se l’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri, che ha imposto la regola dei 25 scali alle navi in traffico internazionale, è formulato come un’esenzione dall’obbligo, previsto all’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri, ai sensi del quale taluni membri dell’equipaggio devono possedere un permesso di lavoro, esso potrebbe anche essere interpretato nel senso che chiarisce l’ambito di applicazione di quest’ultima disposizione, includendovi, in particolare, l’espressione «che arriva regolarmente in un porto (...) danese» ivi contenuta. Trattasi di un accertamento che, in ultima analisi, spetta al giudice del rinvio compiere. Tuttavia, con riserva di verifica da parte di tale giudice, non vi è alcun elemento nel fascicolo sottoposto alla Corte tale da suggerire che le disposizioni dell’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri o dell’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri producano l’effetto di imporre limiti diversi dall’obbligo di possedere un permesso di lavoro che possano ostacolare la libertà di stabilimento ( 61 ).

83.

A tal riguardo, sebbene la VAS Shipping osservi che i comproprietari svedesi delle navi di cui trattasi operano in numerosi altri Stati membri (compresa la Svezia), essa non ha indicato, nelle sue osservazioni presentate alla Corte, il nesso tra tale fatto e il requisito che i membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, a bordo delle navi di cui trattasi debbano possedere un permesso di lavoro danese. Infatti, non risulta da alcun elemento del fascicolo sottoposto alla Corte che i membri dell’equipaggio di cui trattasi, pur lavorando sulle navi in questione, siano soggetti all’obbligo del permesso di lavoro in un altro Stato membro. Dato che, come ho già indicato, l’articolo 79, paragrafo 5, TFUE prevede espressamente che gli Stati membri conservano il diritto di controllare l’ingresso di cittadini di paesi terzi a fini lavorativi, il semplice fatto che il diritto nazionale preveda un requisito ai sensi del quale un cittadino di un paese terzo deve disporre di un permesso di lavoro al fine di esercitare un’attività lavorativa su una nave battente bandiera di tale Stato membro, o qualifichi come reato l’impiego di tale persona in assenza del permesso di lavoro non costituisce, di per sé, una restrizione alla libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE.

84.

A mio parere, sebbene il criterio Kraus abbia una portata molto ampia, l’incidenza sulla libertà di stabilimento del requisito, imposto dal diritto nazionale, secondo cui i cittadini di paesi terzi devono possedere un permesso di lavoro è, di per sé, troppo indiretta per costituire una restrizione a tale libertà. Pertanto, non ritengo che le misure di cui trattasi, che, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, sembrano dirette a mitigare o a rendere più flessibili tali norme nazionali, costituiscano una restrizione alla libertà di stabilimento, non essendo rinvenibile nel fascicolo dinanzi alla Corte alcun elemento che provi un effetto restrittivo aggiuntivo sullo stabilimento, risultante, in particolare, dalla regola dei 25 scali.

3) Giustificazione

85.

Tuttavia, qualora la Corte ritenga che le misure in questione costituiscano una restrizione alla libertà di stabilimento, occorre valutare se esse possano essere giustificate. Propongo ora di esaminare separatamente la questione se una misura di questo tipo possa essere giustificata.

86.

In mancanza di misure di armonizzazione dell’Unione, la libertà di stabilimento può essere limitata da normative nazionali giustificate dalle ragioni enunciate all’articolo 52, paragrafo 1, TFUE o da motivi imperativi di interesse generale. Pertanto, conformemente all’articolo 52, paragrafo 1, TFUE, quando una restrizione risulta da una misura discriminatoria fondata sulla cittadinanza, essa può essere giustificata da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica. In assenza di tale discriminazione, la restrizione può essere giustificata anche da motivi imperativi di interesse generale. In tale contesto, spetta agli Stati membri decidere in merito al livello al quale intendono garantire la tutela degli scopi previsti dall’articolo 52, paragrafo 1, TFUE e dell’interesse generale nonché in merito al modo in cui detto livello dev’essere raggiunto. Tuttavia possono provvedere a ciò solo entro i limiti tracciati dal Trattato e, in particolare, nel rispetto del principio di proporzionalità, che richiede che le misure adottate siano idonee a garantire il conseguimento dello scopo perseguito e non vadano oltre quanto necessario per il suo raggiungimento ( 62 ).

87.

Per quanto riguarda l’obiettivo perseguito dalle misure in questione, le opinioni al riguardo sono discordanti. Secondo la VAS Shipping, non è possibile individuare l’obiettivo del limite dei 25 scali. Essa afferma che tale regola è stata introdotta su richiesta della Federazione degli armatori danesi al fine di rendere le navi danesi più competitive. Sebbene le norme sembrino inquadrarsi in tale situazione, non è oggettivamente possibile determinare l’obiettivo della regola di cui trattasi. La VAS Shipping osserva che, se l’obiettivo è rendere competitive le navi danesi, considerazioni di tipo economico non sono considerazioni legittime (pertinenti). I governi danese e dei Paesi Bassi, nonché la Commissione, ritengono tuttavia che le misure di cui trattasi siano motivate dall’intento di evitare turbative del mercato del lavoro.

88.

Dalle sentenze del 14 novembre 2018, Danieli & C. Officine Meccaniche e a. (C‑18/17, EU:C:2018:904, punto 48), e dell’11 settembre 2014, Essent Energie Productie (C‑91/13, EU:C:2014:2206, punto 51), risulta che l’intento di evitare perturbazioni sul mercato del lavoro costituisce un motivo imperativo di interesse generale.

89.

Sebbene il giudice del rinvio abbia fatto riferimento a tale giurisprudenza al punto 23 della sua domanda di pronuncia pregiudiziale, esso non si esprime chiaramente ( 63 ) sugli obiettivi perseguiti dalle misure di cui trattasi. Si tratta, dunque, di una questione che deve essere verificata e valutata dal giudice del rinvio.

90.

Per quanto riguarda la questione dell’adeguatezza e della proporzionalità delle misure volte a garantire l’asserito obiettivo di evitare turbative del mercato del lavoro, la VAS Shipping sostiene che, poiché il limite dei 25 scali annuali si applica soltanto alle navi immatricolate nel DIS, mentre le navi immatricolate in altri Stati possono entrare regolarmente in porti danesi senza alcuna restrizione, indipendentemente dal fatto che il loro equipaggio sia costituito o meno da cittadini di paesi terzi, è molto difficile verificare se la regola sia adeguata ai fini della protezione del mercato del lavoro danese. La deroga relativa ai cittadini di paesi terzi quando il numero di scali è inferiore a 25 dispensa tali cittadini dall’obbligo di possedere un permesso di lavoro unicamente per quanto riguarda l’esercizio di attività lavorative su navi. Il requisito del permesso di lavoro continua ad applicarsi ai lavoratori interessati che possano esercitare attività sulle banchine, nella zona portuale e, in generale, a terra o, parimenti, su altre navi danesi.

91.

La VAS Shipping aggiunge altresì che la regola del permesso di lavoro quando il numero di scali supera i 25 non è, quindi, necessaria, poiché l’asserito obiettivo di garantire la stabilità ed evitare turbative del mercato del lavoro è già pienamente realizzato dalle norme generali in materia di visto, permesso di soggiorno e permesso di lavoro. I lavoratori interessati non possono lasciare la nave né soggiornare in Danimarca o, in particolare, esercitarvi attività di lavoro dipendente. Esistono quindi strumenti più adeguati a tutelare il mercato del lavoro. La VAS Shipping ritiene che la misura nazionale sia sproporzionata. Restrizioni dirette a salvaguardare il mercato nazionale del lavoro contro la concorrenza salariale sono state considerate dalla Corte come eccedenti quanto necessario nei casi in cui il livello delle retribuzioni che si intende salvaguardare attraverso le restrizioni non abbia alcun rapporto con il costo della vita nello Stato membro in cui queste si applicano ( 64 ).

92.

A mio avviso, e alla luce dell’articolo 79, paragrafo 5, TFUE, il requisito, previsto dal diritto nazionale di uno Stato membro, ai sensi del quale i cittadini di paesi terzi che facciano ingresso nel suo mercato del lavoro devono possedere un permesso di lavoro al fine di evitare turbative di tale mercato costituisce una misura adeguata e proporzionata. Sottolineo ancora una volta che, lavorando su una nave battente bandiera di uno Stato membro, i cittadini di paesi terzi rientrano nella giurisdizione di tale Stato e sono quindi soggetti, in linea di principio, alle sue norme in materia di lavoro e permessi di lavoro, come previsto dall’articolo 79, paragrafo 5, TFUE. A tal riguardo, poco importa che le navi battenti bandiera di un altro Stato non siano soggette alla regola dei 25 scali, dato che ciò accade semplicemente poiché esse non sono soggette al diritto danese in materia.

93.

Inoltre, non è necessario che un membro dell’equipaggio, cittadino di un paese terzo, sbarchi dalla nave in questione o lavori sulla terraferma nello Stato di bandiera per essere assoggettato alle norme di tale Stato. Inoltre, se la regola dei 25 scali è innescata dall’ingresso della nave (anziché dall’ingresso dei singoli membri dell’equipaggio) in un porto danese, e sebbene il giudice del rinvio non abbia fornito alcuna spiegazione concreta circa la finalità di tale regola, sembra ( 65 ) che essa sia intesa semplicemente a mitigare la norma ( 66 ) ai sensi della quale i cittadini di paesi terzi devono disporre di un permesso di lavoro, norma che, a mio avviso, è di per sé adeguata e proporzionata.

94.

In altri termini, la Danimarca era legittimata a imporre il requisito del permesso di lavoro ai cittadini di paesi terzi impiegati su navi battenti bandiera danese in forza dell’articolo 79, paragrafo 5, TFUE. La circostanza che la Danimarca abbia introdotto un’eccezione a tale regola, mediante la disposizione concernente i 25 scali, nulla toglie al fatto che essa fosse legittimata a imporre un requisito di tale natura, per il solo fatto che le navi sono immatricolate in un registro danese. Per le ragioni già esposte, tale misura non costituisce una «restrizione» all’esercizio della libertà di stabilimento ai sensi dell’articolo 49 TFUE e, qualora sia considerata tale (a differenza di quanto ritengo debba avvenire), essa è suscettibile di una giustificazione autonoma, in quanto mezzo adeguato e proporzionato di protezione del mercato del lavoro danese, come consentito dall’articolo 79, paragrafo 5, TFUE.

VI. Conclusione

95.

Alla luce delle considerazioni che precedono, ritengo pertanto che la Corte debba rispondere alla questione pregiudiziale sollevata dall’Østre Landsret (Corte regionale dell’Est, Danimarca) nei seguenti termini:

L’articolo 49 TFUE, interpretato alla luce dell’articolo 79, paragrafo 5, TFUE, non osta alla normativa di uno Stato membro ai sensi della quale i cittadini di paesi terzi, membri dell’equipaggio di una nave battente bandiera di tale Stato membro e di proprietà di un armatore cittadino di un altro Stato membro dell’Unione europea, devono essere muniti di permesso di lavoro, salvo che la nave faccia scalo nei porti dello Stato membro al massimo 25 volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente.


( 1 ) Lingua originale: l’inglese.

( 2 ) Indipendentemente dall’anno civile.

( 3 ) Come consolidata dalla legge n. 1061 del 18 agosto 2010.

( 4 ) Paesi non appartenenti all’Unione europea o allo Spazio economico europeo (SEE).

( 5 ) Il giudice del rinvio ha altresì precisato quanto segue: «[c]ome indicato, l’articolo 14, paragrafo 1, della legge sugli stranieri elenca diverse categorie di stranieri che sono dispensate dal requisito del permesso di lavoro ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, di tale legge. Al momento della commissione del reato tale disposizione era integrata dall’articolo 33 del decreto sugli stranieri, che menziona anche diverse categorie di stranieri dispensati dal requisito del permesso di lavoro, tra le quali figura quella menzionata all’articolo 33, paragrafo 1, punto 4. L’articolo 33, paragrafo 1, punto 4, del decreto sugli stranieri specifica il criterio espresso dal termine “regolarmente” di cui all’articolo 13, paragrafo 1, seconda frase, della [legge sugli stranieri], cosicché il permesso di lavoro è richiesto solo se la nave danese fa scalo in un porto danese più di venticinque volte, calcolate continuativamente nel corso dell’anno precedente».

( 6 ) Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a. (C‑221/89, EU:C:1991:320).

( 7 ) Il giudice del rinvio ha osservato che i fatti del caso di specie, in particolare se e quanti cittadini di paesi terzi fossero a bordo delle quattro navi, il periodo di presenza degli stessi e il numero di scali effettuati dalle navi di cui trattasi in porti danesi sono oggetto di contestazione.

( 8 ) Nella fissazione della sanzione, il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense) ha constatato l’esistenza di circostanze aggravanti, poiché i marinai stranieri erano pagati meno rispetto ai marinai danesi ed era stato ottenuto un beneficio economico. Esso ha concluso che la violazione era dolosa, che era stata commessa con diverse navi e che gli stranieri interessati non avevano il diritto di soggiornare in Danimarca. Esso ha tuttavia osservato che vi era incertezza quanto al numero di marinai a bordo delle navi e alla quantità degli scali compiuti dalle navi nei porti danesi. Esso ha altresì rilevato, in particolare, che la durata del procedimento era stata notevole, tenuto conto della complessità della controversia e delle questioni concernenti il diritto dell’Unione, nonché del fatto che vi erano stati contatti tra diverse amministrazioni e il pubblico ministero e l’avvocato dell’imputato.

( 9 ) Sentenza del 14 novembre 2018, Danieli & C. Officine Meccaniche e a. (C‑18/17, EU:C:2018:904).

( 10 ) Al punto 11 delle sue osservazioni iniziali, il governo danese ha affermato che, in generale, il requisito del possesso di un permesso di lavoro per i cittadini di paesi terzi nelle circostanze di cui al caso di specie costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento in forza dell’articolo 49 TFUE. Sebbene il governo dei Paesi Bassi abbia inizialmente riconosciuto, sulla base dell’affermazione del giudice del rinvio, che le misure danesi di cui trattasi costituiscono una restrizione alla libertà di stabilimento, tale governo si è tuttavia chiesto, nelle sue osservazioni iniziali, se l’articolo 49 TFUE sia effettivamente pertinente, dato che l’articolo 79, paragrafo 5, TFUE autorizza il Regno di Danimarca a esigere un permesso di lavoro nel momento in cui membri dell’equipaggio entrano nel mercato del lavoro danese e, dunque, a regolamentare il numero di cittadini di paesi terzi che lavorano nel suo territorio.

( 11 ) V., a tal riguardo, sentenza del 5 febbraio 2020, Staatssecretaris van Justitie en Veiligheid (Imbarco di marittimi nel porto di Rotterdam) (C‑341/18, EU:C:2020:76).

( 12 ) Sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud – Wykonawstwo (C‑106/16, EU:C:2017:804), punto 32.

( 13 ) V., in tal senso, sentenza del 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e Cadbury Schweppes Overseas (C‑196/04, EU:C:2006:544, punti 5354).

( 14 ) Sentenza del 25 luglio 1991, Factortame e a. (C‑221/89, EU:C:1991:320, punti 2122).

( 15 ) Nell’ambito della procedura di collaborazione fra i giudici nazionali e la Corte istituita dall’articolo 267 TFUE, spetta a quest’ultima fornire al giudice del rinvio una soluzione utile che gli consenta di dirimere la controversia su cui è chiamato a pronunciarsi. A tal fine, spetta alla Corte, se necessario, riformulare la questione sottopostale o, come nel caso di specie, fornire al giudice del rinvio tutti gli elementi per l’interpretazione dell’articolo 49 TFUE, affinché esso possa dirimere la controversia di cui è investito. V., per analogia, sentenza del 21 settembre 2000, Michaïlidis (C‑441/98 e C‑442/98, EU:C:2000:479, punti 2021).

( 16 ) V. punto 45 delle osservazioni della Commissione. Al punto 49 delle sue osservazioni, la Commissione ha affermato che si tratta di stabilire se l’obbligo, per un nuovo operatore, di rispettare le norme locali, nella fattispecie un permesso di lavoro per i cittadini di paesi terzi, privi i nuovi operatori della possibilità di competere efficacemente con gli operatori già stabiliti.

( 17 ) V. punti 49 e 50 delle osservazioni della Commissione.

( 18 ) Il corsivo è del governo danese.

( 19 ) V., in tal senso, sentenza del 13 febbraio 2014, Airport Shuttle Express e a. (C‑162/12 e C‑163/12, EU:C:2014:74, punto 47).

( 20 ) V. paragrafo 37.

( 21 ) Ai punti 16 e 17 di tale sentenza, la Corte ha statuito che l’assoggettamento di prodotti provenienti da altri Stati membri a disposizioni nazionali che limitino o vietino talune modalità di vendita non costituisce un ostacolo agli scambi commerciali tra gli Stati membri, sempreché tali disposizioni valgano nei confronti di tutti gli operatori interessati che svolgano la propria attività sul territorio nazionale e sempreché incidano in egual misura, tanto sotto il profilo giuridico quanto sotto quello sostanziale, sullo smercio dei prodotti sia nazionali sia provenienti da altri Stati membri. In tali circostanze, si presume che le norme sulla vendita di prodotti provenienti da un altro Stato membro non impediscano il loro accesso al mercato ed esulino pertanto dalla sfera di applicazione dell’articolo 34 TFUE.Tuttavia, l’approccio basato sul criterio di ragionevolezza, elaborato nel settore della libera circolazione delle merci, non è stato «scolpito nella pietra» e nella giurisprudenza sono rinvenibili alcune rare eccezioni che lo attenuano. V., ad esempio, sentenza del 26 giugno 1997, Familiapress (C‑368/95, EU:C:1997:325). In tale causa, la Corte ha constatato che, anche se la normativa nazionale in questione riguardava un metodo di promozione delle vendite (e, quindi, una modalità di vendita), essa incideva comunque sul contenuto stesso dei prodotti. Tuttavia, nel settore della libera prestazione dei servizi, la Corte non ha adottato un approccio analogo, basato sul criterio di ragionevolezza, per effetto del quale si presume che, in linea di principio, determinati tipi o categorie di misure nazionali non ostacolino l’accesso al mercato. Dunque, anziché un approccio più formalistico, che individua o seleziona particolari categorie di misure, è stato costantemente adottato un approccio caso per caso. V. sentenza del 10 maggio 1995, Alpine Investments (C‑384/93, EU:C:1995:126, punti da 33 a 38). In quest’ultima sentenza, la Corte ha precisato che il motivo per cui una normativa che impone determinate modalità di vendita di merci esula dall’ambito di applicazione dell’articolo 34 TFUE è che essa non impedisce l’accesso dei prodotti importati al mercato di uno Stato membro né lo ostacola in misura maggiore rispetto ai prodotti nazionali. In tale causa, tuttavia, il divieto di contattare potenziali clienti in un altro Stato membro al fine di effettuare pubblicità telefonica («cold calling» in lingua inglese), imposto agli intermediari finanziari che offrivano futures su merci fuori borsa, è stato considerato una restrizione alla libera prestazione dei servizi. A prescindere dal fatto che, a mio avviso, il cold calling potrebbe essere considerato un metodo o una modalità di vendita per antonomasia, la Corte ha ritenuto che non si potesse tracciare alcuna analogia con la sentenza del 24 novembre 1993, Keck e Mithouard (C‑267/91 e C‑268/91, EU:C:1993:905), poiché il divieto di cold calling in questione incideva direttamente sull’accesso al mercato dei servizi.

( 22 ) V., ad esempio, sentenza del 14 settembre 2006, Alfa Vita Vassilopoulos e Carrefour-Marinopoulos (C‑158/04 e C‑159/04, EU:C:2006:562, punti 1718).

( 23 ) V., in tal senso, sentenze del 6 dicembre 2007, Columbus Container Services (C‑298/05, EU:C:2007:754, punti 5153), e del 14 aprile 2016, Sparkasse Allgäu (C‑522/14, EU:C:2016:253, punto 29). Nelle sue conclusioni nella causa Tesco-Global Áruházak (C‑323/18, EU:C:2019:567, paragrafi 4344), l’avvocato generale Kokott ha ricordato che, secondo costante giurisprudenza, devono essere considerati quali restrizioni alla libertà di stabilimento tutti i provvedimenti che vietino, ostacolino o rendano meno attraente l’esercizio di tale libertà e che, in linea di principio, ciò comprende discriminazioni, ma anche restrizioni non discriminatorie. Tuttavia, tasse e imposte costituiscono, di per sé, un onere, diminuendo in tal modo l’attrattività di uno stabilimento in un altro Stato membro. Secondo l’avvocato generale Kokott, una verifica effettuata alla luce delle restrizioni non discriminatorie assoggetterebbe pertanto tutti i fatti generatori dell’imposta nazionale al diritto dell’Unione e metterebbe dunque in discussione in maniera sostanziale la sovranità degli Stati membri in materia tributaria. Essa ha osservato che la Corte ha pertanto dichiarato a più riprese che le disposizioni degli Stati membri relative ai presupposti e al livello di imposizione sono coperte dall’autonomia fiscale, sempreché il trattamento della fattispecie transfrontaliera non risulti discriminatorio rispetto a quello della fattispecie nazionale. V. altresì, per analogia, le mie conclusioni nella causa Société Générale (C‑565/18, EU:C:2019:1029, paragrafi da 34 a 36) in materia di libera circolazione dei capitali.

( 24 ) V. sentenze del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32), e del 30 novembre 1995, Gebhard (C‑55/94, EU:C:1995:411, punto 37). V., più recentemente, sentenze del 5 dicembre 2013, Venturini e a. (da C‑159/12 a C‑161/12, EU:C:2013:791, punto 30 e giurisprudenza ivi citata), e del 27 febbraio 2020, Commissione/Belgio (Contabili) (C‑384/18, EU:C:2020:124, punto 75 e giurisprudenza ivi citata). Farò riferimento a tale filone giurisprudenziale come al «criterio Kraus».

( 25 ) V., in tal senso, sentenza del 28 aprile 2009, Commissione/Italia (C‑518/06, EU:C:2009:270, punto 63 e giurisprudenza ivi citata). V. anche sentenza del 14 aprile 2016, Sparkasse Allgäu (C‑522/14, EU:C:2016:253, punti 3132). In tale causa, la Corte ha affermato che la libertà di stabilimento non può essere intesa nel senso che uno Stato membro è obbligato a modificare la propria normativa in funzione di quella di un altro Stato membro, al fine di garantire, in ogni circostanza, la rimozione di qualsiasi disparità derivante dalle normative nazionali.

( 26 ) Sentenza del 22 ottobre 2009, Commissione/Portogallo (C‑438/08, EU:C:2009:651, punto 27 e giurisprudenza ivi citata).

( 27 ) Per un esempio di misura discriminatoria fondata sulla cittadinanza, v. sentenza del 10 settembre 2015, Commissione/Lettonia (C‑151/14, EU:C:2015:577), in cui la Corte ha dichiarato che, imponendo il requisito della cittadinanza per l’accesso alla professione di notaio, la Repubblica di Lettonia era venuta meno agli obblighi ad essa incombenti in forza dell’articolo 49 TFUE.

( 28 ) Sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 12).

( 29 ) Mi sembra opportuno rilevare una certa contraddizione tra la posizione adottata dalla Commissione nelle sue osservazioni nella presente causa e le affermazioni contenute nella comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Tutela degli investimenti intra-UE [COM(2018)547 final]. Nella sezione intitolata «Il diritto dell’Unione tutela tutti gli investimenti transfrontalieri UE lungo l’intero ciclo di vita», dopo la sottosezione «Accesso al mercato», nella sottosezione «Operare nel mercato», la Commissione ha osservato che «[q]uando gli investitori dell’UE iniziano a gestire un’impresa in un altro Stato membro o realizzano un altro tipo di investimento, il diritto dell’UE, secondo l’interpretazione della Corte (...), continua ad applicarsi. In generale, il diritto dell’UE tutela gli investitori, dai provvedimenti pubblici che li priverebbero dell’utilizzo della loro proprietà o che limiterebbero l’attività d’impresa alla quale hanno partecipato, anche laddove tali misure si applichino ugualmente agli operatori nazionali». Il corsivo è mio.

( 30 ) Sentenza del 1o giugno 2010, Blanco Pérez e Chao Gómez (C‑570/07 e C‑571/07, EU:C:2010:300, punto 54 e giurisprudenza ivi citata). V. anche sentenze del 16 dicembre 2010, Commissione/Francia (C‑89/09, EU:C:2010:772, punti da 44 a 49), del 26 settembre 2013, Ottica New Line (C‑539/11, EU:C:2013:591, punti da 25 a 32), e del 5 dicembre 2013, Venturini e a. (da C‑159/12 a C‑161/12, EU:C:2013:791, punti da 30 a 36). V. anche il capo III, rubricato «Libertà di stabilimento dei prestatori», della direttiva 2006/123/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2006, relativa ai servizi nel mercato interno (GU 2006, L 376, pag. 36).

( 31 ) V. sentenza del 24 marzo 2011, Commissione/Spagna (C‑400/08, EU:C:2011:172, punti da 62 a 71), nella quale la Corte ha constatato una restrizione alla libertà di stabilimento nonostante il fatto che la Commissione non fosse riuscita a provare il carattere discriminatorio, in diritto o in fatto, della normativa spagnola in questione. Nella sua sentenza dell’8 maggio 2019, PI (C‑230/18, EU:C:2019:383, punto 60), la Corte ha dichiarato che «una normativa nazionale (...) che prevede che un’autorità amministrativa possa decidere di chiudere con effetto immediato un esercizio commerciale, in quanto sospetti l’esercizio, all’interno dello stesso, di un’attività [professionale] senza l’autorizzazione richiesta da tale normativa, può avere conseguenze negative sul fatturato e sulla continuazione dell’attività professionale, in particolare per quanto riguarda il rapporto con i clienti che beneficiano dei servizi di cui trattasi. Di conseguenza, tale normativa è idonea a ostacolare o a dissuadere persone provenienti da altri Stati membri che desiderino stabilirsi [in un altro Stato membro]» e quindi costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento. V. anche sentenza dell’8 settembre 2016, Politanò (C‑225/15, EU:C:2016:645, punto 38) sull’obbligo di ottenere una concessione ai fini dell’esercizio di un’attività.

( 32 ) V. anche conclusioni dell’avvocato generale Tizzano nella causa CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:187), in cui la giurisprudenza esistente concernente la nozione di restrizione alla libertà di stabilimento viene esaminata estensivamente. Al paragrafo 78 delle sue conclusioni, l’avvocato generale Tizzano ha considerato, in particolare, che occorre «stabilire se [la misura francese] ponga ciononostante quelle filiali in una posizione di fatto sfavorevole rispetto ai concorrenti tradizionalmente stabiliti ed operanti nel mercato francese; ovvero (...) se essa determini comunque, in considerazione dei suoi effetti, un ostacolo diretto all’accesso al mercato del credito».

( 33 ) Si trattava, in concreto, di un divieto di pagare interessi su taluni depositi detenuti presso le banche.

( 34 ) V., in tal senso, sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punti da 13 a 16). Tale sentenza ricorda da vicino la giurisprudenza della Corte relativa alla pubblicità delle merci. V. sentenza del 9 luglio 1997, De Agostini e TV-Shop (da C‑34/95 a C‑36/95, EU:C:1997:344, punti da 42 a 44). Se è vero che le norme che limitano la pubblicità di prodotti costituiscono modalità di vendita e, dunque, ricadono nell’approccio basato sul criterio di ragionevolezza, esse producono sovente un impatto discriminatorio sulle importazioni, poiché impediscono o ostacolano l’affermazione di tali prodotti in un altro Stato membro. A mio avviso, dunque, esse sono, di fatto, discriminatorie.

( 35 ) V. sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 11), in cui si statuisce che «[d]evono essere considerate [restrizioni] tutte le misure che vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio [della libertà di stabilimento]».

( 36 ) V., ad esempio, sentenza del 12 dicembre 2013, SOA Nazionale Costruttori (C‑327/12, EU:C:2013:827, punti 5657), in materia di norme nazionali che vietavano alle imprese che forniscono servizi di certificazione di derogare alle tariffe minime previste dalla legge. La Corte ha dichiarato che dette norme potevano rendere meno attraente l’esercizio, da parte delle imprese stabilite in altri Stati membri, della libertà di stabilimento sul mercato dei servizi in questione. Secondo la Corte, tale divieto privava le imprese stabilite in altri Stati membri e che soddisfacevano i requisiti previsti dalla normativa nazionale della possibilità, chiedendo onorari inferiori a quelli fissati dal legislatore nazionale, di fornire una concorrenza più efficace alle imprese stabilite permanentemente nello Stato membro in questione, le quali disponevano, per tale ragione, di una maggiore facilità di crearsi una clientela rispetto alle imprese stabilite in un altro Stato membro. V. anche articolo 15, paragrafo 2, lettera g), e 3, della direttiva 2006/123, nonché sentenza del 4 luglio 2019, Commissione/Germania (C‑377/17, EU:C:2019:562).

( 37 ) E, forse, l’applicazione più comune ed evidente di tale criterio al di fuori di cause in materia di requisiti di autorizzazione preventiva o misure discriminatorie.

( 38 ) V. punto 14 di tale sentenza. V. anche sentenza dell’11 marzo 2010, Attanasio Group (C‑384/08, EU:C:2010:133, punto 45), in cui è in discussione proprio l’accesso iniziale al mercato da parte di un nuovo operatore.

( 39 ) Nella sua sentenza del 21 aprile 2005, Commissione/Grecia (C‑140/03, EU:C:2005:242, punto 28), la Corte ha statuito che il divieto, per un ottico diplomato, di gestire più di un negozio di ottica costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento delle persone fisiche ai sensi dell’articolo 49 TFUE. Rilevo che la misura non discriminatoria di cui trattasi non riguardava un requisito di autorizzazione, poiché si trattava di un semplice divieto. Inoltre, alla luce di un’analisi specifica, tale misura non riguardava necessariamente l’accesso iniziale al mercato, bensì il grado di espansione nel mercato.

( 40 ) V., ad esempio, sentenza del 21 dicembre 2016, AGET Iraklis (C‑201/15, EU:C:2016:972, punti 5455), che verteva sulla possibilità di procedere a licenziamenti collettivi e al ridimensionamento delle attività. La Corte ha evidenziato il fatto che la normativa nazionale in questione, che limitava la possibilità di procedere a licenziamenti collettivi, costituiva una rilevante ingerenza in talune libertà di cui godono, in generale, gli operatori economici. La Corte ha quindi statuito che l’esercizio della libertà di stabilimento comporta la libertà di assumere lavoratori nello Stato membro ospitante, di determinare la natura e la portata dell’attività economica che sarà svolta in tale Stato e, dunque, la libertà di ridurre il volume di tale attività o di rinunciare a quest’ultima e allo stabilimento, sentenza del 21 dicembre 2016, AGET Iraklis (C‑201/15, EU:C:2016:972, punto 53). Per quanto riguarda la portata dell’attività economica, nella sua sentenza del 26 gennaio 2006, Commissione/Spagna (C‑514/03, EU:C:2006:63, punto 48), la Corte ha constatato che il requisito previsto dal diritto spagnolo concernente il numero minimo di dipendenti delle imprese di vigilanza costituiva un limite alla libertà di stabilimento poiché rendeva più onerosa la costituzione di stabilimenti secondari o di filiali in Spagna.

( 41 ) Nella sua sentenza del 6 marzo 2018, SEGRO e Horváth (C‑52/16 e C‑113/16, EU:C:2018:157, punto 62), la Corte ha dichiarato che una normativa nazionale in forza della quale i diritti di usufrutto precedentemente costituiti su terreni agricoli, e i cui titolari non hanno la qualità di familiare prossimo congiunto del proprietario di tali terreni, si estinguono ex lege e sono di conseguenza cancellati dai registri fondiari costituiva una restrizione alla libera circolazione dei capitali. Dai punti 54 e seguenti di tale sentenza risulta che la sua ratio si applica anche alla libertà di stabilimento. Peraltro, sebbene la Corte abbia infine constatato che la misura in questione era anche indirettamente discriminatoria, ciò aveva il mero scopo di limitare la portata delle possibili giustificazioni di tale misura e non rimetteva in discussione, in assenza di una siffatta discriminazione, il suo carattere di restrizione.

( 42 ) Invito chiaramente rivolto dal governo danese e, in misura minore, dalla Commissione.

( 43 ) Conformemente alla mia interpretazione delle osservazioni presentate, il primo criterio applicherebbe la giurisprudenza costante della Corte quale elaborata nella sentenza del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32) all’accesso iniziale al mercato (qualunque esso sia), mentre il secondo criterio concernente la non discriminazione di diritto e di fatto sarebbe applicabile una volta ottenuto l’accesso iniziale al mercato.

( 44 ) Così, ad esempio, nella sua sentenza del 7 marzo 2013, DKV Belgium (C‑577/11, EU:C:2013:146, punti 3435), la Corte ha statuito che una misura che obbligava le imprese di assicurazione a chiedere e ottenere un’autorizzazione al fine di introdurre maggiorazioni tariffarie costituiva una restrizione alla libertà di stabilimento, poiché obbligava le imprese con sede sociale in un altro Stato membro intenzionate a rispettare detta misura non soltanto a «modificare le proprie condizioni e tariffe per rispondere ai requisiti posti da detto sistema, ma (...) anche [a] determinare le proprie posizioni tariffarie, e quindi la propria strategia commerciale, al momento della fissazione iniziale dei premi, con il rischio che gli aumenti tariffari futuri siano insufficienti a coprire le spese alle quali esse dovranno far fronte».

( 45 ) Al riguardo, era pacifico che la raccolta di depositi presso il pubblico e la concessione di crediti costituivano le attività di base degli enti creditizi. Sentenza del 5 ottobre 2004, CaixaBank France (C‑442/02, EU:C:2004:586, punto 16).

( 46 ) Occorre altresì sottolineare che, affinché una misura rientri nell’ambito di applicazione dell’articolo 49 TFUE, essa deve incidere sugli scambi tra gli Stati membri. Sono del parere che la soglia applicata dalla Corte per constatare tale effetto sia bassa, ma non inesistente. Inoltre, occorre osservare che, sebbene in molti procedimenti pregiudiziali emerga chiaramente dai fatti di una determinata causa l’assenza di incidenza sul commercio tra Stati membri, trattandosi di questioni puramente interne i cui aspetti si collocano interamente all’interno di uno Stato membro, la Corte, al fine di assistere il giudice del rinvio, offre sovente una risposta alle questioni proposte in riferimento all’ipotesi in cui il commercio tra Stati membri possa venire in causa. V., in tal senso, sentenza del 1o giugno 2010, Blanco Pérez e Chao Gómez (C‑570/07 e C‑571/07, EU:C:2010:300, punti 3940). In tale causa, nonostante il fatto che tutti gli elementi del caso di specie fossero circoscritti alla Spagna, la Corte ha dichiarato che «non si può tuttavia escludere che cittadini di Stati membri diversi dal Regno di Spagna siano stati o siano interessati ad aprire una farmacia nella Comunità autonoma delle Asturie». Di converso, v. sentenza del 13 febbraio 2014, Airport Shuttle Express e a. (C‑162/12 e C‑163/12, EU:C:2014:74, punti da 43 a 49) in cui la Corte ha rifiutato l’applicazione dell’articolo 49 ad attività che non presentavano nessun elemento di collegamento con una qualsivoglia situazione prevista dal diritto dell’Unione e i cui elementi rilevanti rimanevano confinati, sotto tutti gli aspetti, all’interno di un unico Stato membro, poiché non vi era alcun elemento che indicasse il modo in cui la decisione individuale contestata potesse pregiudicare operatori economici provenienti da altri Stati membri rispetto a un regime generale.

( 47 ) Nel settore, rispettivamente, della libera circolazione dei lavoratori e della libertà di stabilimento, v., ad esempio, sentenze del 27 gennaio 2000, Graf (C‑190/98, EU:C:2000:49, punto 25), e del 20 giugno 1996, Semeraro Casa Uno e a. (da C‑418/93 a C‑421/93, da C‑460/93 a C‑462/93, C‑464/93, da C‑9/94 a C‑11/94, C‑14/94, C‑15/94, C‑23/94, C‑24/94 e C‑332/94, EU:C:1996:242, punto 32). V. anche sentenza del 12 luglio 2012, SC Volksbank România (C‑602/10, EU:C:2012:443, punti da 79 a 81), in materia di libera prestazione dei servizi. Alla luce, ad esempio, di tale causa, può essere ben possibile, in un caso concreto, dopo aver esaminato i criteri proposti dal governo danese e dalla Commissione e in assenza di qualsiasi altra circostanza pertinente, constatare che l’effetto di una misura nazionale controversa è troppo aleatorio e indiretto affinché siffatta misura possa essere considerata idonea ad ostacolare gli scambi all’interno dell’Unione. Tuttavia, a mio avviso, il criterio per accertare l’esistenza di una restrizione resta quello elaborato, ad esempio, nella sentenza del 31 marzo 1993, Kraus (C‑19/92, EU:C:1993:125, punto 32). Per quanto riguarda i servizi, dall’articolo 15, paragrafo 2, lettera g), della direttiva 2006/123 risulta che le tariffe obbligatorie minime e/o massime che il prestatore di servizi deve rispettare sono considerate restrizioni. Tuttavia, nella sua sentenza del 29 marzo 2011, Commissione/Italia (C‑565/08, EU:C:2011:188, punto 53), la Corte ha statuito che misure nazionali che obbligano gli avvocati a rispettare tariffe massime non costituivano una restrizione, poiché non era stato dimostrato che le misure in questione avessero pregiudicato l’accesso al mercato italiano di tali servizi in condizioni di concorrenza normali ed efficaci. La Corte ha rilevato, in particolare, che la normativa italiana sugli onorari era caratterizzata da una flessibilità che sembrava permettere un corretto compenso per qualsiasi tipo di prestazione fornita dagli avvocati.

( 48 ) A mio avviso, non sussisteva alcuna restrizione alla libertà di stabilimento di cui alla sentenza del 14 luglio 1994, Peralta (C‑379/92, EU:C:1994:296), dal momento che si trattava di una questione puramente interna a uno Stato membro e la restrizione lamentata era troppo indiretta o remota.

( 49 ) Con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, ciò sembra includere, ma non in via esclusiva, il DIS.

( 50 ) Inoltre, tali norme non riguardano l’imbarco e lo sbarco di membri dell’equipaggio, cittadini di paesi terzi, in porti danesi, né il lavoro da essi svolto in porti danesi o in qualsiasi altra parte del territorio danese. A tal riguardo, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice del rinvio ha altresì descritto le norme in materia di visti previste dal decreto sugli stranieri.

( 51 ) Ciò potrebbe essere dovuto al fatto che, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, il giudice del rinvio ha osservato che, secondo il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense) «[n]el caso di specie, sussistono circostanze aggravanti per quanto attiene alla determinazione della pena. I marinai stranieri sono retribuiti a un livello inferiore a quello dei marinai danesi, vale a dire è stato ottenuto un beneficio economico. Si deve considerare che la violazione è stata dolosa, che essa è stata commessa con diverse navi e che gli stranieri interessati non avevano il diritto di soggiornare in Danimarca».

( 52 ) Ciò sebbene il giudice del rinvio abbia osservato, nella sua domanda di pronuncia pregiudiziale, che il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense), dopo aver ritenuto che le misure in questione costituivano una restrizione ai sensi dell’articolo 49 TFUE, ha affermato che «[t]enuto conto del contesto in cui sono state introdotte, le norme della legge sugli stranieri riguardanti l’equipaggio di paesi terzi sono giustificate dall’esigenza di non minare il mercato del lavoro danese, dato che la manodopera [di paesi terzi] è in concorrenza con la manodopera danese a causa del livello dei salari, e si deve ritenere che ciò costituisca una restrizione giustificata da motivi imperativi di interesse generale e proporzionata e che non vada al di là di quanto necessario per raggiungere tale obiettivo. Il requisito del permesso di lavoro è uno strumento efficace per garantire la stabilità del mercato del lavoro ed evitare così perturbazioni nel mercato nazionale del lavoro».

( 53 ) A tal riguardo, secondo una giurisprudenza costante, una normativa di uno Stato membro che obbliga le imprese provenienti da altri Stati membri che intendano stabilirsi in tale Stato membro per esercitarvi attività portuali a ricorrere soltanto a lavoratori portuali riconosciuti come tali conformemente a detta normativa impedisce a tali imprese di ricorrere al proprio personale o di assumere altri lavoratori non riconosciuti e, pertanto, può ostacolare o rendere meno attraente lo stabilimento delle medesime nello Stato membro di cui trattasi. Sentenza dell’11 febbraio 2021, Katoen Natie Bulk Terminals e General Services Antwerp (C‑407/19 e C‑471/19, EU:C:2021:107, punti 5960). V. anche sentenza dell’11 dicembre 2014, Commissione/Spagna (C‑576/13, non pubblicata, EU:C:2014:2430, punti 3738).

( 54 ) Versione del 21 novembre 2017. Tale documento fornisce un modello di convenzione contro la doppia imposizione tra Stati.

( 55 ) Ai sensi dell’articolo 8, paragrafo 1, del modello di convenzione, «gli utili che un’impresa di uno Stato contraente deriva dall’esercizio, in traffico internazionale, di navi (....) sono imponibili soltanto in detto Stato». Inoltre, l’articolo 15, paragrafo 3, del modello di convenzione prevede che «le remunerazioni percepite da un residente di uno Stato contraente in corrispettivo di un’attività dipendente, svolta come membro effettivo dell’equipaggio a bordo di navi (...) impiegat[e] in traffico internazionale, ad eccezione del caso in cui sia svolta a bordo di una nave (...) [impiegata] esclusivamente all’interno dell’altro Stato contraente, sono imponibili soltanto nel primo Stato».

( 56 ) Sentenze del 25 luglio 1991, Factortame e a. (C‑221/89, EU:C:1991:320, punto 17), e del 27 novembre 1997, Commissione/Grecia (C‑62/96, EU:C:1997:565, punto 22). V. anche sentenza del 7 marzo 1996, Commissione/Francia (C‑334/94, EU:C:1996:90, punto 17). Nelle sue osservazioni, la VAS Shipping ha inteso fondarsi sulla sentenza del 14 ottobre 2004, Commissione/Paesi Bassi (C‑299/02, EU:C:2004:620, punto 19). In tale sentenza, la Corte ha dichiarato, in particolare, che le norme neerlandesi che esigevano, ai fini dell’immatricolazione di una nave, che gli azionisti, gli amministratori e i rappresentanti in loco di un armatore dell’Unione fossero cittadini dell’Unione o del SEE erano in contrasto con gli articoli 49 e 52 TFUE. Secondo la Corte, «se le società proprietarie che intendono immatricolare le loro navi nei Paesi Bassi non soddisfano le condizioni controverse, al fine di procedere a tale immatricolazione non possono far altro che modificare conseguentemente la struttura del loro capitale sociale o dei loro organi d’amministrazione, modifiche in grado di implicare profondi sconvolgimenti in seno a una società e altresì l’espletamento di numerose formalità non prive di conseguenze sul piano economico. Parimenti, i proprietari delle navi devono adattare la loro politica di assunzione al fine di escludere dai rappresentanti in loco qualsiasi cittadino di uno Stato terzo rispetto alla Comunità o al SEE». Poiché non è stata sollevata alcuna questione per quanto concerne l’immatricolazione delle quattro navi nel DIS, tale causa non è particolarmente pertinente, a tale riguardo, ai fini del caso di specie. Tuttavia, occorre constatare che la portata di tale sentenza si estendeva al di là dell’immatricolazione delle navi e riguardava questioni relative alla loro gestione. A tal riguardo, la Corte ha altresì precisato che ai cittadini dell’Unione che intendessero operare sotto forma di società di armamento con un amministratore cittadino di uno Stato terzo o residente in uno Stato terzo era fatto divieto in tal senso e, pertanto, tali misure costituivano una restrizione alla libertà di stabilimento. A mio avviso, non si può operare alcun parallelismo tra tale sentenza e la presente causa. Le misure nazionali di cui trattasi nella presente causa non impongono un requisito di cittadinanza, producendo meramente l’effetto di esigere dai cittadini di paesi terzi, in determinate circostanze, il possesso di un permesso di lavoro e prevedendo l’irrogazione di sanzioni in capo ai loro datori di lavoro in caso di inosservanza di tale prescrizione.

( 57 ) Con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, non vi è alcuna indicazione nel fascicolo sottoposto alla Corte che il regolamento (CEE) n. 3577/92 del Consiglio, del 7 dicembre 1992, concernente l’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi ai trasporti marittimi fra Stati membri (cabotaggio marittimo) (GU 1992, L 364, pag. 7), sia applicabile nel caso di specie. V., in particolare, articolo 3 di tale regolamento, che contiene norme relative all’equipaggio e alla competenza.

( 58 ) Regolamento (UE) n. 1215/2012 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 12 dicembre 2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale (GU 2012, L 351, pag. 1).

( 59 ) Per contro, dal fascicolo sottoposto alla Corte non risulta che la presente causa riguardi, ad esempio, il distacco di lavoratori in un altro Stato membro ad opera di un’impresa stabilita in uno Stato membro. V., ad esempio, direttiva 96/71/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 dicembre 1996, relativa al distacco dei lavoratori nell’ambito di una prestazione di servizi (GU 1997, L 18, pag. 1). In ogni caso, secondo una giurisprudenza costante, per quanto riguarda, ad esempio, il distacco di lavoratori di uno Stato terzo da parte di un’impresa prestatrice di servizi stabilita in uno Stato membro dell’Unione, una normativa nazionale che subordini al rilascio di un’autorizzazione amministrativa o di un permesso di lavoro l’esercizio di prestazioni di servizi sul territorio nazionale da parte di un’impresa avente sede in un altro Stato membro costituisce una restrizione a tale libertà ai sensi dell’articolo 56 TFUE. V. sentenza dell’11 settembre 2014, Essent Energie Productie (C‑91/13, EU:C:2014:2206, punto 45 e giurisprudenza ivi citata). V. anche sentenza del 14 novembre 2018, Danieli & C. Officine Meccaniche e a. (C‑18/17, EU:C:2018:904, punti da 42 a 45). Inoltre, tali restrizioni sono difficili da giustificare sotto il profilo della necessità di evitare turbative del mercato del lavoro, poiché i lavoratori distaccati non accedono al mercato del lavoro dello Stato membro in cui sono distaccati ed esistono mezzi meno restrittivi per garantire che tali lavoratori siano impiegati per la prestazione del servizio di cui trattasi.

( 60 ) Tale questione di fatto è contestata dalla VAS Shipping e dal governo danese e, pertanto, l’ultima parola a riguardo spetta al giudice del rinvio.

( 61 ) A mio avviso, la regola di 25 scali applicabile alle navi è, in un certo senso, arbitraria, e il giudice del rinvio non ha fornito alcuna spiegazione quanto al suo obiettivo specifico nel contesto delle norme danesi in materia di permesso di lavoro e di traffico internazionale. Tale norma potrebbe perfettamente limitarsi a definire o precisare cosa si intenda allorché si fa riferimento a una nave danese «che arriva regolarmente in un porto (...) danese» ai sensi dell’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri. Tuttavia, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, mi sembra che sia più agevole, per uno Stato membro, controllare quante volte le navi in traffico internazionale battenti la sua bandiera e con a bordo lavoratori di paesi terzi fanno scalo in un porto, nel corso di un anno, rispetto a controllare in ogni momento, oppure anche quando giungono in un porto, i singoli membri dell’equipaggio, al fine di verificare se dispongano di un permesso di lavoro. Ritengo altresì, con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio, che siffatte norme possano essere meno onerose per i proprietari e gestori di tali navi rispetto al requisito di un permesso di lavoro per tutti questi membri dell’equipaggio. Infatti, la regola dei 25 scali è redatta in termini di deroga all’articolo 13, paragrafo 1, della legge sugli stranieri [o, forse, costituisce uno strumento interpretativo dell’espressione «che arriva regolarmente in un porto (...) danese»].

( 62 ) V., in tal senso, sentenza del 14 ottobre 2004, Commissione/Paesi Bassi (C‑299/02, EU:C:2004:620, punti 1718 nonché giurisprudenza ivi citata).

( 63 ) Il giudice del rinvio ha tuttavia rilevato che, secondo il Retten i Odense (Tribunale municipale di Odense), le misure in questione sono state introdotte per non pregiudicare il mercato del lavoro danese.

( 64 ) La VAS Shipping richiama, in tal senso, la sentenza del 18 settembre 2014, Bundesdruckerei (C‑549/13, EU:C:2014:2235, punto 34).

( 65 ) Con riserva di verifica da parte del giudice del rinvio.

( 66 ) Esigendo un collegamento maggiore o migliore tra i membri dell’equipaggio cittadini di paesi terzi e le navi sulle quali lavorano e il mercato del lavoro danese.